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lunedì 26 febbraio 2018

The Pit Tips

Felix Sale

Rapture - Paroxysm of Hatred
Exalter - Persecution Automated
Exitus - Hell's Manifest

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Francesco Scarci

Deadspace - The Liquid Sky
Bereft of Light - Hoinar
Rosetta - Utopioid

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Five_Nails

Death Rattle - Volition
Plini - Sweet Nothings EP
Anodyne Mynd - Event Horizon

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Alberto Calorosi

Volwo - Dieci Viaggi Veloci
The Shadow Lizzards - The Shadow Lizzards
Tintinnabula - Mamacita

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Michele Montanari

Red Sun - The Wind, the Waves, the Clouds
Fatso Jetson/Herba Mate - Early Shapes 

Black Elephant - Bifolchi Inside

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Matteo Baldi

Radiohead – Pablo Honey
Soap & Skin – Narrow
Rome – Hall of Thatch
 

Zenden San - Daily Garbage

#PER CHI AMA: Funk/Noise/Math
'Daily Garbage', spazzatura quotidiana, un nome alquanto azzeccato per un disco come quello degli Zenden San edito per la Karma Conspiracy. Dico azzeccato perché si sente chiaramente che la musica è stata scritta per sfogo, per cercare di espiare la noia, l’assillo e il voltastomaco che la vita di ogni giorno sfacciatamente ci lancia addosso. Gli Zenden San sono come dei samurai del mondo antico e combattono a colpi di ritmiche sempre più strane e ricercate contro l’omologazione e l’appiattimento. Difficile infatti ricondurre le influenze del power duo ad un solo genere, ci sento noise, funk, new wave, math ma sempre resi con impeccabile attitudine al groove e alle metriche improbabili. Mi vengono in mente a volte i Melvins per alcune soluzioni ritmiche, a volte gli Incubus o i Rage Against the Machine per la timbrica e la complessità delle linee di basso, altre volte ancora la sezione ritmica di James Brown strafatta di metanfetamine. L’ascolto tuttavia non è semplice, 'Daily Garbage' è un disco che può apprezzare di più chi di musica ne ascolta molta ed è stufo di sentire le solite soluzioni e i soliti arrangiamenti. Ponendosi nei panni di un neofita del genere invece, la sensazione sarebbe sicuramente di sgomento e smarrimento, che in ogni caso, se si è coraggiosi abbastanza, non è male ogni tanto provare. Il disco inizia con "Bang!", nome alquanto appropriato per un pezzo che colpisce come un mitragliatore e lascia l’ascoltatore mezzo stordito dalle continue pause e cambi di ritmica. Il metodo di composizione degli Zenden San è implacabile, vicinissimo all’hardcore per la concentrazione di parti in un minutaggio veramente esiguo, il che rende il peso specifico delle canzoni così alto da superare quello dell’uranio. Uno dei miei pezzi preferiti è "Industrial Zone", una cavalcata impossibile che attraversa nel suo inarrestabile incedere mille e uno ambienti, tutti radioattivi, malati e altamente tossici. La sensazione alla fine del pezzo è quella di essere passati in lavatrice e, come i panni sporchi, esserne usciti sbattuti ma puliti. In fondo, questa sensazione si può applicare all’intero disco, si tratta un’opera di purificazione attraverso l’esplorazione dei più malati territori del ritmo e l’espiazione della totale insensatezza e monotonia della quotidianità. (Matteo Baldi)

(Karma Conspiracy Records - 2017)
Voto: 75

https://zendensan.bandcamp.com/releases

domenica 25 febbraio 2018

Térébenthine - Visions

#PER CHI AMA: Post Rock, Mogway
Circolarmente ossessive come una sorta di malta sonora all'interno di una betoniera, le visioni oniriche dei francesi Acquaragia si concretizzano in un tumultuoso magma che scende inesorabile dalle pendici del suono inglobando suggestioni consolidate (Mogwai, Don Caballero), incapace per sua stessa natura di produrre alcunché, se non un'uniforme distesa di suono ribollente ("Au Nom du Paère" e "Poupée Charette"). Costituisce notabile eccezione il saliscendi psych raccontato in "Mer Noire" esordiente da desertiche sensazioni early-floydiana per svilupparsi (egregiamente) nei tre stati della materia: prima liquido, poi solido e infine gassoso, cui fa da contrappeso la furia sublimante solido/ gas/solido espressa più avanti nella robusta "Goutte d'Eau". Analogamente, in "Un Jour Encore", la materia pulsa orizzontalmente, aggredita dal diluente, in un'interminabile successione di ipotetiche rarefazioni e condensazioni sonore. L'omaggio a Jackson Martinez, attaccante tra gli altri, di Porto e Atletico Madrid, ammiccherebbe ai Mogwai di 'Zidane, un Portrait du XXIe Siècle'? Un album complessivamente materico, proprio come si conviene per il genere a cui si riferisce, più digressivo che aggressivo e, in verità, affatto eccellente per ispirazione o per produzione. (Alberto Calorosi)

(Atypeek Music/Poutrage Records - 2017)
Voto: 65

https://terebenthine.bandcamp.com/album/visions

sabato 24 febbraio 2018

Darius - Clôture

#PER CHI AMA: Post Metal strumentale, Bossk, Pelican
Torna la Czar of Crickets Productions con un'uscita nuova di zecca, come sempre "made in Switzerland". I Darius, che già abbiamo avuto modo di conoscere col loro debut album 'Grain', tornano con un EP di quattro pezzi devoti ad uno strumentale mix tra sonorità in bilico tra post metal e post rock. "Glaucal" ha l'onere di aprire le danze, con la sua flebile intro che assai presto farà posto alla robustezza delle chitarra del duo formato da Yannick e Sylvain, e poi ad una serie di cambi ambientali. È un po' come se passassimo da una stanza estremamente illuminata ad una con delle luci decisamente più soffuse e allo stesso modo, i cinque ragazzi di Bulle, passano da momenti più pesanti ad altri più delicati, con un risultato anche alquanto soddisfacente, peccato solo che manchi una componente vocale ad alleggerire una proposta forse un po' troppo monolitica sin dall'inizio. Si perché poi le cose, non cambiano granché con "Charlotte" e le seguenti "Pipistolet" e "Trace": si confermano delle introduzioni ai brani a base di chitarre acustiche e suoni da penombra, a cui si susseguono riffoni pachidermici e leggiadri momenti di quiete. In "Charlotte" ad esempio, il preambolo che porta al dirompente lavoro ritmico, si dilata in accordi sognanti un po' ripetitivi, che soddisfano, ma non so fino a che punto, l'ascoltatore. Questo perché, pur essendo le melodie buone, la produzione bombastica e le escursioni in territori ambient azzeccatissimi, il lavoro suona nelle mie orecchie come incompiuto, manca sempre quel qualcosa in grado di guidarmi nell'ascolto, nel trascinarmi in slanci emotivi, come solo una voce sa fare. Scusate se insisto, avete tutto il diritto di dirmi che ci sono band che hanno basato il loro successo solo ed esclusivamente sui loro suoni anziché su di una voce, ma io posso anche rispondervi che forse quelli sono dei fenomeni, mentre ai Darius manca ancora quel quid che mi induca a considerarli tali e quel qualcosa nella loro musica capace di condurmi piacevolmente in un porto sicuro. La band, seguendo le orme dei Pelican, dei Bossk o dei Russian Circle, alla fine risulta troppo aggressiva per i miei gusti per proporre un simile sound senza l'apporto di un vocalist, anche se l'ultima "Trace" sciorina diversi minuti di sonorità eteree prima di decollare. Per quanto strumentalmente bravi, i Darius hanno larghissimi margini di crescita, che io sfrutterei nel migliore dei modi, per staccarmi da una scena che vedo in inesorabile declino. (Francesco Scarci)

(Czar of Crickets - 2018)
Voto: 65

Talv - Entering a Timeless Winter

#FOR FANS OF: Depressive Black, Burzum
Talv is an Italian one-man project created back in 2012. Andrea is the sole musician behind this band coming from Milano. The project was previously created with a different name, Trees in the Fog, but he rapidly decided to change it for a much shorter name. Andrea´s purpose was to play black metal with a raw and discordant touch, but keepin always with an atmospheric approach. I am not very familiar with his previous stuff, but there is no doubt that dissonance played a main role on his early works. The vocals, for example, were recorded with several strange effects, though aesthetically they had a clear approach to what we usually can find in several DSBM bands.

