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mercoledì 3 dicembre 2025

In the Woods... - Otra

#PER CHI AMA: Prog Death
Che cambio stilistico hanno fatto gli In the Woods... dai loro esordi a oggi! Li ho amati nel loro black primordiale ma atmosferico di 'Heart of the Ages', passando per le porzioni progressive di 'Strange in Stereo' e 'Three Times Seven on a Pilgrimage', fino ad arrivare alle ultime uscite, con "Otra" a riaffermare la band nella scena norvegese non come black metal puro, ma come una raffinata fusione di avantgarde, progressive e death melodico, in grado di richiamare l'epos degli Enslaved più riflessivi e la malinconia dei Katatonia. Una produzione pulita e atmosferica, essenziale per gli arrangiamenti complessi contraddistinguono il lavoro; le chitarre sono stratificate, bilanciando un rifferama accattivante a passaggi acustici e melodici, con il basso a pennellare una base progressiva e la batteria a privilegiare ritmiche elaborate. La voce è pulita, baritonale e drammatica, un recitato epico che troverà spesso modo di spezzarsi in scream e growl più crudi. Affidandosi a tematiche introspettive poi, i nostri ci consegnano sette nuovi pezzi: "The Things You Shouldn't Know" è una sintesi prog-black, "A Misrepresentation of I" è un pezzo più diretto con un groove marcato, mentre "The Crimson Crown" è una traccia più riflessiva e compassata nella sua ritmica possente ma pur sempre mid-tempo, che si spingerà verso orizzonti di Katatonia memoria, pur mantenendo presente il cantato growl. Poi spazio alle oscure atmosfere di "The Kiss and the Lie", un brano che dopo un tiepido approccio, deflagra in un'esplosione death melodica. "Let Me Sing" lascia intravedere qualche influenza folk rock, mentre le conclusive "Come Ye Sinners" e "The Wandering Deity" aprono a ulteriori orizzonti musicali, capitanati da Amorphis e soci. Insomma, 'Otra' è un album complesso, non proprio immediato di primo acchito, ma che necessita di ripetuti ascolti per capire la nuova dimensione musicale in cui gli In the Woods... saranno in grado di portarvi. (Francesco Scarci)

(Prophecy Productions - 2025)
Voto: 75

Meteora - Broken Mind

#PER CHI AMA: Symph Death
Gli ungheresi Meteora si ripresentano sulle scene con l'EP 'Broken Mind ', nonostante un altro EP sia uscito solamente ad agosto, ma in realtà, questo lavoro è il secondo capitolo di una trilogia. Il dischetto affonda inequivocabilmente le proprie radici nel death metal sinfonico, epico e grandioso, rievocando la maestosità orchestrale degli Epica, ma anche accostabile a certe sfuriate dei Dimmu Borgir, pur mantenendo una vena progressiva che ricorda i momenti più complessi degli After Forever. E per proporre questo sound, la produzione cristallina è un must, ideale per esaltare ogni strato sonoro: il muro di chitarre e gli arrangiamenti sinfonici sontuosi, tra pianoforti e i cori operistici affidati alla cantante della band, Noémi. La sezione ritmica è bella potente, e l'opener "Broken Mind" lo conferma subito, grazie a un basso che gronda presenza e una batteria dinamica che spazia tra cavalcate furenti (ma melodiche) e groove più compassati, mentre l'alternanza vocale si dipana tra la suadente e potente voce di Noémi e il growling possente di Máté Fülöp. "Morningstar" s'introduce con una vena più melodica, con la voce della frontwoman che tesse delicate linee vocali, un'esemplificazione del bilanciamento tra durezza e melodia che i Meteora hanno affinato nel corso della loro carriera. In "Elysion" compare invece un cantato maschile pulito che sottolinea la versatilità della band magiara, ma che non mi convince pienamente. Il pezzo migliore, a mio avviso, è la conclusiva "In My Name," il brano più lungo del lotto e forse anche quello più ambizioso, che funge da cattedrale sonora, dove tutte le caratteristiche della band convogliano in un unico punto: voci pulite maschili e femminili, riff pesanti sorretti da orchestrazioni sinfoniche e growl, accelerazioni rabbiose, interrotte solo da un intermezzo di piano e violoncello, rievocando le atmosfere più riflessive del doom, prima di riesplodere in un finale di intensità epica. 'Broken Mind' alla fine è un disco che, sebbene di breve durata, è denso e stratificato, un ascolto che mi sento di consigliare a tutti gli appassionati di sonorità sinfoniche ma che non disdegnano incursioni anche nel death metal più tecnico. Ora, non possiamo far altro che attendere il terzo capitolo. (Francesco Scarci)

