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domenica 30 settembre 2018

Æthĕrĭa Conscĭentĭa - Tales From Hydhradh

#PER CHI AMA: Black/Prog, Sear Bliss
Con un moniker del genere, mi aspettavo una qualche band proveniente da Serbia o da Bulgaria, invece gli Æthĕrĭa Conscĭentĭa arrivano da Nantes, con quello che è il primo album della loro discografia, 'Tales From Hydhradh'. Quattro pezzi per quasi tre quarti d'ora di musica black progressive con tematiche sci-fi, come testimoniato da un titolo che si rifà al concept spaziale qui contenuto e anche al futuristico artwork che ha colpito immediatamente i miei sensi. Diamo poi uno sguardo più dettagliato sul perché porre la nostra attenzione su questo combo transalpino. Innanzitutto direi per l'utilizzo nelle sue trame psicotiche, ancora un pochino acerbe, del sax, che irrompe già dall'iniziale "Mystic Temples Of Hydhradh", in una song violenta e corrosiva che mette in mostra tante idee, ma che ancora non sono focalizzate nel migliore dei modi. Mi spiego meglio. L'utilizzo del sax lo trovo estremamente originale e piacevole, ma sembra faticare nell'amalgamarsi con quel ronzio di chitarre o con lo screaming urticante del vocalist. Eppure, è lo strumento portante della musica del quintetto francese, con quelle sue lunghe fughe solistiche, non troppo ben supportate però dagli altri strumenti. "Sacrifice of the Connected Ones" è la seconda traccia; cosi acida e nevrotica nel suo incipit, sembra esser uscita da uno dei primi album degli ungheresi Sear Bliss, mentre man mano diventa dapprima doomish per poi virare sul versante post black, senza disdegnare anche qualche ammiccamente al death metal. Ecco, in questa trascrizione della prima trasmissione ricevuta dalla città spaziale di Hydhradh, troviamo essenzialmente una miscela black/death contaminata da momenti atmosferici, sprazzi progressivi e avanguardistici che non possono far altro che consentirmi di mantenere l'attenzione costante sulla proposta dei nostri, soprattutto quando a dettar legge è il sax. E voglio essere estremamente franco: senza l'utilizzo di quel portentoso strumento, gli Æthĕrĭa Conscĭentĭa si perderebbero verosimilmente nel marasma infinito di band mediocri, invece con quel magico strumento aerofono, i cinque si trasformano in una realtà interessante da seguire. Abbandonate le malinconiche melodie della seconda traccia, ci addentriamo nelle melodie sinistre, e un po' selvagge, di "Cleansing The Siraxas - The Exalted Ones", in cui di nuovo a farla da padrone è il suono infuocato del sassofono di Simon che si diverte col suo strumento un po' come il nostro Vittorio Sabelli faceva nei suoi Dawn of a Dark Age (anche se lui suonava il clarinetto) o il folle Äag nel mitico 'Dawn of Dreams' dei Pan.Thy.Monium. La song è bella veloce, dinamica, e affonda certamente le sue influenze nella musica classica ma anche nella musica etnica. Arriviamo alla conclusiva "Along The Uncertain Paths Of The Maphoros" ormai frastornati dal delirio musicale dispiegato. Apre manco a dirlo il sax in un brano dal sapore un po' gitano, un po' balcanico, anceh se alla fine si tratta di musica estrema che necessita ancora una bella ripulita prima di mostrarsi in tutta la sua eleganza. C'è ancora parecchio da lavorare per raggiungere alti livelli, ma la strada intrapresa è sicuramente quella giusta. (Francesco Scarci)

The Pit Tips

Francesco Scarci

Sear Bliss - Letters From the Edge
Aethereus - Absentia
Between the Buried and Me - Automata II

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Alain González Artola

Nazrak - Cantiques Fúnebres
Kontinuum - No Need to Reason
Akvan - شکوه فراموش شده/ Forgotten Glory

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Felix Sale

Mass Hypnosia - Death Decay
Omenfilth - Hymns of Diabolical Treachery
Exitus / Rapist - Beast of Chaos Command

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Alejandro Morgoth Valenzuela

Igorrr - Hallelujia
Thy Primordial - At the World of Introdden Wonder
Benighted in Sodom - A Resplendent Starless Darkness
 

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Five_Nails

Into Eternity - The Sirens
Neoandertals - Australopithecus
Sanity Obscure - Codex Incognitus

sabato 29 settembre 2018

Aornos - The Great Scorn

#PER CHI AMA: Cosmic Black, Darkspace, Deathspell Omega
Nella cittadina di Miskolc, ho trascorso qualche giorno lo scorso anno, per motivi lavorativi. Mai mi sarei immaginato che potesse essere la casa di questo progetto oscuro a nome Aornos. Trattasi di una one-man-band, con 'The Great Scorn' a rappresentare il quarto album per il mastermind ungherese. Il suono proposto da Tátrai Csaba (in arte Algras, peraltro, ex membro di Carcharoth e Bornholm) include elementi black e progressive, dalle forti venature cosmiche che chiamano immediatamente in causa gli svizzeri Darkspace. La musica è originale, combinando in modo inusuale, flussi disarmonici con sprazzi di grande atmosfera, come dimostrato dalla seconda "From a Higher Reality" che segue a ruota l'intro iniziale. Accanto allo screaming efferato del vocalist, si affianca poi un cantato più epico, sorretto tra l'altro da delle chitarre che per certi versi mi hanno ricordato i Windir. Sto parlando della terza traccia, "The Kingdom of Nemesis", in cui i vocalismi al vetriolo di Algras, sono sorretti da delle chitarre old school nella vena della tradizione black norvegese (Emperor e Satyricon) e da synth a tratti davvero ispirati. Più thrash oriented invece "Trace to Beckoning Fade", anche se nella seconda parte emergono influenze più vicine ad un epic in stile Bathory. Ma sono soltanto lontane reminiscenze che s'intersecano con il chitarrismo più tradizionale del musicista ungherese, che comunque si conferma abile nel creare ritmiche cupissime inserite in un contesto a tratti claustrofobico. Algras però affonda le sue influenze non solo nella fiamma nera che bruciava negli anni '90 in Norvegia, sento infatti dell'altro nelle linee sghembe della sua chitarra: suggestioni oblique dei Deathspell Omega così come l'aura maligna dei Dødsengel o la carica mistica dei Nightbringer. C'è tanto nelle note contorte di 'The Great Scorn': il mid tempo della title track vive ad esempio di interessanti cambi di tempo, mentre "Funeral March for the Death of the Earth" sembra mostrare una vena più sinfonica vicina ai Limbonic Art e vocalmente, ai primissimi Arcturus. Insomma, l'avrete capito, Algras ha voluto omaggiare i grandi maestri del passato nordico, tributando altre grandi band black del presente, il tutto peraltro trattando temi noetici, ossia relativi alle correlazioni tra mondo fisico e la mente umana, e come essa possa influenzare determinati avvenimenti o processi fisici. La fiamma nera brucia anche nelle campagne dell'Ungheria grazie agli Aornos. (Francesco Scarci)

(Symbol of Domination/Ira Aeterna/The True Plague/Black Metal Records - 2018)
Voto: 70

https://symbolofdomination.bandcamp.com/album/sodp108-aornos-the-great-scorn-2018