Anyway, this third album starts a new era for Talv according to what Andrea says. Has Talv changed that much? Only in some aspects. The album itself is not aesthetically so different in comparison to the previous releases, the songs have again a mainly slow and repetitive tempo and they are quite long. “Dreaming a Funeral in Another Life” is the album opener and it lasts almost ten minutes. Its slow and repetitive tempo is something you will find in the whole album, and its purpose is clearly to create a hypnotic atmosphere. The other three tracks strictly follow the same pattern and the only difference can be found in the fifth song, a cover from the amazing German band Coldworld. This is a purely ambient track which serves as a nice and calm ending for the album. 

The main difference which makes 'Entering a Timeless Winter' a different beast from Talv´s previous efforts, is the production. This new work has a quite much lowered sound, with a quite raw yet atmospheric production. I would say that is the classic low-fi production we can find on bands which play DSBM with an intense atmospheric touch. I am not a great fan of this production, but I must admit that I prefer it over the more dissonant and noisy sound of the previous cds. The vocals sound indeed quite different as this production makes them sound less chaotic, and a little bit more buried in the production, anyway they can easily be listened to. His screams follow the typical pattern, tortured and repetitive screams which fit with the rest of the music. 

In conclusion, my impression is that Talv has left behind his more dissonant and discordant influences, at least if we talk about the production itself, and has immersed in a more traditional and low-fi atmospheric/depressive black metal, obviously influenced, in its repetitive and slow tempo, by Burzum. It’s not by any means an outstanding record but I personally consider it a step forward in the correct direction. Even though a little bit of variety would be more than welcome. Personally, I would strongly recommend a more dynamic instrumentation to make the music more interesting. Anyway, 'Entering a Timeless Winter' can be enjoyed if you dig this style and have the appropriate mood to immerse yourself in this anthem of endless despair. (Alain González Artola)

(ATMF - 2017)
Score: 55

venerdì 23 febbraio 2018

Arallu - Six

#FOR FANS OF: Black/Thrash, Melechesh
Hailing from the urban settlement called Ma'aleAdummim in Israel, Arallu is a five-piece devoted to black/death metal that has been around the metal underground for twenty years. The band got the name Arallu from the Mesopotamian mythology, as it was the name of the underworld kingdom ruled by the goddess Ereshkigal and the god Nergal, where the dead are judged. Arallu's music revolves around the traditional ancient Middle Eastern melodies of fellow countrymen Melechesh, with the high-speed savagery of bands like Angelcorpse and Blasphemic Cruelty, and the atmospheric feel of legendary acts like Immolation and Incantation.

Last 2015 the band released a record called 'Geniewar', and that opus had solidified Arallu's already known talent to the underground extreme metal community. 'Six' is the band's sixth full-length studio album and overall their ninth material released. This release offers the listeners a very stunning infusion of occult black metal with the ancient Sumerian and Middle Eastern sound. The riffs found here will satisfy the listeners with its frenzy melodic tremolo picking that is intertwined with some eerie folk instrumentation. These elements in the guitar section, thrown in with a few folk instruments such as a saz and a darbuka, reveals how the band had successfully stripped metal down to its core adding a personal touch of their own special flair.

But that's not just what the guitars offer here as a labyrinth of aggressive and tormenting crisp guitar riffs also accompanies the songs in this offering. The evident and audible bass line gives a really pleasant mattress for the guitars as it supports them and it provides that extra punch and low-end heaviness to the overall outcome of Arallu's music. It basically lies steadily beneath the guitars as it backs them up with some thick lines that give a more deep feel to the strings and dispenses an ominous atmosphere to the tracks. The drum section also catches the audience's attention with a variety of destructive pummeling double bass blasting to some Middle Eastern tribal drumming that helps a lot in terms of keeping the atmosphere intact.

On the vocal department, the record is filled with some hale and hearty high-pitched piercing shrieks and screams which create a dark and raw soundscape. These vicious shrieks are sometimes jacked up with some uncanny backing vocals that tie together the brutality of extreme death and black metal music to the ancient Middle Eastern scales of the material. 'Six' also parades the band's strongest production to date in their twenty years of existence. Each track in this opus sounds more well-rounded and very lucid than their previous releases, but at the same time, they sound harsh and aggressive that it utterly satisfy the fans' desire to find a memorable black/death metal album.

Overall, although 'Six' may be a typical album from an extreme metal band coming out from Israel, its music takes a different direction on its’ way to epoch-making symmetry. Arallu had created a menacing and atmospheric beast in this style of metal with their release of this varmint offering. These Israelis had put out a savage album that is hardly comparable to its predecessors. If you fellas haven't gotten a copy of this record yet, then you better go and get yours now. (Felix Sale)
 
(Transcending Obscurity Records - 2017)
Score: 75

https://arallu.bandcamp.com/album/six-folk-black-thrash-metal

giovedì 22 febbraio 2018

Drug Honkey - Cloak of Skies

#FOR FANS OF: Psychedelic Death/Doom
Every evening cars pull up and park in front of my house, yet no one is here to visit. Instead, as the average societal drone prepares for a relaxing night, the twilight shift begins for the human excrement with which I have the misfortune of sharing a fence. Itchy, sniffling, pale-faced denizens of the darkest corners of this town descend upon a hapless sleepy street searching for their choice chemicals. Once in a while, in a fit of desperation through intense withdrawal, the neighbor's yard is invaded with screaming and the sounds of windows being pounded all around the property. This is but a taste of my front row seat to a reality that this band reflects as Drug Honkey directs its delirium through distortion, capturing the dragon and watching it decay in a pit of its own delusion.

'Cloak of Skies' aims to tackle the slow, undesirable, and unending delirium of falling into a drug addled demise. Where Black Sabbath overdosed on heroin in “Hand of Doom”, Drug Honkey has found an even more potent opiate concoction to nod off on. Laced with fentanyl, the band slings junk that is best left to an intimate album setting because “Pool of Failure” would make for a boring live show. Still, many may want to get their fix from the source, and “Outlet of Hatred” visits that skeevy squalid slum, like spending a night in a roach motel bordering an industrial park. Train horns blow by in frequent intervals, the interminable pounding of a headboard against a shared wall keeps generic paintings applauding the local prostitution economy, and the stench of pickup truck exhaust invades the gaps and cracks of the curtained window, intermixing with old cigarette smoke to remind you just how thin a building can be built while remaining within the engineering specifications of the municipality. The only stability one may have throughout Drug Honkey's journey is a knowledge that the possibilities are endless when it comes to scrounging up the cash for a fresh fix. Evenings are spent dining on mouthfuls of dick and ransacking humble homes to hock other peoples' possessions for far lower than an appreciable resale value. Yet with every fresh syringe of vein-pumping toxicity, “The Oblivion of an Opiate Nod” falls farther away as death creeps closer.

