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giovedì 27 ottobre 2011

Ea - Au Ellai

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Ultimamente ho avuto il piacere di ascoltare questo gruppo che non conoscevo assolutamente. La band si chiama Ea, arriva dalla fredda Russia, questo “Au Ellai” rappresenta il loro terzo album, il primo risale al 2006 “Ea Taesse” (del 2009 invece “Ea II”). La particolarità che mi ha colpito in primis è il nome (Ea infatti è una divinità che deriva dalla mitologia Accadico-Babilonese e che ritroviamo anche in quella sumera con il nome di Enki); in secondo luogo, la lingua con cui cantano e scrivono i testi. Difatti la lingua che sentirete nell’ascolto (almeno per quanto riportato nel web) si è potuta ricreare tramite ricerche archeologiche. Già solo ciò sembra promettente e stuzzicante, per chi come me è appassionato di mitologia e civiltà antiche. Il cd è formato da 3 lunghissime tracce, aperte da “Aullu Eina” che dura la bellezza di 23 minuti. Come apripista è ottima e ci fa capire subito come suonerà l’album: funereo e cupo, con la chitarra impostata su un tono rilassante, sempre ben ritmata, accompagnata da un drumming lento e sinuoso. Il pezzo suona quasi come una epica, dannata e nera marcia funebre, assai complesso nel suo evolversi: ottimi arpeggi, delicati tocchi di pianoforte e parti classiche affidate a malinconici violini che si intersecano in lugubri atmosfere. Il pezzo ha una virata verso la parte finale dove la batteria si fa più violenta, ma passato questo attimo di risveglio, ci si può rimettere a sognare le oscure e cupe atmosfere che l’act sa creare. L’ascolto del cd è impegnativo per la durata dei pezzi, ma posso dire che è assai piacevole ascoltarlo proprio perché non stordisce ma anzi, quasi lo consiglierei per meditazione. Le altre track non si discostano molto dalla prima, presentando costantemente il tema tipico funeral. Ecco, ne consiglio l’acquisto e l’ascolto ai soli amanti del genere. Questi ragazzi russi hanno trovato le loro atmosfere, il loro mondo, e sono sicuramente da tenere d’occhio. Il cd si conclude con la track “Nia Saeli a Taitalae”. Già dal suo inizio si stagliano sullo sfondo tastieristico cori gregoriani, che ci fanno entrare in una dimensione mistica, sognante, rilassante, ma allo stesso tempo dannata, cupa, oscura. Il pezzo dura altri 18 minuti, e non abbandona mai le ambientazioni iniziali anzi le cavalca fino alla fine, fino ad accompagnarci al termine di questo funebre viaggio nel mondo dei Ea. A nostro parere, per la particolarità della proposta, diamo un voto alto e un plauso a questi ragazzi; vi terremo sicuramente d’occhio! (PanDaemonAeon)