Bloodshed Walhalla - Ragnarok

#PER CHI AMA: Viking/Epic, Bathory
Quorthon morì nel 2004. Da allora lo spirito indomito del mastermind svedese aleggia nell'etere alla ricerca di una sua epica reincarnazione. Si sono citati gli Ereb Altor come potenziali eredi, io non tralascerei nemmeno la one-man-band italica dei Bloodshed Walhalla, guidati dal bravo Drakhen, che con questo 'Ragnarok' arriva al ragguardevole traguardo del quarto album. E il musicista lucano lo fa nel migliore dei modi, con un disco che trasuda epicità da tutti i suoi pori sin dall'opener, nonchè title track. Certo, non solo i Bathory rivivono nelle musiche di "Ragnarok", ci sento anche gli Einherjer di 'Dragons of the North' o i Falkenbach più folklorici. Ma non importa e mi lascio travolgere dall'aura battagliera che mi rimanda ai lavori più viking dei Bathory - penso alla saga di 'Nordland' - ma nelle sue rare accelerazioni black, ci sento anche un che dei Finntroll o ancora degli Ensiferum. Le melodie vichinghe, i cori e le vocals mi inghiottiscono nelle loro storie, consentendomi di prendere una pausa dalla merda di tutti i giorni, per abbandonarmi alla pura mitologia della tradizione nordica, nemmeno stessi guardando una punta della serie tv "Vikings". Godimento puro per le mie orecchie, soprattutto quando le solenni orchestrazioni di "My Mother Earth" irrompono nello stereo con quell'esplosività percussiva che ricordo solamente nel masterpiece dei Bathory, 'Twilight of the Gods'. E allora chiudo gli occhi, penso a Quorthon e a ciò che mi trasmetteva l'ascolto dei suoi dischi, e immagino che Drakhen, animato ancor di più del sottoscritto dall'amore per quelle musiche, si sia lasciato guidare dall'ispirazione del maestro svedese, proponendo peraltro anche suoni di matrice settantiana, accostandoli ovviamente alle sinfoniche melodie che accarezzano la testa e solleticano il senso dell'udito. La voce di Drakhen, pur emulando il compianto frontman svedese, è uno spettacolo e costituisce un valore aggiunto per la release. Arrivo nel frattempo alla terza "Like Your Son", che continua nel narrare la battaglia finale tra gli dei e l’ordine del male e delle tenebre. La musica evolve e si muove tra il viking dei Moonsorrow, l'epic dei Bathory e il power dei primi Blind Guardian mantenendo un tono trionfale soprattutto nella lunga suite finale, dove Drakhen regala ben 28 minuti di suoni maestosi, in grado di rappresentare con grande efficacia, il palazzo ove ora risiedono quei guerrieri che sono morti gloriosamente in battaglia. Immaginatevi quella dimora, costituita da ben 540 porte, con i muri fatti con le lance di quegli uomini più valorosi o il tetto fatto di scudi di oro su cui sono raffigurate scene di guerra, e la musica che inneggia in quella sala? Quella dei Bloodshed Walhalla ovviamente. (Francesco Scarci)

ISA - Chimera

#PER CHI AMA: Progressive Death, Atheist, Between the Buried and Me
In questo momento sembra che le one-man-band stiano spopolando alla grande. L'ultima giunta sulla mia scrivania arriva dagli Stati Uniti ed è opera dell'artista visionario Dan Curhan. La band si chiama ISA mentre l'album, intitolato 'Chimera', contiene nove tracce più intro e outro, dedite ad un death metal psichedelico e dalle tinte progressive, senza comunque tralasciare le radici acoustic folk nelle quali affonda la musica dell'artista del Massachusetts. "Stage I: Descent" ne è infatti testimone, combinando musica prog con suoni estremi e rudimenti folk. Con "Stage II: Fear", le carte in tavola vengono completamente sparigliate e ci troviamo di fronte ad un techno death che trova attimi di tranquillità in un arpeggio poco prima della parte centrale, prima di rilanciarsi in un aggrovigliarsi di ritmiche, voci tortuose, chitarre e percussioni funamboliche, che evocano un che degli Atheist di 'Unquestionable Presence'. Il disco non è proprio facilissimo da essere assimilato, ma la cosa non mi spaventa, anzi mi stimola ad ascoltare con maggiore attenzione le prodezze del musicista di Somerville che in "Stage III: Heathens", si ritrova a sussurrare su partiture rock, a dimostrare l'enorme quantitativo di carne al fuoco contenuto in 'Chimera'. I ritmi sono decisamente più blandi, anche quando Dan pesta maggiormente sul pedale dell'acceleratore o si diletta nell'incrociare screaming, growling e clean vocals. Ma con "Stage IV: Evil", i suoni si fanno ancora più lugubri quasi al limite del funeral doom, sostenuti da un dualismo vocale aspro e profondo. La musica tuttavia persiste nel suo gioco di chiaroscuri, cambi di tempo e fasi disarmoniche che verosimilmente hanno il pregio (ma anche il difetto) di disorientare l'ascoltatore. È qui che emergono più forti le influenze techno death della band, tra Atheist e Pestilence, in un tortuoso cammino di belligeranza cerebrale che porta ad estendere i confini musicali della band dell'East Coast anche verso Between the Buried and Me e The Dillinger Escape Plan, in quella che probabilmente risulta essere la traccia maggiormente cervellotica del lotto. Non lasciatevi però ingannare dalle movenze "pink floydiane" in apertura di "Stage V: Reflection", abbassare la guardia permetterà a Dan e ai suoi ISA di aggredirvi con maggiore semplicità nella seguente "Stage VI: Lust", folle, brutale ed atmosferica quanto basta per definirla la traccia più idiosincratica dell'album. Bravo il buon Dan a dare ampio sfoggio di sperimentazioni musicali e originalità, seppur manchi ancor quel pizzico di fluidità in grado di conferire una maggiore accettabilità (o digeribilità) del prodotto. Rimane qualche altro episodio alquanto interessante da ascoltare: il lato progressive di "Stage VII: Freedom" ad esempio o l'imprevedibilità di "Stage VIII: Ocean" per un album che ripeto, si rivelerà per i più alquanto arcigno. Ma questo per il sottoscritto è sempre un segno che si è lavorato bene... (Francesco Scarci)

martedì 25 settembre 2018

Drive Me Dead - Who's the Monster

#PER CHI AMA: Punk/Rock
La rutilante pop'tallica "Freak" apre l'album d'esordio dei romagnoli "fammi morire" più meno come "Fuel" apriva 'Reload' dei Metallica. Nel prosieguo del disco, un punk n'roll farsescamente cinematografico, qualcosa che potreste degnamente collocare tra gli ultimi, straordinari, Social Distortion ("Between Life and (un)death") e quelle specie di emanazione massima di krautoficienza musicale che prende il nome di Bosshoss ("Zombie Don't Run" e "A Monster/The Monster") con sporadiche escursioni nel melodic-clapclap vs. Green day ("25th of December"), nel groove-punk alla Rebel Meets Rebel ("Your Worst Nightmare") o ancora nello speed and roll (l'ossequioso tributo a L. Kilmister di "Lemmy's Ghost"). Breve e succinta analisi strutturalistica dei titoli, limitatamente ai sostantivi: monster, dead/death, zombie due occorrenze ciascuno; freak, ghost, nightmare una occorrenza ciascuno, tutti gli altri sostantivi quattro occorrenze in tutto, tra cui un nome proprio, peraltro quello dell'eminentissimo estinto di cui sopra. Copertina di Sergio Gerasi, apprezzato disegnatore, tra gli altri, di Dylan Dog. (Alberto Calorosi)

?Alos - The Chaos Awakening

#PER CHI AMA: Dark/Ambient/Drone
Parlare di ?Alos e delle sue opere non è mai stato facile, né mai lo sarà. La sua arte di confine ispirata da ombre e oscurità si colloca nei meandri più bui dell'avanguardia sonora e la sua ricerca vocale è tanto focalizzata, mirata e vasta che a fatica, il grande pubblico riuscirà ad apprezzarla e a capirla veramente. Del resto Stefania Pedretti non è artista facile che si vuol far amare da tutti, cominciando con la sua recente affiliazione al filone black/doom, ai suoi riferimenti luciferini e al suo inasprirsi e radicalizzarsi verso sonorità sempre più estreme. Diciamo subito che di musica sperimentale/ambient drone si tratta e che in questo nuovo 'The Chaos Awakening' la nostra artista si cimenta in una sorta di catarsi etnica basata su leggiadri e mistici rintocchi di campanelli, tenui ed ipnotici strumenti a percussione, suonati su divagazioni vocali che invocano un matra spirituale, un percorso sciamanico, calati su loop dronici cupi e profondi. Una lunga suite dove il tempo/spazio si perde e dove la forma canzone abbandona tutta la sua architettura classica, per lasciar spazio alla trance ancestrale provocata dalle corde vocali di ?Alos, che genera suoni contorti e disturbanti al passo con le evoluzioni della divina Diamanda Galas. Rintocchi etnici si muovono in sottofondo, sinistri e glaciali, siderali armonie monotone ad alimentare la trasformazione vocale che cerca di emergere a suon di esplorazioni gutturali ed impennate liriche, trafitte sempre da quel sodalizio/attitudine/appartenenza alla musica nera e diabolica. Avanguardia, come poteva intenderla Luciano Berio in alcune sue spettacolari opere, rumori/suoni che vanno oltre la semplice musica, sperimentazione intelligente ed affascinante. Il finale è lasciato a fiati terrificanti di trombe pronte ad aprire i cancelli degli inferi. Una ventina di minuti di buio totale ed un risveglio tra le fiamme dell'inferno, contorto, mistico, sinistro e malato, carico di silenzioso, violento, attrente, pagano, rispettoso, libero amore verso il caos primordiale. Alla ricerca del risveglio dell'anima, io ne consiglio l'ascolto. (Bob Stoner)

