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giovedì 29 novembre 2018

Marilyn Manson - Heaven Upside Down

#PER CHI AMA: Alternative Rock
Ventennalmente in sospeso nell'iperuranio del vorrei(essereunmusicista)-ma-non-posso (perchénon-hounbricioloditalento), il reverendo Manzotin Manson continua a fluttuare lì attorno come un fantasma abitudinario, tra un Alicecoooperino poltergeist shock rock ("Tatooeed in Reverse" significherebbe non avere rimorsi, nelle fumose parole di Manzotin medesimo), ditonelculosi doppelganger old-school cyberpanchettini (la discreta "Saturnalia"), fatue evanescenze new wave ("Blood Honey") barra David Bowie ("Heaven Upside Down") e, per tutto il resto del disco, un ectoplasmatico consesso glam oltretombale stile Nine Inch Dolls ("Say10" è senz'altro un titolo carino) cantato con la timbrica e la perizia di uno che ha appena finito di vomitarsi sulle scarpe. Il satanismo dei testi ha lo spessore di un monologo di Bargnocla e gli insistenti autobiografismi sono persino peggio (l'importanza del ruolo dell'artista: "I write songs to fight and to fuck", "Je$u$ Cri$i$"; la complessità matematica del cosmo: "One, two, three, four, five, six, seven, eight, nine, ten / revelations come in twelve", "Revelation #12"). "Threats of Romance" macina improvvidamente i riff di "Gypsy" (Uriah Heep) e "Whole Lotta Love" (dei Led Zeppelin). È l'unico motivo per cui varrebbe la pena ascoltarsela. (Alberto Calorosi)

(Loma Vista - 2017)
Voto: 50

http://www.marilynmanson.com/

One Day as a Lion - S/t

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Rapcore, Rage Against the Machine
Il lungamente atteso e velocemente dimenticato extended play dei One Day as a Lion mette in scena l'unica e ultima furibonda espressione successiva alla fuoriuscita dai R-A-T-M del lirismo acuminato e formidabilmente incursivo di Zack de la Rocha. L'insensatezza oscena delle guerre sante, tristemente attuali, ovviamente sconfessate dai profeti Cristo e Maometto nella fucilante "Wild International" diventa ahimè generica invettiva anticlericale (“Your God is a homeless assassin”, come non essere d'accordo?) nella prosaica "Last Letter". "If You Fear Dying" racconta il ruolo necessariamente e fieramente militante dell'autore, quello stesso ruolo che condusse allo sciagurato discioglimento dei Rage Against the Machine. E poi la brutale violenza di strada ("Ocean View") che assurge a espressione di un'inevitabile apocalisse moderna ("One Day as a Lion"). Se "Wild International", in apertura, riporta vagamente alla memoria il R-A-T-M sound che ricordavate, asciugatevi le lacrimucce, il dissonante prosieguo drum n' drone, squisitamente lo-fi, confusamente collocabile tra certo gangsta-noise ("If You Fear Dying") e i Jane's Addiction impallinati in un driveby ("Last Letter"), riuscirà, per motivi opposti, a fare esattamente ciò che fece il primo album degli Audioslave: confondervi. Il motto “meglio un giorno da leoni che una vita da pecora”, erroneamente attribuito a Benito Mussolini e recentemente ritwittato da Adolf Trump, fu commentato da Gramsci con queste parole: “la fortuna [di questo motto è] particolarmente grande in chi è proprio e irrimediabilmente pecora”. Chissà se Gramsci è mai stato tra le letture di Zack D-L-R. (Alberto Calorosi)

All My Sins - Pra Sila - Vukov Totem

#FOR FANS OF: Atmospheric Black Metal/Pagan
Since the '90s, the Slavic countries have been a great source where to find black metal bands with a very particular sound. In countries like Russia, Ukraine or Poland, there is always a good chance to find ensembles whose quality and originality are beyond any doubt. Apart from the obvious technical skills of the involved musicians, in those countries there is another factor which I personally consider remarkably important. The Slavic culture, more precisely the ancient traditions with their huge respect for their history, is still very strong in those lands, and maybe black metal bands have taken those traditions, legends and customs as part of their core sound. This is a great aspect as bringing those influences to the black metal sound makes those bands more original.

