Cerca nel blog

lunedì 24 febbraio 2020

Medenera - Oro

#PER CHI AMA: Atmospheric Black, Summoning
Medenera è una one-man-band italica di formazione abbastanza recente, nata infatti nel 2017 ma con già due album alle spalle. L'ultimo arrivato è 'Oro', un disco suddiviso in quattro sezioni a loro volta divise in tre parti. Il disco si srotola per quasi settanta minuti di musica evocativa che sin dalle iniziali parti tastieristiche chiama immediatamente in causa un nome, i Summoning. Di fronte a simili manifestazioni artistiche, la prima cosa che faccio, e accade di rado, è chiudere gli occhi e immergermi totalmente nelle atmosfere magiche che band inserite in tale filone, sono in grado di creare. E sembra che la voce femminile della prima terzina intitolata "Aurea", sia lì apposta per guidarmi in questo epico viaggio in un fantastico mondo lontano. Le melodie sognanti di questa prima lunga suite rapiscono la mia fantasia con quel loro ritmo cadenzato accompagnato da spettacolari synth che arricchiscono la base ritmica del misterioso factotum italico, che si sente cantare solo in piccole porzioni, lasciando alla musica il compito di riempirci le orecchie di splendide emozioni. Il trittico scivola delicato anche nella seconda parte tra sussurri, eteree atmosfere ma anche saltuarie sfuriate, in cui a venir fuori sono le screaming vocals del frontman. E il nostro ascolto prosegue cosi come le immagini che mi si parano avanti sembrano quelle di un Frodo Baggins che passeggia imperturbato a Hobbiton, immagini felici e di quiete che vengono spezzate da sporadiche accelerazioni black e dal cantato arcigno del mastermind. Con "Splendor" si apre un altro trittico di song che sembrano introdurci in un nuovo mondo fatato, complice un cantato femminile differente da quello ascoltato in principio. La musica invece prosegue con il suo incedere raffinato, in cui ampissimo spazio è concesso alle tastiere ma anche ad un drumming quasi tribale, che insieme costituiscono un lungo cappello introduttivo a quel riffing efferato che verrà fuori più avanti. La musica dei Medenera è in costante evoluzione, come se si trattasse di un racconto e la musica ne vada a rappresentare la spettacolare colonna sonora in un coordinato movimento stilistico in base a quanto narrato. Ovviamente a dischi del genere sono collegate storie legate a mondi immaginari e alla natura che vi appartiene, come quei luoghi narrati appunto da Tolkien nella sua epica saga. La terza parte raggiunge il massimo splendore espressivo, affidandosi nuovamente a delle spoken words femminili e ad un'ispiratissima ritmica. Il flusso sonoro come dicevo, è in costante mutamento e dalle arrembanti ritmiche in un batter d'occhio ci si ritrova in un ambient dalle tinte decadenti quasi ci si trovi di fronte al preambolo di uno scontro spaventoso. L'affacciarsi di una voce operistica in sottofondo, cosi come l'utilizzo di uno strumento di difficile identificazione, stemperano però quella tensione che si era creata in un cosi breve tempo. Nel frattempo si entra nel terzo episodio, "Ver Aeternum" e si palesa subito un cantato dai tratti esoterici come novità di questa terzina. La musica si conferma ispirata con le tastiere ormai elemento portante dell'intera release, sia in chiave ritmica che ambientale. La soave voce della gentil donzella di turno fa poi il resto cosi come la tribalità etnica del drumming va ad impreziosire ulteriormente una release già di per sè notevole che vede peraltro anche un flauto far capolino. A "Flumina Nectaris" è affidato l'arduo compito di chiudere la release e l'esordio è di quelli portentosi con un rifferama accompagnato da un maestoso tappeto tastieristico. Di nuovo però un rallentamento nella storia, un flashback, una digressione, un sogno sospeso, delicati tocchi di piano, eteree e folkloriche melodie che troveranno un nuovo risveglio nella seconda parte della song, ove la cantante, che sembra utilizzare una lingua inventata, va ad affiancarsi al growling del polistrumentista nostrano, qui in grande spolvero e che si prepara a chiudere la release con un pezzo all'insegna del dungeon synth. Ora, prima di lasciarvi alla sentenza finale, mi domando solo come sia possibile che le etichette italiane si siano lasciate sfuggire una simile release e abbiano obbligato i Medenera a chiedere asilo in Russia. Abbiamo forse trovato i degni eredi dei Summoning? Ascoltatevi il cd e fatemi sapere. (Francesco Scarci)

(GS Productions - 2019)
Voto: 82

https://medenera.bandcamp.com/album/oro

The Glad Husbands - Safe Places

#PER CHI AMA: Math/Post Hardcore, Botch
Se l’abito non fa il monaco, il nome di un gruppo può trarre in inganno. Potevano essere i cugini italiani di qualche gruppo indie-folk del Midwest americano, invece i The Glad Husbands si rivelano l’ennesimo prodotto della rumorosissima fucina cuneense, già culla di tanti nomi importanti che imperversano nella scena noise, stoner e hardcore nostrana.