lunedì 24 settembre 2018

La Fantasima - Notte

#PER CHI AMA: Post Rock/Drone/Psych
La Fantasima sembra l’incrocio tra le parole “fantasma” e “fantasia”, due immagini che ben si sposano con il suono silvano e crepuscolare del trio romano alla seconda prova in studio dal titolo 'Notte'. Si tratta di un post rock strumentale che ricorda a tratti i My Sleeping Karma, con venature drone e squisitamente psych, il tutto sostenuto da una ritmica cadenzata e costante che riporta a generi come lo stoner o il doom. Da notare l’utilizzo del basso che spesso si arrampica in complicati fraseggi, spiccando dal mix sonoro e di fatto, prendendo la posizione di strumento solista. Per gran parte del disco assistiamo al dispiegarsi di ambienti sospesi ed eterei, la chitarra effettata e scintillante, traccia degli scenari da fiaba, quelle fiabe per bambini che hanno una trama stranamente oscura e finiscono con la morte di qualcuno vicino al protagonista. Sono presenti anche dei momenti di rilascio della sospensione saturi di fuzz e carichi di energia come la parte centrale di “Sino al Mattino” che ricorda gli ultimi lavori degli Ufomammut, band che la band dichiara come influenza sulla propria pagina. La musica dei La Fantasima riesce a coinvolgere e a trasmettere, personalmente ho provato quella sensazione che si prova mentre si è in viaggio verso qualcosa di sconosciuto, quel misto di paura e di euforia, di curiosità e di allerta continua per non farsi prendere alla sprovvista. Ogni pezzo è un sentiero in una selva fantastica, uno scenario impossibile perennemente al centro della notte, gli alberi rifulgono di riflessi blu scuro e il verde e l’azzurro dei ruscelli non esiste mai. Il vento muove le fronde che dialogano tra loro e racchiudono gelosamente il suolo coperto di vegetazione fittissima mai toccata dall’uomo. Si tratta quasi di una colonna sonora, un percorso sinestetico nella grandiosità e nel mistero della natura il tutto decorato da uno splendido scenario oscuro e boschivo che trasporta la mente in una favola antica e dimenticata. (Matteo Baldi)

domenica 23 settembre 2018

Taiga - Cosmos

#PER CHI AMA: Depressive Black/Doom, Austere
La Russia da sempre è sinonimo di affidabilità in fatto di sonorità black doom atmosferiche. Poi quando hai un moniker che si rifà alla foresta boreale, la taiga appunto, non si può sbagliare assolutamente. Questa l'introduzione di 'Cosmos', quarto album del duo di Tomsk, che all'attivo ha anche quattro EP. Il genere espresso dai nostri siberiani è un depressive black dalle tinte atmosferiche che include ovviamente chiari riferimenti doom (visibili nell'opener "Стыд"), verosimilmente un retaggio dell'altra band di Nikolaj Seredov, i funeral doomsters Funeral Tears. Curioso poi il fatto, che il secondo membro dei Taiga sia Alexey Korolev, il proprietario dell'etichetta Symbol of Domination, che produce questo disco. Fatte le dovute presentazioni, introdotto anche il primo brano, citerei immediatamente la seconda traccia "Жить" per quel suo sound intenso, melodico, straziante (soprattutto a livello vocale) e malinconico che mi ha fin da subito conquistato. Certo ci sono ancora tante imperfezioni da limare e correggere, ma il dirompente attacco che dà il via alla song, è da brividi: una sorta di post black dal forte sapore nostalgico, in cui l'unica cosa a non solleticarmi i sensi è lo screaming efferato di Nikolaj, da rivedere sicuramente. Per il resto, il cd scivola via piacevolmente tra decadenti melodie, ariose parti di synth e rallentamenti depressive, come accade nella prima metà della title track, prima che le tastiere s'impossessino della scena e regalino attimi di grande pathos, e le chitarre abbandonino il classico ronzio black per avvicinarsi maggiormente all'heavy classico. Mi piacciono questi Taiga, hanno grinta, buon gusto per le melodie, la capacità di alternare momenti vivaci e dinamici con altri più oscuri ("Ты"), in cui le sgraziate urla del frontman, lontane in sottofondo, s'incastrano su un drammatico impianto ritmico. E cosi, evocando i primi Burzum o i più criptici Austere, i due loschi figuri continuano a ricamare pezzi più che dignitosi, in cui black, eteree atmosfere, sfuriate al limite del death ("Слова потеряют значение") e deprimenti melodie, se ne vanno a braccetto per celebrare questo quarto capitolo targato Taiga. (Francesco Scarci)

(Final Gate Records/Symbol of Domination - 2017)
Voto: 70

https://symbolofdomination.bandcamp.com/album/sodp103-taiga-cosmos-2017

Hellyeah - S/t

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Groove Metal
Il primo album del supergruppo formato dal campione rionale dei mangiatori di hot dog dei Mudvayne, dal taroccatore di marmitte dei Nothingface, dallo spacciatore di pasticche di Lexotan dei Bloodsimple e dal rivenditore di cessi a muro militante nei Damageplan e prima nei Pantera, e il cui nome corrisponde all'esclamazione che fareste al venerdì sera se foste anglofoni e un amico vi invitasse fuori per una birra (cit. Vinnie Paul), esprime bandane, pizzetti lunghi sotto il mento e un groove metalloso anni '00 poco alt e molto ortodosso, tra certi grattugiosi melodismi grunge ("Thank You", "Star") planet-carovanate ("In the Mood"), compressioni old-school-nu-metal ("GodDam", "Nausea" et many al.) e una certa, malamente sopita, predilezione southern ("Alcohaulin' Ass" o la stessa title track in apertura). Esattamente quel che ci vuole per un ascolto sguaiato al venerdì sera in auto coi finestrini abbassati mentre raggiungete un amico al pub per farvi una birra. (Alberto Calorosi)

venerdì 21 settembre 2018

Skjult - Progenies ov Light

#PER CHI AMA: Black Old School, Gorgoroth, Watain
Pensavo di aver visto tutto nel panorama musicale odierno, invece mi sbagliavo. Si perchè una one-man-band cubana devota ad un black metal glaciale di stampo scandinavo, mi mancava. 'Progenies ov Light' è il secondo album degli Skjult, ensemble guidato dal factotum Conspirator che si diletta nello scaraventarci addosso tutta la ferocia dell'act caraibico. Sette i brani a disposizione (più una bonus track che era contenuta nel tributo a Trond Nefas, leader degli Urgehal, scomparso nel 2012) per aver chiaro che quanto contenuto nel qui presente album, potrebbe tranquillamente stare in un disco di una qualsiasi band norvegese/svedese votata alla fiamma nera. Si parte con "Into the Void" e si prosegue a ruota con "Immolation Rites", "Summoning The Eternal Black Flames Of Death" e tutte le altre fino a "Baptized By The Unholy Goat": lungo questo percorso, il canovaccio della proposta dell'artista de L'Havana, non muta però particolarmente. Cosi ci si trova ad affrontare un black metal fumante e iroso, tra sfuriate ritmiche, harsh vocals e atmosfere nere come la pece (basti ascoltare la doomish "Glorious Night"), il tutto corredato da una produzione secca che conferisce quell'aura maligna che si confà degnamente ad un lavoro di questo tipo. Chiaro, che se siete in cerca dell'originalità in questa tempesta sonora, ne troverete gran poca, ma se siete degli amanti di sonorità in stile Gorgoroth, Watain o Urgehal stessi, qui troverete pane per i vostri denti. Un ascolto lo darei non fosse altro per il carattere esotico del mastermind che si cela dietro a questo moniker e per la sua musica glaciale che tradisce completamente le sue origini. (Francesco Scarci)

(Satanath Records/Black Metal Propaganda Deutschland - 2018)
Voto: 60

https://satanath.bandcamp.com/album/sat187-skjult-progenies-ov-light-2018

giovedì 20 settembre 2018

Lilla Veneda - S/t

#FOR FANS OF: Black/Death
Black/death metal is king when we talk about fusion success of the genres, we have several of the best bands ever among this mixing of aggression, violence, technique, and boldness from death metal; while ambient, darkness, melancholy and emotion from black metal, bands such as Dissection, Behemoth, Dawn or Sacramentum to name a few. But there is a difference, believe it or not, if we change the order of the mix to death/black metal, then we have a focus on instrumental extremity, violence, production, and heaviness but less of a direction to the atmosphere and cathartic element proper of the black art, nevertheless we have aswell great bands like Belphegor, Azarath, Necrophobic or Unanimated.

Now, when we find a band like Lilla Veneda is hard to say where they want to land and what their music is about because they seem to want to take a direction towards darkness, grimness and melancholy in some points, and being violent, visceral and bestial in some other parts without finding their middle ground.

