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giovedì 14 novembre 2024

We Fog - Sequence

#PER CHI AMA: Post Rock/Math
Devo ammetterlo, questa band veronese ha molte qualità anche se, con questa nuova seconda uscita, a distanza di anni dal precedente 'Float' del 2017, non ha voluto mostrare evidenti segni di cambiamento stilistico, e l'istrionico attaccamento ai canoni del post rock e indie rock di fine anni '90/2000, li rende volutamente alfieri di un sound che un tempo fu venerato da molti. Oggi il trio si trova un po' fuori tempo massimo a livello commerciale e neanche la produzione di un guru di questi generi musicali, come la mente degli Ulan Bator, Amaury Cambuzat, dietro alla console di regia, poteva cambiarne la sorte, spingendoli verso lidi sonori più attuali, visto che fu proprio lui, anni or sono, a scrivere album indimenticabili, proprio nel segno del miglior post rock. Però di fatto, questo suo suonare un po' vintage, non ci distoglie dal giudicare 'Sequence', un buon album, suonato con passione e molto motivato, fruitore dei giusti suoni da usare per ottenere l'effetto sonoro desiderato e senza pensare al mercato discografico. Il disco ha molte divagazioni ai confini dell'indie/math rock e la mano di Cambuzat si sente eccome; il suo modo di intendere il sound globale e in particolare della batteria, è infatti inconfondibile, ma la bravura e l'esperienza dei We Fog è assodata da tempo e questa musica la sanno fare bene, molto bene. L'apertura del disco "A Father's Love", è potente e aggressiva, perfetta come biglietto da visita, al pari della trascinante "Meat Without Feet", mentre "No Land for Hope" (dove peraltro Cambuzat suona il synth), con i suoi cambi altalenanti, trasmette malinconia e una voglia di estraniarsi da tutto quello che ci circonda. Non male anche il video di "Kind Warrior". Qualche critica leggera a mio avviso, potrebbe cadere sugli effetti usati in alcune parti vocali, che a volte non rendono giustizia alle stesse, dando l'impressione, di essere poco considerate e tenute come in disparte. Capisco la scelta di emulare l'effetto tipico stile vecchia radio, tipico del post rock, ma a mio avviso, il cantato rischia di estraniarsi troppo dalla musica. Comunque, tralasciando le mie inutili esternazioni personali, direi che 'Sequence', è un buon disco, che si lascia ascoltare in maniera fluida, che mostra una band in ottima salute compositiva, e che dopo ripetuti ascolti, risulta anche più intrigante, tagliente e rumoroso, più di quanto lasci trasparire la rustica immagine paesana di copertina. Da ascoltare con cura e un pizzico di nostalgia per ricordare un'epoca sonora che a molti mancherà sicuramente. (Bob Stoner)

giovedì 2 maggio 2024

Bloody Sound – Sound Bloody Sound

#PER CHI AMA: Alternative Rock
La marchigiana Bloody Sound Record, per festeggiare i sui vent'anni di attività discografica in nome del più arcigno concetto "do it yourself", ha collezionato una raccolta di 14 tracce inedite estratte dai lavori dei tanti artisti del proprio rooster, passati nei corridoi sonori fin dal 2004, e inglobandoli in una raccolta molto interessante e intelligentemente confezionata, che porta il titolo mirato di 'Sound Bloody Sound', ovvero lo stesso della prima compilation fatta uscire appunto nel 2004, quando l'etichetta era ancora una fanzine. Calcolando il vasto territorio del suo patrimonio sonico, l'ambiente musicale trattato è alquanto variegato, e spazia dal punk alternativo dei Lleroy, per arrivare alle sperimentazioni dei Saturday Night Dengue. Da questa etichetta che conta uscite di artisti assai quotati, tra cui OvO, Fuzz Orchestra e Jesus Franco and the Drogas, salta fuori una compilation che si fa ascoltare con tanto interesse dal primo all'ultimo brano, passando per punk, alternative, afro jazz, hip hop contaminato, elettronica, ambient e avanguardia. Si parte con "Cilicio", brano esplosivo degli ottimi Lleroy, per continuare con un'altra bomba che scuoterà le folle, il brano "Borgobio" di Zolle, a cavallo tra l'alternative e quel modo di intendere il rock potente, in aggiunta al glam dei Turbonegro. Di seguito i già citati Saturday Night Dengue, sperimentali, quanto l'interessante canzone di Esseforte, tribali ed etnici i primi, hip hop dal suono singolare con influenze elettro jazz il secondo. Māyā ci parla con morbida verve psichedelica; psych più elettronica invece per la coppia Mattia Coletti/Marco Bernacchia in "Night Monk", più rumorosa a tratti la proposta dei Kaouenn, mentre più luminosa quella di Terenzio Tacchini in "Plein Air". Scansionando il tutto a settori musicali e non nell'ordine di scaletta del disco, si passa poi al lato più sperimentale d'ambiente, sulla falsa riga di soundtrack ispirate e visionarie, come quella di Loris Cericola ("Tutto Tondo" sarà uno dei miei brani preferiti) o l'inconfondibile stile chitarristico del noto musicista/produttore, Bruno Dorella con la sua strumentale, cupa e desertica interpretazione del brano "Ghost Wolf". Tonto presenta una canzone dal taglio elettrodub, peraltro bella coinvolgente ma la mia attenzione cade sulla bella traccia dei Sapore, che trovo deliziosa, dal canto stregato e dalla sua sonorità astratta, acida e ipnotica. Gli Heat Fandango ci regalano una bella performance, con la loro "Giro di Giostra", al limite tra '60s garage e rock italiano, assai godibile, che riporta l'ago della bilancia verso il rock più sanguigno e nervoso che si va a incanalare perfettamente a "Sea of Darkness" dei CUT, cult band bolognese in corsa nel circuito rock da parecchio tempo. Un elenco esteso ma dovuto per cercare di darvi un motivo valido per addentrarsi in una compilation di questo tipo, compito che molti ascoltatori stupidamente, saltano volentieri a piè pari. Il bello di questa collana di titoli, è proprio il gusto musicale che fa da filo conduttore, e si muove in perfetta sintonia tra brani molto diversi tra loro, riuscendo a tessere una trama credibile e di qualità, che aiuta l'ascoltatore ad appassionarsi al disco, traccia dopo traccia. La Bloody Sound ci ha fatto proprio un bel regalo per festeggiare i suoi primi vent'anni di musica alternativa, con la release peraltro disponibile in cassetta, cd deluxe handmade a tiratura limitata, e ovviamente in formato digitale. L'ascolto, a questo punto, direi che è doveroso. (Bob Stoner)