Il loro ultimo disco, 'Safe Places', non si discosta molto dalla proposta dei loro “vicini di casa” Cani Sciorri, Treehorn e Ruggine (tanto per citarne alcuni), se non per una maggior vocazione nel mischiare punk e math-rock a scapito della produzione in massa di riff pachidermici, come testimonia il sound meno ingolfato di basse frequenze, il risalto dato al cantato urlato di Alberto Cornero e le strutture complesse di questi nove tiratissimi pezzi.

“Out of the Storm” traccia subito la rotta: intrecci turbinosi di basso e chitarra si susseguono aggrappandosi al tempo imposto dalla batteria, andando a comporre una sorta di marcia per plotoni di soldati in preda ad un attacco isterico. Isterico come gli sviluppi di “Where Do Flies Go When They Die?” e “Spare Parts”, brani in chiave mathcore che potrebbero essere stati partoriti con l’intercessione spirituale dei Botch, e dove, pressati dai riff convulsi e le ritmiche serratissime, iniziamo a chiederci quali possano essere i “posti sicuri” citati nel titolo dell’album. Forse in “Things That Made Sense” e “The Jar”, pezzi la cui struttura più varia ci concede qualche attimo di decompressione prima di rituffarci nei vortici sonori.

Finita qui? Macché: “Midas” scompagina tutto con la sua anima agrodolce, fatta di strofe nervose in procinto di esplodere, ma l’irruenza di “Cowards in a Row” e la travolgente “Meant to Prevail”, dove si possono cogliere riferimenti ai primi Mastodon, ci riportano nell’occhio del ciclone. La nostra corsa forsennata si conclude con “Like Animals”, dopo circa quaranta minuti di sconvolgimenti strumentali, ritmici ed emotivi.

I The Glad Husbands ci regalano una prova decisamente convincente e di personalità, riuscendo a risaltare in un mercato già bombardato di proposte e a farmi sperare di vederli al più presto trasmettere in sede live la carica mostrata su disco. Non male per il presunto gruppetto indie-folk del Midwest. (Shadowsofthesun)


(Antena Krzyku/Entes Anomicos/Longrail Records/Vollmer Industries/Atypeek Music/Tadca Records/Whosbrain Records/Scatti Vorticosi Records - 2019)
Voto: 75

https://the-glad-husbands.bandcamp.com/album/safe-places

Nairobi - S/t

#PER CHI AMA: Experimental Rock, Jesus Lizard
I Nairobi sono un trio sperimentale di Venezia che si potrebbe catalogare come puramente post rock, ma relegarli ad alfieri di questo genere sarebbe a mio avviso un grosso errore. Alla band veneta piace infatti uscire dagli schemi e costruire una propria personale interpretazione del genere, fatta di atmosfere a tratti più energiche e cariche di quel groove del post rock “canonico”, arrivando ad associare i nostri ai Jesus Lizard, i Primus ma anche agli Slint e ai Pink Floyd. I pezzi sono corti ed ermetici, pregni di un’energia e un’urgenza espressiva davvero encomiabili. Forti di una solidissima sezione ritmica e di una chitarra capace di tessere trame vibranti e ipnotiche, i Nairobi riescono a convincere pienamente già con questo primo disco d’esordio. Ogni atmosfera a cui la band si approccia è sviscerata ed esposta nella miglior maniera possibile, il pezzo "Tricky Traps" è un buon esempio di questa ecletticità del trio, dapprima con una scrosciante cascata di riff fangosi e ruvidi per poi passare nella seconda parte del pezzo ad una ritmica dimezzata ed una chitarra sognante, di uno di quei sogni strani che sono incubi ma non lo sembrano, quei sogni da cui ti svegli un po’ turbato, disorientato senza nessun apparente motivo. I pezzi si susseguono come onde oceaniche che si abbattono sulle scogliere verticali di pietre affilate, inarrestabili nella loro marziale foga, fino ad arrivare allo spartiacque onirico e sintetico intitolato "Turbo Pascal". Dopo questa breve pausa, i toni si fanno, se fosse possibile, ancora più sperimentali nei due pezzi di chiusura ("Megalopolis" e "Oh Guns Guns Guns!"), dove troviamo atmosfere lisergiche preponderanti, sebbene la fiamma del sacro riff rimanga sempre viva e presente e non smetta di ardere. Un disco ruvido, arrogante ma al contempo raffinato ed atmosferico, una composizione magistrale così come la sua esecuzione, una corsa contro il tempo passando per il vuoto completo, attraverso tempeste, spietati rovesci di grandine, in grado di elargire un’incredibile energia a chi lo ascolta. Consigliatissimo, per cui aspettiamo con ansia altra musica targata Nairobi. (Matteo Baldi)

(Brigadisco Records/Wallace Records - 2020)
Voto: 82

https://brigadiscorecords.bandcamp.com/releases

sabato 22 febbraio 2020

Ironflame – Blood Red Victory

#FOR FANS OF: Heavy/Power
So the mighty Ironflame have returned with their third album in less than three years; with their sophomore effort being released just sixteen months after the debut. Andrew D’Cagna has this incredible ability to consistently write songs that give me those same feelings that I got the first time I heard Halford, Dio or Dickinson. As he writes and records everything, there is a true consistency to the music without being the same album over and over again. While the sophomore was much more ambitious in the song writing. 'Blood Red Victory' sees the direction of the songs more in line with the debut. This time he also seems more focused; and the result is nothing short of amazing.