(Solitude Productions)
Voto:75

mercoledì 26 ottobre 2011

Iron Maiden - Somewhere in Time

#PER CHI AMA: Heavy Metal
Della serie riscopriamoli, il 1986 è l'anno dove la strumentazione musicale ha subito una particolare modifica; è stata creata una nuova sonorità tramite i sintetizzatori per basso e chitarra elettrica. Questo è anche l'anno in cui il sesto album degli Iron Maiden, registrato tra i "Compass Point" e i "Wisselrood" Studios in Olanda, fu rilasciato con il titolo di "Somewhere in Time". La composizione dell'album fu affidata a solo due dei componenti della band, ovvero Adrian Smith (chitarra) e Steve Harris (basso), salvo per la traccia numero 7, intitolata "Deja vu", che fu scritta da Dave Murray (chitarra) che poi venne arrangiata con l'aiuto di Harris. Otto tracce in totale per questo album, che venne definito "spartiacque", perchè lo stile duro che i Maiden solitamente avevano utilizzato, dovette lasciar spazio a qualcosa di più melodico. L'azione prodotta dai sintetizzatori portò a fare varie prove su questo "melodic hard style" (mia piccola definizione). Vollero mantenere pur sempre il loro stile originale, cercando di non rivoluzionare tutto con uno stile puramente commerciale come fecero altre band. "Somewhere in Time" venne definito l'album più "snobbato" della loro intera discografia, perché tutt'ora solo alcune canzoni possono essere suonate live come ad esempio "Heaven Can Wait" e "Wasted Years". Le restanti tracce sono risultate impossibili da eseguire live perchè l'effetto dei sintetizzatori renderebbe le canzoni di scarsa qualità a differenza dalla registrazione in studio. "Heaven Can Wait" venne scritta e arrangiata completamente da Steve Harris: parla di un malato di cancro che lotta tra la vita e la morte. Una canzone con una base melodica che però poi sfocia in un coro continuo. Altra canzone da sottolinare è "Sea of Madness", scritta da Adrian Smith, mostra le notevoli e potenti cavalcate di basso di Harris; un particolare in più che mi fa apprezzare questa canzone è l'inizio del ritornello che la rende più attraente. Altro fantastico pezzo è "The Loneliness of the Long Distance Runner"; Steve Harris ci mette del suo per rendere grande questa song che contiene dei spaventosi giri di basso. Ultima ed epica, ecco far capolino "Alexander the Great" traccia che parla delle grandi gesta del mitico condottiero macedone che all'età di 33 anni ha conquistato terre e nazioni senza mai essere stato sconfitto sul campo di battaglia. La song della durata di circa otto minuti si rivela complessa e con una lunga parte strumentale, ma nel complesso è una canzone con delle buone fondamenta. "Somewhere in Time" vuole dare l'idea che pur essendo proiettati nel futuro e alla costante ricerca di migliorare il proprio stile, i Maiden vollero mantenere un saldo legame con il passato: basti dare un occhio alla copertina e molti particolari salteranno davanti a noi: un piccolo esempio è la torre dell'orologio che segna le 23.58 facendo riferimento alla canzone "Two Minutes to Midnght" dell'album "Powerslave". Questo sarà l'ultimo album prima che Adrian Smith lasci la band per la sua piccola parentesi in una carriera da solista che non ha avuto un gran successo, lasciando il posto al nuovo entrato Janick Gers, ma questa è un'altra storia. Catalogabile decisamente come un buon album nel complesso. (Alessandro Vanoni)