All My Sins, a project who comes from Serbia, is another fine example of the aforementioned blend of influences. The band was founded in 2000 by Vladimir Uzelac, who has taken part in several other projects, and by Vladimir Morar. It hasn´t been a very active project if you take into account that they have released two demos and one EP only in almost 18 years. Fortunately, the wait is over and finally the band has managed to release their full album entitled 'Pra Sila - Vukov Totem'. I invite you to take a look to their amazing promo picks and you will realize how important is for them to portray their view of the Slavic culture and mysticism. Even though the imaginary is important for these guys, the music is always the main thing. 'Pra Sila - Vukov Totem' is a debut, where the mixture of powerful riffs, shrieks and Serbian mysticism, works perfectly well.

Just to be clear, this is not a folk metal album but a quite guitar driven black metal work, with some tweaks and arrangements which give to the work a mystic and epic touch. The album begins with a quite straightforward track entitled “Vukov Totem”, having some excellent riffs and a great level of aggression. Excellently executed shrieks, powerful riffs and speedy drums are a constant in 'Pra Sila - Vukov Totem', but as the album progresses the songs include more arrangements, like in the second song “Zov iz Magle”, where we can listen to some choirs in the background with a distinctive Slavic touch. They give an undoubtedly epic touch to the composition and they appear more times through the album, usually mixing those vocals with the keys, creating an ethereal atmosphere, like it happens in “Vetrovo Kolo”. The mixture between fast and aggressive sections with those arrangements is very well done and nothing sounds out of place. The album has an impressive ending with a long track entitled “Konačna Ravnodnevica” which seems to be divided in two parts. The first half is a long song, one of the heaviest with a hammering pace from the beginning to the end, while the second half is a calmer track with a more atmospheric approach. This is probably my favourite track because even being calmer, it is a very intense composition, with very emotional and touching melodies which stick to your head. Undoubtedly, a truly remarkable end to the album.

In conclusion, 'Pra Sila - Vukov Totem' is an excellent debut by All My Sins. They have created a very solid work of black metal, plenty of aggression, but with some arrangements here and there, which enrich the album. The closing track shows how good this band can be when they slow done a little bit creating songs with a stronger atmospheric touch. Personally, I would be more than happy if they explore this formula a little bit more in a near future. (Alain González Artola)

Subtrees - Polluted Roots

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Grunge/Noise, Alice in Chains
Una Bologna violenta, inquinata fino alle radici esistenziali, un mostro che si aggira tra i portici alla ricerca di vittime per vomitargli addosso il mal di vivere. i Subtrees sono quattro sopravvissuti all'olocausto musicale degli anni '90 si ritrovano a condividere una sala prove nel sottosuolo bolognese, mescolando la loro rabbia in un mix di grunge e noise rock struggente e diretto. Sette sono i brani contenuti in 'Polluted Roots' atti a colpire chi ascolta attraverso i suoni ruvidi e spontanei di "Syngamy", perfetta intro che ipnotizza inizialmente con la ripetitività dei riff di chitarra che crescono fino all'esplosione distorta e all'urlo rauco che travolgono l'ascoltatore. Nel crescendo dell'album si passa a "Everything's Beautiful Nothing Hurt", una ballata scanzonata che s'insinua nei nostri neuroni che scaricano scosse ritmiche ai muscoli delle gambe e delle braccia per farci vacillare in una danza scomposta. Nota di merito per la perfetta scelta dei suoni che rappresentano un inno al grunge di Seattle con qualche sfumatura alternative, per non parlare poi del timbro vocale del vocalist che, nonostante la giovane età, risulta roco e avvolgente quanto basta. Un dono di natura probabilmente aiutato da centinaia di bionde e litri di nocino. Finito il warm up, il quartetto bolognese ingrana la quarta e ci allieta con brani più graffianti e carichi, come "Conversation #1" e "Conversation #2", una doppietta che alza il tiro, allontanando i nostri dagli arrangiamenti simil-pop dei primi brani ed iniziando la discesa nelle oscure profondità dell'io interiore. Il gioco si fa interessante, i riff di chitarra sono aspri, decomposti e ricostruiti in una forma noise, che insieme alla sezione ritmica nervosa ed irrequieta, accompagna la deflagrazione sonora. Gli stop & go tornano sempre utili per spezzare la frenesia ed inserire passaggi simil doom che distendono i nervi e preparano all'attacco successivo. Immancabile l'assolo struggente e sporco che avvinghia come una lingua di fuoco e ci incatena ancora di più ai voleri dei Subtrees. Affrontiamo "Motorbike", presunto tributo all'art cover che raffigura una vecchia Honda Goldwing degli anni '80, un cosiddetto cancello per la pesantezza, ma dal fascino indiscutibile come il brano che rappresenta. In bilico tra il grunge alla Alice in Chains ed il desert rock più mistico, la traccia inizia lieve e dissonante come un motore non perfettamente carburato e pian piano si scalda fino ad assumere la sua forma struggente. Le progressioni allungano il malessere e, ormai riversi a bocconi, arriviamo alla tanto agognata parola fine. Un progetto fuori dal tempo, che guarda indietro per trovare la propria identità e dare risposta alle domande di un'esistenza corrotta da chi è venuto prima di noi. Eredità pesante o no, il rischio di rimanere vittime è alto, troppo. (Michele Montanari)