(H-Music - 2025)
Voto: 70

lunedì 1 dicembre 2025

The Old Dead Tree - London Sessions

#PER CHI AMA: Gothic/Prog/Dark
I The Old Dead Tree sono sinonimo di qualità nella scena prog francese e non solo. Quasi trent'anni di esperienza, per carità inframmezzati da sospensioni della loro attività, e i cinque parigini sono ancora qui. Dopo l'ottimo lavoro dello scorso anno, 'Second Thoughts', ecco arrivare un EP registrato nientepopodimeno che negli Abbey Road Studios di Londra. Da qui 'London Sessions' appunto. Quattro pezzi che si muovono sempre con diligenza ed eleganza nei paraggi di un gothic dark rock possente e ispirato, e in cui la voce di Manuel Munoz la fa sempre da padrona. "Feel Alive Again" apre le danze con una dichiarazione d'intenti ben precisa, guadagnarsi la credibilità dell'ascoltatore con un prog dark ordinato, senza sbavature, e in cui i tremolo picking delle chitarre s'intrecciano con le vocals del frontman, in un contesto malinconico e atmosferico. Nessun atto di forza, non c'è voglia di stupire con chissà quali architetture musicali, ma il solo puro desiderio di emozionare. Un'emozione che si fa più riflessiva nella seconda "Time Has Come", in cui la linea melodica delle chitarre rimane compatta, ma in cui la voce di Manuel, forse si fa più rancorosa. Al contrario della successiva "By the Way", un brano uscito in realtà nel lontano 2005 nello straordinario 'The Perpetual Motion', e qui riproposta semplicemente in modo più cupo e languido, al pari dell'ultima "What Else Could We've Said" (anch'essa presente su 'The Perpetual Motion') per una più melliflua reinterpretazione, con tanto di archi a sostegno, di una vecchia hit della band, che alla fine mi fa riflettere se queste sessioni londinesi siano una semplice mossa commerciale o un dischetto a testimoniare la vitalità della band? A voi l'ardua sentenza. (Francesco Scarci)

(Season of Mist - 2025)
Voto: 70

domenica 30 novembre 2025

Oceans - We are Nøt Okay II

#PER CHI AMA: Metalcore/Nu Metal
Secondo capitolo per la saga "non stiamo ancora bene" degli abrasivi austro-tedeschi Oceans. Portatori di un post metal/metalcore, la band torna a distanza di un anno dall'album 'Happy', che buoni consensi aveva raccolto all'epoca, con questo 'We are Nøt Okay II'. I quattro musicisti proseguono il loro percorso musicale, in grado di mescolare sonorità a tratti caustiche con altre più malinconiche, frutto probabilmente di testi sempre convogliati verso tematiche di depressione e disturbi mentali. Temi pesanti insomma. Altrettanto la musica, bella tosta, ruvida e aggressiva, già a partire dall'opener "...Ghost" che in quasi quattro minuti, davvero smuove quei fantasmi che forse albergano, e non lo sappiamo, il profondo della nostra anima. Sonorità violente e voci urlate che vengono stemperate dalla delicatezza delle clean vocals e da parti più atmosferiche, come nel break al secondo minuto. Bel biglietto da visita, insomma. Fantasmi nu-metal si palesano invece nella seconda "Still Not Okay", che scomoda facili paragoni con i Korn, ma i cui cori super ruffiani e un cantato al limite del rap, ancora una volta, attenuano quella violenza che è possibile riscontrare in alcuni frammenti della song. La terza "Make me Bleed", il cui titolo sembra quasi voler evocare "Make me Bad" dei Korn, è una song più mid-tempo oriented almeno a livello ritmico, visto che il growling furibondo di Timo Rotten, sprigiona tutta la propria rabbia, a più riprese. A chiudere l'EP, ecco arrivare in soccorso "Atlas", aperta dalle delicate vocals del frontman, in un contesto decisamente più melodico ed educato, anche laddove le ritmiche sembrano accelerare più vorticosamente, a quasi un minuto dalla fine. Il risultato in conclusione, è soddisfacente e consigliato a tutti gli amanti del genere. Una stranezza da sottolineare: il lavoro è uscito su tutte le piattaforme digitali il 7 novembre eppure, non vi è traccia di questa release né sul sito ufficiale della band, né su Metal Archives. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 70

martedì 25 novembre 2025

Nornes - Thou Hast Done Nothing

#PER CHI AMA: Death/Doom
Ecco quel che serviva per questa nevosa fine di novembre: death doom atmosferico affidato alle mani di questi Nornes, quartetto originario di Valenciennes in Francia. 'Thou Hast Done Nothing' rappresenta il loro debutto ufficiale su lunga distanza, dopo un paio di EP usciti tra il 2018 e il 2020. Sono solo cinque i pezzi presenti in questo album, ma per quasi un'ora di musica, che sin dall'iniziale "Never Ending Failure", ci consegna delle ritmiche piuttosto opprimenti, non quelle canoniche abissali del funeral, ma comunque un rifferama pesante, contraddistinto da un mid-tempo meditabondo, le classiche growling vocals, con il tutto a evocare i My Dying Bride e i Paradise Lost degli esordi. Quindi, niente di nuovo sotto il sole, se proprio vogliamo essere schietti. Zero aperture all'originalità, il solo tentativo di inserire delle clean vocals a fare da contraltare alla voce da orco cattivo del frontman, un breve break acustico verso l'ottavo minuto per salvare le apparenze di quella che poteva essere una traccia anonima, e che trova modo di risollevarsi con un assolo elegante in chiusura. "A Rose to the Sword" non sposta fondamentalmente di un capello la proposta dei quattro musicisti transalpini, seppur si scorga qua e là il desiderio di non limitarsi ai meri insegnamenti della "Mia Sposa Morente": interessante a tal proposito, il break atmosferico percussivo al quarto minuto, laddove le due porzioni vocali si uniscono all'unisono. Altrettanto interessante la lunga parte strumentale che per un paio di minuti ci delizierà nella seconda parte del brano, con buone melodie chitarristiche e atmosfere sospese, prima di un finale un po' più ostico da digerire. "Our Love of Absurd" conserva quelle melodie malinconico-evocative di 'Shades of God' dei Paradise Lost, innalzando, in fatto di emotività, la qualità del brano per un uso più massivo (e apprezzabile) delle voci pulite a discapito di un growling qui più in secondo piano. Dopo il break atmosferico, come sempre inserito a metà brano, davvero pregevoli bridge e solo che per un minuto e mezzo ci regalano grandi emozioni. Poi il tutto si fa inevitabilmente più cupo e minaccioso, con sfuriate ritmiche estemporanee che si accompagnano al growl del cantante. E proprio da qui ripartire nella successiva "Perceptions in Grey", con un cantato più strozzato in gola, in un brano che vede il suo primo acuto a ridosso del secondo minuto, complice una chitarra più ispirata e nuovamente le salvifiche clean vocals che alla fine risulteranno quello strumento che meglio toglie dall'imbarazzo una release altrimenti troppo scontata. A chiudere, i quasi 13 minuti di "Oneness", che sono aperti da una lunga parte acustica: la prima apparizione vocale appare al terzo minuto, a sottolineare ancora una volta la voglia dei nostri di dar maggior spazio alla componente strumentale. Poi il brano si rivelerà piuttosto simile per quasi i sette minuti seguenti (e francamente limerei queste lunghe parti per aumentare la dinamica del brano), il canonico break atmosferico e una coda doom rallentante, a chiudere un disco che se fosse durato un quarto d'ora in meno, forse ne avrebbe beneficiato enormemente. Ora invece mi ritrovo a consigliarlo ai soli amanti del genere, per non rischiare di farlo cadere nell'oblio del dimenticatoio. (Francesco Scarci)