mercoledì 3 aprile 2024

Lato - Karisma

#PER CHI AMA: Indie Psych Rock
Onde d’acqua circostanziale. È "Soul of Blood". Un suono che si trasforma in concentrici cerchi vitali. Ed è improvviso quanto imperante l’incipit dell’album, con quel graffio di elettricità strumentale a breve trasformata in una risacca cantata. Se amate l’acqua pura e i suoi abissi incantati, addentratevi in questo mare apparentemente calmo. Questa prima song dei milanesi Lato parte con la sinuosità dell’acqua che preda sia l’ascolto che l’empatia distorsionale del cantato. Muoviamoci poi verso "Certainty and Disenchantment", secondo pezzo incluso in questo 'Karisma' (che dovrebbe essere anche il secondo disco per la band italica). Stride l’esordio del brano. Picchia forte. Graffia gole arse. E poi inizia quel cantato che scalda improvvisamente. Direi una versione futurista di Jonny Cash, ma senza le tipiche inflessioni country. Il pop si mescola in una disillusione dell’attesa. Funziona bene. Anzi molto bene. E mi ritrovo trepidante. La terza traccia sarà diffratta dalle precedenti? A voi "Millions of Us", che non risparmia l’usura delle corde metalliche in un riff piuttosto accattivante, reiterato, ricco di mordente. Il fondo del brano è sempre mosso, come sballato sistematicamente da sonorità etnico percussionali, morbide. Entra il pop della voce, ma anche quello che credo sia uno stralunato sax. Non posso fare a meno di sentire rimembranze anni '90. Per una attimo sono tornata agli U2 e alla loro "Achtung Baby", ma ne siamo comunque lontani. Approvato il presente nel passato. Ma veniamo al momento oscuro del disco con "Stars Spangling". Un treno d’altri tempi sbuffa ritmicamente. E poi arriva alla stazione dolcemente. Il brano dondola in una bolla di zucchero. La voce accarezza lasciando piccole ferite tra pelle e anima. Il ritornello vorrebbe spaziare, ma accompagna. In quattro parole. Una song piacevolmente sospirante. Spezziamo la malinconica dolcezza con "Triangular". Si, perché questa song è distratta, ipnotica, e dal taglio alternativo. Posso farvela immaginare come una danza sinuosa, a tratti spinta, ma mossa da abbandono e utopia. Una traccia per dimenticarsi di se stessi, ascoltandola e riascoltandola. Elettronica, strusciante, digitale. Parte la robotica "Hole in My Head". Solo il cantato ci fa aggrappare alla realtà, mentre la base ritmica potrebbe collegarci a un gioco della Playstation. Ascoltiamo poi la robusta "Diamonds". Torna un indie pop, spaccato a metà strada tra gli Oasis e quel post punk da pub underground londinese, ove ballare e isolarsi dalla realtà, e null'altro. Arriviamo al penultimo pezzo con "Deep". La traccia parte da lontano con una lunga e tiepida carezza, e prosegue in pallide nuvole senza pioggia. È cupa, eppure non porta pioggia. È vento, eppure le foglie sono immobili. È malinconicamente emozionante eppure invisibile in un sospiro in cui la si può solo sentire, ma non vedere. Un climax emozionale in cui è la voce a guidarci nel buio. Chiudiamo l’ascolto di 'Karisma' con "Dancing with Decadence". Armonica e la voce suadente del frontman. Nostalgia e consapevolezza. Stile e coraggio. Avvolgente e caratterizzante questo album. Un incontro di suoni e voci che spezzano, accarezzano, avvolgono, sfiorano, giocano con noi. (Silvia Comencini)

sabato 23 marzo 2024

Zipper Blues - I Wish I Could Be Like a Tree

#PER CHI AMA: Dark/Alt Rock
Bisogna ammettere che, mentre ci sono artisti come il signor Lindemann, che non hanno compreso bene, o hanno semplicemente dimenticato, lo spirito con cui si faceva ottima musica alternativa tra la seconda metà degli anni '80 e i primi anni '90, (sono convinto che la sua cover di "Entre Dos Tierras", non sarà ricordata nel tempo a venire), altri meno famosi di lui, ne fanno bottino e buon uso tutt'ora, proprio come la band veronese degli Zipper Blues. I nostri, alternando erudizioni eighties con quella dell'alternative rock/grunge degli anni novanta, danno vita a un EP dagli spunti molto interessanti. 'I Wish I Could Be Like a Tree' nasconde molti richiami dell'epoca, ma come in una sfera di cristallo, l'insieme sembra tutelato da un'originalità molto intelligente, soprattutto nella composizione e nell'uso dei suoni atti alla rievocazione sonora. Il disco ha un buona produzione, moderna e di qualità, i brani risentono di un taglio tipico della new wave e del post punk, forse perché la sezione ritmica è già in forza tra le fila dei Carnage Visors, nota tribute band ufficiale dei The Cure, e fin dalle prime note, ci si accorge che basso e batteria suonano con lo stesso stile, minimale, avvolgente, pulsante e statuario, tipico dell'album 'Seventeen Seconds' di Smith e soci. Nella filosofia musicale degli Zipper Blues vige una linea molto vellutata per il rock, che anche quando si aprono alle cose più rumorose, mantengono il controllo in maniera maniacale, sobriamente ricercati, per creare un suono omogeneo che si estende per tutti i brani dell'album. La chitarra mi piace molto, perché vanta influenze che possono ritrovarsi nelle atmosfere dei Cocteau Twins ("The Gain Game"), negli Smashing Pumpkins ("Squash the Bug") e persino sfumature care al sound dei Red House Painters di 'Down Colorful Hill', offrendo un apporto importante al sound, pur rifiutando il ruolo di primadonna. Inserita sempre in maniera peculiare, la sei corde si muove a suo agio tra le ritmiche tonde, proponendosi con un suono dinamico ma non esuberante, e comunque sempre dall'anima perfettamente rock. Il tribale usato in "Insanity" rimanda all'iconico inizio di "Figurehead" dei The Cure, cosi come il giro di basso del singolo "In or Out" è un toccasana per le orecchie cosi pure nel finale della conclusiva "Lipton", dove la chitarra si appresta a riecheggiare armonie di memoria Screaming Trees e Nirvana (quelli meno rumorosi), senza mai eccedere in vortici dal sapore noisy. L'equilibrio è il grande segreto e valore aggiunto di 'I Wish I Could Be Like A Tree', album autoprodotto registrato negli studi della Fantasma Records. Il quartetto suona bene e il disco non mostra lacune, l'anima dark si estende qua e là, capitanata dalla bella voce di Sara, che difficilmente si presta a un confronto con vocalist più famose, poiché vive di una veste canora tutta sua, uno stile particolare, che guarda al glam, ma che sa dare anche profondità (ascoltatevi "The Gain Game") e il riferimento più attinente, se proprio vogliamo paragonarla a qualcuno, direi Anneke van Giersbergen dei The Gathering in "Shortest Day", primo brano dell'album 'Home'. Stiamo parlando di rock raffinato e maturo, con una buona dose di esperienza portata da musicisti che sanno costruire brani efficaci e piacevoli. Non rimarrete delusi da questo EP di debutto degli Zipper Blues, e sicuramente non avrete la sensazione di trovarvi di fronte a uno scontato e sommario album buttato lì per caso, il disco è tutt'altro che mansueto e i suoi 23 minuti si fanno ascoltare tutti d'un fiato. Sarebbe una nota dolente per voi farvelo scappare, ascolto consigliato! (Bob Stoner)