(EMI Records)
Voto: 75
 

lunedì 24 ottobre 2011

Laments of Silence - Restart Your Mind

#PER CHI AMA: Death Melodico, Dark Tranquillity
Smarrito e solo sull'Isola di Creta, nell'ipotetico e labirintico Palazzo di Cnosso qual'è la mia mente, mi ritrovo al buio, dopo aver consumato la mia unica torcia e senza alcun filo di Arianna, abbandonato ma in compagnia di un'unica certezza: il minotauro. Il minotauro è vicino, ancora non lo vedo, no non lo vedo, ma ne avverto, là, sempre più vicino, l'oscura, malvagia presenza. Ho paura, certo, ho paura, ne sento il ringho e gli zoccoli, sì i suoi zoccoli scalpitare. La paura però, mi coglie solo per un attimo: non mi faccio prendere dal panico, no di certo. Sono abituato a ben altro. Questo è niente. No! Sarà lui, o meglio quella cosa, a dovermi temere. Sento il mio coraggio rinvigorire il mio spirito all'udir di codeste, incazzate corde vibrare. Non perdo tempo: Lancio subito, senza esitare, il mio simbolico ed atipico urlo di guerra: "Restart your Mind!". Sarò io il cacciatore: lui la mia preda. Voglio il suo scalpo. "Restart your Mind": così è stata battezzata la title track di questa adamantina release degli spagnoli Lament Of Silence. Duecentottantacinque secondi di pura cattiveria giocati su una batteria maestosa, strofe interpretate con sapienti scream vocals e, come il genere vuole, sul classico matrimonio tra distorsioni di chitarra ed una "doppia pedalata" sì rapida e precisa da far invidia a quella del Fausto Coppi dei tempi d'oro. Cammino attento nel labirinto, mi inoltro sempre più nelle sue spire, nei suoi meandri. Rimango all'erta, vigile, attento. Spada e scudo mi accopagnano. Sguaino la mia lama sulle note di "Sentenced", la voce diventa a tratti pulita: batto allora l'elsa sullo scudo, a sfidare, impavido, il mio nemico. Voglio che mi senta. Odo l'eco dei suoi passi, sempre più vicini... ad accompagnarli velocissime rullate di toms. Tamburi. Tamburi nell'oscurità. Nella mia mente, l'immagine di lui che si ferma. Si gira. D'mprovviso. Avverte d'un tratto la mia presenza. Immagino un'ipnotico rosso brillare nelle sue iridi. Le vedo accendere d'un tratto l'oscurità e riempirla con il loro odio. Osservo i capillari delle sue sclere gonfiarsi, anzi inzupparsi del suo stesso sangue. Odo di nuovo il suo ringhio, lo schema dell'alternanza vocale, infatti, si ripete anche nelle successive "Paper Dolls" e "Homeless on the World of Souls". Un ritornello pulito si intercala, concatenandosi, con strofe growl. L'idea, però, non essendo a mio parere innovativa, viene forse un pò troppo sfruttata. Il risultato finale, ad ogni modo è più che gradevole. In men che non si dica mi ritrovo catapultato, invischiato in "Doomed". Mi fermo allora un istante ed ascolto. Da bravo cacciatore cerco di percepire i suoi passi, d'intuirne i movimenti. Le melodie me lo consentono, questa volta sono meno incazzate, meno serrate. Vivo "Doomed" come una sorta di quiete prima della tempesta. Corro, gli corro incontro, l'attesa snervante mi ha ormai stancato. La tempesta arriva con "Within my Dreams" preceduta da "Scream in the Darkness" e "Solitude" che vanno a prolungare, sulla scia di "Doomed" l'attesa, prima del mio scontro finale. Ecco, ci siamo, me lo trovo di fronte. Ne incrocio impavido il suo sguardo. Due fari che si accendono nell'oscurità. Mi osserva, mi studia. Io non mi fermo, continuo nella mia corsa e quindi salto, tento di colpirlo con un fendente dall'alto. Lui lo schiva, sicuro, veloce. Tenta di incornarmi ma intercetto rapido con lo scudo le sue corna. Il contraccolpo è potente, cado a terra, all'indietro, ma non perdo scudo e spada. La battaglia non è persa. Mi carica, tentando nuovamente di incornarmi, ma io resto fermo. Fermo fino all'ultimo e quindi scarto, rotolo veloce su me stesso, quindi mi rialzo. Lui si gira: rapido, sorpreso. Veloce gli scanno la gola, ne stacco la testa, la vedo rotolare a terra. Il suo torso, decapitato, si accascia al suolo. Inerme. (Rudi Remelli)

(My Kingdom Music)
Voto: 75
 

Blue Birds Refuse to Fly - Anapterωma

#PER CHI AMA: Future Pop, Electro Music
La Grecia "elettronica" continua a sorprendere positivamente. Dopo gli ottimi esordi di Audioplug e Genetic Variation, un altro nome interessante della scena musicale ellenica torna sotto le luci dei riflettori, ma questa volta non è di una band alle prime armi che si parla. I Blue Birds Refuse To Fly con il loro secondo album e dal lontano 1998 (anno in cui uscì il debutto "Give Me the Wings") hanno subito alcuni sostanziali cambiamenti che hanno coinvolto il gruppo. Kyriakos Poursanides, che fu il tastierista dei Wasteland dal 1990 al 1998, è rimasto il principale responsabile del progetto, mentre Cristina Mihalitsi non è più della partita, per cui la sezione vocale di "Anapterωma" è stata affidata all'ex-The Illusion Fades George Dedes, coadiuvato da George Priniotakis e Maria Kalapanida per le backing-vocals. Il battito soffice di "House of Sex" è un assaggio gradevole che anticipa quel che potremo ascoltare nei minuti successivi, ovvero un'elettronica dai contorni imprecisi che, nell'arco di tredici brani, sfiora diverse dimensioni stilistiche. Romantiche atmosfere future-pop, arrangiamenti di classe e motivi "radio-friendly" dal facile appiglio sono le componenti che fanno di "Anapterωma" un prodotto appetibile ed eterogeneo al tempo stesso. Vale a dire che per alcuni la varietà stilistica sperimentata dal gruppo potrà costituire un quid positivo, per altri una fastidiosa spina nel fianco. Di certo la levatura artistica dei Blue Birds Refuse To Fly non si discute e canzoni come "Lacrima di Balena II - The Revenge" o "Some Roads Can Take You Everywhere" denotano un songwriting raffinato che saprà ammaliare gli ascoltatori più attenti al particolare. D'altro canto, va sottolineato che non tutti gli episodi riescono a colpire nel segno ed è proprio la disomogeneità della scaletta ad ostacolare un percorso fluido e senza intoppi. Si pensi ad esempio al brano "The End", che pare un tentativo di "scimmiottare" i Laibach in un contesto pop/sinfonico di dubbio gusto. Per il resto, "Anapterωma" si fa pregio dell'ispirata prova vocale di Dedes e di una produzione limpida e pulita, attestandosi come un prodotto di buona qualità che andava solo smussato in qualche punto per poter risultare più fruibile all'ascolto. (Roberto Alba)