'Cloak of Skies' is a journey into damnation by way of self-destruction. The album is slow and dingy with growling vocals, psychedelic moments, and loud gravely guitar rhythms while leads scream in and out of each song in a kaleidoscope of synapses showering in endorphins. There is such a large swath of atmosphere and so much open delirious space that this band would probably not work well in a live setting, but on a recording comes across as addled and hopeless as hitting rock bottom, curled in a corner of a strange basement, and fading away into nothingness. So tie one off and join the epidemic, but don't expect to come back from this binge because Drug Honkey promises no NARCAN. (Five_Nails)

Aura Hiemis - Silentium Manium

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Ecco arrivare dal Cile l'ennesima one-man-band, capitanata da V., factotum di questi Aura Hiemis, in giro addirittura dal 2004 ma che per il sottoscritto rappresentano invece una novità, il che è strano considerato che all'attivo hanno ben quattro dischi, uno split ed un EP. Cercheremo di rifarci con l'ascolto di questo 'Silentium Manium', lavoro uscito a dicembre 2017 sotto l'egida della prolifica Endless Winter, ormai diventata sinonimo di funeral-death-doom. E Mr. V. (che ha peraltro un passato nei Mar de Grises che conosco invece assai bene), qui supportato da Lord Mashit, non tradisce le attese, forte di un lavoro dedito ad un inquietante e malinconico sound che con i dieci pezzi di questa release, riesce a trasmettere tutto il proprio pathos e dolore interiore, attraverso passaggi musicali lastricati di un profondo senso di pesantezza e disagio. Lo dimostrano i fatti: subito dopo l'intro strumentale di "Maeror Demens I" che insieme alle parti II, III, IV e V costituirà degli acustici bridge tra un pezzo e l'altro, sopraggiunge "Cadaver Fessum", esempio indefesso del monolitico sound proposto dai due musicisti di Santiago. Suoni a rallentatore, con riffoni inferti ogni cinque secondi e dilatati all'infinito, tastiere da incubo e vocalizzi da orco cattivo, raffigurano e certificano la proposta degli Aura Hiemis. Nulla è comunque lasciato al caso: il suono bombastico, gli arrangiamenti, l'ampio spazio affidato alla componente strumentale che dà enfasi alla drammaticità e al climax che s'instaura nel corso dell'ascolto di 'Silentium Manium'. Mi stupisce comunque l'originale approccio della band nel proporre la propria visione di doom: un esempio concreto è offerto da "Sub Luce Maligna", breve, quasi completamente acustica, sembra strizzare l'occhiolino ai primi Swallow the Sun. Analogamente fa "Between Silence Seas", e a questo punto deduco che sia il vero marchio di fabbrica degli Aura Hiemis per prendere le distanze dalla massa, che affida dei suoi quattro minuti spaccati di musica, la metà a suoni acustici e i rimanenti due alle sole chitarre, escludendo del tutto la componente vocale. Ma la cosa si ripete anche nella successiva "Frozen Memories", il che mi lascia ancora una volta perplesso perchè alla fine, "Cadaver Fessum" e la tremebonda ma atmosferica "Danse Macabre", sono gli unici episodi funeral doom del disco, in quanto il resto è un nostalgico flusso di suoni minimalisti, acustici e nostalgici. Ah, ultima segnalazione: il disco contiene dieci tracce, ma il lettore ne visualizza 11, questo perchè c'è la classica ghost track (quanto adoro ancora questi giochetti) che mostra un abito ancor diverso per i nostri, che partono da una ritmica quasi post black per poi affidarsi ad un suono più pulito e diretto che va a braccetto con l'utilizzo delle vocals, qui meno catacombali. Che stiano volgendo lo sguardo verso altri lidi? Lo scopriremo rimanendo sintonizzati sul canale degli Aura Hiemis. (Francesco Scarci)

mercoledì 21 febbraio 2018

Omza - Otto Maddox Zen Academy

#PER CHI AMA: Hard Rock/Post Grunge
Gli OMZA sono in cinque e sono di Trieste, una band giovane, matura e con un sound che convince e ammaglia sin dai primi minuti di rotazione del loro nuovo album 'Otto Maddox Zen Academy'. Ma andiamo con ordine. La band bazzica l'underground da qualche tempo anche se con nomi diversi e quest'album non fa che raccogliere i brani scritti finora e pubblicati da Brigante Records e Vollmer Industries. Il digipack è del tipo extra lusso, due ante in cartonato super pesante ed un booklet a ben sedici pagine con un artwork pulito e moderno dai toni scuri e netti. Le tracce sono nove e sono un vero e proprio excursus musicale tra rock, punk e pop, fusi tra loro in maniera convincente e dirompente. In "Birds", la opening track ha l'appeal prettamente rock venato di suoni british, dove i riff di chitarra fanno da spina dorsale alla traccia, ed insieme all'ottimo lavoro di batteria di basso, regalano un groove potente e filante. Accelerazioni, break, assoli e quant'altro in poco più di tre minuti e mezzo, in una canzone che racchiude gli OMZA e ne fa da manifesto musicale. "Motivational #1" è meno ammiccante, i toni si tingono di scuro e i pattern si fanno apprezzare per la loro dinamicità. Il vocalist ha un ruolo determinante come in tutti i brani, grazie alla sua timbrica sospesa tra Pierpaolo Capovilla ed Ozzy, che s'incastra perfettamente nel sound dei nostri e li rende riconoscibili dopo pochi secondi. Ottima anche la pronuncia, fondamentale se si vuole avere un appeal internazionale come quello cercato dalla band triestina. I testi invece non si spingono mai oltre al pop, peccato perchè avrebbero dato maggior spessore ad una produzione già di per sé molto buona. L'energià prorompente della band continua in "Time Machine", altro brano profondamente british rock che ricorda i vecchi Radiohead, ma meno sperimentali. Si fa apprezzare il break che rallenta e incupisce il pezzo che non vuole essere che una bella ballata spensierata, con bei riff di chitarra e arrangiamenti puliti. L'album chiude con un tributo al Duca Bianco e lo fa rivisitando un classico come "Moonage Daydream": il pezzo è sicuramente piacevole grazie ai suoni che dopo quarant'anni hanno fatto passi da gigante, ma si sente la mancanza di un tocco di glitter, quel qualcosa che ti fa scattare la scimmia e ti dice che il confronto con l'originale è stato superato con successo. Gli OMZA sono una band che lavora bene sui pezzi e produce bella musica, mettendoci pathos e sudore della fronte. Alla fine 'Otto Maddox Zen Academy' è sicuramente un buon album che andrebbe ascoltato dal vivo per poter meglio apprezzare quella chimica che dovrebbe crearsi tra band e pubblico, quella che non passa attraverso le cuffie o gli speakers. (Michele Montanari)

(Brigante Records/Vollmer Industries - 2017)
Voto: 75

https://omza.bandcamp.com/album/otto-maddox-zen-academy

domenica 18 febbraio 2018

Shattered Sigh - Distances

#PER CHI AMA: Death/Doom, primissimi Anathema
Dall'assolata Barcellona non poteva che giungere un album di solare... death doom. Si ringraziano pertanto i gentilissimi Shattered Sigh, qui al debutto, per regalarci il loro spaccato di suoni deprimenti provenienti dalla Catalogna. Sei tracce rilasciate per l'etichetta russa Endless Winter che per questo genere di sonorità, ha ormai affiancato la più che navigata Solitude Productions. Il disco si apre con le plumbee atmosfere di "Under Your Slavery" e le sue tastiere celestiali che, accanto ad un riffing corposo e pesantino e delle vocals catacombali, costituiscono l'architettura sonora degli Shattered Sigh. Per fortuna che si affiancano anche delle clean vocals che con una massiccia dose di keys, stemperano un animo che talvolta sembra propendere verso tendenze funeral. Le melodie sono comunque buone, seppur elementari e talvolta ridondanti, ma le qualità ci sono tutte e i margini di miglioramento direi notevoli. Per i nostalgici di 'Serenades' dei primissimi Anathema, date pure un ascolto a "Timeless", avrete da che versare lacrime nel ricordare quei vecchi tempi di decadenza ormai finiti nel dimenticatoio di molti, ma non del sottoscritto. E forse anche il sestetto catalano deve ricordare bene la lezione dei fratelli Cavanagh, visto che tra lugubri e funeree ambientazioni, votate ad un catartico sound di dolore e disperazione ("1214"), pezzi più "ariosi" e movimentati (leggasi l'omonima track "Shattered Sigh") o tracce dall'andamento più ritmato ("Alone"), alla fine gli Shattered Sigh sembrano proporre una rilettura piuttosto interessante degli Anathema di quei primi mitici anni '90. A chiudere ci pensa la drammatica "Thou Say Goodbye", song che rafforza il valore di questa release e che consente ai sei musicisti barcelonins di dire la loro nell'affollato mondo del death doom melodico. (Francesco Scarci)

Forgotten Woods - The Curse of Mankind

BACK IN TIME:
#FOR FANS OF: Atmospheric Black Metal, Burzum
I discovered this album ten years ago and it was already twelve years old at the time, twenty-two years after its original release and it is still one of the greatest works in black metal history. Along with a few bands such as Burzum, Forgotten Woods was the pioneer of the now called “depressive/suicidal black metal”, but if you listen to this mastodon record, you’ll find barely a gleam of that genre, the most notable being Thomas Torkelsen vocals, but 'The Curse of Mankind' is aggressive, heavy, ever-changing, challenging, epic and captivating.