Lilla Veneda is a Polish band that at first sight looks like a black metal band, their lyrical themes are related to philosophy, romance and misanthropy, their art direction allude obscurity and sadness (check the album cover art), but they play a sophisticated yet indefinite mix of many things. I wouldn't say they are a blackened death metal band, because it is interesting how they combine the elements of their music, however, it is difficult to pigeonhole them in a concrete genre and in this case is not a virtue, and that problem is present in the whole album.

Lilla Veneda's second record is bold and full of good music, right from the opener song "Divination" you can tell they are talented musicians, the structure of their compositions is complex and well thought, guitar riffs are diverse and powerful, the bass line is solid and drums are creative, the vocals, however, stays behind at some points, since the music overshadows it. The guitarist especially shines offering a great collection of heavy riffs and extreme moments.

Tough clearly this album has a sublime production and exquisite mastering, the band does too little to transmit their message, maybe I'm going to hard on Lilla Veneda, but to me, the album as good as can be, can't convey me much. However, the complex instrumentation and the skilled musicians aren't enough to create the art that can touch and affect others, take a brutal/technical death metal band for instance, as impressive and superb their music is, it remains sterile. To me that's the problem with this album, I feel little to nothing with its music, and maybe someone can be very touched with this album tracks and technique, but I'm a black metal head, emotion is important in my music, and darkness as ambiguous as it can be, contributes with an important element of thrill.

There are some songs that stand out and seem to express more, songs like "Divination", "Martyranny" and "Wheel of misfortune", something worth mentioning is the presence of a violin to add ambiance to the music and more specifically to this songs. Guitar solos are short but well executed, and the guitar work shines in the melodic parts. Impressively how the shortest and last song is the highlight of the album, "Chmury" is a song where they crafted black/death metal more coherently: is heavy, fast, rampant yet grim and dark, this song has essence, soul and a motive, we get to listen to black metal riffs and some sort of angry melancholy, the lyrics are dismal and poetic.

In the end, Lilla Veneda's second album is not a bad effort, but it seems lost, indecisive in the objective, the band seems unsure if they want to crush it and be fierce and savage or to be more emotional, cathartic and grim. We can only wait and see if the band finds its way and perfection their formula because this album could have been a masterpiece if they had focused more in the expression of ideas and feelings than in the delivery of dexterous performance. (Alejandro Morgoth Valenzuela)


(Via Nocturna - 2018)
Score: 65

https://lillaveneda.bandcamp.com/

Akhenaten - Golden Serpent God

#PER CHI AMA: Black/Death, Melechesh, Arallu
Dopo Melechesh, Nile e Arallu, ecco arrivare dagli Stati Uniti, altri esponenti della corrente arabo-mesopotamica. Si tratta del duo formato dai fratelli Houseman, che dal 2012 a oggi, ha rilasciato sotto il moniker Akhenaten, quattro album fatti di suoni estremi ispirati al mondo mediorientale. Le classiche venature arabeggianti sono già identificabili nell'apertura di questo 'Golden Serpent God', nell'opener "Amulets of Smoke and Fire", dove le peculiarità del combo del Colorado, si palesano immediamente. Ecco quindi la loro forma arcaica di death/black, in cui trovano ampio spazio delle percussioni dal sapore mediterraneo, un dualismo vocale che si muove tra growl e scream e ottime orchestrazioni. Insomma, tutti gli ingredienti essenziali per condire un genere interessante e che vede negli Akhenaten nuova linfa vitale per arricchirne di contenuti. Poi dopo quattro album e parecchia esperienza maturata, anche attraverso il progetto Helleborus, i nostri si divertono a sciorinare un pezzo dopo l'altro, contrappuntandoli di un forte impatto musicale. Splendida a tal proposito, la seconda "Dragon of the Primordial Sea", affascinante per le liriche ispirate al culto di Akhenaton (che per chi non lo sapesse era il padre di Tutankhamon e fondatore di una religione di stampo enoteistico), ma soprattutto per quegli inserti strumentali tipici della tradizione araba che ci trascinano al tempo dei faraoni. "Throne of Shamash", la terza song, prende le distanze dalle altre canzoni e si manifesta come una mazzata di violenza inaudita, al limite del brutal. Facciamo una piccola pausa con l'esoterismo strumentale di "Through the Stargate" e arriviamo a "Erishkigal: Kingdom of Death". Erishkigal, nella tradizione mesopotamica, era la regina della Grande Terra, dea di Kur, la terra dei morti nella cultura sumera e qui le sue tematiche vengono affrontate grazie ad un sound malvagio, oscuro che arriva a scomodare anche gli Aevangelist in una furibonda traccia, dove la roca voce del frontman, convince appieno. La song è monolitica, una sassata in pieno volto senza troppi orpelli stilistici, che invece riappaiono in "Pazuzu: Harbringer of Darkness", traccia decisamente più ritmata, dal forte sapore epico e battagliero, in cui le vocals appaiono per la prima volta anche in formato pulito e le tastiere si prendono la scena nella seconda parte. Siamo a metà disco e non temete, rimangono ancora parecchi momenti interessanti di cui godere: ad esempio le tre tracce strumentali (di cui "Sweat of the Sun" è la mia preferita) che ci prendono per mano e conducono in un qualche souk arabo, dove ad esibirsi troviamo incantatori di serpenti e danzatrici del ventre. C'è però ancora modo di fare male con il death metal distorto e contorto di "God of Creation" o ancora con l'apocalittica ed esoterica "Apophis: The Serpent of Rebirth" che sancisce la bravura, la preparazione tecnica e l'originalità di questo ensemble statunitense, devoto al culto del solo dio Aton. Eretici! (Francesco Scarci)

(Cimmerian Shade Rec/Satanath Rec/Murdher Rec - 2018)
Voto: 80

https://satanath.bandcamp.com/album/sat201-akhenaten-golden-serpent-god-2018

mercoledì 19 settembre 2018

The Clouds Will Clear - Recollection of What Never Was

#PER CHI AMA: Post Rock, Russian Circle, Ulver
Quello dei The Clouds Will Clear è un quartetto proveniente dalla Germania, Francoforte per l'esattezza. La musica che propongono i nostri è un post rock piuttosto lineare che ogni tanto prova ad uscire dai binari grazie all'uso dei synth. "In Cyles", l'opening track, delinea comunque la proposta dei teutonici, un sound con ariose aperture cinematiche, assai poco pretenziose aggiungerei ahimé. Buone per carità le linee di chitarra, belle pesanti in alcuni frangenti, poi il solito compitino portato a casa con sufficienza e senza particolari sussulti. I riverberi di chitarra, l'aura malinconica, i frangenti ambient e tutti gli ingredienti tipici del genere, li possiamo ritrovare in questo 'Recollection of What Never Was', troppo poco per permettere ai nostri di uscire dalla massa informe di band post rock che popola ormai il pianeta. Serve una trovata, un'uscita di pista che possa realmente farmi pensare che questi The Clouds Will Clear meritino veramente la vostra attenzione. Ecco nella prima traccia non l'ho trovata e nemmeno quando il piano (un cliché) apre "Recollection", rimango colpito, già sentito mille volte, cosi come il riffing in tremolo picking o una voce che sembra provenire da una radio. Quello che più mi colpisce invece è un'atmosfera che si fa man mano più tesa, che riesce a catalizzare la mia attenzione, pur ricordandomi l'incipit del dvd degli Ulver, 'The Norwegian National Opera'. Non male soprattutto l'ascesa musicale, ma serve sicuramente qualcosa in più per scuotere la mia attenzione. Ci prova "Before the Tempest", e il suo carattere ambientale affidato a piano e basso, in un brano dal tiepido carattere autunnale che sembra fungere più da riempipista che altro e che alla fine, francamente, non mi lascia granché. Si arriva a "Attack Warning" e la solfa è la medesima, un peccato perchè mi stavo quasi ricredendo sulle potenzialità dei quattro teutonici. Troppo facile ma piuttosto inutile ripetere la lezione pedissequamente dei maestri (Russian Circle e This Will Destroy You), serve ben altro che una schizoide voce radiofonica per poter pensare di emergere dalla massa. Meglio allora provare a sterzare anzichè continuare ad insistere su flebili melodie, come quelle contenute anche nella conclusiva "Deep Sea Mining", il rischio di annoiarsi è dietro l'angolo. Onestissimi mestieranti, ma nulla di più. (Francesco Scarci)