(Sleeping Church Records - 2025)
Voto: 68

giovedì 20 novembre 2025

Suffering Hour - Impelling Rebirth

#PER CHI AMA: Death/Black
In rete ho trovato ovunque recensioni notevoli su questo lavoro, ma dopo averlo ascoltato, mi domando se sono io la solita voce fuori dal coro o se gli altri abbiano preso un clamoroso abbaglio. Ora non voglio dire che questo 'Impelling Rebirth', degli statunitensi Suffering Hour, sia una ciofeca, ma nemmeno sto gran discone, che da più parti invece ho letto. Per me si tratta infatti di onesti mestieranti che mettono in piazza un cupo black death caustico e veloce. E su questo non ci piove, visto l'incipit violento dell'iniziale title track, dove accanto alla devastazione della ritmica, compare una voce che sembra uscire dall'oltretomba, pronta peraltro a un rituale satanico. Le chitarre, belle sghembe e ribassate, viaggiano a velocità vertiginose, il tutto con scarsi accenni melodici, fatto salvo una leggera melodia in sottofondo a ridosso di una parte più atmosferica. Poi spazio a una vena fragorosa, che ci investe come un treno uscito dai binari. La seconda "Anamnesis" palesa influenze punk thrash, in un contesto comunque sparato ai 1000 km orari. Ancora un break atmosferico a metà pezzo, giusto per stemperare una furia che, a tratti, sembra ingestibile. Attacco grind invece per "Revelation of Mortality", una song animalesca, sanguigna, dissonante e ferale che, in tre minuti, non fa prigionieri, ma lascia una striscia di sangue dietro di sé, in un finale permeato da un umore nero e abissale, in cui il suono sembra quasi implodere. Nonostante sia un pezzo di una durata appena inferiore ai tre minuti, sembra stranamente ne duri una decina. Sfiancante. Come la successiva e psicotica "Incessant Dissent", un pezzo incessante che sembra chiamare in causa i Morbid Angel più feroci. Ancora fortissime influenze thrash/death/black old school per la lunatica e conclusiva "Inexorable Downfall", che chiude un dischetto di poco meno di 15 lunghissimi ed estranianti minuti di follia. (Francesco Scarci)

(Profound Lore Records - 2025)
Voto: 66

Mastiff - For All the Dead Dreams

#PER CHI AMA: Crust/Sludge/Hardcore
Non sono un grande fan dell'hardcore scavezzacollo, ma se ci mettete un po' di sludge/doom a corrompere le intemperanze di una band, ecco che mi trovo più a mio agio a scrivere di questo genere. Gli inglesi Mastiff sono fortunatamente uno di questi esempi, con un sound si, granitico, violento, potente e profondo, ma che comunque in questo nuovo EP di cinque pezzi, 'For All the Dead Dreams', si riesce ad apprezzare sin dalle fondamenta dell'opener "Soliloquy". Riffing iperdistorto, acuito dalla pesantezza dello sludge, vocals incatramate, pochi accenni alla melodia, e alla fine solo disperazione dilagante nei tre minuti e mezzo di questa traccia. Il registro non cambia poi di tanto con la successiva "Rotting Blossoms", anche se il ritmo si fa più sostenuto, e un piccolo accenno di melodia si riesce addirittura a cogliere nelle linee di chitarra, mentre il bel caustico vocione di Jim Hodge, si fa breccia in un sound che diventerà più ritmato nella seconda parte. "Decimated Graves", al pari di "A Story Behind Every Light", ci prendono a scarpate in faccia con parti più compassate e asfissianti, che si alternano a schegge al limite del grind. È un piacere essere investiti da cotanta violenza anche per la qualità di una registrazione che sembra inghiottirci nel wormhole creato dalla brutalità soffocante della band. Violenza pura infine per la poderosa e conclusiva "Corporeal", in grado di bastonarci ancora con la sua portanza ritmica, forte di un drumming inviperito e un basso che picchia a livelli di un fabbro nevrotico. Provare per credere. (Francesco Scarci)