martedì 19 marzo 2024

Above The Tree & Drum Ensemble Du Beat - Afrolulu

#PER CHI AMA: Psych/Noise/Indie
Quanto di nuovo ci sia in questo secondo album degli Above The Tree & Drum Ensemble Du Beat, album che arriva esattamente dieci anni dopo al loro debutto, lo lascio al libero arbitrio degli ascoltatori. Il fatto che sia un buon disco non lo metto nemmeno in dubbio, d'altra parte la band è composta da musicisti navigati ed esperti, ma trovo che gli manchi qualcosa per aprire una breccia nei cuori del pubblico contemporaneo, non per sua mancanza propria, ma perché penso che questo tipo di sound sia tanto nostalgico e di rimando ai concetti sonori che animavano a suo tempo, i Banco de Gaia, che oggi per i più, potrebbe risultare purtroppo poco attraente. L'intuizione di un suono analogico con il sodalizio tra vibrazioni retrò e psych, che ricordano alcune pagine scritte ai tempi d'oro della musica afrobeat degli anni '70, saranno apprezzate solo da persone esperte in quest'ambito musicale, e da chi come me, ama riscoprire questo tipo di sonorità. Analizzandone il lato più sperimentale dei brani, ci rendiamo conto che 'Afrolulu' gode e soffre delle stesse virtù del suo suono, lasciandoci stupiti per quei suoi ritmi e canti rituali tipici del continente sub-sahariano, condito da percussioni e riverberi che possono ancora destare qualche sorta di effetto sulla nostra conoscenza musicale, dopo la scomparsa della prima ondata della musica trance, quella più ipnotica e cerebrale, quella che mostrava ancora segni di intelligenza. Quindi i brani "Bufalo" e "Lagos", giocano facilmente la carta etnica e nostalgica, mentre "Talker X" si abbandona al flusso d'ispirazione lavorando sulla falsariga di cose apparse sullo splendido album 'Deceit' dei This Heat, mentre "Fc Lampedusa", e infine "Sabbie", si espongono a un suono più sperimentale, che se godesse del potere di certo Hi-Fi, potrebbe gareggiare con le uscite "high-tech" della Ultimae Records. Un disco quindi cerebrale che al primo ascolto risulta ostico, ma che a un ascolto più approfondito, mostra una saggezza psichedelica fuori dal comune e anche aspetti krautrock in più occasioni. Un album liturgico nel segno di 'Freeform Flutes & Fading Tibetans' dei già citati Banco de Gaia, per un bagno ipnotico, suoni familiari, e costruzioni che si dissetano nel mare del già conosciuto e sentito, ma che sprigionano nell'ascoltatore un cosmo di allucinogene fughe dalla realtà, un allargamento sonico della propria percezione temporale. Un viaggio sonoro in un mondo primordiale immaginario, a cui vale la pena partecipare, costellato di mille rimandi, dai campionamenti vocali delle voci di Malcom X e Martin Luther King, fino ad arrivare ai canti tradizionali africani. Musica fatta con un cuore d'altri tempi. (Bob Stoner)

venerdì 8 marzo 2024

Monoscopes - Endcyclopedia

#PER CHI AMA: Psych Rock
Devo ammettere che mi sono sempre piaciute queste band ispirate dalla neo psichedelia, e il loro rifarsi, come nel caso dei Monoscopes, alla musica dei La's, è un toccasana. Quel modo di fare arte, tipico di questo genere musicale, di essere omogenei e coerenti con la propria musica, col rischio di risultare costantemente fuori moda, anche quando negli anni '90, le band potevano vantarsi di un buon seguito e il look e il taglio di capelli alla Tim Burgess, era trendy per i teenagers più scaltri di allora. Non griderò al miracolo per questa nuova band patavina, che per i miei gusti personali, rimane sempre un po' troppo alla larga dall'essere sonica e lisergica in maniera pesante, ma non posso negare che riesca a creare degli ottimi brani, cantabili e cristallini, e ben confezionati, con gusto e capacità, ripercorrendo le terre della neo psichedelia virata al pop d'autore e al folk. Poco contano le relazioni con Travis o in ambito folk rock, ai Camper Van Beethoven al netto del violino, o come dicono loro stessi, con il lato più morbido dei Velvet Underground, i Monoscopes, non tradiscono chi cerca questo tipo di sound, morbido e luminoso, contornato anche dai due bei video psichedelici di "Hey Atlas" e "The Electric Muse", usati per il lancio di questo nuovo disco. Per cercare di descrivere l'opera dei Monoscopes, aggiungerei un tocco della scena psych australiana con echi lontani alla The Dream Syndicate, un'andatura sempre moderata delle composizioni, con poche e controllate deflagrazioni soniche, nello stile dei The Third Sound, e una linea costante di rock evoluto e maturo. Se mi è concessa una critica, direi che l'approccio così soft del cantato, in alcune parti andava trattato con una mano più pesante a livello di effetti, per renderlo più interstellare: è il caso di "The Maker", dove la voce mi sembra troppo normale nei confronti delle incursioni di chitarra noise presenti nel brano, mentre in "This Silly Night", dove un leggero effetto eco si rivela ideale, per rendere una ballata standard, in una passeggiata lunare di scuola Mercury Rev. Questo è solo un punto di vista di un eterno innamorato dei suoni lisergici, e non cambia la mia idea sul fatto che 'Endcyclopedia', sia a tutti gli effetti un buon album, ricordando peraltro l'importante partecipazione di Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione, di Francesco Candura dei Jennifer Gentle e di Paolo Mioni al basso in "Today Today Today". Nota di merito per "It's a Shame About You", che sembra un brano tra Swirlies e Weezer d'annata, con quel superbo tocco garage, vintage e retrò, proprio una splendida canzone. La ballata "The Thinghs That You Want to Hide", con appunto Cerasuolo come ospite, risente chiaramente della sua influenza, ha la luminosità e il fascino del sole in una giornata d'inverno, per una canzone che ti obbliga a dilatare le pupille verso l'infinito, mentre la conclusiva "Today Today Today", riporta l'orecchiabilità e il suono del paisley underground all'attenzione delle masse. "You're Gonna Be Mine", rilasciando una formula di suono più corposo e saturo di distorsione e reverberi, rimanda piacevolmente il mio udito ai gloriosi fasti dei mai dimenticati The Wedding Present, per un'altra affascinante emozione sonora. Disco da scoprire nei suoi sofisticati rimandi, nei suoi tanti cunicoli musicali nascosti. Vietato fermarsi al primo ascolto e da evitare l'ascolto a basso volume. (Bob Stoner)

(Big Black Car Records - 2024)
Voto: 74

https://monoscopes.bandcamp.com/album/endcyclopedia

martedì 6 febbraio 2024

The Cosmic Gospel - Cosmic Songs For Reptiles In Love

#PER CHI AMA: Psichedelia/Indie Rock
Nel valutare il primo full length dei The Cosmic Gospel, mi sono trovato in difficoltà, per la difficoltà nel dargli una giusta collocazione. Si tratta infatti di un album pieno di belle sonorità, ricercate con dedizione nei cassetti della psichedelia del passato, ma le derivazioni sonore, per quanto efficaci e rieducate a dovere in ambientazioni più moderne, di scuola lo-fi, non lasciano molto spazio a un'autentica originalità. L'amore per i The Beatles più allucinati è palese, basti ascoltare "The Richest Guy On The Planet Is My Best Friend", e in parallelo esiste anche una certa devozione, come annunciato dal polistrumentista di Macerata, unico responsabile del progetto, per Damon Albarn, Beck e Donovan, con il sound cosmico di "Hurdy Gurdy Man" e quella velata felicità dai toni pacati, a tratti malinconici, coperti da una finta spensieratezza esistenziale, tipica dei '60s o dell'album 'Odelay' del già citato Beck. Questo approccio in stile power flower, dona a giusta ragione, un'immagine d'artista completo, e mette in evidenza un amore viscerale per un certo tipo di psichedelia, fino a renderlo, anche se solo sporadicamente, ossessivo. Il musicista italico trova quindi sfogo tramite questi otto brani solari, dal taglio psych folk, ipnotici e molto space rock oriented, creando cosi un album colorato, curato e ben confezionato, quasi perfetto, che nel suono dei synth di "Core Memory Unlocked", oppure in quello di "Hot Car Song", trova la sua collocazione ideale. Il disco è interessante e vivace, eppure soffre del fatto che in taluni frangenti, sembra incombere il pericolo di ricordare in qualche pezzo, altri artisti o composizioni famose. Questo non è un male assoluto ma crea nel sottoscritto un certo sconcerto, un dubbio atroce sul come giudicare quest'opera, se un capolavoro o una normale buona replica di musica del passato. Quello dei The Cosmic Gospel è sicuramente un buon progetto che lavora al di sopra della media dando vita a una musica surreale, pop e dal gusto vintage, avvalendosi peraltro di nuove e moderne tecnologie di registrazione, con eccellenti esiti di produzione, e sono sicuro che il passo futuro sarà ancora più articolato e personalizzato, in un ambiente non certo facile come quello della psichedelia. Mi piace il coraggio della proposta di questo musicista che impugna i The Beatles come gli EELS, cercando di fonderli assieme e lo immagino proiettato nel raggiungere il cosmo, inspiegabile e floreale, del genio di Julian Cope, magari sulla scia del suo ultimo album 'Robin Hood', dello scorso anno. Un disco da assaporare lentamente, sposandone l'ottica derivativa ma anche assaporandone le sfumature di colore e luce che vi sono nascoste tra le note delle sue composizioni. Un album che ha dei centri di gravità permanenti molto definiti ma al tempo stesso ben rimescolati tra loro, per un consigliato, gradevole ascolto, ovviamente al limite dell'allucinogeno. (Bob Stoner)