(Decadance Records)
Voto: 70 
 

domenica 23 ottobre 2011

Circles - The Compass

#PER CHI AMA: Djent, Progressive, TesseracT, Dillinger Escape Plan, Periphery
L’Australia è da sempre sinonimo di ventata d’aria fresca e innovativa: basti pensare ai primi anni ’90 quando da Camberra saltarono fuori gli Alchemist e poi più recentemente i grandissimi Ne Obliviscaris e i Silver Ocean Storm. E ora è il turno di un’altra eccezionale band, i Circles, che con “The Compass” arrivano al debutto per la Basick Records. Muovendosi in territori musicalmente molto vicini al djent, sfoderano una prova a dir poco entusiasmante, molto probabilmente attribuibile in primis alla forza e bravura del cantante, che è bravo nell’alternarsi tra un growling possente (assai raro a dire il vero) e un cantato molto vicino a quello di Mike Patton. La musica poi è schizoide, imprevedibile, con dei riffoni ultra ribassati, stop’n go disorientanti, ritmi sincopati, cambi di tempo mozzafiato, che ci fanno passare da momenti tirati, improvvisamente a delicati attimi di romanticismo, quasi da non credere. Si, ne voglio di più, perché a partire dalla magnifica opening track, “The Frontline”, passando attraverso “Clouds are Gathering”, fino a giungere alla conclusiva “Ruins”, i Circles offrono una prova magistrale su tutti i fronti: ottima musica, con delle melodie estremamente indovinate, tecnica eccelsa (requisito fondamentale per suonare questo genere, altrimenti vi prego astenersi, please), una perfetta produzione con un suono cristallino che enfatizza enormemente il risultato finale di un EP, che ha il solo difetto di non essere un full lenght, perché tanta e grande è la voglia di ascoltare la musica di una band, che sa prendervi per mano, sedurvi con un paio di smancerie (la presunta semiballad “Act III”) per poi prendervi a mazzate sul muso, con una miscela entusiasmante di suoni che dal djent si dirigono verso il progressive, techno metal. Accattivanti, tanto quanto (forse anche di più) dei TesseracT o dei ben più famosi Periphery, i Circles vi conquisteranno al primo ascolto, posso metterci la mano sul fuoco e so che non mi brucerò. Sono arrivato al termine di questo cd e soffro già di crisi di astinenza, quindi che fare? Meglio premere nuovamente il tasto play e lasciarsi conquistare dalla genialità di questi cinque straordinari musicisti australiani, di cui sentiremo certo parlare a lungo in futuro. Mezzo voto in meno perché si tratta di un EP. Fenomeni! (Francesco Scarci)

(Basick Records)
Voto: 85

Comatose Vigil - Fuimus, Non Sumus...