(Church Road Records - 2025)
Voto: 70

Hellwalker - Reincarnation

#PER CHI AMA: Death Strumentale
Se sei un cantante death metal e stai cercando una band con cui dar sfoggio della tua ugola da orco cattivo, i portoghesi Hellwalker stanno probabilmente cercando proprio te. No, non si tratta di un annuncio commerciale, ma semplicemente quello scrivono gli Hellwalker sul proprio sito bandcamp, visto che stanno cercando un vocalist che presti la propria voce per questo EP strumentale di cinque tracce. E che volete che vi dica su un disco death dove la componente vocale è totalmente inesistente? Se ci fosse un cantato qui sarebbe inserito in un contesto di death dalla vena melodica ("Boiling Point") ma che non rinuncia nemmeno a un rifferama inizialmente compassato per poi proiettarsi nella più classica galoppata di stampo scandinavo (da una traccia che si intitola "Entombed", d'altro canto che cosa vi potevate aspettare?). Granitica la quarta "Ressurector", ma di fronte alla mancanza di un vocalist, mi pare che perda il 50% in fatto di potenza. Sono certo che con un growling robusto, la proposta acquisterebbe infatti credibilità. Per ora, null'altro da segnalare, se non un tentativo di ricerca di maggior melodia nella conclusiva "Forgotten". Curioso di riascoltare il tutto con un cantante in carne e ossa. (Francesco Scarci)

(Rot'em Records - 2025)
Voto: SV

mercoledì 19 novembre 2025

Psycho Symphony - Silent Fall

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Thrash/Progressive
I rumeni Psycho Symphony non si sono mai sciolti eppure non esistono uscite ufficiali dal 2002, quando venne rilasciato l'EP 'Schizoid'. Quest'anno tuttavia, ritorna in auge 'Silent Fall', il lavoro che uscì originariamente in cassetta nel 1997 e poi CD-r nel 2000, e che soltanto oggi, vede la luce formalmente grazie alla Loud Rage Music e a un nuovo remastering. La band di Carei muove i propri passi lungo un sottile confine fra il progressive anni '70 e il techno thrash progressive degli anni '80/'90 (per intenderci, gente del calibro di Watchtower, Anacrusis o Psychotic Waltz). Ascoltando l'album vi accorgerete infatti i vari punti di contatto con le band suddette attraverso la sofisticazione degli arrangiamenti che con l'iniziale "The King", vi farà già capire come il quartetto fosse in grado di costruire una matrice ritmica davvero complicata alternata a momenti più tecnici, evocando in certi passaggi, anche i Cynic di 'Focus' (assai palese ad esempio nel break atmosferico centrale "Temptations"). Solida e talvolta debordante ("Bloodthirsty Desires") la prova del bassista, a fungere da collante tra melodie e ritmica, al pari della folgorante prova alle pelli del drummer Gindele Gábor "Gabica", fantasioso e preciso nel passare da momenti dal piglio jazzy a esplosioni thrash. Notevole anche la prova delle chitarre, abili nel ricamare riff ultra tecnici o assoli raffinati (spettacolari a tal proposito "The Temple of Delight" o la disturbante e assai complessa, "Over the Walls"). Ho tenuto per ultimo la prova del cantante, che a mio avviso, rappresenta il punto debole dei nostri. Non sono infatti riuscito a digerire la sua voce nasale per quanto, in un contesto del genere, potrebbe essere anche particolarmente originale ed espressiva nella propria drammaticità. In chiusura, la lunga suite "Reality Falls Asleep I & II" è perfetta a riassumere la vena onirico-lisergica dei nostri (nella prima parte) combinata con la componente più veemente della band (la seconda metà). Insomma, se anche voi come il sottoscritto, vi siete persi questa release quasi trent'anni fa, beh avrete modo di rifarvi e capire come il thrash progressivo si sia ahimè nascosto nel sottobosco in un'epoca e in un contesto geografico alquanto complicati. (Francesco Scarci)

(Self/Loud Rage Music - 1997/2025)
Voto: 76

giovedì 13 novembre 2025

Trivium - Struck Dead

#PER CHI AMA: Metalcore/Thrash Progressive
In un'epoca in cui il metalcore si divide tra revival nostalgici e ibridazioni pop-oriented, i Trivium rimangono probabilmente un faro di integrità, una band che dal 1999 a oggi, ha definito il genere con un mix di tecnicismo thrash e melodia catchy, influenzando acts come As I Lay Dying o Bullet for My Valentine. La band, peraltro ultimamente impegnata in un tour in Nord America, per dare ulteriori segnali ai propri fan, ha pensato di far loro un regalo per Halloween, rilasciando questo 'Struck Dead', giusto tre pezzi per sottolineare quanto siano in forma oggi i nostri e sempre avvezzi a spaccare culi a destra e a manca. Non servono troppi convenevoli infatti a "Bury Me With the Screams" per far capire che il terzetto di Orlando, rimasto orfano dopo questo EP del drummer Alex Bent, rimane sempre uno dei migliori interpreti del metalcore, quello pesante e incazzato, ma sempre dotato di venature melodiche. Non ingannino infatti gli ostici giri ritmici che l'opener e la titletrack ci regalano, dando sfoggio peraltro di grande tecnica e al contempo freschezza sonica che si palesa attraverso cavalcate violente e incessanti, manco fosse l'ultima grandinata che ha messo ko la mia automobile. La band picchia di brutto, ma è sempre pronta a smussare le spigolature del proprio sound cambiando il registro vocale, regalando splendide linee melodiche, graffianti assoli (quello della title track sembra preso in prestito dagli Slayer) o una tribalità inaspettata nelle percussioni (ascoltatevi bene la seconda parte della title track, un brano comunque notevole, tra i migliori della band). La terza "Six Walls" sembrare partire con più miti consigli, viste le chitarre acustiche, ma niente paura, i nostri tornano a pestare che è un piacere in un pezzo quadrato, che vede in stop'n go da paura, una serie di assoli affilati come una lama di un rasoio (il penultimo sembra esser stato preso in prestito dagli Helloween), e una prova a dir poco monumentale dietro alle pelli di Alex Bent. Peccato solo un finale in fade out, che io detesto a dir poco. Nonostante questa piccola imperfezione, i Trivium ci sono, rimangono ben centrati sull'obiettivo e sono pronti a spezzare le gambe a tutti, statene certi. (Francesco Scarci)