One thing that I noticed immediately was that the solos were no longer being supplied by Wheeling, West Virginia shredder extraordinaire Jim Dofka. His solos on the sophomore were beyond brilliant. Instead, this time D’Cagna decided to go with the two shredders that are part of his current touring band; Jesse Scott and Quinn Lukas, the latter being with D’Cagna in the Pittsburgh veteran melodic metallers Icarus Witch. That was a really smart move. Both guitarists are brilliant live so it was great to see their actual input into the songs. Each solo on this album is brilliantly thought out and take each song to the next level.

The songs themselves are just metal as fuck. The riffs, the melodies, the solos, and those unforgettable vocals. Andrew D’Cagna’s vocals are just brilliant and I truly believe he set the bar for the modern true metal vocalist. The opener, “Gates of Evermore” has an opening riff that sets the tone for the song. It kind of reminds me of 'Glory to the Brave' era HammerFall. The melodies are catchy and the choruses are infectious. These are heavy metal anthems that can stand rightly along side any of the classics. I dare you to listen to “Honor Bound” and not get that feeling like you are hearing metal again, for the first time. “Blood Red Cross!” That “OHHHH” during the bridge is fucking brilliant! I could listen to that song over and over again. The song builds to this incredible solo three quarter the way in….I got goose bumps!

I don’t know how this guy keeps pumping out quality heavy metal; all along with playing bass and writing songs with stoner rock band Brimstone Coven as well as being full time vocalist for Icarus Witch. “Graves of Thunder” has that melodic metal feel of an Icarus Witch song while still having that Ironflame sound. “Grace and Valor” take it right back to epic power metal with some incredible dual harmony riffs driving the verse. Brilliant! “Night Queen” is the longest song on the album and reminds me of “Shadow Queen” off the debut…could even be a sequel. Nonetheless, none of that take away from the sheer brilliance of the execution. The song sucks you in with the melodies and hooks. The perfect album closer.

Classic heavy metal is making a comeback and there are some really great bands and some incredible metal coming from this resurgence. Ironflame have set the bar, quite high I might add for this movement. Three consistently incredible true metal albums loaded with everything that made me obsessed with metal to this day. Keep ’em coming Andrew!! (The Elitist Metalhead)

(Divebomb Records - 2020)
Score: 100

https://ironflame.bandcamp.com/

Cannibali Commestibili - S/t

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Grunge
Cosa attendersi da una band dal nome poco attraente, con una copertina poco interessante e troppo colorata e floreale per una rock band, e tante descrizioni in rete che la vogliono far passare a forza per una stoner band quando all'ascolto non lo è? Direi nulla. In realtà nella musica non bisogna mai fermarsi alla prima impressione e, come in questo caso, epurata dalle congetture stoner, la band trentina (l'unico richiamo alla musica del deserto è un certo sound distorto che ormai è di moda dopo la venuta dei Queen of the Stone Age) mostra una certa originalità e buona personalità nel territorio del rock italiano, quello ben fatto e figlio delle orgogliose realtà italiche che furono i Karma e i Timoria (magari quelli di 'Speedball 2020'), con un tocco di psichedelia e una buona dose di conoscenza dei '70s. Il modus operandis dei Cannibali Commestibili ha il richiamo al rock italiano di classe, fatto con gusto e impatto, studiato nei particolari per stare in equilibrio tra alternative e post grunge, in questo caso, e se proprio vogliamo categorizzarlo, con venature blues, mai maligno, acido, coinvolgente e con una sfrontatezza moderata che colpisce in ogni sua traccia. Niente canzoni di rock politicizzato alla Teatro degli Orrori bensì emozioni e istinti umani diretti, messi in musica sotto la bandiera del rock con la R maiuscola, una sorta di ultimi Stone Temple Pilots con il suono che si apre verso l'energia sbilenca dei Mudhoney del loro omonimo album, ovviamente filtrati da un suono attualizzato e focalizzato sui trend del momento in ambito stoner. Prodotto in maniera eccellente con un sound caldo e avvolgente, potente e abrasivo, il cd vola che è un piacere e merita di essere ascoltato e amato per le capacità tecniche e la sua orecchiabile ruvidezza. Il canto in lingua madre dona poi molto alle composizioni rendendolo più appetibili all'ascolto. Da molto tempo non sentivo un disco rock cantato in italiano che fosse così ben fatto. "Gordon Pym" sdogana i fantasmi di E.A. Poe anche con un ottimo video visibile in rete, "Qualche Corpo" è il mio brano carnale preferito, "L.A." è acida, "Nylon" un blues di plastilina, "Ingranaggio Fragile" è adrenalina pura mentre la conclusiva "Luna di Cenere" è, in poche parole, puro rock. Nove brani per un album (uscito via Overdub Recordings, distribuito da Code 7/Plastic Head) da ascoltare a tutto volume, per un prodotto musicale di ottima qualità, compositiva e stilistica. Un cd che serve al panorama musicale italiano, che da tempo vive in sofferenza, soggiogato da trap e vari San Remo di turno. Un disco dedicato a tutti coloro che pensano che il rock in Italia sia morto e defunto, i Cannibali Commestibili rappresentano la giusta risposta. (Bob Stoner)