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Un giorno di pioggia. Un funerale. Il mio funerale. Le note dei Comatose Vigil ad accompagnare la sepoltura, mentre il pianto contenuto dei presenti, si presenta di fronte alla Signora Morte. E io rinchiuso in quella bara oscura, ho freddo, con la consapevolezza che tutto è finito; l’unica cosa a cui non possiamo sottrarci è finalmente giunta a prelevarmi e portarmi via con sé. La musica del terzetto russo è cupa, straziante e angosciante, come può essere il sopraggiungere della morte stessa. Tre lunghi infiniti brani di drammatico funeral doom, che si aprono con il primo capitolo, la title track, quasi mezz’ora di suoni funerei che non possono far altro che annunciare qualcosa di tremendamente negativo, la perdita di una vita umana. Non c’è alcuno spazio riservato alla luce, neppure ad un barlume insignificante di speranza, sono solo le tenebre che avvolgono la vita, rendendola inutile e priva di alcun significato. La musica dei Comatose Vigil è quanto di più oscuro ci potessimo aspettare in questo ambito (e dire che mi ero spaventato con i Septic Mind), ma qui i toni apocalittici, si fanno ancora più catastrofici, con un riffing pesante, ossessivo, lento che scandisce gli ultimi istanti che ci sono rimasti da vivere, come i tocchi di una campana che suona a morto. Parafrasando il titolo di questa release, “Fummo, non Siamo”, ci troviamo di fronte ad uno scenario di morte globale, forse portata dai venti di guerra che flagellano costantemente il nostro degradato pianeta. E ad annunciare la fine del mondo, ci pensa la voce tremendamente growling di A.K. iEzor, accompagnato dalla sezione ritmica della consistenza di un mammut di Vig’iLL e dagli emozionanti quanto mai sconvolgenti (e vincenti) inserti di tastiera di Zigr. “Autophobia” con i suoi ventitre minuti abbondanti di disperazione è il masso che ci mancava, quello da un quintale ancorato alle nostre gambe che improvvisamente cadono in acqua; una discesa lenta e dolorosa nel profondo degli abissi, mentre i nostri polmoni si riempiono di acqua fino a scoppiare. Si, la morte torna sovrana, come unica regina del mondo, a cui nessuno può sottrarsi, neppure gli uomini più potenti del pianeta. La morte è il giusto destino per tutti e il cammino verso di essa è accompagnato ancora una volta dalle note di questa straordinaria band, che in questa traccia hanno anche l’ardore di un magnifico inserto ambient, straordinari. Gli ultimi ventiquattro minuti sono per “The Day Heaven Wept”, l’ultimo cappio da cingersi al collo prima di salire su quella sedia da cui non si scenderà più. Il terzo capitolo celebra, con toni apparentemente meno lugubri la fine dell’esistenza, anche se la malinconia di fondo pervade ovviamente l’intero magnifico brano. Certo, il funeral doom non è un genere aperto a tutti, tuttavia non abbiate paura ad avvicinarvi, giusto solo per curiosità, a dare un ascolto a questo magniloquente lavoro. Ora ne ho la certezza: dopo avere ascoltato “Fuimus, Non Sumus…”, non ho più paura di affrontare nostra Signora. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 85

sabato 22 ottobre 2011

Falloch - Where Distant Spirits Remain

#PER CHI AMA: Shoegaze, Epic, Folk, Alcest, Agalloch
Talvolta scrivere una recensione è la cosa più facile che ci sia al mondo: ci sono band infatti che consentono alle dita di battere sulla tastiera alla velocità della luce ciò che la musica ha da trasmettere. Credo che gli scozzesi Falloch (nome che si rifà alle cascate omonime di Crianlarich) siano una di queste: mi è bastato infatti premere il tasto play e lasciarmi immediatamente conquistare dall’avvolgente musicalità della band di Glasgow e dalla raffinata furiosa delicatezza dei propri suoni. Come al solito, vi avrò disorientato, ma con mio sommo piacere, preferisco non farvi capire nulla per instillare nel vostro animo, la curiosità ad andare avanti nella lettura della recensione. I Falloch sono una band con tutte le carte in regola per sfondare nel mondo della musica metal: miscelando infatti lo shoegaze dei transalpini Alcest con la spiritualità, l’epicità e la furia del sound degli statunitensi Agalloch, il duo, formato da Andy Marshall e Scott Mclean, ha sfoderato una prova eccezionale, tanto da spingermi a definire “Where Distant Spirits Remain”, il mio album del mese. Dall’iniziale “We are Gathering Dust” dove forte è il richiamo agli Alcest, passando attraverso le prove di “Beyond Embers and the Earth” dove invece più marcata è l’influenza della band di Seattle del periodo “The Mantle”, con sfuriate tipicamente black che si alternano a passaggi più onirici o di derivazione “Pink Floydiana“, l’ensemble ci accompagna con somma maestria attraverso un malinconico viaggio nel cuore della tradizione celtica. Ne è testimonianza “Horizons” con quel suo forte flavour folk, neppure fosse uscito dal film “Braveheart”. L’epicità sgorga a tonnellate anche nella successiva “Where We Believe”, la song forse più selvaggia, vuoi anche per l’uso di vocals più aggressive che si contrappongono con quelle estremamente pacate che si ritrovano nel corso di tutto l’album. Mi piace, mi piace e mi piace, non sapete voi quanto: parti acustiche, ambientazioni autunnali, sfuriate black interrotte da break autunnali pregni, stragonfi di malinconia e dolcezza (complice anche la presenza di una voce femminile). Le chitarre affrescano con assoluta semplicità paesaggi molto più vicini a quelli del nord est degli USA o del Canada, piuttosto che ricordare le desolanti colline scozzesi. Colori caldi infatti riscaldano il nostro animo, ascoltando questo esagerato lavoro, che ha preso posto nel mio stereo e non vuole assolutamente abbandonarlo. Non so che altro dire a proposito di un album che si candida ad essere seriamente tra i miei top dell’anno. Magico e poetico! (Francesco Scarci)