(Roadrunner Records - 2025)
Voto: 75

Carach Angren - The Cult of Kariba

#PER CHI AMA: Symph Black
Un silenzio durato cinque anni. Tanto ci è voluto agli olandesi Carach Angren per tornare sulle scene dopo l'album 'Franckensteina Strataemontanus', e lo fanno questa volta con un EP di cinque pezzi, intitolato 'The Cult of Kariba'. Il duo tulipano lo seguo da sempre, sin da quell'album di debutto, 'Lammendam', che tanto rumore aveva fatto alla sua uscita, per quel suo black sinfonico dal taglio orrorifico. A distanza di 17 anni da quel lavoro, ritroviamo oggi una band solida, che fondamentalmente poco si è discostata da quell'approccio, e che vede influenze evidenti in band quali Dimmu Borgir, per le orchestrazioni drammatiche e i Cradle of Filth, per una certa teatralità di fondo, ma per potenza non sottovaluterei nemmeno l'influsso dei Septicflesh. Il nuovo lavoro consolida comunque la band come una dei punti di riferimento del genere, bilanciando aggressività e narrazione (che già in "Draw Blood" è altamente evidente), senza dimenticarsi anche una componente cinematica, che ritroveremo lungo l'intero ascolto del dischetto. Un disco che rappresenta un esempio di maestria orchestrale, grazie alle pompose orchestrazioni che provano a contrapporsi all'intensità di ritmiche sparate a tutta velocità. La produzione cristallina privilegia poi la grandiosità del tutto, esaltando un ascolto immersivo che darà somma gioia ai fan della band e non solo. Interessanti le atmosfere spettrali di "The Resurrection of Kariba", che accompagnano le liriche che sviluppano questo nuovo EP in un racconto horror in cinque parti, radicato nel folklore della Dama Bianca di Schinveld, ora intrecciato con la sinistra figura di Kariba: un'avvelenatrice e presunta strega. Avvincente anche l'utilizzo delle clean vocals, che vanno a sostituire lo screaming efferato di Seregor in molteplici parti del disco. Parecchio intrigante anche "Ik Kom Uit Het Graf" (che tradotto dall'olandese significherebbe "esco dalla tomba"), un brano che sembra coniugare la teatralità dei nostri con influenze di stampo industrialoide di matrice "rammsteiniana". La conclusiva e più cinematica "Venomous 1666" infine, si ricorderà per la presenza di un violino che guida una gradevole melodia di sottofondo, e che apre a molteplici possibili evoluzioni nel futuro dei Carach Angren. Per ora, questo 5-track non è altro che una splendida conferma delle qualità della band olandese. (Francesco Scarci)

(Season of Mist - 2025)
Voto: 77

mercoledì 12 novembre 2025

Funeral Baptism - In Solitude

#PER CHI AMA: Black/Death
C'è qualcosa di inevitabilmente esotico nel pensare al black metal che arriva dall'Argentina, un paese dove il genere si tinge di un'austerità quasi monacale, lontana dai clamori europei. I Funeral Baptism sono la creatura di Damien Batista, personaggio oscuro della scena underground di Buenos Aires, attivo dal 2012, ma ora trasferitosi in Romania, e qui supportato da Stege. I nostri propongono un suono che mescola black a venature più atmosferiche e death oriented. Il loro nuovo album, 'In Solitude', uscito via Loud Rage Music, che arriva ben otto anni dal debutto 'The Venom of God', riprende là dove aveva lasciato, ma con una maggior consapevolezza, una migliore cura nei dettagli, abbandonando quindi quell'approccio lo-fi degli esordi, e privilegiando una produzione più pulita e potente, in grado di spingere la musica del duo verso livelli qualitativi più maturi, sebbene la proposta non abbia nemmeno un 1% in fatto di originalità. Ma ormai questa è la norma della maggior parte delle uscite discografiche che ogni giorno vedono la luce, pertanto la mia non vuole essere una discriminante di un prodotto scadente, anzi. Credo semmai che ci troviamo di fronte a un album onesto e diretto, che in soli 26 minuti liquida la pratica, tra sonorità sparatissime sul versante black (l'incipit della title track non lascia alcun dubbio a tal proposito), coadiuvate tuttavia da una discreta vena melodica, un uso delle vocals interessante (a metà strada tra screaming e growl), al pari dei rallentamenti doomeggianti, di cui godremo da poco meno di metà brano, fino al termine. E questo pone appunto l'accento sulle qualità e l'estetica di una band, che pur non inventando nulla, riesce comunque a sopperire ai propri gap, con buone doti tecniche e una quasi raffinata ricerca della melodia, che si palesa attraverso parti atmosferiche, come accade per l'opener "Scarring Silence". Poi, spazio a ritmiche stratificate, pezzi mid-tempo (la mia favorita è "The Brink of Ruin", con un piglio alla Cradle of Filth nella sua componente vocale), impennate di furiosa rabbia con blast-beat impazziti, un interessante bridge in "Exsequiae", ottimi assoli un po' ovunque e qualcos'altro che rende comunque l'atto di ascoltare 'In Solitude', semplicemente dovuto. (Francesco Scarci)