martedì 18 settembre 2018

Grimorium Verum - Revenant

#PER CHI AMA: Symph Black, Dimmu Borgir, Cradle of Filth
Era da un po' di tempo che davo il black sinfonico per morto, soprattutto dopo le ultime performance orchestrali dei Dimmu Borgir. Invece, dalla città di Syktyvkar, a nord est di Mosca, ecco arrivare i Grimorium Verum, portatori della fiamma nera nella sua veste symph. 'Revenant' è il quarto album della band russa, che esiste addirittura dal 1996, sebbene si sia presa una pausa di riflessione tra il 2001 e il 2006. Quel che conta alla fine è che siano tornati sulla scena a distanza di tre anni da 'Relict' e l'abbiano fatto con una certa convinzione. Forse l'opener, "The Born Son of the Devil", non risulterà tra le tracce più convincenti dell'album, ma lascia presagire la vena fortemente sinfonica del lavoro, complice una spiccata propensione alle orchestrazioni che si odono a metà brano. Quello che semmai colpisce è la parte solistica del duo russo, davvero graffiante e di scuola death/thrash. Ma dicevo che forse l'opener non è il momento migliore dell'album, visto che con "The Kingdom of the Pain" i nostri si lanciano con il loro black thrash ruggente, tra ritmiche tiratissime, harsh vocals ed improvvise parti atmosferiche affidate al tastierista di supporto alla band, che si avvale peraltro anche di altri quattro musicisti addizionali. La proposta dei Grimorium Verum è davvero intrigante, miscelando reminiscenze dei Dimmu Borgir (periodo 'Puritanical Euphoric Misanthropia'), con gli Old Man's Child, un pizzico di Cradle of Filth (soprattutto nell'utilizzo delle voci femminili e nel cantato più evocativo/recitato del frontman) e un thrash metal davvero raffinato. La qualità del disco va aumentando con la magniloquente "The March of the Northern Kings" e quei suoi chitarroni che s'intersecano col bombastico suono delle tastiere e il meraviglioso attacco solistico, cosi come accade nella seguente "Blind Faith in Nothing" che ha un piglio analogo ma vede la comparsata anche del pianoforte nel suo velenoso incedere. Il disco prosegue, forse troppo lungamente (e qui risiede uno dei pochi difetti di 'Revenant'), su queste note, sfoderando pezzi più o meno interessanti, di cui vorrei sottolineare l'intensa "The Light of Dark Father", solenne nella sua parte ambient centrale, davvero fenomenale, laddove il vocalist si lancia anche in un cantato corale super pulito. Ultima menzione per "The Great Serpentine Saint", assai vicina al chitarrismo di 'The Cruelty and the Beast", ma anche qui ecco comparire delle vocals pulite che spezzano la veemenza ritmica dei russi e prendono nettamente le distanze dal genre (si un po' come fatto dagli ultimi Dimmu Borgir per intenderci). Insomma, alla fine un lavoro questo 'Revenant', che mi sono gustato con sommo piacere dall'inizio alla fine, un album che mi spinge sicuramente a saperne di più sul passato dei Grimorium Verum. Ben fatto! (Francesco Scarci)

(Symbol of Domination/Cimmerian Shade Rec/The True Plague/Black Metal Rec - 2018)
Voto: 75

https://symbolofdomination.bandcamp.com/album/sodp109-grimorium-verum-revenant-2018

Svin - Virgin Cuts

#PER CHI AMA: Avantgarde/Alternative/Noise
La cosa che più mi piace degli Svin è, che nonostante siano passati degli anni dal loro primo ottimo album del 2011, con le loro uscite, sono sempre andati verso un crescendo artistico. La recente trasformazione in trio non li ha indeboliti ed il succo della loro musica è rimasto invariato, lo stile si è evoluto, è diventato adulto, più raffinato e disturbante, più conscio delle proprie idee e rigenerato da un'originalità in grande spolvero. Intendiamoci, la musica strumentale di questa band di Copenaghen non è mai stata di facile approccio e questo nuovo 'Virgin Cuts' (uscito per la Mom Eat Dad Records) di certo non è nato con l'intento di esserlo ma la fantasia che contraddistingue il trio danese è invidiabile. Stiamo parlando di musica alternativa, sperimentale, allucinata, complessa, che va via via stratificandosi e nota dopo nota fa perdere l'orientamento al povero ascoltatore. Le composizioni sono oggi oramai più vicine al jazz d'avanguardia pur nutrendosi di suoni provenienti dagli angoli più disparati della musica, da suoni di confine di ogni genere, muovendosi come arie cinematografiche, colonne sonore introspettive, rumorose, alternando schizofrenia e quiete ed un ambient per nulla rilassante. Quindi riusciremo a sentire percussioni etniche che si fondono ad umori industrial, un sax notturno che dialoga con il noise elettronico e atmosfere bizzarre con loop lacerati rubati ai Seefeel, in odor di divagazioni lunatiche alla Zorn, luci da jazz club fumosi, richiami al mito ieratico della urgente, rumorosa, creatività dei Sonic Youth del debut 'Confusion is Sex'. Infine, per non far mancare nulla a questa magica pozione, aggiungete un tocco di no wave e il legame con le prime superbe e complesse composizioni del signor Arvo Pärt (vedi "Sinfonia nr.1") e l'ispiratore zappiano quale fu il geniale Edgar Varèse (vedi "Hyperprism" e "Poème Électronique"). Avanguardia è il nome da incollare oggi alla musica dei nuovi Svin, musica colta e matura, trasversale e tagliente, stravagante e intelligente. Posso garantire che questo album diventerà la vostra prossima ossessione sonora. (Bob Stoner)

(Mom Eat Dad Records - 2018)
Voto: 80

https://svin.bandcamp.com/album/virgin-cuts

lunedì 17 settembre 2018

Phal:Angst - Phase IV

#PER CHI AMA: Post Metal/EBM
Album particolare quello che ho tra le mani oggi. Trattasi dei viennesi Phal:Angst, band a me totalmente sconosciuta fino ad ora, che con questo 'Phase IV' arriva al traguardo del quarto album. Leggendo sul web, capisco che la band è promotrice di un sound a cavallo tra EBM, Industrial e post-rock. Lo si evince immediatamente ascoltando la lunga e claustrofobica traccia in apertura, "On the Run", tra l'altro il singolo apripista del lavoro. La song ha un incedere asfissiante tra suggestive atmosfere post rock, tra l'altro corredate da un chitarrismo bello pesante, su cui si installano successivamente rumorismi industriali e pattern electro-EBM. Il suono è cristallino, splendido a tal proposito l'inizio di "Money and Fame", in cui si possono distinguere chiaramente strumenti ed effetti vari. La song ha un piglio elettronico nel suo delicato proporsi, ma quello che frega sembra essere una monoliticità di fondo della proposta del combo austriaco. Non c'è infatti dinamicità nella traccia, sembra sempre che debba decollare da un momento all'altro, ma alla fine non accade nulla se non rilasciare un sound sintetico che alla fine risulta quasi sfiancante. Due brani e si sfiorano già i 19 minuti e con i successivi non si scherza altrettanto viste le durate infinite di pezzi che si palesano alla fine tutti allo stesso modo, ossia con un'importante base ritmica costituita da un bel riffone portante e che incorpora elementi elettronici, cyber vocals (in versione pulita o sussurrata), insomma un po' come se i Neurosis si mischiassero con i Coil. Lo stesso dicasi di "Comeuppance" e francamente la sensazione inizia a divenire alquanto frustrante, cosi come con gli oltre dodici minuti di "Despair II", una nenia colossale che non vira mai verso lidi alternativi, ma che nei primi cinque minuti propone fondamentalmente la stessa soluzione musicale; fortuna nostra che la song va alla ricerca di soluzioni un po' più mutevoli, altrimenti il rischio di stroncatura era davvero dietro l'angolo. Non che le cose cambino drasticamente, però i nostri ci mettono dell'impegno per provare ad acquisire nuovi fan con fughe oniriche o successivamente con un approccio quasi dronico, nella song che mi rimarrà in mente più che altro per la lunghezza del titolo ("They Won't Have To Burn The Books When Noone Reads Them Anyway") che per altro. Arrivo stancamente alla conclusione di 'Phase IV', con un paio di remix (l'ipnotica "Despair II" e la quasi EBM "The Books Jk Flesh"), entrambe contraddistinte da un carattere quasi trip hop, di cui avrei fatto volentieri a meno. Che fosse un disco particolare, lo avevo dichiarato sin dall'inizio ma che fosse un paccone di questo tipo, lungi da me dall'immaginarlo. Che fatica. (Francesco Scarci)