A black metal masterpiece far away from the DSBM dull records, since it is not focused on those topics proper of this - at the time - unknown genre, 'The Curse of Mankind' is more melancholic, artistic and progressive. Every aspect of this record seems to be there for a specific reason, you can feel that the musicians were comfortable with each other, that the ideas flowed between them naturally. And even when the production was low-fi, you can listen and appreciate every instrument, even the bass line is perfectly listenable, the addition of acoustic guitars mixed with the raw distortion of the electric ones, make a perfect “forest-ish” ambiance. I feel that in this new edition where they improved the mastering a little, and the vocals, at least to me, sound better.

I don’t like labeling Forgotten Woods music as depressive black metal, because as you listen to their catalog, you realize their sound was violent, full of strength and passion, nevertheless they also expressed their sorrows through that music, with beautiful melodies and complex passages, so I have always said, Forgotten Woods plays melancholic black metal, a genre that obviously is non-existent, but I could name bands in the same vein being these ones: Dawn, Peste Noire, Drudkh, In the Woods… (first record), Miserere Luminis, Nagelfar (Germany), Angmar (France), Baptism (Finland), Vinterland and more; all of them share those aspects of aggressiveness, complex compositions, epic long hymns and sadness, but never falling into the depressive/suicidal department. Their music is, as I said, melancholic. Take 'La Sanie des siècles - Panégyrique de la Dégénérescence' the first album by Peste Noire, it is raw, brutal, enigmatic and ruthless and even so there is beauty in the music, acoustic guitars, calm parts, moments of sadness and mourning, just followed by terrific guitar riffs that make you shake your head and start head-banging. And I could say the same of every other band mentioned before.

“Overmotets Pris” is a perfect example of the melancholic black metal genre I was talking about; it starts with a blast beat along with some trve black metal tremolo, after a few compasses it’s followed by a change of pace to let the grim vocals howl your ears, and that’s enough to create ambient, the next you know is they got back to the first tremolo for speed, after that you feel a very dark atmosphere emerging, but out of nowhere the rhythm change again, a beautiful arpeggio in acoustic guitar escorts the electric guitars in a slower tempo, clean spoken vocals hit you like a thunder, a new change, an enjoyable black metal/punk drumming follows, and your head is dancing to the music rhythm; we are only 3 minutes inside an almost 13 minutes length song, and it keeps growing, it keeps amazing you, there is no repetitiveness, no dull song writing, no boring structures in the music, is unpredictable, it is overwhelming. Not even a single second is wasted. There is beauty in darkness.

And the ending… God damn it! That ending! Near the minute nine of the song, you are already familiar with their music, they use that beautiful acoustic arpeggio from the beginning again and you are expecting the end as if an orgasm, as if it enough, but it is never enough for this geniuses, a black metal riff of war, full of power destroys the calm and it gives the song a new path, and it is not over yet, we get a new riff, the drummer is playing as if there is no structure in the music, then blast beats, all the strings creating a harmonic chaos, the vocals calling you from the abyss - silence - a bass line, here we go again with a malevolent riff, and before you know it, the song is over.

To me the only thing DSBM bands learned from Forgotten Woods was the vocal style, I’d like to know a depressive black metal band with such rich songs and complex music. Back then to my time a listened to a lot of DSBM, I know that scene, and there are great bands like Nyktalgia, Gris, Mourning Dawn, Penseés Nocturnes, Hinsidig just to name some of them, but check them in the encyclopaedia or their own pages and they play black metal, melancholic black metal if you ask me. Bands like Happy Days, Make a Change... Kill Yourself or Trist make slow, simple, long tedious songs, even Nocturnal Depression plays black metal! The only two true depressive bands I know capable or greatness are Silencer and Eiserne Dunkelheyt but they are long dead, I could mention Thy Light but they have only one song that is a monument to the genre. Anyway, I can’t see any other aspect DSBM bands took from this particular record to make it its flag as the pioneer of that music style.

One thing you need to know about 'The Curse of Mankind' is that it has a very particular song. “With Swans, I’ll Share My Thirst” is an unexpected piece of music in a black metal album. It is an instrumental song, after a lot of thinking I couldn’t decide on a genre, but it is just beautiful, you could say is classical rock, post-rock (ahead of its time) or even a folk/post-rock/avantgarde song, sounds crazy I know, but musically it is a piece of art, it starts sad and sullen, relaxing almost, but at the end is full of joy and grace, a mouth-organ (or harmonic) is the protagonist of the last part of the song. The first time I listened to it as a fifteen years old who wanted to be trve, I thought it was the weirdest thing it ever happened to an extreme metal album, he even thought it was a mistake, nevertheless he knew it was pure art, he knew it then and he knows it now. One of my lifetime favorite songs.

To close this masterpiece, we get the malevolent “The Velvet Room”, a song with a strong, evil leading guitar riff that takes you to hell, but enough catchy to enjoy and headbang to it. The drums in this song are superb, kind of a jazz effort; I challenge you to predict them even after listening to the song several times. A true masterwork.

In conclusion, 'The Curse Of Mankind' is a must listen not only for black metal enthusiast, but for extreme metal fans in general, as it has everything a metal album must have, great guitar riffs, long songs, terrific vocal efforts, a cohesive collection of tracks, challenging paces and rhythms and some kind of magic it'll make you say it is a classic. (Alejandro Morgoth Valenzuela)

Stars at Night - S/t

#PER CHI AMA: Glam/Hard Rock
Già osservando la copertina del disco (un tributo, o più precisamente uno spudorato morphing tra 'Hysteria', Def Leppard classe 1987, e 'Dynasty', Kiss classe 1979) è facile capire dove diavolo siete capitati. Ora non vi resta che capirne il perché. Efficaci chitarrismi Iommi-stoner (efficaci, sì. "Get Up" per esempio ha il groove distante ed elettromagnetico di "Wheels of Confusion") uniti a un'attitudine glam-rissaiola ("Control") a tratti quasi virante verso certo post-punk ("When I Feel Free" per esempio ha più di qualcosina dei Bauhaus) o disco-glam (in "Searching" e in "When I Feel Free" potreste individuare meno di qualcosona dei Kiss più danzerecci). Il giro di accordi che introduce "Shake Me" ripercorre improvvidamente nientemeno che il celeberrimo incipit della quinta di Beethoven. La voce carismatica e impertinente di Irene Quiles si colloca groosso modo, dici poco, dalle parti Ann Wilson (sentite "Spellbinding Love", l'episodio più diabolicamente pop dell'album) ma una produzione impastata (non ruvida, garage o lo-fi. No. Impastata, semplicemente impastata) rischia di dilapidare il buon potenziale delle quattro fanciulle losangeline. (Alberto Calorosi)