venerdì 2 febbraio 2024

Sarneghera? - Il Varco nel Vuoto: Tales From the Lake Vol​.​2

#PER CHI AMA: Alternative/Math Rock
Tornano i bresciani Sarneghera? per raccontarci altre epiche storie proveniente dal lago d'Iseo, utilizzando quel loro stralunato sound che già avevamo avuto modo di apprezzare in 'Dr​.​Vanderlei: Tales From the Lake Vol​.​1', atto primo del quartetto nostrano. 'Il Varco nel Vuoto: Tales From the Lake Vol​.​2' prosegue su coordinate similari, arricchendosi tuttavia di ulteriori richiami che, nella distruttiva traccia d'apertura, "Human Killa Machina", sembrano accostare a quella disarmonica linea ritmica già descritta nel debut, richiami di "beatlesiana" memoria nel bridge centrale o addirittura echi dei The Buggles, quelli che cantavano "Video Killed the Radio Stars", per intenderci. Sarò un visionario, però questo è quello che ci sento, nonostante la band lombarda ci prenda a badilate sul muso. E continuano a farlo anche nella più punkeggiante "Vono Box", una cavalcata abrasiva interrotta da momenti più ragionati, che rendono l'ascolto dei nostri più interessante, soprattutto a fronte di un'alternanza vocale - pulito/distorto - alquanto azzeccata e a delle liriche che ancora una volta miscelano più lingue. "Sos" è un pezzo più ipnotico, grazie a un'arpeggiata parte introduttiva che lascerà ben presto il posto a una roboante ritmica in grado di evolversi ulteriormente verso più direzioni, tra il math, l'alternative e il post metal cinematico. Non si tirano certo indietro i Sarneghera?, il braccino corto lo lasciano ad altri e provano in mille modi a sperimentare, riuscendoci poi più o meno bene e non importa, ciò che è rilevante è quello che ne venga fuori sia sicuramente ancora assai apprezzabile. Ultimo brano e sento anche qui odore di provocazione, cosi com'era successo nel primo EP: "L'Universo è una Parte di Me", cantata anche qui in italiano (un'altra analogia col precedente lavoro), mescola garage rock, indie, alternative, post-hardcore e tanto altro, per un pezzo breve, ma ficcante al punto giusto. Mentre mi rimetto ad ascoltare l'EP, ribadisco la necessità di un lavoro più lungo per meglio tastare il polso dei bravi Sarneghera?. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings/I Dischi del Minollo - 2023)
Voto: 74

https://sarneghera.bandcamp.com/album/il-varco-nel-vuoto-tales-from-the-lake-vol-2

lunedì 15 gennaio 2024

Il Fiume - Brucia

#PER CHI AMA: Grunge/Indie
Diavolo, non la cosa più semplice da recensire da parte del sottoscritto. Quello de Il Fiume è infatti una versione italiana del grunge sporco e incazzato di primi anni '90. Ascoltando "Ancora", la traccia d'apertura di 'Brucia', ho sentito infatti forti influenze provenienti da 'Bleach', senza trascurare tuttavia un'aura malinconica che sembrerebbe derivare dai primi Smashing Pumpkins. Mi dovrà scusare la band se il mio background musicale in questo ambito non sia cosi esteso, e conosca solo i capisaldi del genere, ma quei mostri sacri che hanno scritto un'epoca, li ritrovo nello scorrere di queste sette tracce. Qualcosa di simile anche nella seconda song, la title track, in cui ancora l'eco di Kurt Kobain e soci, periodo 'Nevermind', si palesa nel refrain delle chitarre e in un cantato in italiano che ben ci sta in questo contesto indie-grunge rock. Graffianti le linee di chitarra di "Frustrazione", che mostra suoni più sghembi e distorti rispetto ai precedenti, ma la brevità dei prezzi, la linearità delle melodie, il cantato nella nostra lingua madre, rende comunque facilmente fruibile (e apprezzabile) l'ascolto di 'Brucia'. Certo, non siamo davanti a chissà quale capolavoro artistico, ma il disco de Il Fiume si lascia piacevolmente apprezzare in tutti i suoi brevi e immediati brani, di cui sottolineerei ancora la psichedelia di "Karma Armonico" e la robustezza ritmica di "Ne Porto il Ricordo", che ammicca, con i suoi suoni nudi e crudi, ad un mix tra punk e hardcore. A chiudere l'EP, la più intimista e straziante "Qualcosa" che delinea a tutto tondo la proposta musicale de Il Fiume. (Francesco Scarci)

martedì 14 novembre 2023

Closure in Moscow – Soft Hell

#PER CHI AMA: Alternative Pop Rock
Devo ammetterlo, questo nuovo album degli australiani Closure in Moscow, mi ha creato molti conflitti, fin dall'uscita dei primi singoli. Premetto che ho adorato le uscite precedenti reputandole geniali e molto sottovalutate, però questo album non me lo aspettavo fatto in questo modo. I nostri hanno fatto una scelta stilistica simile all'ultima fatica dei Coheed and Cambria, oppure l'ultima uscita dei The Mars volta, o al tempo, 'Pitfalls' dei Leprous, dove delle ottime band in odor di hard rock progressivo moderno e ad alto tasso tecnico, si spostano verso ambienti più pop, alla ricerca di notorietà e un più vasto pubblico. In fatto di tecnica, questa band ha già dimostrato di non essere seconda a nessuno e, anche in quanto a produzione, ha sempre avuto standard altissimi. Ricerca dei suoni ed eleganza sono una prassi per la band di Melbourne, però in questo disco i nostri calcano tanto la mano su innesti funk, pop, dance, il tutto a discapito delle fughe nel rock prog che rendevano gli album precedenti pazzeschi. Immaginate gli Incubus ancora più tecnici, ma più goliardici, che giocano con il funky dei migliori FFF (French Funk Federation), si esaltano in assoli ma non entrano mai in un'atmosfera diversa dallo scanzonato rock che ricorda certi gruppi funk metal degli anni '90. Il disco è pieno di idee sullo stile dei progetti di Omar Rodriguez Lopez, ma come nell'ultima opera dei Coheed and Cambria, passo dopo passo, ci si avvicina sempre più ad una deriva elettro/indie/pop rock, con buone intuizioni ed ottime sonorità, al passo con certe cose di Saint Vincent, ma che guasta con il passato dei Closure in Moscow, per come si sono proposti in precedenza e i dischi che hanno fatto fino a questo punto. Certo, cambiare rotta fa parte di un artista e la ricerca, seppur avanzata in generi nuovi ed inusuali, non si è fermata anzi si è espansa, però qui la band ha cambiato registro e cercato una soluzione più appetibile per un pubblico più ampio. Resto tuttavia dell'idea che per la caratura di questi musicisti, inseguire le orme di band come i Red Hot Chili Peppers, che in cambio di un grande successo hanno perso grinta, carisma e freschezza nelle composizioni, non sia la strada giusta, almeno dal punto di vista artistico. Tornando all'album, non posso far altro che dire che è un buon disco, suonato troppo bene per restare nel calderone del pop, carico di buone idee, belle sonorità e tecnica sopraffina ma troppo pop, soul e funk, per emergere tra i seguaci del progressive rock e dell' alternative rock, che potrebbero rimanere delusi da quel velo di leggerezza che pervade l'intera opera. Cosa, comunque, che non intacca minimamente le qualità di composizione e di esecuzione di questi musicisti, che rimangono spettacolari, con un vocalist eccezionale che risponde al nome di Christopher de Cinque. 'Soft Hell' è il titolo di questo loro quarto album, quasi un presagio che avverte i fans di un'imminente sconvolgimento dei piani, con una forma musicale sempre ricercata ma più melodica e meno selvaggia, un disco tutto da interpretare che creerà pareri contrastanti tra i fans dei Closure in Moscow. "Don Juan Triumphant" è la mia preferita perchè porta nella sua composizione molti richiami al loro passato, "Jaeger Bomb" ha un tiro pazzesco, mentre in "Lovelush" vi trovo persino qualcosa degli '80s al suo interno e con la sua vena sognante e romantica, per quanto ricca di curiosità soniche, mi sconcerta più di tutti gli altri brani. Un album che deve essere ascoltato e studiato da mille angolature per capirlo e dargli il giusto apprezzamento, una nuova veste per questa band, che ha sempre e comunque, saputo mettersi in risalto ad ogni uscita. (Bob Stoner)