(I Dischi del Minollo/ Vollmer Industries - 2018)
Voto: 75

https://subtrees.bandcamp.com/album/polluted-roots

The Pit Tips

Francesco Scarci

Ingrina - Etter Lys
Abstract Void - Back to Reality
Windfaerer - Alma

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Alain González Artola

Ancient Blood - Mysterious Death Domains
Bloodshed Walhalla - Ragnarok
Utstøtt - Járnviðr

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Shadowsofthesun

Daughters - You Won't Get What You Want
The Ocean - Phanerozoic I: Palaeozoic
Morne - To The Night Unknown

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Dominik

Panzer Squad - Ruins
Nattsvargr - Night of the Crimson Thirst
Survival Instinct - I am the Night

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Five_Nails

Birnam Wood - Wicked Worlds
Tristania - Beyond the Veil
Soul Dissolution - Stardust

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Alejandro Morgoth Valenzuela

Oathbreaker - Rheia
Battle Beast - Steel
Helheim - landawarijaR

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Stefano Torregrossa

Whourkr - 4247 Snare Drums
Clutch - Book of Bad Decisions

Laconic Zero - Sun to Death

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Alberto Calorosi

Arabrot - Who Do You Love
Therapy? - Cleaver
Bruno Bellissimo - Ghetto Falsetto

martedì 27 novembre 2018

Ingrina - Etter Lys

#PER CHI AMA: Post Metal, Milanku
Ero preoccupato del fatto che 'Etter Lys' fosse un album strumentale (cosi riporta nei tag bandcamp) vicino a derive post-metal e post-hardcore; vista una durata che sfiora di sei secondi l'ora, la paura di annoiarsi, devo ammetterlo, era forte. Fortuna mia che questi oscuri Ingrina siano dei burloni, visto che già dall'opener, "Black Hole", il vocalist della band si abbandona a degli urlacci che supportano egregiamente un sound potente e carismatico, forte di una componente ritmica costituita da ben due batterie e tre chitarre. Le fondamenta di certo sono quelle del post-metal e la scelta di una cosi possente armata di musicisti, sembra evocare anche la formazione dei Cult of Luna. Fatto sta che il suono dei transalpini è godurioso, è raccomandabile peraltro di beneficiarne in cuffia, per assaporare tutte le sfaccettature di siffatta musica che tende a privilegiare la componente strumentale, tenendo ben presente l'importanza di avere una voce in seno alla band. I brani partono spesso in sordina, "Fluent" lo testimonia, ma poi crescono in intensità e ardore attraverso pluri-stratificazioni soniche deflagranti, urla disperate ma anche straordinarie aperture post-rock che smorzano una ferocia che ogni tanto sembra uscire dai binari del post e virare verso forme musicali più estreme. Niente paura perchè i nostri hanno una notevole padronanza del genere che propongono, quasi ineccepibile (lascio uno spiraglio di beneficio del dubbio) oltre ad un grande gusto per melodie in grado di generare una certa emotività di carattere malinconico. "Coil" è il terzo pezzo del disco e qui la monoliticità post-metal sembra cedere il posto ad un carattere più arioso ed etereo, in una sorta di post-rock e shoegaze, caratterizzati da ottime percussioni, vocals decisamente più diradate e giri di chitarra che sublimano in epiche fughe strumentali e rallentamenti atmosferici. Ragazzi, un pezzone dove tutto è straordinariamente bilanciato, potenza e melodia, rabbia e atmosfera, vocals e chitarre. Diverse sono le similitudini anche in "Resilience", piccola gemma strumentale incastonata in questo 'Etter Lys', mentre "Leeway" sembra strizzare l'occhiolino, in modo intermittente, un po' ai Cult of Luna e ai Rosetta, in un altro pezzone che mostra arrangiamenti da urlo, eccellenti partiture strumentali e momenti di grande atmosfera in grado più volte di indurmi brividi lungo la schiena. Si arriva ai quasi sedici minuti della suite "Surrender" e gli Ingrina mettono in mostra le loro capacità dronico ambientali in un pezzo che fa della sperimentazione il proprio punto di forza. L'andamento è lento, cantava qualche tempo fa un noto cantante italiano, e l'incedere della song emula proprio quell'ondivago avanzare, attraverso l'eccellente commistione di percussioni e chitarre che regalano sprazzi di grande classe musicale, che per certi versi, connette i nostri ad un'altra grande ex band della scuderia Tokyo Jupiter Records, i canadesi Milanku. Fatto sta, che a me questo disco piace, parecchio, lo trovo affascinante, creativo, intenso, regala grandi speranze per la vitalità del genere, un po' spentosi nell'ultimo periodo. L'ultima fatica è affidata a "Jailers", roboante nel suo incipit, cosi spettrale e magnetica nei rimanenti minuti che collocano questo 'Etter Lys' nella mia personale top three dell'anno in ambito post. Un piccolo capolavoro? Beh, manca davvero poco. (Francesco Scarci)