(GoDown Records - 2016)
Voto: 70

https://www.facebook.com/STARSATNIGHTBAND1/

venerdì 16 febbraio 2018

Visionoir - The Waving Flame Of Oblivion

#PER CHI AMA: Dark Wave/Progressive
Diciannove anni fa compravo la cassetta di 'Through the Inner Gate', demotape di debutto di Alessandro Sicur, allora accompagnato da Mattia Pascolini, in questo progetto denominato Visionoir. Quasi cinque lustri di silenzio, e poi dall'oggi al domani, ecco arrivarmi a casa il cd d'esordio della band friulana, 'The Waving Flame Of Oblivion', uscito autoprodotto lo scorso ottobre. Ebbene, quando si dice che di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, immagino che sia soprattutto applicabile al buon Alessandro che è scomparso dai radar per diverso tempo per dedicarsi ad altri progetti. La proposta musicale del mastermind di Udine prosegue laddove aveva iniziato in quell'esordio del '98, affinando però tecnica e suoni, ma continuando comunque a proporre un rock dark avanguardistico sorretto da pesanti inserti elettronici che si palesano sin dall'opener "Distant Karma", esotica suite strumentale che si muove tra lunghi trip psichedelici, fughe di chitarra e splendide melodie space rock. In "The Hollow Men" esordiscono anche dei samples vocali che ritroveremo lungo tutto il disco ma che in realtà non sono altro che le voci registrate di alcuni grandi poeti del '900 (in questo caso T.S. Eliot), mentre le chitarre in simbiosi con i synth, orchestrano elaborati intrecci di musica progressiva volta ad intrattenere con eleganza gli ascoltatori, grazie a giochi ritmici in chiaroscuro, saliscendi chitarristici e una bella dose di cambi d'atmosfera. L'unica cosa che alla fine mi fa storcere il naso è proprio l'utilizzo di quella voce robotica un po' troppo asettica per i miei gusti. Niente di cosi grave, visto che l'inizio di "7ven" mi esalta non poco, evocandomi i primi Depeche Mode, anche se poi le melodie mediorientali griffate dai riff di Alessandro, regalano momenti di totale distacco dalla realtà, collocandoci in una qualche kasbah marocchina. "The Discouraging Doctrine of Chances" è narrata dal poeta americano Ezra Pound, e mostra una ritmica più aggressiva, anche se i giochi di luce delle chitarre, in uno stile vicino agli Orphaned Land, vengono smorzati dai gentili tocchi di tastiere. Il disco è intrigante, inutile girarci intorno e "Shadowplay" dimostra ancora la sapienza e l'originalità con cui il polistrumentista friulano, si (e ci) diletta con una miscela di rock progressive settantiano e suoni decisamente cosmici che ci introdurranno alla terza song "cantata", questa volta da Antonin Artaud, in una traccia più compassata, seppur mostri una certa liquidità nella sua effettistica e un'aura comunque più intimista rispetto alle precedenti. Un pizzico in più di malinconica invece la ritroviamo in "Coldwaves", che perde gli ultimi residui metallici dei Visionoir a favore di sonorità a cavallo tra shoegaze e post rock che diventeranno più palesi nella sorprendente "A Few More Steps", declamata questa volta dal buon vecchio Dylan Thomas in un incedere dapprima nostalgico, quasi drammatico e che alla fine tramuterà in sonorità più ansiogene. Il nono e ultimo pezzo è affidato alla bonus "Godspeed Radio Galaxy" che condensa in oltre 11 minuti tutto il repertorio electro-rock dei Visionoir, tra derive prog, larghi spazi d'atmosfera, partiture heavy e una bella dose di personalità che pensavo fosse andata perduta in questi ultimi vent'anni. Ben tornato Alessandro. (Francesco Scarci)

martedì 13 febbraio 2018

Digir Gidim - I Thought There Was the Sun Awaiting My Awakening

#FOR FANS OF: Cosmic Black, Deathspell Omega
I decided to check this record out for the great cover art and the superb title, I mean 'I Thought There Was the Sun Awaiting My Awakening' sounds truly epic and interesting. However, my expectations were too high for this album. Digir Gidim plays a dissonant black metal with cosmic and space influences from the genre, also evoking bands such as Deathspell Omega and The Ruins of Beverast, just to mention a couple. Their music is dense and complex at times, but repetitive and just too long in some other parts. And this can be a problem, I struggled to listen to the whole album at once, the massive tracks and the music production makes the album way to heavy and boring throughout.

The first track is twelve minutes long, I personally enjoy long anthems and long records, but I couldn’t properly enjoy this one due to the structure of its songs. “The Revelation of the Wandering”, for example, plays with the same idea over and over again, this done properly can create a masterpiece but a gifted and experienced mind is needed to succeed in this craft. "Det Som En Gang Var" from Burzum’s 'Hvis Lyset Tar Oss' is a great example of a repetitive but great song.

The production and the mix of this work is decent for the genre, nevertheless after several sessions listening to the album with high-quality headsets, I couldn’t determinate if the drums were programmed or played with a proper drum set, at times the sound of the percussions is sharp and organic such as the double bass passages, but the blast beat sounds electronic at full speed. Maybe it is just the mastering and echoing sound they used for the final work, or Utanapištim Ziusudra is a capable drummer I’m misjudging.

“The Glow Inside the Shell” is the highlight of the album, the best song in music, structure and composition. With this track Digim Gidim delivers what — I think — they wanted to do with the whole album: truly enjoyable epic music that invites to reflection and deep thoughts, forcing the listener to put all his attention to every single note they play which are leading our journey. Clean chants, dissonant guitars, bestial drumming and a distant synth create the cosmic ambiance the art cover and the album title evokes.

'I Thought There Was the Sun Awaiting My Awakening' is filled with good ideas and great execution of the black metal art. However, it fails at delivering reflective and meditational long enjoyable anthems, saved for a couple outstanding songs, the album is a good debut album that could have been a marvelous one if they only had shortened some songs and sacrificed some notions and vices of the genre. Anyway, this band is a promising addition we must keep an eye on.(Alejandro Morgoth Valenzuela)


Petrolio - Intramonia: Noises for Angela

#PER CHI AMA: Drone/Noise Sperimentale
La Low Noise Productions promuove progetti sonori di confine accomunati tra loro dalla predilizione verso generi come l'IDM, il noise, la techno, l'industrial, l'ambient e la sperimentazione. Una fucina di suoni interessantissima per un'etichetta underground che suscita grande interesse per i ricercatori di nuovi intrugli rumorosi. Tra questi vi troviamo il folle prodotto della one man band italiana, Petrolio, intitolato 'Intramonia: Noises for Angela'. Un EP assai suggestivo in perfetta sintonia con lo stile della Low Noise, fatto di tre pezzi dalla media lunghezza, identificati con il solo titolo di "Work no. 1", "Work no. 2" e "Work no.3", a sottolineare il significato occulto ed impenetrabile di questo lavoro partorito probabilmente tra le nebbie, in una casa isolata dal mondo e in preda a delirio psichico. La musica rotea su circolari forme elettro rumoristiche che si muovono a vortice sia che si presentino come drone o come riff acidamente alterato o sottratto a qualche band digital core. Il sound è sintetico, plasticato e di umore grigio, non esageratamente dark ma soffertissimo, sempre pronto al collasso, carico di sospensione e tristezza cinematica, notevole è la stretta parentela con la colonna sonora del cult film "Eraserhead". Il suo incedere è lento e i ritmi sono minimali quasi a voler tentare di esportare il digital noise in territori funeral doom. Stupendo il terzo brano che devasta l'ascoltatore portando in un impasto dark/industrial, lacerato, rallentato e sporco, un carico di tensione che alla fine risulta una tortura emotiva, tra echi dei primi Front 242, Throbbing Gristle e Nitzer Ebb con un lieve ma splendido accenno di voce femminile. Le registrazioni sono basate su performance live da parte dell'artista Angela Teodorowsky. Il progetto Petrolio è la reincarnazione di Enrico Cerrato, musicista attivo in vari ambiti musicali estremi dal metal al jazz noise punk, che qui si ripresenta dopo l'ottimo, 'Di Cosa si Nasce' ed il precedente, 'Il Destino d e l'Hombre', con un lavoro cerebrale e ancor più destabilizzante, quasi una forma di resa e conseguente prigionia nei confronti di un ambient assassino pieno di circuiti e transistor impazziti, un'ossessiva colonna sonora trasmessa dal profondo degli abissi. (Bob Stoner)