(Bloodshed666 Records - 2018)
Voto: 60

https://phalangst.bandcamp.com/track/on-the-run

Tommy and the Commies – Here Come

#PER CHI AMA: Garage Punk Rock
Questo disco riafferma che il buon vecchio punk rock non morirà mai e continuerà a dare ottime emozioni e scossoni ritmici al fulmicotone. Tommy and the Commies, un power trio, un nome provocatorio, un canonico e vintage modo di intendere il punk, una carica esplosiva per una manciata di brani irresistibili che vi faranno ringiovanire nei soli sedici minuti di durata dell'album. I brani sembrano usciti dal cassetto di punk band leggendarie come i The Undertones, con accorati cori pop stradaioli ed un vocalist dal canto rubato al mito di Howard Devoto e i suoi indimenticabili The Buzzcocks; aggiungete poi l'assalto sonico di Johnny Thunder ed i suoi Heartbreakers ed il disco perfetto è servito. Un brano migliore dell'altro, dall'iniziale "Devices" ai successivi "Permanent Fixture", "Suckin' In Your 20's" e alla magnifica "So Happy" (dal finale peraltro splendido), confermano come il primo lavoro di questo trio proveniente dall'Ontario, s'inserisca a meraviglia nel cast di chicche punk, psych e garage, dell'instancabile etichetta canadese, Slovenly Recordings, che sicuramente è tra le punte di riferimento nel settore underground ed alternativo per i generi in questione. Il tempo non sembra essere passato ed il punk, musicalmente parlando, per questa band, che suona davvero bene, non si è mai evoluto, anzi si è fermato al 1977 con quella grande passione ed accanimento, una fede che ha fatto rimanere i tre musicisti canadesi ancora dei teenager duri e puri come si faceva qualche decennio fa, con un'attitudine che esalta l'egregia qualità di questa release fulminante. Niente di nuovo, anzi, lacero e vecchio ma elettrizzante, accattivante, indomabile punk rock old school. Produzione ottima per un disco breve, d'assalto, otto canzoni che in un'altra epoca sarebbero state delle hit da alta classifica. Ascolto obbligato. (Bob Stoner)

Tangled Thoughts of Leaving - No Tether

#PER CHI AMA: Post Metal Sperimentale
Per chi non li conoscesse (il sottoscritto ad esempio), i Tangled Thoughts of Leaving sono un quartetto australiano che si diletta nell'esplorazione del post metal, sporcato da doom/jazz e sonorità progressive, il tutto rigorosamente strumentale. 'No Tether' è il loro terzo album (ci sono parecchi EP all'attivo però), fuori in co-produzione tra Bird's Robe Records e la Dunk! Records. Un lavoro di oltre 56 minuti che sin dalle battute iniziali si conferma ostico da digerire musicalmente: "Sublunar" è infatti un'intro rumoristica che introduce al paesaggio sonoro affrescato da "The Alarmist", la prima perla di questo cd. Una traccia che delinea il carattere stralunato della compagine originaria di Perth abile nel miscelare una song dai forti connotati post con rallentamenti caratteristici della musica del destino, in un incedere melmoso ed imprevedibile dotato di una profondità di suoni che riempie le orecchie e satura il cervello. E con un riverbero assai prolungato si arriva a "Cavern Ritual", densa nel suo lentissimo avanzare, con suoni che accelerano il battito cardiaco, scatenando ansie e paure, generando angoscia ed un profondo senso di intorpidimento degli arti in quello che potrebbe essere tranquillamente un funeral doom dalle tinte progressive. Soggiogato dalle tinte fosche della terza traccia, trovo finalmente ristoro nella lunga "Signal Erosion", quasi tredici minuti di sonorità droniche che si fondono con psicotici giri di chitarra e delicati tocchi di tastiere. La ritmica però preme per trovare un suo spazio, si concede degli strappi post-hardcore ma dovete pensare comunque ad una pluristratificazione sonica su cui si muovono indipendenti questi generi, con l'aggiunta di meravigliose fughe jazz (con tanto di trombe e tromboni all'opera), momenti ambient e rallentamenti doom sul finire, in quello che potrebbe essere un incubo ad occhi aperti. Posso ammettere che qui una voce non era strettamente necessaria tale la complessità generata da questi quattro incredibili musicisti. Vi basti chiudere gli occhi e provare (dico provare) a farvi guidare dalle visioni oniriche immaginate da questi impavidi australiani. Stravolti da una massiva portata musicale, si arriva a "Inner Dissonance" e immaginarla come musica di sottofondo in un qualche jazz club, non sarebbe certo un'eresia. I suoni tornano a farsi minacciosi con "Binary Collapse", dove una ritmica tonante si fa accompagnare dal piano in un'ispirata cavalcata metal che viene interrotta da un break post rock che allenta per un po' la tensione dirompente degli esordi, ma spinge tuttavia per poi riesplodere nel corso del brano e far breccia nella seconda metà tra le invasate melodie di tromba e pianoforte in un poderoso climax che sale di livello, di potenza, di intensità, di tutto per un finale frastornante da applausi. Per ultima la title track: dodici minuti affidati a spettrali rumori, cacofoniche melodie, landscapes dronici, tumultuose ritmiche e una dose massiccia di creatività che mi spingono inevitabilmente a saperne di più di questi imprevedibili Tangled Thoughts of Leaving (tanto da indurmi a comprare i precedenti lavori), una bella scoperta davvero. Una jam session a tutti gli effetti. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records/Dunk! Records - 2018)
Voto: 85

https://music.tangledthoughtsofleaving.com/album/no-tether

martedì 11 settembre 2018

Niet - Dangerfield

#PER CHI AMA: Post Punk/Noise, Shellac
Fare musica noise punk in due persone non deve essere faccenda cosi semplice. Ci provano i Niet (il cui moniker è un omaggio ai NoMeansNo), ensemble proveniente dalla provincia di Ferrara che con armi e bagagli in mano (una chitarra e una batteria), ci sparano addosso questo EP di cinque pezzi, intitolato 'Dangerfield'. L'approccio all'opener "All Work And No Play" non è quanto di più semplice mi aspettassi: la musica ha un'espressione alquanto minimalista (anche a livello vocale), si sente che manca di qualcosa. Complice anche una registrazione lo-fi, mi lascio comunque investire dalla carica energica di questi due ragazzi. La matrice musicale del duo è sicuramente punk-hardcore - penso ad una versione più corrotta dei Melvins - su cui poi i nostri ci innestano ridondanze noise/math. Quella della ripetitività dei suoni (caratteristica di Shellac e Jesus Lizard, altre due importanti influenze della band di Portomaggiore) emerge anche nella seconda "Sinking", canzone ruvida, schizoide e snervante quanto basta per spingermi a premere sul tasto skip, per evitare di accumulare una fastidiosa rabbia interiore. Questo è infatti l'effetto che subisco nell'ascoltare le scorribande noise punk dei Niet, è musica che necessiterebbe infatti di una bella valvola di sfogo, magari un bel pogo durante uno dei devastanti concerti del duo emiliano. Nel frattempo, il disco prosegue tra deliri post punk con "MDZhb" e tribaleggianti divagazioni math (la title track) che tuttavia stentano a decollare, come se deprivate di quel quid che invece ha reso magiche le proposte delle altre band citate sopra. A chiudere ci pensa "KEXP", forse il pezzo meglio riuscito del disco, in cui la componente vocale sembra più fluida, al pari delle linee di chitarra, per lo meno più fruibili. C'è ancora tanto lavoro da fare per poter almeno avvicinarsi ai mostri sacri e dare una maggiore fruibilità ad un disco desisamente ostico, e in cui la cattiveria non è messa al giusto servizio della musica. (Francesco Scarci)