(Bird's Robe Records - 2023)
Voto: 70

https://closureinmoscow.bandcamp.com/album/soft-hell

mercoledì 27 settembre 2023

Three Fish - S/t

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Grunge/Alternative
La balattonza-da-cucchiaino-in-mano "Solitude" in apertura (ma anche la riverbero-crepuscolare "Strangers in My Head" più avanti), senz'altro reminescente di certi intimismi psicotropi collocabili dalle parti dello Staley (stra)rarefatto dei Mad Season (ma là c'era Micino McCready au lieu di GeiGei Ament) prelude a una divagante e jammosa session di grunge funky (il cosiddetto grunk) composta da ben diciotto fottutissime canzoni (più o meno) agilmente reinterpretanti certi stilemi consolidati, perlomeno in quegli anni, perlomeno da quelle parti. Efficaci "vedderate" ("Laced" o la into-the-riverberante "Zagreb"), efferati muretti garden-sonori ("All Messed Up" e "Silence at the Bottom"), qualche strappetto fuzzy-indie d'ordinanza ("Song for a Dead Girl", la dainosour-grattugiosa "Secret Place") sono numerosi esempi di quel suono tanto ampio quanto inquieto che individuate a badilate nel coevo 'No Code' ("Here in the Darkness" o "Build"). Se potete sopportare la fesseria sufi dei tre pesci, orgogliosamente recitata da GeiGei in tre, dico tre, distinti momenti, il (ri)ascolto dell'album a quasi trent'anni dalla sua pubblicazione, vi risulterà strusciante e confortevole più o meno quanto un paio di mutande di flanella. (Alberto Calorosi)

sabato 1 luglio 2023

The Upland Band - Living in Paradise

#PER CHI AMA: Psych/Indie
Chissà a quale territorio montano si riferisce Michael Beckett, unico membro di questa The Upland Band? A quanto pare il polistrumentista teutonico farebbe riferimento ad un piccolo villaggio in una zona collinare della Renania orientale, quell'area, per intenderci, posta tra Germania e Paesi Bassi. È qui che è ambientato questo 'Living in Paradise'. Nove brevi racconti a narrarci, attraverso un soft-psych-indie-pop, fatti storici, osservazioni oggettive e addirittura piccanti gossip del villaggio stesso, grazie anche ad un cast di personaggi assai particolari. Si parte con le prime due song del disco, "A Partial Overview of the Neighborhood" e "ohfivetwosixfive" (si, con la "o" minuscola), e un sound che sembra ammiccare ad un post punk contaminato dalla psichedelia, quella stessa che annebbia le nostre menti nella successiva "Metamphetamine and Clay" (che narra di una cartiera utilizzata nella produzione di massa delle metanfenamine, insomma un 'Breaking Bad' de noialtri), un pezzo decisamente più blando (e pop) nei ritmi e nelle chitarre, per quasi quattro minuti di atmosfere rilassate e con la voce di Michael, vicino a certe cose dei Yo La Tengo, a contribuire a questo stato di ovattamento mentale. Se avevo apprezzato decisamente le prime due tracce, non posso dire altrettanto di quest'ultima e della quarta "Walk or Run", un altro pezzo quasi anestetizzante e dotato di scarso mordente, almeno fino al break acustico celestiale, posto da metà brano in su, sembra valorizzare maggiormente il prodotto del buon Michael. "Ontario" parla del fantasma di un pilota di bombardieri canadese abbattuto, ma il pezzo è in realtà puro drone per due minuti e mezzo. "The Curly Kale Express" parla ironicamente di un treno dove potersi mangiare cavolo riccio, in un brano dai ritmi e contenuti decisamente ironici, cosi come la seguente "Swastika Ink". In chiusura, "Down and Out (in the 17th Century)" e "Rain, Sleet and Mud", la prima col suo riff ridondante sparato in loop per oltre cinque minuti, la seconda più sghemba ed ipnoticamente indirizzata a chiudere un disco apparentemente easy listening, in realtà complicato da digerire e comprendere. (Francesco Scarci)

(Cargo Records/Sonic Rendezvous/Differant/Irascible/Goodfellas - 2023)
Voto: 65

https://kapitaenplatte.bandcamp.com/album/living-in-paradise

domenica 14 maggio 2023

KHA! - Ghoulish Sex Tape

#PER CHI AMA: Noise/Post Punk
La cosa che più mi ossessiona, in senso negativo di questo primo full length della band meneghina, è il trattamento riservato, leggermente irrispettoso a mio avviso, verso la splendida voce del frontman. Fui infatti ammaliato dalla forza espressiva della voce di Davide Bosetti nell'EP di debutto di tre anni fa, che si accaparrava le grazie spettrali di band come Indisciplined Lucy e Pavlov's Dog, raggiungendone le tonalità e le particolarità acustiche, inserendole in un contesto lontano anni luce dalle suddette band prog rock, per non parlare poi del lavoro di produzione al Mob Sound Studio di Milano, veramente da applausi. Il nuovo lavoro, intitolato 'Ghoulish Sex Tape', pur essendo un gran bel disco, vede la produzione dei Cabot Cove Studio di Bologna spostare il tiro più verso il suono, abbassando (e penalizzando) l'importante performance vocale. Il trio milanese è ancora orientato verso un noise rock, carismatico ed esplosivo, nipote di quello che fu un capolavoro della scena sotterranea italiana, ovvero, '10000 Doses of Love', di un gruppo ancora poco osannato per i loro meriti, quali erano gli One Dimensional Man. Il risultato qui è buono, di qualità, ma diverso dal debutto. Il suono è meno indie noise e in molte sue parti si sposta verso ambienti post punk anni ottanta, che associati ai particolari riverberi della voce, a volte ricordano vecchie cose dei Public Image Ltd.: "My Only Love" ricorda a tal proposito il sound di "Religion II" dei P.I.L o "Sex Gang Children", in chiave meno dark e più alternative. Musicalmente, i nostri hanno evoluto il loro stile che di per sé era già originale, rendendolo più coerente e fantasioso, come l'inserto jazz di "Travelers", ma rimanendo sempre sul filo del rasoio, in fatto di orecchiabilità e rumorosità, cosa che li rende sempre assai apprezzabili. Una ritmica pulsante sostiene a dovere un chitarrismo schizofrenico, tagliente ma molto bello da sentire, urticante, sonico, spesso dissonante ma mai esagerato o fuori contesto. Stravagante pensare che il trio lombardo è una band di noise rock piacevolissima all'ascolto dove difficilmente la noia si sposa con la loro nuova opera. Ritorno a dire solo ahimè che la produzione ha optato per il primo piano della chitarra di Bosetti e degli altri strumenti, tralasciando il posto di prima ballerina della sua voce, ma questo è solo il mio gusto personale, e magari, chi ascolterà questo loro nuovo lavoro, rimarrà sicuramente affascinato dalle loro teorie rumorose e stralunate, e questa nuova verve post punk (rimodernata e attualizzata), un po' alla Teenage Jesus and the Jerks delle radici, rispolverata nella quasi totalità dei brani. Siamo al cospetto di una voce intrigante e originale, di fronte ad un trio che riesce a comporre e suonare ottima musica (quanto è bella "Breadcrumbs"!!!), inquieta e rumorosa, uno spiraglio di luce nelle tenebre profonde del panorama nazionale, per cui l'ascolto è assolutamente consigliato. (Bob Stoner)