(Overdub Recordings - 2019)
Voto: 76

https://cannibalicommestibili.bandcamp.com/releases

Dos Cabrones - Accanimento Terapeutico

#PER CHI AMA: Stoner/Grunge Strumentale, Melvins
Ok, a parlarci chiaro ci si capisce meglio, utilizzando perfino le immagini ed i suoni di questo duo bolognese di sola chitarra e batteria che si definisce mescaline noise grunge, che ha un teaser video di presentazione pieno di scene forti, teschi, denti e quant'altro, che mostra un artwork di copertina con un prevedibile caprone dal tono satanico ma che con una strizzatina satirica ti sbandiera in faccia un titolo pesante e duro come 'Accanimento Terapeutico'. L'immagine della band attrae i fans dei Melvins più viscerali e a pensarci bene, questa manciata di tracce completamente strumentali, tranne qualche inserto sporadico di voci filmiche o rumori (molto belli peraltro), riecheggiano un che dei fasti migliori dei Karma to Burn e qualcosa pure dei primi due album dei 35007, nel modo di costruire quelle ritmiche circolari e trascinanti. Non mi trovo d'accordo con l'accostamento agli Helmets e mi piace quando nel terzo brano, "Cabron!" i Dos Cabrones si aprono ad un punk alternativo più scanzonato, sempre influenzato dal grunge e perchè no, da certo stoner rock, quello rimbalzante e meno fumoso. Tante belle idee che però, pur rimanendo interessanti, si manifestano a mio avviso solo a metà e avrebbero anche più possibilità se la band avesse un organico più ampio, con un basso e soprattutto una voce che darebbe al tutto molto più risalto. Comunque al netto della mia impressione, il disco è piacevole e diretto, a suo modo anche sofisticato nel riprendere il filo di musiche di confine, trattandosi di Shellac o Unsane, certamente ben realizzato e studiato a puntino, anche se, scusate se insisto, in "Hell of a Trip", mi mancano proprio un basso pulsante che ci starebbe divinamente sulle esplosioni di batteria e chitarra, ed una voce sulle parti più, diciamo, silenziose. Uscito per la DeAmbula Records, questo album si ricopre del fregio di album di nicchia, per amanti dei trend rock più sotterranei e sperimentali, coscienti del fatto che pur essendo oggettivamente piacevole all'ascolto, risulterà difficile l'apprezzamento totale del grande pubblico. Ben prodotto, con suoni azzeccati e caldi, l'approccio sperimentale e rumoroso sempre dietro l'angolo, una buona esecuzione per sei brani di media lunghezza di per sè molto ruvidi e sanguigni, polverosi e roventi. Una manciata di pezzi che faranno la gioia del pubblico più impavido e aperto ad altre, alternative, personali visioni del mondo rock. Un buon debutto per i "due caproni", scontroso e quanto mai coraggioso, un disco tutto da scoprire! (Bob Stoner)

(DeAmbula Records - 2019)
Voto:70

https://doscabrones.bandcamp.com/releases

sabato 15 febbraio 2020

Abigorum - Exaltatus Mechanism

#PER CHI AMA: Black/Doom, primi Samael
Alexey Korolev non è solo il boss della Satanath Records e tastierista dei Taiga, scopro solamente oggi infatti che è anche il fondatore di questi Abigorum e fino al 2019 vero factotum strumentale in quanto one-man-band fino allo scorso anno, quando si sono uniti bassista e chitarrista/voce, lasciando concentrare il buon Alexey alle sole batteria e tastiere. Fatto questo largo preambolo, vi dico anche che 'Exaltatus Mechanism' è il debutto sulla lunga distanza per i nostri dopo uno split datato 2018 in compagnia degli Striborg e uno nel 2016 con i Cryostasium. Finalmente possiamo dare un ascolto anche all'album, un disco che si apre con le infernali vocals di "Grau und Schwarz" e le sue solfuree atmosfere black doom. Il cantato in lingua germanica è dovuto al fatto che i due nuovi ingressi in formazione sono proprio tedeschi. Quello da sottolineare sono le melmose sonorità a rallentatore sciorinate dal terzetto, con una serie di rumori in sottofondo che sembrano quelli prodotti da un fantasma ridotto in catene. La voce di Tino "Fluch" Thiele è davvero arcigna e ben ci sta in un contesto musicale del genere. Con "Maskenball" si prosegue all'insegna di ambientazioni tenebrose e vocals che si muovono tra il grim e lo spettrale in un impasto sonoro che non è propriamente funeral probabilmente nemmeno black, essendo un qualcosa al crocevia di questo marasma sonoro. Pertanto, mi viene da dire che la proposta degli Abigorum sia piuttosto originale, sebbene sia alquanto complicata da digerire. "Jetzt" è una marcia atta a smuovere le anime dei dannati negli inferi con un cantato quasi declamatorio e perentorio in un contesto a tratti oppressivo ed esoterico. Non mi dispiace affatto la proposta del trio per quanto possa rivelarsi stralunata, ma le melodie, soprattutto in questa song, funzionano a meraviglia nel creare atmosfere orrorifiche. Sia chiaro che non abbiamo tra le mani un capolavoro ma un album comunque degno di nota per quel suo spirito sperimentale, questo si. "Für Die Ewigkeit" è un altro bell'esempio di sonorità che per certi versi mi hanno evocato i Gloomy Grim degli esordi, cosi come la successiva "Königreich Dunkelheit", con quella sua aria ampollosa, gli arrangiamenti orchestrali ed una costante aura industrial a completare il quadro sonoro. Il disco prosegue su questi stessi binari, proponendo alcune song più interessanti delle altre e penso alla bombastica (per atmosfere e linee di chitarra riverberate) "Der Ängstliche Mensch" e alla sinistra "Über Dich" che rendono l'ascolto di 'Exaltatus Mechanism' comunque soddisfacente fino alla fine. (Francesco Scarci)