(Tokyo Jupiter Records - 2018)
Voto: 85

https://ingrina.bandcamp.com/album/etter-lys

lunedì 26 novembre 2018

Forteresse - Thèmes Pour la Rébellion

#FOR FANS OF: Atmospheric Black
Leaving behind the classic Norwegian or Swedish black metal scenes, there are some other quite strong scenes, which have risen in different parts of the world. Some nice examples are the Ukrainian or the Polish ones, among others. One of those which has been highly praised by fans over the world is the one of Quebec, in Canada. As many of you surely know, in Quebec, in contrast to the rest of the country, they speak in French and the nationalism is quite strong. In fact, they have held several referendums, where the pro-independence parties were very close to win, though the result was to stay in Canada. Here, black metal has been deeply influenced by this political movement and many of its bands show a quite political approach in their lyrics. Among them, we can find one of the most notorious acts, the Forteresse. The band was formed in 2006 and quite shortly after its inception, they released an acclaimed debut entitled 'Métal Noir Québécois', where their political views were pretty clear. This album is considered a classic effort in the scene and helped Forteresse to carve a respected status among the fans. Musically speaking, Forteresse plays a quite guitar driven form of atmospheric black metal, relentlessly fast but with a strong atmosphere, especially in the old albums where the production was rawer.

Anyway, the band evolved slightly through their career and more than ten years after its creation, the current line-up, formed by the two founders and other two musicians, decided to release a new opus, the fifth record in their history, to make clear that Forteresse is stronger than ever. A jubilee is always important and I assume that the members wanted to do their best. 'Thèmes Pour la Rébellion' is the title of the new beast and I can promise that it doesn´t disappoint. Comparing the new album with the oldest ones, the first big difference is the production. It is clearly louder, cleaner and more powerful. It abandons the classic raw but atmospheric sound, for a heavier one. This might disappoint some old fans, but in my opinion the band still manages to create songs, which are very strong though they keep an atmospheric touch. What has no changed is the energy and speed of their compositions. Fiel, who is no longer in the band, smashes the drums with a relentless pace. The compositions breathe energy and fury. As both the album´s artwork and the songs demonstrate, this album is a perfect inspiration for a, this time only musical, rebellion. After a short intro, the second track “Spectre de la Rébellion” makes clear that this work will take no prisoners. But probably, the highlight of the album, and also my favourite track, is the next one, “Là Où Nous Allons”. What a beast of a song, believe me. Since the initial riff the track oozes strength and fierceness. The guitars are excellent, the riffs are hypnotic yet powerful, while Athros screams with all his fury. As I have already mentioned the cd is quite guitar driven, more than ever I would say, and I can´t recall a moment where the keys are audible, if they are used. Arrangements wise, what I like are the choirs they used a few times, like in “Vespérales”. Those voices give an epic touch to their compositions and I wish they could use them more oftenly.