giovedì 27 aprile 2023

Svntax Error - The Vanishing Existence

#PER CHI AMA: Psych/Post Rock
Era da un po’ che non avevo dischi della Bird’s Robe Records da recensire, ci pensavo qualche giorno fa, eccomi accontentato. A giungermi in soccorso in questa mia richiesta, ecco arrivare i Svntax Error, band australiana che rilascia questo ‘The Vanishing Existence’ a distanza di quattro anni dal precedente ‘Message’. La proposta, come potrete intuire dall’etichetta discografica, è un fluido post rock (semi)strumentale come solo la Label di Sydney sa offrire. Dico fluido perché è la prima sensazione che ho fatto mia durante l’ascolto della traccia d’apertura “Radio Silence”, timida, psichedelica, quasi ipnotica, a cui si aggiunge poi quell’ipnotismo claustrofobico intimista della seconda “Broken Nightmares”, che vede peraltro comparire la voce di Ben Aylward in un pezzo dai forti brividi lungo la schiena, un vellutato manto di dolce malinconia che fa allineare i miei chakra a quelli dei musicisti originari di Sydney. “215 Days” è ancora imbevuta di note di velluto, flebili e morbide come la famosa copertina di Linus, un porto sicuro, un abbraccio della persona amata, un posto dove piangere, riflettere o rilassarsi. “Circular Argument” è invece un pezzo più da lounge bar, di quelli dove un riff o un giro di chitarra si fissa nel cervello e da li non si muove; nel medesimo brano ritorna anche la voce del frontman a confortarci con la sua ugola gentile. Esperimento che si ripeterà anche nella percussiva, arrembante e ben riuscita “Relentless”, un brano che mi ha in questo caso richiamato gli Archive più sperimentali, e nella conclusiva “Backwards Through the Storm”, in una sorta di tributo ai Tool. La title track si affida ad un post rock strumentale cupo e dal flavour notturno, che nella sua crescente dinamicità, potrebbe addirittura evocare un che dei Pink Floyd. Ultima menzione per “Kelvin Waves Goodbye”, con i sentori pink floydiani che si coniugano alla perfezione con gli estetismi shoegaze dei Mogwai, ma dove a prendersi tutta la scena, è in realtà lo spettacolare suono del theremin di Matthew Syres. Provare per credere il crescendo di un brano di una portata spettacolare, unico ed epico, che vi invito decisamente a supportare. (Francesco Scarci)

sabato 1 aprile 2023

Dobbeltgjenger – The Twins

#PER CHI AMA: Indie Rock/Alternative
Bisogna ammettere che la terza prova sulla lunga distanza del quintetto di Bergen, è da considerarsi la migliore realizzazione nella recente discografia dei Dobbeltgjenger. Musicalmente parlando, si nota fin da subito come una registrazione ed una produzione molto in linea con le mode dell'indie pop attuale, abbiano permesso il salto di qualità a lungo ricercato dalla band, negli album precedenti. Il quintetto ha saputo quindi focalizzare le proprie idee fino a renderle assai credibili, e in ambito pop, possono tranquillamente aspirare ad una visibilità su vasta scala. Il fatto che il pop sia predominante non crea nessun disagio alla proposta sonora offerta nel nuovo album. I suoni di 'The Twins' sono filtrati in una maniera molto moderna, e ricalcano certe vie intraprese da St. Vincent nell'omonimo album del 2014, e si mescolano ad una sana dose di funk e spunti rock, che ricordano certe cose degli Incubus più orecchiabili. Una sezione ritmica con un bassista virtuoso è nascosta nella ossessiva rincorsa al pezzo più cool, e a volte, ci si chiede persino perchè non abbiano optato per una soluzione più hard rock per questo album, ma la loro attitudine è più vicina ad album come 'The Chair in the Doorway' dei Living Colour, piuttosto che per qualcosa di più duro. La differenza è anche da ricercare in una raffinata sensualità, perfettamente in linea con alcune intuizioni pop degli INXS d'epoca e immagino che, se la band del compianto Michael Hutchinson fosse ancora tra noi, suonerebbe più o meno come questo nuovo lavoro della band norvegese. Basta sentire il finale di "Purplegreenish", oppure la stessa "Pink" per intuire che ingenuamente o volutamente, il riff di chitarra è pericolosamente ispirato dalla famosa "Suicide Blonde" o "I Need You Tonight", hit della band australiana, e questo mi piace parecchio, visto che nonostante tutto, le tracce riescono a mantenere un loro stile originale. Sono degli ottimi musicisti questi norvegesi, con un cantante bravo e padrone della scena e, al netto del taglio pop, i virtuosismi chitarristici e ritmici si sentono eccome. Certo, li avrei preferiti più rock ma forse questo è il loro contesto migliore e lo hanno voluto rimarcare con suoni ricercati, distorti ma di tendenza e ultra moderni, anche perchè, ditemi voi come si può stare fermi di fronte al giro funk di basso di "Genghis Khan", e alla sua esplosiva evoluzione. Un brano come "Shoot" potrebbe essere un out take dei Muse più dance oriented, mentre "Like Crocodile" e "Toughen Up" mostrano un lato più elettronico dai richiami dance e synth wave, dimenticando per un po' le chitarre. "When You Said That You Were Fine", vive di un basso frizzante per un free rock molto fresco e intelligente, e dimostra come l'esplorazione sia una prerogativa in tutte le tracce di questo buon disco che chiude degnamente con "Done", un esperimento di tre minuti tra space music ipnotica e un'apertura inaspettata ai confini cosmici del progressive rock in stile seventies che conferma la fantasia e l'abilità di questa interessantissima band. 'The Twins' è un album tutto da scoprire, per cui sono peraltro consigliati ripetuti ascolti anche in cuffia. Disco da non perdere. (Bob Stoner)