Mourner - Apogee Of Nihility

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride
Se dico Russia voi a cosa pensate, fatto salvo per il buon vecchio volpone Vladimir Putin? Io ormai vado col pilota automatico e dico death doom, cosi quando ho letto che i Mourner venivano da quelle parti e soprattutto avvantaggiato da questo moniker, l'associazione è stata fin troppo semplice. Infilato 'Apogee Of Nihility' nel lettore, ho avuto conferma della mia ipotesi in tempo zero. La band suona appunto un death doom, molto death nella sua parte ritmata, un po' vetusta e obsoleta nel suo approccio, ma al tempo stesso quando ci infilano quel malinconico violino di scuola My Dying Bride, ecco che è davvero tutta un'altra musica. Anche quel mostruoso vocione growl del vocalist Gor assume un tono più umano. E l'opener "The Scorched Sun" è la prima testimonianza di quanto scriva, cosi poco brillante in chiave ritmica, ma davvero brillante nello sciorinare il suo lato più malinconico. Il problema ovviamente si ripete nelle tracce successive: "Do Not Get Through" è un altro pezzo classicheggiante (in ambito death doom ovviamente che evoca 'Serenades' degli Anathema) che non smuove nulla almeno finchè si muove tra sgroppate death e growling vocals; poi uno squarcio acustico, una voce meno cavernosa e più sofferente, preludio forse di una nuova parte drammatica che arriverà solamente a pochi secondi dalla fine del brano. "Slaves of Fate" sembra fare il verso ai My Dying Bride di 'The Dreadful Hours' quelli più violenti per intenderci, e proprio di fronte alla veemenza di fondo del terzetto russo, rimango fondamentalmente impassibile, impietrito da un sound che da dire non ha praticamente nulla. La magia sembra ristabilirsi questa volta per l'apparizione di un synth che regala un fronte melodico intrigante, rimaniamo lontani però dai fasti emotivi della prima canzone. Ci si prova con la title track, doomish quanto basta ma lontano parente dell'opener, per quanto, nel momento di assolo del basso, abbia pensato a "A Kiss to Remember" dei MDB che rappresentano l'influenza principale del trio russo, almeno sul versante doom. Il disco si avvia verso la conclusione ancora con qualche cartuccia da sparare: si parte con "The Broken Life", traccia più dinamica di scuola primi Paradise Lost questa volta (e il trittico magico l'abbiamo citato del tutto) che sfoggia un timido ma evocativo violino che accompagna la pesante base ritmica. "Cobweb of Captivity" è la song più lunga del cd (quasi nove minuti) e qui ho pensato di associare ai Mourner anche un che dei cechi Master's Hammer, più che altro da reminiscenze che sono radicate nella mia testa e si risvegliano non appena ascolto qualcosa di simile. La band è piuttosto ridondante a livello ritmico, ma qualche cosa di gradevole lo si riesce a pescare anche qui, che probabilmente è il capitolo più sperimentale dell'album (che ricordo essere il debuto per i Mourner). L'epilogo è affidato alla strumentale "Epilogue" che sancisce la conclusione di un disco ancora un pochino acerbo ma dotato comunque di qualche buona trovata. Se potessi fare una richiesta esplicita, spingerei molto di più sull'utilizzo del violino, io gradirei molto. Forza e coraggio, usciamo dai classici schemi precostituiti. (Francesco Scarci)

(Satanath/The End of Time Records/More Hate Productions - 2019)
Voto: 63

https://satanath.bandcamp.com/album/sat257-mourner-apogee-of-nihility-2019

venerdì 14 febbraio 2020

Inhibitions – With The Fullmoon Above My Head

#PER CHI AMA: Swedish Black, Dark Funeral, Dissection
Bollati dal sottoscritto in occasione del precedente lavoro come ancora impantanati nelle sabbie mobili del symph black di metà anni '90, i greci Inhibitions tornano con questo 'With The Fullmoon Above My Head', terzo capitolo della loro discografia. Le cose sembrano essere mutate in seno al duo ateniese, non mi è ancora chiaro però se in meglio o piuttosto in peggio. Facciamo subito chiarezza dicendo che se 'La Danse Macabre' era venato di influenze riconducibili a Emperor o primi Dimmu Borgir, 'With The Fullmoon Above My Head' sembra volersi far largo a colpi di black metal old school. Ecco, la domanda per il sorroscritto sorge spontanea: che necessità c'è di voler suonare black rimanendo ancora cosi ancorati ai dogmi di un genere ormai prossimo al pensionamento? Mi duole dirlo ma in questa terza release riesco a salvare davvero ben poco della proposta del combo greco. Francamente, la serie di schegge impazzite rilasciate dal duo formato da Pain e Dimon's Night non mi dice nulla di nuovo. È una sassaiola di riff di scuola svedese lanciati a tutta velocità, senza peraltro offrire melodie degne di note o qualcosa di comunque estremo ma originale. Mi spiace sempre segare un album, perchè so perfettamente il lavoro che vi sta dietro, e l'investimento che la band prima e l'etichetta poi, fanno. Dannazione però, in un periodo in cui chiunque può pubblicare musica dal proprio sottoscala e in cui la competizione è pertanto cosi elevata, non trovo il senso di un disco del genere in cui, a parte qualche epica schitarrata qua e là (le mie song preferite sono "When the Hope is Gone", la mid-tempo "Voices Inside" con quei suoi chiari riferimenti al tremolo picking dei Dissection e quel break acustico centrale e le più atmosferiche e sinfoniche sonorità della title track e di "Phenomenon", ove a mettersi in luce è il chorus che dà il titolo alla song), rimane ampiamente sotto la soglia della sufficienza, costringendomi ad un'altra sonora bocciatura. Dico sempre che c'è da lavorare anche nelle release più positive, qui c'è da raddoppiare gli sforzi per non rimanere insabbiati nelle viscere dell'anonimato più profondo. (Francesco Scarci)