sabato 10 febbraio 2018

Def&Kate - I'mperfect

#PER CHI AMA: Kraut Rock/Avantgarde
Quando c'è di mezzo Bob Stoner, non si può mai stare tranquilli su quello che salterà fuori da una delle sue produzioni. Dopo i progetti Cardiac, Agatha, De La Croix e Shelly Webster Trio, ecco la nuova creatura partorita dallo storico scribacchino del Pozzo dei Dannati, i Def&Kate. 'I'mperfect' è un lavoro di cinque deliranti pezzi, una release quasi completamente strumentale (direi interamente se escludiamo le poche parole proferite all'inizio di alcuni brani e nel finale della song di chiusura) che già dalla opening track, "Illusion Est", lascia intravedere spiragli di follia del buon Bob, che con questo nuovo progetto, si muove tra ritmiche a cavallo tra stoner e pura psichedelia settantiana, miscelate con divagazioni elettro-avanguardistiche care alla scuola kraut-rock. Oltre all'ipnotico sound delle tastiere, che non fungono decisamente da riempitivo, ma anzi assurgono al più rilevante ruolo di star, vorrei sottolineare lo straordinario lavoro in sottofondo di un basso che propaga vibrazioni tonanti, sostenute da riff a tratti ubriacanti, e fughe lisergiche nella migliore tradizione "doorsiana", come accade ad esempio in "Virgo Without Mother", song davvero intrigante, soprattutto nel suo finale che coniuga l'ambient allo space rock. Chissà di quale pericolosa sostanza si saranno fatti i nostri per concepire le note sperimentali della lunga "Memento Mori", undici stralunati minuti tra chitarristici strali ipnotici, break atmosferici e saliscendi ritmici più vicini all'effetto provocato dalle spaventose montagne russe dalle quali, oltre al rilascio di una elevatissima dose di adrenalina, è lecito aspettarsi anche una copiosa vomitata. L'ascolto della terza song, unita ai suoi continui cambi di tempo, umore e suggestioni varie, provoca interferenze cerebrali che rischiano di nuocere le persone deboli di cuore. Fortunatamente "Omniscience" è più classica nel suo incedere prog rock anche se la band veronese si diletta in alcune schermaglie ritmiche nella seconda metà del brano, a tratti decisamente tirato e selvaggio. A sigillare il disco, arrivano i quasi 12 folgorati minuti di "Frakture & Victims", un'altra canzone che prosegue sulla linea noise rock sperimentale sin qui tracciata dai Def&Kate, che tra l'abuso di funghi allucinogeni e drink a base di mescal, hanno pensato bene di rilasciare questo concentrato di folle musica sciamanica. Impavidi. (Francesco Scarci)

(Gwenedmusic - 2018)
Voto: 75

Deadspace - The Liquid Sky

#PER CHI AMA: Black/Shoegaze/Depressive Rock, Novembre, Katatonia
È stato un po' un amore a prima vista quello che ho avuto con gli australiani Deadspace: ho dato un ascolto quasi per sbaglio al loro ultimo 'The Liquid Sky' e in un battibaleno, mi sono ritrovato ad aver acquistato la loro intera discografia. Perché mai penserete voi? Ebbene, vi basti premere il tasto play del vostro lettore e dopo l'intro, affidata a "The Aching...", farvi rapire dalle splendide melodie di "Void", cangiante, melodica ed aggressiva in un connubio artistico in bilico tra post-black e sonorità più intimistiche, tipiche dei nostri Novembre, e ancora fughe in territori progressive (splendida a tal proposito la sezione solistica) che appunto, hanno fatto in modo che mi perdessi la testa cosi precocemente per questo ensemble originario di Perth. Più cupa "Below The Human Scumline", forte di un'ottima sezione ritmica e di un dualismo vocale scream/clean che ne conferisce dinamicità e drammaticità. "Reflux" richiama per linee melodiche 'Brave Murder Day' dei Katatonia, sebbene l'irruenza musicale sfoci ancora in partiture black, stemperate però da cori puliti che ne fuorviano il risultato complessivo. La durata non eccessiva dei brani (che si assesta sui quattro minuti, a parte un paio di picchi oltre i sette) agevola non poco l'ascolto e l'assimilazione della proposta sonora dei Deadspace, che anche in "The Worms Must Feed" fanno stropicciare gli occhi per l'eleganza mista a ferocia. "Kidney Bleach" è una ballad, si avete letto bene, in cui fa la sua comparsa anche una gentil donzella, Portia Gebauer, che ben duetta con il fratello Chris, frontman della band. Con "Comatose" si esplorano i territori del dark-depressive rock, in una song che vede una seconda ospitata, Drew Griffiths dei Ur Draugr, e che si dilaterà nella suadente strumentalità di "Only Tears", prima del gran finale affidato alla title track. Gli ultimi minuti della storia narrata dai Deadspace (trattasi di un concept album) culminano con un'altra song dall'inizio rilassato che ben presto sfocerà in un arrembante progressione mozzafiato sempre a cavallo tra black, rock dalle tinte progressive, shoegaze, dark e gothic, che sanciscono l'emozionalità di un disco davvero interessante e che per lungo tempo ci darà modo di parlare di questi notevolissimi Deadspace. (Francesco Scarci)

(Talheim Records - 2017)
Voto: 85

Nordlumo - Embraced by Eternal Night

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Ea
Ho ricevuto le nuove release targate Endless Winter e per la scelta della prima recensione, ho preferito lasciarmi guidare dalla cover più suggestiva. I russi Nordlumo (in realtà una one-man-band guidata da Nordmad) hanno vinto alla grande con il loro nuovo 'Embraced by Eternal Night', grazie ad un'aurora boreale che avvolge un enigmatico tutt'uno formato da una chiesa incastonata in una montagna, strana combinazione. Il musicista siberiano, seguendo poi la politica tracciata dalla propria label, propone un cupissimo funeral doom che si esplica attraverso sei tracce, di cui l'ultima, "Weathered", è una riuscitissima quanto nostalgica cover dei finlandesi Colosseum. Il disco parte alla grande con la lunga "The Autum Fall", oltre otto minuti di suoni decadenti, dove la voce del mastermind di Severomorsk, non si palesa mai, lasciando invece largo spazio a melodie oscure. Per godere dei vocalizzi in growl del bravo factotum russo, basta giungere alla seconda traccia, dove il funeral s'incastra meravigliosamente con passaggi sognanti, a tratti ambient, corredati dai vocalizzi imperiosi del frontman, srotolati in oltre 23 minuti di musica che incorporano un profondo struggimento, segno di un forte disagio interiore, risultando alla fine assai spettacolare. La traccia è infatti cosi varia nella sua progressione, tra cambi di tempo, accelerazioni, squarci melodici e angoscianti rallentamenti abissali, che alla fine delineano per sommi capi la proposta musicale di Nordmad, peraltro encomiabile anche a livello strumentale. "Scripts" ha un ritmo più baldanzoso, per quanto questo aggettivo essere applicabile possa in un ambito cosi funereo. Comunque, la song è più ritmata forse in apparenza meno varia (non fosse altro per un catacombale pianoforte che irrompe a metà brano), mentre le vocals si dilettano tra un profondo grugnito animalesco, qualche urlaccio ed un tenebroso sussurrato. Il dolore alberga incontrastato anche in "Dreamwalker", un'altra maratona di quasi un quarto d'ora di lugubri atmosfere, ottime melodie a rallentatore evocanti un ipotetico mix tra Ea e Saturnus, dove fanno capolino anche delle clean vocals. A chiudere (ma ci sarà ancora tempo di gustare la spettralità della già menzionata cover dei Colosseum) ci pensano le celestiali atmosfere di "Millenium Snowfall" che confermano la bravura e la vena creativa del bravo Nordmad. (Francesco Scarci)

(Endless Winter - 2017)
Voto: 80

Fragarak - A Spectral Oblivion

#FOR FANS OF: Techno Death
One of the things I really like from Internet, is the chance of discovering bands from unusual metal scenes. Back in time, it was almost impossible to find them, but nowadays, it’s great to be aware about bands coming from very far countries. Something I also realized is that quality doesn’t know about political or geographic limits, which is great. 