lunedì 10 settembre 2018

Antisoph - S/t

#PER CHI AMA: Avantgarde/Progressive, Ved Buens Ende, Ulver
Con alle spalle una serie di esperienze in molteplici band (Kerbenok e Vnrest) e una passata storia col moniker Orb, giungono a noi i tedeschi Antisoph con questo primo lavoro targato Geisterasche Organisation. Il cd consta di sette tracce che sin dall'opener "Karmaghoul", lascia intuire che non ci troviamo al cospetto di una band estrema propriamente convenzionale. Questo perchè a fronte di un'irrequieta tempesta musicale di stampo black, poi a comparire sono vocals che mi evocano Ved Buens Ende, Ulver o addirittura Voivod. La musica degli Antisoph è a tratti devastante con sfuriate in blast beat o schitarrate in tremolo picking, ma quello che entusiasma sono quei vocalizzi puliti che ricordano per l'appunto Carl-Michael Eide, frontman delle due band norvegesi citate sopra e membro (o ex-) di un quantitativo esorbitante di realtà quali Aura Noir, Satyricon, Dodheimsgard, Fleurety, tanto per fare qualche nome. E forse proprio a qualcuna di queste imprevedibili realtà musicali norvegesi che il nostro terzetto di Schleswig-Holstein prova a guardare, mischiando le carte, e tra sparate estreme, ci piazzano mirabolanti trovate progressive, come i bravi Enslaved insegnano. Basti ascoltare l'assolo finale dell'opening track per trarre questa banalissima conclusione oppure trovare piacevole conferma in altri pezzi: "Hypnoroom" suggerisce qualcosa degli Ulver dei tempi di 'Blood Inside', concimandolo con un black'n roll furioso e psicotico con tanto di cavalcata sincopata a livello ritmico. Una corsa che lascia senza fiato tra ritmiche dissonanti e riff di scuola "vektoriana". "Distant Scream" è un notevole esempio di estremismo progressivo, non posso etichettare come black o death perchè qui di voci scream o growl non c'è traccia, però le sventagliate ritmiche sono portentose e fanno molto più male di realtà ben più estreme dei tre teutonici che qui si dilettano non poco con rincorse paurose al limite del parossismo, smorzate da inattese divagazioni jazzate che mettono in luce una notevole preparazione tecnica e una capacità mostruosa a livello compositivo. Nulla è scontato in questo cd anzi, il rischio di incorrere nell'eccesso di voler sorprendere ad ogni costo l'ascoltatore, ne penalizza addirittura l'ascolto vista una scarsa orecchiabilità per brani al limite del geniale. Il disco mi piace, soprattutto nei frangenti più estremi e penso alla cavalcata post black negli ultimi minuti della terza traccia; talvolta però non è cosi semplice digerire la scarsa linearità musicale dell'ensemble e la voce che emula anche i Vulture Industries nelle tonalità più alte, sembra andare leggermente in difficoltà. Tuttavia insisto, l'album è notevole oltrechè ostico, ma se riuscirete a prendere le giuste precauzioni anche voi non potrete non apprezzare le tortuose e urticanti ritmiche di "Death" e quel suo break centrale che ammicca anche agli ultimi Opeth e al contempo si concede un'altra sfuriata black nel suo epilogo. "Teleport Maze" dà un'altra dimostrazione di spiccata personalità con suoni e voci che chiamano in causa a caso Opeth, Arcturus, Cynic, ma anche il math di Between the Buried and Me o dei Follow the White Rabbit, in una assalto sonoro difficile da gestire perchè cosi frastornante e deviante. Con "Ghostking", il trio prova a rallentare un po' le velocità disumane a cui ci ha abituato sin qui, ma come sempre con questa band dovete aspettarvi sempre di tutto di più, e quindi via ad orpelli blues rock di chitarra, un break progressivo, un bell'assolo, per quello che in definitiva sembra essere il momento più pacato del disco. A chiudere ecco l'acustica delicata di "Rejoice" che rappresenta in questo caso, la meritata quiete dopo una spaventosa tempesta. (Francesco Scarci)

(Geisterasche Organisation - 2018)
Voto: 80

https://antisoph.bandcamp.com/

domenica 9 settembre 2018

Marla and David Celia – Daydreamers

#PER CHI AMA: Psych/Folk Rock
Come da buona prefazione, il titolo di questo disco ('Daydreamers') ci indica la chiave di lettura della musica contenuta in esso. Fare i conti con un album creato da due giovani talentuosi cantautori come Marla Green e David Celia, è un vero piacere ed il gioco diviene facile e credibile, immergendosi nelle atmosfere soffici e cristalline dei loro brani, attraversando il loro modo delicato di vedere l'alternative country ed il folk americano. La musica del duo di Toronto, si muove tra leggerissime arie di chitarre acustiche e pacati ritmi di batteria e basso, tutte intente a supportare le voci ispirate dei due blasonati artisti, che si muovono in duetti dal canto rilassato, con il tono di chi ha trovato nella natura del Canada l'habitat perfetto. L'accostamento a June Carter e Johnny Cash è quasi d'obbligo in brani come l'ottima "Lover of Mine" oppure "Heart Like A Dove", anche se l'atmosfera non è infuocata come nella famosa "Jackson", ma da luci che si abbassano al calar del tramonto. Fantastica la voce di Marla nel brano che dona il titolo all'album, dove il ricordo di Dolly Parton è ancora vivido riarrangiato in una veste hippie alla Joni Mitchell. Molto bella e professionale poi la produzione del disco, che ha suoni colorati e profondi, palpabili e vivi, umani, troppo umani, bellissimi, nello stile folk di Sharon Krauss dell'album 'Songs and Loss'. Ottima e stravagante la traccia "Brave New Land" dove il ritmo si alza leggermente e si discosta dal seminato in maniera lunare e più psichedelica. Le atmosfere che toccano il folk rock psichedelico degli anni sessanta unite a richiami dei Fleet Foxes, la voce rassicurante di David, il romanticismo diffuso tra i brani, la stupenda copertina alla Nick Drake e quel pop sommesso di casa Beatles come in "I Am Her Man" e nella conclusiva "All in Rhyme", danno un degno finale ad un disco che si lascia ascoltare beatamente, in modo lineare e scorrevole, dolce come una giornata frizzante di primavera. Grande prova di maturità artistica, ottimo lavoro! (Bob Stoner)

(Elite Records - 2018)
Voto: 75

https://marladavidcelia.bandcamp.com/releases

Mass Disorder - Conflagration

#PER CHI AMA: Thrash/Death, Testament, Sepultura
Se penso al distretto di Setubal in Portogallo, mi viene in mente automaticamente José Mourinho. Oggi scopro che da quelle lande, dalla città di Almada in particolare, arrivano questi Mass Disorder con quello che è il loro full length d'esordio. 'Conflagration' segue a distanza di quattro anni l'EP di debutto dei nostri, ' The Way to Our End', proponendo ed implementando un sound all'insegna di thrash e death metal. "Arson" ha l'onore di preparare l'ascoltatore all'assalto sonoro del quartetto lusitano, che vede tra le proprie fila un paio di ex membri dei New Born Chaos. "Rats" esplode nel mio stereo con la sua miscela iper-tonica a base di thrash metal di scuola Bay Area. Mi sovvengono infatti i Testament di 'The Legacy', con quella loro carica di ferocia accompagnata da una discreta dose di groove, tiratissime ritmiche, ma soprattutto ottimi assoli che negli ululati delle chitarre, arrivano addirittura ad eccheggiare gli Slayer di 'Raining in Blood'. Sicuramente nulla di nuovo sotto il sole, ma sapete che la forza dirompente di questo gruppo, unita ad una certa nostalgia per quei suoni passati, mi ha fatto trascorrere piacevolmente l'ora spesa all'ascolto di questo 'Conflagration'. Si, perchè anche il thrash urticante di "Modus Operandi" non è affatto male, soprattutto quando a deflagrare nelle casse c'è quell'alternanza tra i due axemen nel sciorinare splendidi assoli rigeneranti. La musica poi è la classica cavalcata che non trova soste, visto che s'infila subito in coda "Death Vow", con la voce di Bruno Evangelista ad emulare quella del ben più famoso collega americano, Chuck Billy e i due chitarristi, Nelson Carmo e Valter Aguiar, a dilettarsi in inseguimenti solistici da brividi. Peccato per un finale sfumato, avrebbe certamente meritato qualcosa più ad effetto, soprattutto perchè interrompe quel flusso sonoro che si era costruito con le prime quattro tracce. Probabilmente la scelta è legata al fatto che la voce di un qualche politico/dittatore (non sono riuscito a capire di chi si trattasse) apre "Violence", una song il cui chorus "Destroy, Invade, Erase, Violence" la dice lunga e aggiunge peraltro un'altra influenza ai nostri, ben più evidente qui, ossia i Sepultura di 'Arise'. E allora fatevi asfaltare anche voi dall'irruenza dei Mass Disorder, dalle rasoiate impartite nei solos, da quella furia ritmica sempre ben canalizzata. E ancora, immergetevi nel clima di "Vicious Circle", là dove sembra di trovarsi all'interno di una qasba dell'antico mondo arabo, prima che il rifferama compresso dei nostri si scateni in una song di ben nove minuti, fatto inusuale per il genere. Comunque il pregio dei Mass Disorder sta nel non annoiare mai, grazie e soprattutto al lavoro certosino alle sei corde, qui ancora una volta notevole. Le ultime due tracce sono affidate a "Premonition", in cui sottolinerei la buona performance vocale del frontman, sempre a proprio agio su questo genere di sonorità e le ottime melodie di fondo proposte dalla sezione solistica, vero punto vincente di questo disco;  ed infine "Illegal Ambition". Questa rutilante song sembra coprire quasi ben 19 minuti del disco affrontando ancora tematiche di guerra; in realtà una decina di minuti sono affidati a dialoghi che sembrano provenire direttamente dal video di "One" dei Metallica, mentre gli ultimi tre minuti sono affidati ad una sorta di ghost track che funge da compendio di tutto quanto ascoltato fino ad ora, ossia un mix tra Testament, Sepultura, Slayer e perchè no anche Megadeth, Metallica ed Exodus per quello che è un vero Clash of the Titans, formato 2018. Bravi. (Francesco Scarci)