Palmer Generator/The Great Saunites - PGTGS

#PER CHI AMA: Psych/Kraut Rock
Un anno e mezzo fa mi ero preso la briga di recensire 'Natura' dei Palmer Generator. Oggi ritrovo i nostri in compagnia dei lombardi The Great Saunites, per uno split album di un certo interesse in ambito psych acid rock strumentale. La family band marchigiana apre con un paio di tracce da proporci, "Mandrie" pt 1 e 2. La prima delle due mostra la rinnovata attitudine post-rock della famiglia Palmieri con un sound che strizza l'occhiolino agli americani *Shels. La song ammalia per le sue venature psichedeliche mentre la sua seconda parte stordisce per quell'incipit noise rock sporcato però da ulteriori influenze che chiamano in causa i Pink Floyd, in quel basso pulsante posto in primo piano e quelle ridondanze lisergiche che non fanno altro che ammorbarci ed infine ipnotizzarci. La song scivola via eterea, liquida, quasi dronica in un finale dai lunghi svolazzi siderali e caratterizzata da un impianto musicale che non fa che confermare quanto di buon avevo avuto apprezzato in occasione di 'Natura'. È il momento dei The Great Saunites e della lunghissima "Zante", quasi 18 minuti di psych kraut rock di stampo teutonico. Il comun denominatore con i Palmer Generator risiede sicuramente in quella ossessiva circolarità dei suoni, visto che la pseudo melodia creata da quelli che sembrano strumenti della tradizione indiana, continua a ripetersi allo sfinimento tra un tambureggiare etnico-tribale, suoni elettronici assai rarefatti e sussurri appena percettibili, che ci accompagneranno da qui fino alla conclusione della song. Prima, quella che credo sia una chitarra, prova ad insinuarsi all'interno di questo avanguardistico ammasso globulare sonico generando un effetto a dir poco straniante. Ci prova poi il clarinetto di Paolo Cantù (Makhno, A Short Apnea) a innescare atmosfere tremebonde ed orrorifiche che fanno salire la tensione a mille, accelerando il battito cardiaco, e rendendo, ma non solo per questo, la proposta del duo lodigiano davvero interessante. Sebbene la musica non sia certo di facile presa, lo split album di Palmer Generator e The Great Saunites non fa che mostrare le eccelse qualità di una scena italiana in costante ascesa e di un rinnovato desiderio di competere con i mostri sacri internazionali. Ben fatto ragazzi. (Francesco Scarci)

(Bloody Sound Fucktory/Brigadisco/Il Verso del Cinghiale - 2020)
Voto: 74

http://palmergenerator.blogspot.com/
http://thegreatsaunites.blogspot.com/

Swan Valley Heights - The Heavy Seed

#PER CHI AMA: Stoner/Space Rock
Mi risulta difficile dire che questa band di Monaco non sia brava, sarà la copertina bella e curatissima che mi coinvolge e mi fa sognare ad occhi aperti guardandola con i suoi due cacciatori primordiali spaziali in prima linea ed una grafica degna dei paesaggi cosmici di Yuri Gagarin. Devo ammettere che questo disco incute un certo fascino. Ovviamente se state cercando novità compositive nel genere in questione (ah dimenticavo stiamo partlando di stoner rock), credo che avrete delle difficoltà, poiché da anni in questo ambito sonoro l'immobilismo sembra regnare sovrano, quindi i chiaroscuri, cosi come le evoluzioni acide srotolate dai nostri, suoneranno proprio come da copione. Detto questo, i teutonici Swan Valley Heights si muovono alla grande tra le coordinate che furono dei The Spacious Mind o degli attuali My Brother the Wind, con quel taglio tra la psichedelia rock dei primi Motorpsycho ed il post grunge dei Three Fish di Jeff Ament dei Pearl Jam, trovando il suo apice compositivo all'interno disco, nel conclusivo lungo brano "Teeth & Waves", che si erge dal lotto per la sua forza propulsiva. Il lato più debole di 'The Heavy Seed' lo si può identificare invece nelle parti vocali che sembrano essere state poco prese in considerazione, tenute in sordina, con l'effettistica sonora che soffoca il canto peraltro in uno stile così morbido e filtrato che poco si sposa al resto del sound liquido e lisergico, risultando talvolta pure stentato o molto distaccato. Sono convinto che valorizzandolo a dovere la proposta della band avrebbe più potenziale e quella leggera influenza nelle parti soft, derivante dai lavori più psych di Steven Wilson, potrebbe fare la differenza nei prossimi lavori. Detto questo, torniamo a valutare la band con voti pregiati, dicendo comunque che il combo germanico suona bene, la produzione è buona e le evoluzioni sonore si sviluppano in maniera molto matura e intelligente. I quaranta e più minuti dell'album, uscito via Fuzzorama Records, appagano l'ascoltatore portandolo in lidi cosmici surreali, nella galassia infinita dei Swan Valley Heights. Altra interessante particolarità è che in nessun brano di 'The Heavy Seed' ci si imbatte in una psichedelia violenta dal classico taglio metal o doom anzi, il sound caldo e acido avvolge che è un piacere, e alla fine è una sensazione liberatoria di avventuroso viaggio ultra terreno quello che collega le atmosfere dei cinque lunghi brani del cd. 'The Heavy Seed' è alla fine un lavoro per cultori dello space rock e di quello stoner poco sabbioso e più visionario che potrebbe rivelarsi un'isola felice. (Bob Stoner)