A good example of this fact is given by the Indians Fragarak. The band´s initial inception goes back to 2011, when two young musicians, called Karikeya and Ruben, co-founded Fragarak, deciding to express their musical ideas. The band didn’t become a complete entity until the arrival of Arpit and Supratim. From the very beginning, the aim was to create a very intense sound, technically and melodically complex. Ideas were flowing constantly so in less than one year, the act was capable of releasing a very solid debut entitled 'Crypts of Dissimulation'; it was 2013. Their first effort received very good reviews which strenghtened their ambition to push the sound forward. 

Two thousand and seventeen was the year of Fragarak comeback, with the release of their sophomore album called 'A Spectral Oblivion'. The improvement is clear since the very first moment, even the artwork looks more elaborated and complex. Another aspect which is clear as soon as you listen to the album, is that the guys had tons of ideas to propose, considering that the new Lp contains eleven long songs, lasting more than 80 minutes. I am not a huge fan of such a long albums, but I must admit that Fragarak is capable of maintaining a good level through the whole work, which is something very respectable. Musically speaking, the release is a more refined work, although their early ideas haven´t changed. Their offering is a technical death metal with progressive metal influences, very rich details and with a gloomy and an atmospheric touch. Each song has many changes of time and twists, which made this album a gem, though it requires several listens to be fully enjoyed. “This Chasing Masquerade” is a good example of what I am saying, being one of my favourite tracks: Supratim´s powerful and solid growls are accompanied by excellent and intricate riffs with great melodies. Those melodies change from time to time, from the most brutal and complex sections to the most melodic ones. Apart from that, the ensemble tries to enrich their songs with some good arrangements, like acoustic sections or some choirs with quite somber clean vocals, as in the opener, “In Rumination I-The Void”, or in the epic track “Of Ends Ethereal”, that could represent fine examples of this. I do enjoy those arrangements because they give an atmospheric touch to the album. Due to its length, I imagine as a part of the concept behind the music, the band includes some short interludes which look like moments of calm in the middle of an oceanic storm. Those tracks are mainly acoustic and sometimes include also female vocals (the closer “Ālūcinārī IV-The Fall”) with an interesting ethnic touch. It’s really nice when a band coming from a country with a very different culture tries to include in their music, a slice of their heritage. 

In conclusion, Fragarak´s sophomore album is a step forward in every aspect. Both musically and composition wise, this is a very elaborated and consistent work. Furthermore, the production, which is excellent, only enhances the strongest aspects of the band´s music. My only little complain is related to the album´s length which in my opinion is a little bit excessive, but who can complain if the level is very good from the beginning to end? (Alain González Artola)

(Transcending Obscurity India - 2017)
Score: 85

giovedì 8 febbraio 2018

Electric Beans - De Retour en Noir

#PER CHI AMA: Punk Rock
La gradevolissima, fanculosa copertina Hellacotterizzata (avete in mente "Supershitty to the Max"? No? Molto male), ancorché un cicinino troppo nitida, tipo effetto aerografo, suggerisce atmosfere garage-punk, pareti annerite, odore di lubrificanti, diluente, piscio e muffa. Eppure la direzione intrapresa dall'album appare opposta, perlomeno concettualmente: un neoclassicismo rock che-più-neoclassicismo-di-così accompagnato da testi sagaci e decisamente ficcanti, al limite del comedy ("Jeudi" è la indovinata riscrittura di "Jodie", secondo singolo de Les Innocents, storica pop-wave band fransé anni-secondi-80. Mai sentiti? Nemmeno io). Altrimenti, street-punk americano dalle parti di Social distortion ("De Retour en Noir") o Ramones ("J'ai Perdu Mon Télephone") o blandamente punk-blues ("Berceuse Éléctrique"). I mid-tempo ("Moeurs Cathodiques", ma soprattutto "Jack") invece vi potrebbero ricordare un Meat Loaf rimbambito di croissant che frontmaneggia dei Guns n' Roses strafatti di pastis. Ascoltate questo terzo album dei Fagioli Elettrici mentre sistemate lo scaffale dei CD domandandovi come tradurreste in inglese il titolo dell'album, oppure mentre sistemate i vostri romanzi di Philip K. Dick in ordine cronologico domandandovi se per caso "do electric beans release magnetic farts"? (Alberto Calorosi)

Alex Cordo - Origami

#PER CHI AMA: Guitar hero, Joe Satriani
'Origami'. Raggiungere la semplicità attraverso una minuziona e complessa codifica della materia prima. Ci vuole pazienza e dedizione. Altruismo. Abnegazione. Occorre affinare la tecnica e poi nasconderla dietro la semplicità. A volte scoccia farlo. Ditelo a uno come Tortellozzo Malmsteen, per esempio. Ma il suono è bizzoso. Duro come pietra, talvolta. Serve un chitarrismo opportunamente cesellato. Serve esperienza. Servono riferimenti. Il guitar-rock anni '80-'90, qualche flavour di prog-metal tardo '90. Instrumental guitar rock. Il Joe Satriani più classico che potete immaginare ("Straight" e "Hands Up"), il John Petrucci più classicista che non riuscite a dimenticare ("Memories"?), il Ritchie Blackmore più permanentato che fareste di tutto pur di dimenticare ("Himalaya"). Soprattutto sensazioni hard & prog, s'è detto prima, ma anche melodic ("Sunny Day for an Opossum") e pure vagamente, molto vagamente post/math ("Above the Clouds"). O, se preferite, più massicciamente power ("The Car Test"). Allora, che ne pensate? (Alberto Calorosi)

Harmonic Generator - Heart Flesh Skull Bones

#PER CHI AMA: Grunge/Glam, Alice in Chains
Reggisen-ballatonze tardo-hair-metallare più (i Tesla con le dita nella presa di "I Feel Fine") o meno folkeggianti (i Bon Jovi dal parrucchiere di "By Your Side") di chiara derivazione zeppeliniana (il glam n' roll IV-zeppeliniano "Dance on Your Grave") intersecate a (opportunamente ammorbidite) istanze grungey (gli Alice in Chains che ascoltano 'Physical Graffiti' sull'ottovolante di "Lamb and Lion") ed estemporanee virate heavy/power (lo Ian Astbury con le adenoidi di "The End"). Il secondo album dei Generatori di Armoniche transalpini (il nome proverrebbe però da un vecchio singolo degli australiani Datsuns), in realtà un concept (quadri)tematico di settantaefottutamenteuno minuti spalmato su quattro ep in tre anni, seppur identitario, mette comunque in mostra una certa istrionica disinvoltura nel manipolare i sottogeneri in questione. Ma la produzione, solitamente appropriata nei numerosi momenti hair/glam, risulta eccessivamente nitida quando ci s'inzacchera nel grunge/comediavolo/nu-grunge. Per bilanciare, ascoltate questo disco a tutto volume con due boccali da birra sulle orecchie. E levatevi dalla faccia quell'espressione idiota. (Alberto Calorosi)