(Candlelight Records)
Voto: 90

Hinder - Take it to the Limit

#PER CHI AMA: Alternative, Post Grunge
Non posso dire che questi Hinder non si siano dati da fare. Si ripresentano con questa seconda uscita intitolata: "Take it to the Limit", che nella title track dell’album ha un accompagnatore d'eccezione ovvero Mick Mars, chitarrista e componente attivo della band statunitense dei Motley Crue. Le ventidue tracce che compongono questo lavoro sono assai varie: l’alternative metal qui contenuto, regala buone emozioni a chi lo ascolta, proprio perchè non risulta noioso e non puzza di album sentito e strasentito. Come ogni band, alle volte si scivola su delle classiche canzoni melense, come la terza traccia, "Last Kiss Goodbye"; immagino già alcuni di voi che potrebbe aver già fatto una faccia schifata, ma ragazzi, questa song è suonata dannatamente bene e la voce del signor Winklerla rende ancor più strabiliante. Uno stile anni '80 ben camuffato lo troviamo in "Up all Night" dove l'influenza di stile tendono molto verso i Motley Crue, per l'appunto. Me lo fa ricordare soprattutto per i coretti che si formano durante il ritornello. La scelta di aggiungere dei pezzi live nell'album mi ha intrigato, una sorta di viaggio sul palco mentre Winkler lancia qualche urlo, quasi volesse imitare la voce di Steven Tyler, (vocalist degli Aerosmith, tuttavia non avvicinandosi nemmeno un pò!). Da sottolineare che nel lavoro potete trovare anche una versione di qualche traccia in acustico: "Without you, Loaded and Alone" e "The Best is Yet to Come". La seconda traccia è molto meglio con la chitarra elettrica però; ci hanno provato ma non è venuta fuori sta granroba. Un violino e una chitarra acustica accompagnano la voce un pò tirata di Winkler, e ci portano a considerare il solito messaggio che molte band hanno tradotto in musica: "Live the Life with no Regrets"; che non è il titolo di una canzone ma una frase chiave che sta nel ritornello di "The best is Yet to Come". Buono lo stile che accompagna questi ragazzi: se rimarrete delusi datevi a Lady Gaga. (Alessandro Vanoni)