Hourswill - Dawn of the Same Flesh

#PER CHI AMA: Heavy Prog, Anacrusis
Ci eravamo lasciati nel 2017 con i portoghesi Hourswill alle prese col loro secondo lavoro 'Harm Full Embrace'. I nsotri tornano sul finire del 2019 con questo nuovo 'Dawn of the Same Flesh', album sempre targato Ethereal Sound Works, proponendo il loro classico heavy prog dalle forti tinte malinconiche, come dimostrato già dall'iniziale "Asherah", una song piacevole ma forse un po' troppo sdolcinata per i miei gusti. Le cose iniziano a migliorare dalla seconda "Innocence", un pezzo dotato di una bella base ritmica, ottime vocals, discrete melodie, ma poco altro. Non che si tratti di una song brutta, non fraintendetemi, anzi il suo strizzare l'occhiolino più volte ai Nevermore, la fa apparire anche interessante, però è quel senso di stra-sentito che dopo pochi minuti mi infastidisce e me ne fa perdere l'attenzione. Ci si riprova con "A Beauty in Bloom", un pezzo ben più tirato (che risulterà anche essere il mio preferito), complice un muro ritmico che sembra combinare nello stesso momento heavy, hard rock, prog e thrash, in una combo che mi ricorda un mix tra Anacrusis, Xentrix, Meshuggah e Saxon. Strano no? Vi basti però dare un ascolto attento a quelle chitarrone un po' sincopate verso metà brano per capire cosa stia blaterando. Si torna a delle sonorità più soffici con "Now That I Feel" e francamente questo è il lato che fatico maggiormente a digerire dell'ensemble di Lisbona, troppo dura per essere considerata la classica ballad, troppo leggerina per essere definita una song metal, per non citare poi quel duetto tra il frontman e la classica fanciulla di turno (Neide Rodrigues) a offrire i propri servigi canori dietro al microfono (la vocalist tornerà anche in "Hanwi"), che non ho trovato proprio appropriatissimo. Si ripassa al robusto heavy rock di "Enlightenment" con la voce di Leonel Silva fin troppo sopra le righe, mentre alle sue spalle, giochi di chitarre, basso e batteria, regalano attimi di grande interesse soprattutto nella seconda parte della traccia. Si arriva cosi al trittico formato da "Benightedness (Part I, II & III)", che lungo i suoi oltre dodici minuti alterna un po' tutti gli umori sonori del quintetto lusitano, dai suoni in penombra di quell'introduttivo piano (con terribile voce a complemento), passando da ringhianti riff di chitarra della seconda parte per arrivare fino alle partiture acustico jazzy-flamencate della terza sezione. Il disco ha ancora ben quattro da offrire ma soprattutto una schiera di numerosi ospiti da proporre. Tra questi, mi soffermerei su Agostinho Lourinho che nella conclusiva e già citata "Hanwi", trova modo di dar sfoggio della sua creatività al sax con un assolo pauroso in un caldo pezzo atmosferico che sembra esser stato concepito sulle spiagge di Salvador de Bahia dal duo formato da Toquinho e Gilberto Gil, per un esperimento questo, davvero riuscito. Che altro dire degli Hourswill quindi? C'è ancora sicuramente molto da lavorare; in "Dawn of the Same Flesh" si trovano cose decisamente interessanti alternate ad altre un po' più noiose e scontate, tuttavia mi sento di dare fiducia al combo portoghese auspicando in nuovi passi in avanti nel futuro della band. (Francesco Scarci)