(Loud Rage Music - 2025)
Voto: 65

martedì 11 novembre 2025

Dodengod - Heralds of a Dying Age

#PER CHI AMA: Black/Death
Se non avessi saputo la provenienza dei Dodengod (si ringrazia sempre Metal Archives per questi dettagli), avrei pensato che il trio fosse originario della Svezia, per quella loro proposta all'insegna di un death dalle chitarre super ribassate, che mi ha evocato band come Unleashed o Grave. In realtà, i nostri arrivano dal Belgio e questo 'Heralds of a Dying Age' è il loro secondo album. Un lavoro che ci schianta immediatamente in faccia la loro efferata violenza. Fatto salvo per l'intro "In Darkness", le successive "The Grinder Feeds on Hate" e "Breathe Deep the Dark", mi investono con una sezione ritmica debordante, fatta di tonalità oscure e asfissianti. Non c'è un barlume di luce nelle note di questi 10 pezzi. Anzi, l'atmosfera si fa addirittura più cupa in un pezzo come "The Adversary", grazie al suo piglio doomish, che sfocia, per alcune acuminate linee di chitarra, anche nel versante black, ma che sorprende al tempo stesso, per alcuni ghirigori in tremolo picking che ne amplificano la melodia. E non è certo una novità, visto che già le precedenti tracce avevano palesato rallentamenti doom, con una fortissima predilezione per melodie quasi psichedeliche (e ripenso al finale di "The Grinder Feeds on Hate"). Questo per dire che alla fine i Dodengod non sono dei veri e propri picchiatori, o che propongano unicamente un genere monolitico e da lì non si spostano di un millimetro. Direi che seguono un canovaccio, che vede spesso cominciare i brani con una ritmica piuttosto robusta per poi disorientare l'ascoltatore con trovate atmosferiche, lisergiche, sempre inattese. E anche un pezzo come "Devouring Fires" mostra lo stesso comportamento, tra derive psych, accelerazioni deflagranti, un rifferama potente, tagliente e brutale, ma poi ecco che suoni spettrali si palesano in un sottofondo che ha molto spesso da regalare qualche inusuale sorpresa. E sta qui la forza dei nostri, che altrimenti avrei etichettato come l'ennesima band che voleva fare il verso ai mostri del passato. E se ci aggiungiamo anche una buona perizia strumentale, un ottimo gusto nella sezione solistica, le contaminazioni black (spaventosa la ritmica della title track, ma anche quello screaming che talvolta si affianca al growl) e doom (ascoltate la successiva "Born"), potrete intuire anche voi come questo album non debba essere frettolosamente scartato come mera copia dei grandi act del passato. La mia traccia favorita? La diabolicamente sinistra e di scuola Altar of Plagues, "No Distant Flame Ahead". Insomma, per concludere, 'Heralds of a Dying Age' è un lavoro estremo, davvero violento, ma con una sorprendente voglia di stupire con trovate melodiche sempre interessanti. (Francesco Scarci)

(Pest Records - 2025)
Voto: 70

giovedì 6 novembre 2025

Leaving Time - Loop / Live Beneath

#PER CHI AMA: Shoegaze/Dream Pop
Nell'ottica di evadere dagli estremismi sonori, ecco soccorrermi gli statunitensi Leaving Time, fautori di un sound a metà strada tra l'alternative e lo shoegaze. Solo due pezzi, che arrivano giusto un anno dopo l'uscita del loro album di debutto 'Angel in the Sand'. La proposta del quartetto della Florida è molto chiaro: dei bei chitarroni saturi e lineari, su cui estendere le vocals chiaramente eteree tipiche del genere. Niente di nuovo insomma, se non farsi cullare dal contrasto sonoro tra il melodico wall of sound eretto dai nostri e quelle linee vocali sognanti. Nessun sfoggio di tecnica fine a se stessa, niente assoli, fatto salvo per un bridge al limite del noise, nella coda di "Loop". La melodia regna sovrana in "Live Beneath", in quel suo tiepido inizio, parecchio ruffiano (zero chitarroni qui), molto dream pop e contraddistinto da vocalizzi quasi nascosti dal rumore delle chitarre che lentamente salgono di volume e robustezza. Poi, il canovaccio è il medesimo della prima traccia: vocals e melodie litaniche, un break atmosferico che si dilata nel tempo e nello spazio, un apporto chitarristico decisamente più graffiante e i giochi terminano qui, anzi tempo, giusto per saggiare di che consistenza sono fatti questi musicisti di Jacksonville, qualora non li conosceste. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 63

De Profundis - The Gospel of Rot

#PER CHI AMA: Death Old School
Nuovo capitolo per i deathster inglesi De Profundis, una band che, in tutta franchezza, non ho mai particolarmente amato. Si tratta di una band dalla lunga militanza nell'underground che dal 2005, anno della loro formazione a oggi, ha visto il quintetto londinese passare dal death doom degli esordi, a un black death a metà del loro percorso, fino a completare la propria trasformazione in un death nudo e crudo di stampo americano. La band fa il suo ritorno sulle scene con questo EP di quattro pezzi, intitolato 'The Gospel Of Rot', che include tre inediti più la cover di "Subtraction" dei Sepultura. Si parte con la corrosiva "I: Corruption", i cui unici punti di interesse risiedono in una basso iper tecnico, in qualche apertura di chitarre in stile Atheist e una buona vena solistica. Per il resto, suoni ormai vetusti, voci al vetriolo in un mix tra screaming e growl, e zero emozioni. "II: Deception" non è da meno, con quella sua galoppata ormai troppo old school per chi come me è cresciuto con questi suoni trent'anni fa e per cui gli originali, rimangono i migliori interpreti di un genere che trovo abbia ben poco da dire, fatto salvo per alcune rare eccezioni. Ribadisco la validità tecnica della band, esplicata attraverso interessanti trame solistiche e un tentativo di riproporre anche il sound svedese nella terza "III: Indoctrination". Per il resto, trovo il tutto poco allettante, anche la cover dei Sepultura riletta in chiave americana, visto che è sparata a tutta velocità manco fosse un pezzo di brutal death. Per me è un no grazie, ascolto altro. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 60