(Universal Motown Records Group)
Voto: 75

Grown Below - The Long Now

#PER CHI AMA: Sludge, Post Metal, Isis, Cult of Luna
Come sempre mi avvicino con una certa curiosità alle proposte musicali della Slow Burn Records, da sempre sinonimo di ottima musica e profonda conoscitrice di realtà underground estremamente valide nell’ambito post. Quest’oggi è il turno del debutto dei belgi Grown Below, band a me totalmente sconosciuta che con questo “The Long Now” cercando di raggiungere un po’ di notorietà in un ambiente totalmente affollato come quello del post metal/sludge. Inserisco il cd nel lettore e mi si parano immediatamente davanti tredici insormontabili (mi immagino) minuti di “Trojan Horses” e del suo ritmo ovviamente melmoso, contraddistinto dal classico vocalizzo growl del genere e da un riffing ultra distorto. Storco un po’ il naso, ho come la sensazione che mi annoierò parecchio da qui alla fine, ma immediatamente una voce pulita, pregna di sofferenza, si alterna al cantato da cavernicolo e spazza via le nubi che si stavano già addensando nella mia mente. L’atmosfera rallenta ulteriormente, si addolcisce, vengo turbato, nel senso buono sia chiaro, da suoni soavi, malinconici, addirittura romantici; l’ho già eletta mia song preferita dell’album. La performance di Matthijs Vanstaen alla voce è a dir poco esaltante, cosi come le cupe ambientazioni, che si alternano una dopo l’altra, nell’imbrigliante progressione di questo lavoro. Questa “Cavalli Troiani” decisamente ci consegna un’altra stuzzicante band che farà la gioia mia e di tutti quelli che amano gli Isis o i Cult of Luna. “Devoid of Age” deflagra nelle casse del nostro stereo con un sound potente, corposo, marcescente, tuttavia coadiuvato da un accompagnamento intrigante che la rende molto più ascoltabile. È la volta di “The Abyss” e la sensazione che ci coglie è proprio quella di sprofondare negli abissi con un sound vertiginoso, che alterna ancora una volta la melmosità sludge a momenti di delicata sofferenza e dove fa anche la comparsa una deliziosa voce femminile. Sono colpito, non lo nego, alla terza traccia, ho già ordinato la mia copia personale di questa avvincente release e non sono nemmeno a metà dell’ascolto del cd. Chiaro, le influenze provenienti dai maestri di Boston, Isis, sono evidenti, ma non importa perché ancora una volta, la classe dei Grown Below, emerge forte, convincente e vincente al tempo stesso. L’ambient miscelato al post rock, allo sludge e al metal è estremamente ben confezionato da questo quartetto di Antwerp, che esiste solamente dal 2010 e se questo è il risultato c’è ben da sperare per il futuro di questi ragazzi, che nelle tracce di “The Long Now” affrontano il tema della fine del tempo. Giusto un intermezzo ambient ed ecco altri tredici minuti con “End of All Time” a suggellare la performance dei nostri: incedere lento, opprimente, claustrofobico, insomma nel totale rispetto di tutti i sacri crismi del genere, sfiorando addirittura il funeral doom. Ma non abbiate timore ad avvicinarvi a tali sonorità, perché poi la bravura dei nostri sta nel personalizzare, rivedere, stravolgere il sistema con le proprie brillanti idee. Accanto all’indubbio valore musicale dei Grown Below, si aggiunga anche l’eccellente caratura tecnica e l’ottima registrazione che arricchisce il suono di una profondità inusuale. Mai domi, i nostri si lanciano con composizioni che superano i sedici minuti (la title track) che conferma quanto di buono espresso sinora. Ragazzi, non ho altro da aggiungere, se non fare i complimenti ancora una volta ad una etichetta dalla vista lunga e a una band dalle idee veramente chiare. Sorprendenti! (Francesco Scarci)

(Slow Burn Records)
Voto: 85

venerdì 21 ottobre 2011

Akrea - Lebenslinie

#PER CHI AMA: Swedish Viking Death, Amon Amarth, Arch Enemy, In Flames
Non sono mai stato un amante delle band teutoniche che cantano in lingua madre, perché ho sempre pensato che il tedesco non si prestasse proprio benissimo all’essere cantato. Oggi però ho fra le mani questo prodotto proveniente dalla terra di birra e crauti e sinceramente che sia cantato in inglese, tedesco o giapponese, poco importa. Il quintetto degli Akrea sfodera una prova più che dignitosa, con sonorità che, per quanto non sappiano dove stia di casa l’originalità, riescono comunque a risultare gradevoli e trascinanti. Dopo “Aufbruch”, intro di 2 minuti, i nostri attaccano subito con una certa irruenza, caratterizzata da un sound dalla produzione cristallina, che risulta palesemente influenzato da act nordici, quali Amon Amarth e Arch Enemy in testa. Ripeto, niente di trascendentale, ma le songs si lasciano tutte ascoltare piacevolmente: le chitarre potenti e melodiche, ora un po’ vichinghe (nella tipica vena Amon Amarth), ora rockeggianti, talvolta in linea con lo swedish death dei maestri di sempre, ordiscono interessanti trame death/black, che vanno a sorreggere le demoniache growling vocals di Sebastian Panzer. Il quintetto bavarese, sebbene la giovane età, ha appreso alla grande la lezione impartita dalle bands scandinave e, combinando intelligenza compositiva con brutali melodie, è riuscita a sorprendermi con questo “Lebenslinie” (Lifeline), cd che incontra decisamente il mio favore, per quella sua buona capacità di miscelare il metal pagano (in minima parte) con sprazzi di brutalità death e sinistre melodie black metal. Delle liriche non ci ho capito granché, ma dopo tutto che ci frega, se la musica è buona, si può parlare di wurstel, divinità pagane o politica, ciò che conta alla fine è sempre la musica... (Francesco Scarci)