(Ethereal Sound Works - 2019)
Voto: 67

https://www.facebook.com/Hourswill

giovedì 13 febbraio 2020

Aes Dana – Inks

#PER CHI AMA: Electro/IDM
Cosa dire di più di Aes Dana non saprei, produttore, compositore, dj, co–proprietario della Ultimae Records, sperimentatore elettronico e conoscitore di paesaggi sonori a tema ambient tra i più prolifici del panorama. Con questo suo ottavo album, il musicista francese si cimenta in un mastodontico lavoro che racchiude tutte le sfaccettature del suo stile, optando questa volta per l'uso massiccio di ritmi rubati alla drum' n bass ed alla techno trance/IDM di prima scuola. Ipnosi ed iperspazio sonoro rappresentano le parole d'ordine di 'Inks', che ci fanno entrare in un mondo astratto e visionario, cosmico e rarefatto, costruito su suoni introspettivi, microscopici e pulsazioni quasi industriali, bassi profondi e drone music partorita da sintetizzatori infiniti. Cascate di suono cristalline si riversano in un mare lisergico sospeso nel nulla (a riguardo ascoltatevi lo splendido brano "Peace Corrosion"). Undici brani medio lunghi, tutti tra i 6 e gli 8 minuti circa, dal fascino notturno e crepuscolare, un disco da assaporare obbligatoriamente da soli, al buio osservando un cielo stellato in piena notte, suggestivo, evocativo. Alta qualità del suono e produzione modernissima e spettacolare come di consuetudine in casa Ultimae (con l'edizione digitale su bandcamp a 24 bit che è ormai un appuntamento immancabile), copertina eccelsa come da copione per l'etichetta di Lione, una lunga carrellata di musica avvolgente ("Alep Offset" è una vera gemma sonora), che usa un linguaggio digitale per raccontare storie e intrighi di vita come dichiara Vincent Villuis (aka Aes Dana). Un ottavo disco che si presenta come un ottimo biglietto da visita, un'introduzione alle opere dell'artista, forse non il suo album più intimo ('Pollen' rimane il mio preferito di sempre) ma sicuramente l'opera ideale per approcciarsi alla sua arte più recente. 'Inks' è l'ennesimo tassello di qualità che va a rinforzare la già immensa cattedrale del suono ambient di casa Ultimae Records. Un ascolto obbligato per gli amanti della musica elettronica d'ambiente, quella più più sofisticata e ricercata. (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2019)
Voto: 80

https://ultimae.bandcamp.com/album/inks

sabato 8 febbraio 2020

Sons of a Wanted Man - Kenoma

#PER CHI AMA: Post Black, Deafheaven
 Che botta! Il debut dei belgi Sons of a Wanted Man irrompe infatti con una violenza quasi disarmante nelle casse del mio stereo, con tanto di grida infernali ed ritmica arrembante, quasi a volersi presentare facendo le dovute premesse su quanto dovremo aspettarci durante l'ascolto di questo controverso 'Kenoma'. È un black scarnificante quello dei primi due minuti della opening (e title) track che evolve però verso lande desolate di un sound che ammicca in modo indiscutibile al post metal (e con relative vocals che virano improvvisamente al growl). Ma i quasi undici minuti della traccia sono multiformi, con continui cambi di tempo e forma, tant'è che mi sembra addirittura di percepire una forma primordiale di punk quando a metà brano c'è l'ennesima inversione di rotta (e vocals). Ma la song è mutevole, come ampiamente intuito nei primi minuti del brano, che ha ancora modo di proporsi sotto molteplici vesti, sfiorando il black doom e il depressive prima di risprofondare nella modalità post black della feroce "Serpentine". Qui, ritmiche tiratissime e screaming vocals, ma anche rallentamenti oscuri si coniugano in un marasma sonoro alquanto complicato da venirne fuori. E con "Canine Devotion" le cose si complicano ulteriormente e sapete il perchè? Questa volta non è un annichilente urlaccio ad aprire le danze ma la seducente voce di una gentil donzella che si assesta su un disarmonico pezzo dalle forti tinte shoegaze su cui tornerà a graffiare anche la urticante voce di Jan Buekers e di una sezione ritmica da incubo, a cavallo tra black e post-punk, dove vorrei sottolineare la prova disumana alla batteria di Mr. Kevin Steegmans, un uomo che parrebbe dotato di un paio di arti addizionali.In chiusura rientra la voce soave della vocalist in una versione più caustica dei Sylvaine. Con “Under A Lightless Sky” si torna nelle viscere dell'inferno con un intro di chitarra che poteva stare tranquillamente su 'Clandestine' degli Entombed ed un cantato di nuovo tra il possente e l'urlato. Il brano è una convincente cavalcata black metal corrotta qua e là da parti atmosferiche che ne assorbono tutta la malvagità. La parte centrale si mostra poi come un mid-tempo più controllato e melodico, ma io dei Sons of a Wanted Man, ho capito che non posso certo fidarmi e faccio bene. Appena si abbassa la guardia infatti, l'ensemble di Beringen, torna ad assestare mortiferi colpi in stile Deafheaven, sebbene accanto allo screaming ferale del cantante compaiano anche delle clean vocals. È il turno della seminale "Absent", che sferza colpi di brutal black che sconfinano nuovamente nel death metal. 'Kenoma' l'avrete capito non è un disco leggerino e "Amor Fati" non fa che confermarlo con un'altra tonante scarica adrenalinica che si muove tra ritmiche infuocate, altre mid-tempo, contestualmente ad un'alternanza vocale tra laceranti scream e oscuri growl. A chiudere il cd ecco l'outro ambient affidato a "Pleroma", finalmente la pace dopo la tempesta perfetta. (Francesco Scarci)
 
(LADLO Prod - 2020)
Voto: 70