Descend Into Despair - Synaptic Veil

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Shape of Despair, Saturnus
Che aspettarsi da una band il cui monicker significa sprofondare nella disperazione? Di certo non sonorità solari, piuttosto direi suoni votati al depressive o al funeral doom. Ebbene, non serve essere troppo arguti per capire che i rumeni Descend Into Despair propongano simili sonorità, ma poi vedendo l'estenuante lunghezza dei pezzi, propendo più sulla seconda delle mie ipotesi. Obiettivo centrato. I sette elementi, di stanza a Cluj-Napoca, offrono infatti in 'Synaptic Veil', suoni decadenti che hanno colto l'attenzione della sempre più guardinga Loud Rage Music, che ha deciso di puntare sui nostri. Cinque brani per quasi un'ora di musica ad esplorare temi quali il suicidio, l'inquietudine interiore e la malinconia legata alla solitudine. Cinque brani dicevo, che esordiscono con le inquiete melodie di "Damnatio Memoriae", in un tourbillon emotivo di oltre 13 minuti che chiama in causa i grandi del genere, My Dying Bride, Saturnus e Shape of Despair su tutti; i primi forse per la scelta di affidarsi a clean vocals (ma non solo), i secondi per l'utilizzo di melodie ariose quanto malinconiche, i terzi per quell'aurea di pesantezza che ammanta l'intero lavoro e dispensa angoscia a volontà. Ecco tracciate quindi le coordinate della opening track, ma in generale di tutto un album che trasmette una forte animosità nell'anima ed un senso di smarrimento e tormento che logora da dentro. Sicuramente da sottolineare le più che buone atmosfere disegnate dal lavoro coordinato tra chitarre e tastiere, che regalano uno splendido break centrale nella prima traccia, ove peraltro compaiono anche le growling vocals del frontman Xander. "Alone with My Thoughts" presenta un incipit più etereo, sebbene la pesantezza e la lentezza del riffing, combinato all'utilizzo granguignolesco delle vocals, la renda ancor più mortifera dell'opener. Ma la scelta di utilizzare arpeggi acustici è assai comune nel corso del disco: eccolo servito anche nella terza "Demise", dove la struggente voce di Xander si combina con un riffing pulito, atmosferico, a tratti indolente, che lascia ampio spazio alla strumentalità dell'act rumeno, in magnifiche trame chitarristiche che ricamano splendide melodie autunnali e suggestivi momenti d'ambiente, che si ritrovano anche all'inizio della quarta "Silence in Sable Acrotism", ove trovano spazio anche soavi voci femminili e dove la lentezza dell'ensemble si fa più importante, soprattutto alla luce dell'ultima traccia da affrontare, i 14 minuti di "Tomorrow". La luce qui sembra spegnersi definitivamente, cedendo il posto alle voci da orco del frontman e ad una chitarra che lascia presagire solo brutti pensieri, quelli forse di un domani senza speranza. (Francesco Scarci)

sabato 3 febbraio 2018

Kayleth - Colossus

#PER CHI AMA: Stoner/Space Rock, Monster Magnet, Cathedral, Kyuss
Continua con il nuovissimo 'Colossus', il concept sci-fi dei veronesi Kayleth, ormai di casa da anni qui nel Pozzo dei Dannati. Il secondo lavoro, sempre edito dall'Argonauta Records, ha da offrire sessanta minuti di sonorità space/stoner, che non sono certo la più facile delle scampagnate da fare, soprattutto se ci sono ben 12 pezzi da affrontare. Si parte con "Lost in the Swamp" dove, accanto alla consueta ritmica ribassatissima, fanno capolino i synth ispirati del bravo Michele Montanari, mentre la voce di Enrico Gastaldo si muove sempre in bilico tra il buon Chris Cornell e qualcosa degli svedesi Lingua. Da sottolineare la preziosa performance alla sei corde di Massimo Dalla Valle, a districarsi tra riffoni pesantissimi e brillanti assoli. Bel pezzo, l'ideale biglietto da visita per questa nuova release del combo veronese. Si prosegue con "Forgive" e la sostanza non cambia: ottimo e vario il rifferama, abbinato all'imprescindibile componente eterea dei synth, e la voce di Enrico che questa volta cerca modulazioni vocali alla Kurt Cobain. "Ignorant Song" è un bel tributo agli esordi dei Black Sabbath, in grado di sprigionare una dose di energia sufficiente a scatenare un bel pogo. Diavolo, da quanto non se ne vedono. E allora lanciamoci via veloci ad assaporare la tribalità della title track (bravo a tal proposito Daniele Pedrollo dietro le pelli), una song più lenta ed oscura, in cui sottolineerei ancora il lavoro ritmico (le linee di basso di Alessandro Zanetti rilasciano traccianti da paura) e solistico dei nostri. "So Distant" è breve, veloce, uno schiaffone in faccia tra riff tonanti e l'elettronica ubriacante dei synth, con il frontman che canta principalmente su un tappeto ritmico sostenuto dal solo incessante battere del drummer. Forse un modo per cercare un contatto con gli alieni, quello proposto invece dal cibernetico inizio affidato a "Mankind's Glory", song ipnotica che evoca un che degli esordi dei Cathedral, in una song dal forte potere magmatico. Al giro di boa, ecco il lisergico inizio di "The Spectator" (dove io ci sento un che dei Pink Floyd uniti ai Linkin' Park, sarò pazzo?) pronto ben presto a lasciare il posto al più pesante stoner tipico della band italica. Altra mazzata in volto e siamo giunti a "Solitude", altra perla che vede nuovamente nella band di Lee Dorrian e soci (ma che affonda le proprie radici nel suono desertico dei Kyuss), i propri riferimenti musicali in una scalata musicale da brividi. Si conferma la bontà del songwriting, la produzione cristallina amplifica inevitabilmente la resa sonora ed una potenza che non resta a questo punto che assaporare anche dal vivo. Si arriva nel frattempo alla più lenta e ritmata "Pitchy Mantra", più litanica delle precedenti, ma essendo collocata più in fondo alla scaletta, sembra aver meno da dire. E questa è probabilmente la debolezza di un disco che negli ultimi suoi pezzi, pare smarrire la verve dei primi brani, anche se "The Angry Man" ritrova smalto e brillantezza, nella sapiente coniugazione di psichedelia e blues rock. "The Escape" è il penultimo pezzo del cd, e il vocalist sembra voler provare altre soluzioni vocali (Soundgarden) che si stagliano su di una matrice ritmica costruita egregiamente dai cinque musicisti veneti, in una traccia che mostra ulteriori sperimentalismi sonori al suo interno. In chiusura troviamo "Oracle", traccia più soffice e seducente delle altre che conferma quanto di buono fatto fino ad oggi dai Kayleth. Con un paio di pezzi in meno mi sa tanto che 'Colossus' me lo sarei goduto al meglio, da tener ben presente per la prossima volta. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2018)
Voto: 80

Sombre Croisade - Balancier des Âmes

#PER CHI AMA: Swedish Black
Che meraviglia la zona della Vaucluse in Francia, con quei suoi borghi alle pendici delle montagne. Da uno di questi, Bollène, ecco arrivare i blacksters Sombre Croisade, con il nuovo 'Balancier des Âmes', fuori per la Pest Records. Dopo cinque anni di silenzi (a parte uno split datato 2013, in compagnia degli Augure Funébre), l'oscuro duo torna con un nuovo lavoro malato, oscuro, feroce e contorto, insomma in piena tradizione transalpina. Sei i brani a disposizione per definire lo stato di forma di Malsain e Alrinack, i due loschi figuri che stanno dietro ai Sombre Croisade. Si parte con la speditissima "Renaissance", in pieno stile black old school, dove alcuni sperimentalismi folk rimangono relegati in sottofondo, mentre harsh vocals e ritmiche infuocate dominano incontrastate. La title track è un black mid-tempo, in cui roboante è l'architettura affidata alla ritmica, diabolico lo screaming efferato di Alrinack, ma sicuramente melodiche le linee di chitarra che si dilettano nel proporre sonorità ispirata alla scena svedese. "Don Ténébreux" apre con la classica chitarra acustica, prima di divenire più caustica nel proprio incedere mortifero e angosciante che subisce un ulteriore incancrimento nella successiva "Midiane", song altrettanto sinistra ed arrembante, che però ha poco da aggiungere ad un genere, sempre più povero di idee. Si continuerà seguendo questi dettami fino alla conclusiva "Souffles d'Ailleurs", muovendosi lungo i binari di un intransigente e glaciale black metal, consigliato alla fine, solo ai fan più accaniti. (Francesco Scarci) 

(Pest Records - 2017)
Voto: 65