(Drakkar Records)
Voto: 70
 

giovedì 20 ottobre 2011

Grave Forsaken - Destined for Ascension

#PER CHI AMA: Thrash/Doom, primi Kreator
Secondo album per la “Christian” band australiana dei Grave Forsaken e fortunatamente rispetto all’esordio, le cose cominciano un po’ a migliorare. Non si può certo gridare al miracolo, però i nostri producono un album decente che si lascia per lo meno ascoltare, anche se l’emivita (termine rubato alla farmacologia) del cd non è di certo delle più lunghe. Devo dire che l’album parte in sordina con le prime tre songs un po’ banalotte, a cavallo tra un thrash grezzo e sonorità più doomeggianti. Dalla quarta traccia in poi, il cd inizia a crescere, mostrando qualche raro sprazzo di originalità, soprattutto nelle linee di chitarra e nella cupezza dei suoni. L’album evolve in modo abbastanza eterogeneo, toccando il suo apice compositivo con le melodie orientaleggianti di “Horror and Sadness”; quello che meno mi convince ahimè, viene dalla prova dei musicisti più attesi: dietro la batteria infatti, siede Dave Kilgallon ex drummer dei Mortification, da cui sinceramente mi sarei atteso molto di più. In 2 brani, “Perish the Thought” e l’ultima lunghissima (più di 10 minuti) “The Road to Damascus” compare anche il vocalist dei Mortification, Steve Rowe (ad affiancarsi ai gorgheggi clean/growl dei 4 membri della band), ma devo ammettere che le due songs alla fine si riveleranno tra le più piatte del disco. "Destined for Ascension” non regala alcun vero e proprio sussulto, è abbastanza statico nel suo incedere e privo di un vero pezzo vincente, eppure a qualcuno potrà sicuramente piacere per quel suo avvolgente alone tremendamente old school. Poco convincenti, c’è da lavorare ancora sodo. (Francesco Scarci)

(Rowe Productions)
Voto:55

martedì 18 ottobre 2011

Withate - Billion Dollar Mouth

# PER CHI AMA: Thrash/Metalcore, Lamb of God, Pantera, Slayer, Entombed
“Hey man, it’s time to play…” E’ cosi che si apre il debut cd dei romani Withate, combo che nasce dall’incontro di vari personaggi che hanno militato, in passato, in diverse band dell'underground Italiano (Stick It Out, Rainspawn, Enemynside, Outbreak, Chosen e Birkenau). Il sound che esce fuori da questo sodalizio, è qualcosa di abbastanza strong, ma al tempo stesso non proprio originalissimo. La band capitolina, propone infatti un thrash metalcore assai sputtanato negli ultimi tempi, sfruttando il trend imperante che le case discografiche si sono imposte di seguire, per riempire le proprie casse. Comunque sia il risultato partorito dal quintetto non è niente male: prendete le chitarre southern thrash dei Pantera, unitele con la sporcizia dei suoni del metalcore, infarcite il tutto con un’ottima e potente produzione, aggiungete qualche ritmica stile Meshuggah e per forza di cose il risultato che ne verrà fuori, non può che essere positivo. Killer riffs fanno da struttura portante all’intero lavoro, supportati dal marziale lavoro dietro le pelli del bravissimo Dan. Ottima la prova anche di Steph dietro il microfono: già vocalist dei Subliminal Crusher, mostra grande personalità ed eclettismo (bravo sia in veste growling che clean), pur ispirandosi fortemente a mostri del panorama metal, Chuck Billy dei Testament, tanto per citarne uno. La band ha le carte in regola per ottenere un discreto successo e “Billion Dollar Mouth”, sarà certamente un buon biglietto da visita per raggiungerlo. Certo è che se questi ragazzi riuscissero a scrollarsi di dosso la convenzionalità di alcuni suoni già sentiti, mi aspetto nel futuro di sentirne delle belle… Giovani e di belle speranze (Francesco Scarci)

(No Sun Music)
Voto: 70