(Ethereal Sound Works - 2018)
Voto: 75

https://www.facebook.com/massdisorderband

giovedì 6 settembre 2018

Frust - Elements

#PER CHI AMA: Atmospheric Black Metal
Peccato che l'EP d'esordio degli austriaci Frust duri solo poco più di quindici minuti, avrei voluto ascoltare qualcosa di più per capire maggiormente quest'artista. Si perchè trattasi di one-man-band originaria di Kremsmünster, capitanata da Mario Steiner, che propone un 4-track che tratta i quattro elementi della natura. Si parte con "Earth" e il canto litanico di una donna (forse la Madre Terra) a prendere la scena, prima dell'innesco della malinconica chitarra di Mario su cui poggia il cantato etereo ed evocativo di quella stessa donna, in un incedere compassato dai toni vagamente etnico-ritualistici. Inusuale, affascinante, soprattutto quell'aggiunta nel finale di chitarre più aggressive, solo un po' penalizzante la registrazione non troppo pulita. Comunque la proposta del factotum austriaco si rivela particolare nella sua interezza, anzi direi originale, soprattutto perchè nel secondo atto, "Air", si scatena un'ancestrale furia black all'interno di un contesto comunque melodico e violento al tempo stesso, in cui fanno la loro comparsa anche le grim vocals del mastermind austriaco. Con "Water" ho un deja-vu per l'eterea voce che può ricordare la brava e bella Myrkur; però in pochi secondi una cacofonica ritmica brutale ci assale e assume la guida del brano, prima che lasci posto a frangenti dal sapore più post-rock. Si insomma tanta carne al fuoco che rischia di destabilizzare (e non poco) l'ascoltatore, soprattutto perchè negli ultimi 90 secondi della terza canzone, c'è ancora spazio per quelle voci angeliche e lo stesso veemente uragano ritmico. A chiudere l'EP ecco "Fire", gli ultimi tre minuti scarsi di suoni e vocals belligeranti, un infuocato attacco black che prende le distanze dal resto dell'EP e si àncora alle radici della fiamma nera. Intriganti. (Francesco Scarci)

(Self - 2018)
Voto: 70

https://frust-at.bandcamp.com/

mercoledì 5 settembre 2018

Obsolete Theory - Mudness

#PER CHI AMA: Black/Doom, Septic Flesh
Il debut dei milanesi Obsolete Theory ha tutte le carte in regola per essere un album con i controcoglioni: dalla produzione a carico di Øystein G. Brun dei Borknagar all'artwork a cura di Jeff Grimal dei The Great Old Ones, il tutto sotto l'egida della nostra My Kingdom Music. Il risultato? Alquanto ambizioso, oserei dire. 'Mudness' consta di cinque tracce della durata media di 10 minuti che sapranno condurvi nei meandri black doom di questo sestetto milanese devoto a H.P. Lovecraft, e alle reltative atmosfere orrorifiche ed occulte. Il tutto è già certificato dall'opener "Salmodia III", un pezzo ritmato dalla produzione bombastica, dall'aura minacciosa che esplode solo a pochi metri dal traguardo. Prima assistiamo ad una preparazione con atmosfere decadenti in cui si fa notare l'eclettica performance al microfono di Daevil Wolfblood, ma la musica francamente stenta a decollare. Ci riesce fortunatamente la seconda "Six Horses of Death" che irrompe con una bella melodia di fondo e poi di nuovo una ritmica quasi militaresca sulla quale si innescheranno raddoppi vocali, orecchiabili refrain di chitarra che rendono la proposta dei nostri decisamente accessibile, con rallentamenti in stile 'Shades of God' dei Paradise Lost. Death, black e doom s'incontrano nelle linee di chitarra di questa seconda traccia, avvalorando una proposta che sembra carburare sempre con estrema lentezza. Ma il diesel degli Obsolete Theory scalda i motori certamente in "Sirius' Blood", la quarta traccia, dove il flebile suono di un glockenspiel si scontra con un basso pulsante e la marzialità del drumming possente di Sa' Vaanth in una song spettrale, pregna di una certa orchestralità, ma anche di una violenza di fondo che prende il sopravvento attraverso ritmiche tiratissime e una performance vocale spiritata, con gli arrangiamenti in sottofondo che fanno certamente la differenza. Influenzati un po' dai Septic Flesh, irrobustiti da un tocco dei Behemoth e resi drammatici da quel pizzico di My Dying Bride che c'è nelle loro vene e l'affresco partorito dagli Obsolete Theory è delineato. Interessante in ultimo la sezione solistica del brano, ove le linee melodiche si sprecano e la song ne trae sommo giovamento candidandosi a miglior brano del lotto. Se la gioca infatti con "The God With the Crying Mask", brano lento e malefico, forse per la voce del frontman, qui ancor più maligna (e talvolta sussurrata e pulita) che poggia dapprima su un lento rifferama doom che esploderà da li a poco, in un serratissimo riffing black. Tra i brani, non ho ancora citato "Dawn Chant", il terzo episodio del disco che vede i toni compassati sposarsi con le vocals pulite del cantante in una traccia che ancora una volta, vede il brano crescere progressivamente a livello ritmico, imbastendo una notevole veemenza black death nella sua seconda metà. Alla fine 'Mudness' è un sicuramente un buon esordio, con i suoi punti di forza e di debolezza che dovranno essere inevitabilmente smussati col tempo. Per ora va bene cosi, ma dal futuro, mi aspetto molto ma molto di più, perchè i margini di miglioramento sembrano enormi. (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music - 2018)
Voto: 75

https://obsoletetheoryband.bandcamp.com/releases

martedì 4 settembre 2018

Newspaperflyhunting - Wastelands

#PER CHI AMA: Psych/Prog/Post Rock
Ci ho impiegato un bel po' di tempo per approcciare i polacchi Newspaperflyhunting, non tanto musicalmente più che altro da un punto di vista vocale. 'Wastelands' è il loro terzo lavoro, un album di otto pezzi che ha provato in ogni modo a catturarmi con una proposta musicale a tratti stuzzicante che tuttavia mi ha fatto storcere il naso invece per la voce del loro frontman. Andiamo però con ordine: si parte con la breve "We Used to Wander", che mette in luce le peculiarità dell'ensemble di Białystok, nel proporre un rock compassato e malinconico, ricco di synth e suadenti melodie, rovinato ahimè (e qui sta il problema principale) dalla pessima voce di Michał. La lunga e strumentale title track ha un'apertura onirica che poggia su melodie astrali di stampo shoegaze/post-rock che inevitabilmente inducono ad un abbandono totale, in una song che piano piano inizia a decollare su riff più elettrici in tremolo picking che ne esaltano l'aura melanconica. Si torna su una song di più breve durata, "A Question", in cui a presentarsi dietro al microfono, c'è questa volta la voce di una gentil donzella (non proprio all'altezza a dire il vero) la cui psicotica performance segue la schizoide frenesia musicale di un brano che poteva uscire solo dalla mente di Bjork. I nostri provano a rifarsi con la successiva "Down the Steps", anche se alla fine risulterà troppo statica, fatto salvo per l'ultimo minuto che sembra completamente prendere le distanze dalla prima parte del pezzo. Difficile comunque calarsi all'interno delle sonorità alquanto difformi di questo disco: "Sleep" ci riprova con la voce femminile, ma la scelta di utilizzare Gosia alla voce (lei è la bassista) non è troppo azzeccata. Lo stesso dicasi per "Hours Pass" dove Gosia prova ad emulare Dolores O'Riordan, con risultati alquanto distanti dall'originale. "Equal to None" sembra voler chiamare in causa Neil Young, mentre la lunghissima "Solaris" (quasi 17 minuti) si nasconde in forse troppo prolisse melodie post rock, peraltro cantate in lingua madre, aumentando quel senso di frustrazione nell'ascoltare la musica di questi Newspaperflyhunting. Insomma, 'Wasteland' è un album con più ombre che luci, che forse potrà ingolosire i fan della band, e pochi altri amanti di sonorità prog anni '70 che sapranno andare oltre alla fastidiosa performance vocale dei due cantanti. Io francamente, non ne sono stato in grado. (Francesco Scarci)