mercoledì 5 novembre 2025

Ancient Death - Ego Dissolution

#PER CHI AMA: Death Progressivo
Dalle nebbiose profondità di Walpole, Massachusetts, ecco emergere gli Ancient Death, un quartetto che irrompe sulla scena del progressive death metal con il debut 'Ego Dissolution', dopo qualche uscita di EP e split album. Formatisi nel 2021, la band si fa portavoce di un sound che fonde il death old school con sfumature psichedeliche e progressive. Potete immaginare il mio scetticismo davanti a un artwork di copertina che già lascia presagire tutt'altro. Eppure, già con l'iniziale title track, ho dovuto ricredermi in fatto di proposta musicale e qualità del quartetto statunitense, proprio per una capacità intrinseca di bilanciare brutalità, atmosfera e introspezione, posizionando i nostri come una forza fresca e ambiziosa, giusto a ridosso di Blood Incantation e pochi altri; sarà forse per questo che un'etichetta come la Profound Lore, ci avrà voluto puntare. Fatto sta che i nostri sciorinano otto tracce che, di primo acchito, potrebbero anche sembrare brutali, ma che se poi vai a fargli i raggi X, trovi che possiedano una tecnica davvero notevole, con arrangiamenti che sono un mosaico di riff grooveggianti, tecnici ("Breaking the Barriers of Hope") o più atmosferici ("Breathe - Transcend (Into the Glowing Streams of Forever)", dove peraltro fa la sua comparsa anche una quanto mai inattesa voce femminile), e che si chiudono puntualmente con assoli funambolici che mi hanno evocato i Death del buon Chuck. Mamma mia, quante emozioni, e dire che quell'artwork di copertina mi aveva già predisposto a disintegrare questa band eppure, le ulteriori influenze che arrivano da Cynic, Atheist o Nile, ci consegnano una band e un prodotto già maturi. Brani come la strumentale "Journey to the Inner Soul" (con il suo eco ai Death di 'Human'), "Unspoken Oath" o la conclusiva "Violet Light Decays", esaltano l'estetica psichedelica del death metal, pur non avendo inventato nulla di nuovo. Certo, quella copertina continuo a trovarla imbarazzante. Bravi comunque! (Francesco Scarci)

(Profound Lore Records - 2025)
Voto: 75

Ordinul Negro - Dodekatemoria

#PER CHI AMA: Black Atmosferico
È inevitabile che quando si parli di black metal rumeno, il nostro pensiero vada a band come Negură Bunget o Dordeduh, che hanno delineato un sound intriso di folklore e misticismo, influenzando un'intera generazione di musicisti underground. Eppure, appena nelle retrovie ecco scorgere gli Ordinul Negru, una realtà che contiene membri ed ex delle band sopra menzionate e che, attivi dal 2006, vantano una discografia alquanto sostanziosa, fatta di nove album e 10 tra split ed EP. Musicalmente, potrebbero essere un immaginario ibrido tra Negură Bunger e Deathspell Omega. Il loro ultimo lavoro, questo 'Dodekatemoria', che ci eravamo persi esattamente un anno fa, e per cui la loro etichetta ha voluto darci l'opportunità di riparare, consolida il terzetto come custodi di un black atmosferico e occulto, in un momento in cui il genere cerca di rinnovarsi attraverso temi esoterici, senza tuttavia perdere la sua forza primordiale. Il risultato lo potete già scorgere nei solchi dell'opening track, "Aleph", che combina le dissonanze dei francesi D-O, la veemenza del black, la delicatezza di una voce femminile che a metà brano fa la sua comparsa, accompagnando il growling rauco del frontman, e in generale di un suono oscuro che privilegia tanto l'immersività quanto la crudezza di tutte le sue componenti. Il risultato è davvero interessante, per quanto sia tutt'altro semplice godere dei contenuti del disco. 'Dodekatemoria' è infatti un lavoro scorbutico da digerire, non sono sufficienti le due donzelle a prestare le loro delicate e soavi voci per rendere il tutto più accessibile. C'è ben altro nelle note delle sei lunghe tracce ivi incluse. E non basta nemmeno un inizio timido come quello della title track a farci credere che l'album sia cosi semplice da ascoltare: meravigliose certamente le melodie folkloriche, quasi mediorientali, che si srotolano in sottofondo, ma altrettanto telluriche le accelerate ritmiche, direi post black, a cui ci sottopongono routinariamente i tre musicisti di Timișoara. E sono schiaffoni che volano, sebbene un brano come "Judas Goat", nella sua ritualistica ascesa, sembra cogliere qualcosa di più degli insegnamenti dei Blut Aus Nord, in un lungo finale da brividi. "The Decrepitude of Centuries" se la prende forse con troppa calma (circa tre minuti e mezzo) prima di irrompere feroce e ferale, in una song che nel proprio incedere tribale e monolitico, sembra chiamare in causa anche gli Altar of Plagues. Mid-tempo oriented anche "Zahir", che evolve da un black/doom iniziale a un brano ricco di componenti cariche di groove e folk (chi ha detto Melechesh?), davvero degno di nota. In chiusura, "Palladian Rituals" con i suoi dieci minuti di musica, ci offre un altro spaccato della proposta degli Ordinul Negro, tra atmosfere rarefatte, accelerazioni repentine, vocals pulite in sottofondo, ottime voci femminili e splendide melodie, che mi fanno credere a un futuro radioso per la band. (Francesco Scarci)