mercoledì 30 novembre 2022

The Wild Century - Organic

#PER CHI AMA: Psych Rock
Con questo album, uscito per la Tonzonen Records, la band olandese osa valicare il confine che delimita l'ispirazione presa in prestito da un genere e il rischio di imitazione delle sue opere sonore, perchè per ogni nota che scorre in questo nuovo lavoro dei The Wild Century, troviamo un legame pesante per composizione, stile e sonorità con qualche brano famoso degli ultimi 50 anni della storia del rock psichedelico. Metto subito in chiaro che il combo riprende le citate sonorità talmente bene, che non si può parlare di imitazione, tanto meno di plagio, semmai di forsennata ispirazione presa a prestito, ed è un ascolto divertentissimo quello di 'Organic', un ascolto che in un qualche modo ci permette di ristabilire contatti con un mondo che magari avevamo dimenticato o, nel peggiore delle ipotesi, mai approfondito. Quest'ottimo album quindi vi fornirà un compendio di rimandi musicali talmente esaustiva da farvi esclamare a gran voce che i The Wild Century, pur non essendo innovativi o puramente originali, rimangono un'ottima, moderna, retro rock band con i fiocchi, che ricordano tante altre realtà della scena che fu ma che alla fine risultano, nel loro circolo vizioso di suoni, interessanti e belli da sentire. Straordinaria la scelta dei suoni vintage di quest'opera, che sembra provenire direttamente dai '70s e che ricalca fin troppo i beniamini di quell'epoca. Si parte con la cavalcata psych di "Lowdown Dog", che solca le orme dei Velvet Underground con un effetto vocale alla Hawkind per approdare ad "Oh Yeah", dove il wah wah della chitarra iniziale evoca spudoratamente "Woodoo Child" del grande Hendrix, con un tiro garage che si sposta tra fuzzstones e certi ritmi cari a 'Second Coming' degli Stone Roses, con un organo in primo piano da brivido. "Carry On" rallenta la spinta, e tra gli accennati deserti sonici alla "The End" dei The Doors o una vaga similitudine ad un brano di un Bob Dylan d'annata, ci culla verso lidi vicini ai Mother Superior di "Save my Soul" (da 'The Mothership Movement' del 1998) ed una lunga coda finale carica di venature progressive e psichedeliche in sintonia con i primi Deep Purple. Il sitar e tanta psichedelia ipnotica, accompagnano poi l'evoluzione cosmica di "Beautiful Queen" che sembra cantata dallo spettro di Mick Farren. "Grey Blue Eyes" è una ballata super psych che richiama le origini della band forse mostravano molta più originalità e uno stile decisamente meno derivativo, ma con un taglio meno professionale sotto certi aspetti sonori, e più underground. Gli assoli di "Mother's Grace" a metà e in chiusura del brano, sono delle chicche, anche se la song, a tratti, non nasconde affinità con il mood di "Nights in White Satin" dei The Moody Blues. Per concludere, devo spezzare una lancia a favore di quest'album tanto derivativo quanto indovinato, ben curato e ricercato, per una band che si può tranquillamente accostare ai magici e mai dimenticati On Trial, quanto ai tanti gruppi menzionati sopra, aggiungendo anche i Baby Woodrose, 13th Floor Elevators, i Kula Shaker e tutti quelli che trovano posto nell'immaginario sonoro di questo particolare secolo selvaggio. L'ascolto ne vale proprio la pena, il viaggio culturale e cosmico sono assicurati. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records/Soulfood Music - 2022)
Voto: 75

https://thewildcentury.bandcamp.com/album/organic-2

lunedì 14 novembre 2022

I Barbari – Supernove che Fanno Bang!

#PER CHI AMA: Stoner Rock
Il nuovo album dei mantovani I Barbari, è strabiliante. Sfodera sonorità stoner che ricalcano in tutto e per tutto i grandi maestri, non sposta di una virgola le coordinate dei pionieri del genere, e in questo modo riesce a far apparire 'Supernove che Fanno Bang!', un lavoro impeccabile. Il suono è polveroso e trasforma il combo lombardo in una realtà credibile e perfetta, un salto di qualità notevole rispetto al precedente album, che comunque mostrava già una certa verve, ma risultava più scarno musicalmente. Detto questo, mi devo soffermare su di un paio di cose che, al cospetto di un'ottima produzione, mi lasciano un po' perplesso. Inanzitutto, il barcollante spessore dei testi che si collocano tra visioni space/sci-fi e temi di attualità, trattati un po' alla leggera, un brano che porta il titolo "Generazione Kebab", per quanto possa essere illuminante per la massa, lo ritengo un po' sterile. Se poi valutiamo il cantato in lingua madre, grazie alla potente ed egregia capacità vocale del vocalist Andrea Colcera, il quale riesce ad ingabbiare l'emotività, tutta italiana, del miglior Manuel Agnelli ai tempi d'oro degli Aftehours, rivisitato con i canoni stilistici vicini a certe divinità stoner, come i Sixty Watt Shaman, mi aspetterei tematiche molto più interessanti e sofisticate, che vanno oltre alle visioni da film di serie B, alla birra calda o alle luci assassine. I Barbari hanno un potenziale enorme, ma devono ancora trovare una loro dimensione in fatto di personalità artistica, che in alcuni particolari risulta assai derivativa, anche per l'artwork di copertina, di ottima fattura ma che ricalca pesantemente le idee grafiche dei Solarized di 'Driven' di una ventina di anni fa, rivisto in salsa tricolore. Questo disco uscito tramite la OverDub Recordings, è un buon primo passo, che può portare il quartetto verso un nuovo universo sonoro, se lo sapranno gestire diversamente dalle omologate band del belpaese, dove la scena sembra sempre più appiattita di questi tempi. Molte idee sono tratte da varie fonti che devono trovare una più salda e propria identità, perchè non basta saper suonare bene, come sanno fare I Barbari, se poi ci si ferma a riproporre un remake di cose già sentite, dove un ottimo suono non è il più delle volte sufficiente a creare una personalità di un certo rilievo (e qui potrebbe entrare in gioco la storia di gruppi nazionali di culto dimenticati, come ad esempio i Karma o i Santo Niente, che potrebbero dare qualche indicazione). Quindi, a parte i nei che ho volutamente trovare in questo disco, 'Supernove che Fanno Bang!' è un lavoro di qualità superiore, prodotto divinamente e sicuramente rappresenta un balzo in avanti notevole per la band. Un album che farà felici gli amanti dello stoner tricolore, una band che coraggiosamente canta in italiano, in un genere dove la lingua inglese ha l'egemonia stilistica, una band che ha tutte le carte in regola per crescere e trovare una dimensione sonora tutta sua, ritagliandosi uno spazio di culto nella scena nazionale. (Bob Stoner)