(Loud Rage Music - 2024)
Voto: 76

domenica 2 novembre 2025

Aduanten - Apocryphal Verse

#PER CHI AMA: Melo Death/Black
Gli Aduanten risultano essere il side project di Obsequiae, Vex, Panopticon e Horrendous, eppure sul rinomato sito Metal Archives, non trovo traccia di membri di Panopticon e Horrendus, ma vedo semmai citati i Ruins of Honor. Comunque, a parte queste sciocchezzuole, 'Apocryphal Verse' è il secondo EP della band texana, che dovrebbe proporre un death black melodico, come testimoniato dalla lenta e graffiante "Cerulean Dream", una song che chiama immediatamente in causa, una band svedese a me cara, che agli esordi, si muoveva nei paraggi di un melo death, sebbene oggi siano decisamente più black oriented. Quindi, andando a delimitare il perimetro degli Aduanten, direi che ci troviamo nei pressi di un death melodico mid-tempo, che troverà tuttavia modo di aumentare la propria ferocia sul finire del brano. Niente di nuovo all'orizzonte ma la prova del batterista, come spesso accade, è sicuramente da premiare. Avrei gradito un bell'assolo in chiusura, ma niente da fare, è già tempo di "Decameron", un altro esempio di death melodico che non ha granché da chiedere, e che trova nello stridulo del cantante e in un ritmo, a un certo punto e per pochi secondi vicino al post black, le soli componenti black, peraltro alquanto innocue. Un arpeggio apre "Grace of Departure", ma quello che mi pare continui a mancare, è un qualcosa che coinvolga l'ascoltatore, un bridge, un assolo (qui solo un accenno), una parte melodica che rimanga impressa nella testa, insomma un qualcosa che mi faccia pensare che questo lavoro abbia realmente un suo perchè, visto che anche con la conclusiva "The Weakening Sovereign", il trio di Austin non riesce a uscire dalla propria zona di comfort e finisce per spegnersi su una banalissima accelerazione black e un giro di chitarra abusatissimo. Insomma, troppo poco per esaltarne la performance. Attenderò impaziente il full length d'esordio per decretare il mio supporto o meno ai nostri. (Francesco Scarci)

(Nameless Grave Records - 2025)
Voto: 60

venerdì 31 ottobre 2025

Hulder - A Beacon From Darkened Skies

#PER CHI AMA: Black/Folk
Una semplice cassetta (tra l'altro disponibile anche in una ritual edition) con sole due tracce, per tutti gli amanti dell'oggettistica vintage. Per chi ama il digitale invece, la pagina bandcamp degli statunitensi (ma in realtà originari del Belgio) Hulder, vi darà modo di ascoltare il loro ultimo EP, 'A Beacon From Darkened Skies'. Noi, la one-woman-band l'avevamo già recensita in passato, sottolineando come fosse avvezza a un certo tipo di black atmosferico, piuttosto grezzo. Non posso far altro che confermare le parole del mio collega Alain e sottolineare come la polistrumentista belga, ora basata nello stato di Washington, e qui aiutata da altri due musicisti, Vrolok e Necreon, si muova nell'ambito di un genere estremo che affonda le sue radici nel black scandinavo. Lo dimostra subito la title track, con chitarre ultra tirate e screaming vocals, spezzate da un break più atmosferico. Non posso invece dire altrettanto della seconda "Zonnesteen", una song che richiama sonorità folk in stile Wardruna/Ivar Bjørnson & Einar Selvik, guidate da una chitarra acustica e da un drumming tribale, nonché dalla calda voce pulita di Hulder e dalle oscure backing vocals di Necreon, per un esperimento sicuramente ben riuscito. (Francesco Scarci)

(Self/Medieval Darkness - 2025)
Voto: 66

mercoledì 22 ottobre 2025

Unto Others - I Believe In Halloween II

#PER CHI AMA: Dark/Gothic/Post Punk
Della serie "dolcetto o scherzetto", gli statunitensi Unto Others tornano con un EP che suona come un regalino per i propri fan. Era già accaduto nel 2021, in occasione di 'I Believe in Halloween', tornano oggi con un secondo capitolo, 'I Believe In Halloween II', un dischetto di cinque pezzi, tra cui due cover, una dei Misfits, l'altra dei Ramones. L'EP si apre con le ottime melodie di "They Came from Space" e un sound che si muove nei paraggi di un dark gothic fresco e melodico, che probabilmente poco aggiunge alle più recenti uscite del quartetto di Portland, ma per chi magari non li conoscesse, potrebbe essere un buon biglietto da visita per approcciare la band originaria dell'Oregon. Melodie orecchiabili, suoni andanti, buone vocals e una bella dose di energia. La medesima che si respira nella punkeggiante "What I Did...", una scheggia di 1 minuto e 45, tra galoppate anni '80 e qualche break in grado di regalarci qualche momento scanzonato. Lo stesso dicasi per la successiva "Robots", carina soprattutto per il suo coro e l'assolo funambolico nella seconda metà. Poi, ecco le due cover: "Halloween" dei Misfits, per altri due minuti di scorribande punk rock dedicate alla festa di zucca e fantasmi, in pieno stile eighties. E parlando di questi anni, non si poteva nemmeno rinunciare a "Pet Sematary" dei Ramones, una delle peggiori canzoni di sempre della band newyorkese, ma che qui viene riproposta in modo quasi più convincente dell'originale. Insomma, niente di nuovo all'orizzonte, solo una gran voglia di spensieratezza. (Francesco Scarci)

(Century Media - 2025)
Voto: 66