giovedì 20 ottobre 2022

Kodaclips - Glances

#PER CHI AMA: Shoegaze/Post Punk
I Kodaclips sono una creatura formatasi nel recente passato. La formazione del quartetto italico risale infatti al 2021, con 'Glances' a rappresentarne il disco di debutto e una forma di tributo ad una delle principali influenze della band, ossia i post rockers statunitensi Slint, con il titolo a citare il testo di "Don, Aman", traccia inclusa nel secondo disco 'Spiderland'. Fatti questi dovuti preamboli, la musica dei nostri si muove nello spettro del post rock/shoegaze sognante ed etereo, con certe divagazioni che chiamano in causa anche un certo alternative rock stile Smashing Pumpkins (e penso ad alcune schitarrate incluse nell'opener "Temporary 7") che ben si amalgama con ammiccamenti e derive varie che ci porteranno nei paraggi di certo post punk. Lo shoegaze viene fuori alla grande nella seconda "Pacific", un brano dotato di una certa vena malinconico-depressiva, soprattutto a livello vocale e nelle cupissime melodie che ne affliggono l'andatura. Qui l'aura shoegaze si miscelerà ancora con il post rock che si esplica nel finale grazie a fraseggi in tremolo picking. L'inizio di "Drowning Tree" poteva aprire tranquillamente qualche brano dei The Cure ma i punti in comune con alcune band del passato ci conducono anche ai The Jesus and Mary Chain di "Mood Rider", mentre, sempre ampio spazio strumentale viene concessa alla seconda parte del brano, dotata di celestiali aperture post rock ma anche di roboanti riffoni post grunge. La voce di Alessandro Mazzoni è convincente quanto basta nel suo malinconico riverbero. "Not My Sound" apre con un sound ripetitivo quasi ipnotico, complice il frontman a cantare ininterrottamente "it's not my sound..." e con una coda noise nel finale. Convincenti, mi piacciono. Anche se non tutti i brani sono accattivanti allo stesso modo: "Cerbero" ad esempio la trovo un po' più statica e piattina, anche se da metà brano in poi prova ad invertire rotta e rimettersi in carreggiata con un cambio nell'architettura ritmica, sfoderando peraltro un bell'assolo conclusivo. "Muffling" non mi fa impazzire invece per quella sua eccessiva vena brit-pop nella prima metà, ma credo sia più un problema del sottoscritto, ancorato a sonorità più estreme. Nel corso del brano, la porzione ritmica si farà più energica (complice il basso di Sonny Sbrighi a tracciare poderosi fendenti), cosi come le contaminazioni noise emergeranno alla grande, invertendo nuovamente il mio giudizio iniziale. Musicalmente "Longinus" mi richiama qualche sperimentalismo di "primusiana" memoria mentre la conclusiva, strumentale e più lunga traccia del lotto, "Chrysomallos", chiuderà questo 'Glances' con l'eleganza, la robustezza e la maturità di una band di veterani, anche se, con la voce, il risultato è di tutt'altro effetto. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings - 2022)
Voto: 74

https://www.facebook.com/kodaclips/

mercoledì 19 ottobre 2022

The Mañana People - Song Cycle, Or Music For The End Of Our Times

#PER CHI AMA: Psych Folk/Indie
Rimango sempre sbalordito quando incontro band di questo tipo e scopro che la loro provenienza il più delle volte è la Germania. Certo, in questa terra è nato il krautrock direte voi, quindi la psichedelia è di casa, ma la diffusione del psych folk, rimodernato e aggiornato ai nostri giorni, è cosa più in disuso di questi tempi, quindi, voi giurereste sul fatto che il folk psichedelico oggi, abbia trovato casa a Bonn? Dopo aver ascoltato questo duo tedesco, me ne sono convinto, ed è innegabile che in Germania esista un'anima psichedelica molto radicata. Sono rimasto affascinato dal modo intrigante di intendere la musica in questione da parte di questi due giovani musicisti, una commistione di voci e modi di fare del passato, filtrate da sonorità fresche, ricercate e moderne. Partiamo dal fatto che i "Fab Four" e i The Moody Blues hanno lasciato un segno nell'infanzia dei due giovani artisti, che il Paul McCartney dell'album 'Ram' sia uno degli imputati assieme al suo psichedelico amico John, che i richiami ai The Flamming Lips più pop e moderati siano indiscutibili, la presenza lontana del buon Syd Barrett, l'influenza e la precedente collaborazione con Bonnie Prince Billy e un'arrangiamento molto spesso degno delle visioni migliori del grande Nick Drake, fanno di quest'album un'ottima espressione di come si possa suonare stralunati oggi, senza cadere nel plagio o nella ripetitività, in maniera del tutto naturale e originale, creando un disco coloratissimo e vitale, caldo e brillante, proprio come se l'anno in corso forse il 1968. Impossibile dare un premio al pezzo migliore, visto che il disco scivola deliziosamente canzone dopo canzone con una facilità d'ascolto impressionante, tanta è la quantità di suoni e arrangiamenti cosmici presenti al suo interno, la sua orecchiabilità, e l'equilibrio tra forme retrò e soluzioni moderne è attraente e dona alla band un'identità forte e chiara. Tutto è al posto giusto e nelle giuste percentuali si dividono il folk, il country, il pop, la psichedelia ed il lato elettronico minimalista, con una capacità di riesumazione e restaurazione dei canoni di un genere che non sentivo così costruttivo dai dischi degli Scott 4 di fine anni '90, ed in tempi recenti nell'album 'The Brave and the Told' dei Tortoise proprio con Bonnie Prince Billy. Non solo nel comporre ma anche nel canto, i The Mañana People, sono degli autori formidabili, che generano liriche ad effetto, che possono spaziare dagli echi di Arcade Fire ai già citati Fab Four o The Moody Blues, con una facilità ed un'eleganza non comuni. Un disco da ascoltare e riascoltare più volte, un disco che si presenta come semplice prodotto folk, ma che al suo interno nasconde molto molto di più, un vero bosco incantato di suoni e rimandi musicali, un album consigliato a chi ama farsi sorprendere e farsi trasportare in altri mondi a suon di musica allucinata. Imperdibile per gli estimatori del genere. (Bob Stoner)

sabato 24 settembre 2022

Dead Man's Eyes - III

#PER CHI AMA: Indie/Pop Rock
In fondo, il terzo album dei Dead Man's Eyes, intitolato semplicemente 'III', risulterà come il resoconto di un cammino artistico che si alimenta di pop, indie, country e rock fin dagli albori, quindi, non sarà difficile farlo entrare nelle grazie dei loro fedeli fans più accaniti. Una copertina ultra psichedelica ci fa intuire fin da subito l'attitudine della band teutonica che apre le danze con un brano dal sapore molto country/folk, molto americano, con un'armonica ben in evidenza e una cadenza festosa ("High on Information"). Il disco è ben prodotto ed è uscito via Tonzonen Records, ha suoni caldi e profondi e la band si presenta compatta e determinata, verso una meta che fa dell'orecchiabilità, un fattore di qualità ("I'll Stay Around"), senza pensare nemmeno per un istante che ad essere pop si perda il gusto per la composizione raffinata e ben strutturata. A volte potrebbero rientrare anche nella scena musicale Paisley Underground alla The Dream Syndicate per intenderci, ed è il loro lato che preferisco, ma un'attitudine stilistica troppo mainstream, tradisce le loro ambizioni di mettersi in mostra veramente, presentando brani come "In My Fishbowl" o "Take Off Soon", che andrebbero anche bene per uno split con i Gorillaz. Però i Dead Man's Eyes sono astuti, e si ritagliano anche uno spazio tra i cuori degli amanti dell'indie pop rock più ortodossi, con pezzi dal forte umore alternativo e di buon impatto come "Into the Madness", "Never Grow Up" e "Nobody at All", tra le atmosfere dei Lindisfarne rivisitate, un blues rimodernato di scuola Canned Heat e la psichedelia morbida di Alan Hull (epoca 'Squire 1975'), e una vena rock che si muove sulle vie polverose dei Polvo. Il traguardo del terzo capitolo sonoro è una meta importante e la band tedesca non delude affatto, anzi affila le sue armi per apparire sempre più accessibile, anche se nel sottobosco sonoro, si avverte una cura quasi maniacale per i particolari e una ricerca di suoni di beatlesiana memoria. Nota di riguardo per "Time and Space", brano che risulta atipico per le sue movenze easy listening, brano strumentale dal taglio seventies, una linea melodica in mid-tempo, vellutata quel tanto che basta per creare un ottimo e confortevole stacco a metà dell'opera. Un disco questo da ascoltare attentamente e ripetutamente, per superare il suo facile approccio pop per poi scoprire tutta la bellezza delle sue sofisticate sfaccettature sonore. Consigliato! (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 74

https://deadmanseyes.bandcamp.com/