In conclusion, Forteresse has expanded its musical boundaries releasing in 2016 (but re-edited in 2018) their most poignant and furious album so far. The atmospheric nature of the compositions is still there, though it’s partially buried by the relentless fury and speed of the new tracks. At the end, it is a great album and from the beginning to the end, the tracks will be able to capture and mantain your attention, mainly thanks to the awesome work with the guitars. (Alain González Artola)

Tritonica - Disforia

#PER CHI AMA: Post Hardcore/Alternative
I Tritonica sono un power trio formato da chitarra/basso/batteria che hanno debuttato l'anno scorso a Roma con un EP e quest'anno ha pubblicato questo 'Disforia', full length prodotto da Dischi Bervisti. Il digisleeve cartonato a due ante è caratterizzato da un artwork astratto con spruzzi di colore potenti, dove i colori blu e rosso predominano. Se in psichiatria la disforia è l'alterazione dell'umore con una predominante inclinazione verso la depressione, i Tritonica esprimono tale concetto attraverso undici brani in bilico tra post-hardcore, alternative ed influenze grunge/stoner. Nel loro percorso attraverso la psiche umana, la band romana sprigiona ansia e terrore con la opening track "al-Ghazālī", dove le granitiche distorsioni e le dissonanze ad irritare i nostri neuroni, la fanno da padrone. Un brano veloce e rude, che urla contro il progresso e l'industria tramite ritmiche affannate e discontinue che si dilatano nell'intermezzo psichedelico. Se la parte strumentale richiama i Bachi da Pietra, il cantato in italiano confonde le idee, assomigliando prima a Cristiano Godano, diventando poi più rabbioso e incontrollato per enunciare un testo impegnato e accusatorio. "Alchimia del Fato" si sintonizza su frequenze diverse, ballando a lungo intorno al falò della vita alla ricerca del proprio io su un tappeto di funghi allucinogeni che cresce e monta verso il riff distorto che ne chiude il viaggio dopo circa sette minuti. Lo schema appena visto continua anche con "Jimi" che dopo un incipit soave e lisergico, si lancia in una progressione hard blues con pattern improcrastinabili e riff di chitarra e basso dall'impatto devastante in pure stile desert rock. Vari stop and go si susseguono lasciando spazio ai fraseggi di basso inizialmente quieti e leggeri che trasmutano in maniera oscura verso il finale. 'Disforia' è un concept album complesso a livello lirico, strumentalmente là dove serve, che si rilassa poi per dare spazi di riflessione alla mente che vive battaglie intestine di continuo. Solo alla fine, si arriva all'accettazione della pazzia che ci circonda e "Mimonesis" lo fa senza l'uso di parole, con continui sbalzi di decibel in una lunga e struggente sessione di jam che sembra morire ogni volta, ma invece riprende sbattendo la coda come un pesce che vuole aver salva la vita. A tutti i costi, perché è l'istinto di sopravvivenza a guidarci. (Michele Montanari)

(Dischi Bervisti - 2018)
Voto: 75

https://tritonica.bandcamp.com/album/disforia

giovedì 22 novembre 2018

Runeshard - Dreaming Spire

#PER CHI AMA: Orchestral Dungeon Metal, Bal Sagoth
Chi si ricorda dei Bal Sagoth alzi la mano: bravi, è una black metal band inglese, capitanata da Lord Byron, concentrata su temi prettamente fantasy che trattano di civiltà barbare nate "prima di Atlantide", re-guerrieri, necromanti e sacerdoti di terrificanti divinità legate all'immaginario orrorifico di H.P. Lovecraft. Perchè questa mia introduzione? Perchè l'ensemble di oggi sembra essere posseduto da quello spirito chtuliano che caratterizzava Lord Byron e soci nei loro lavori. 'Dreaming Spire' è il debutto assoluto dei Runeshard, anche se Bálint Kemény, uno dei due membri, milita anche in Astur, Elanor e Ignotus Enthropya. L'EP consta di tre pezzi più "The Coronation", una bella intro suonata con l'organetto. Ma è dalla seconda song, la title track, che le cose divengono palesi e la vicinanza stilistica con gli albionici, quasi plagio. I pomposi synth sembrano infatti provenire da uno dei fatati lavori dei Bal Sagoth, penso in particolare a 'Battle Magic' e alle sinfonie magniloquenti in esso contenute. Analogamente, la traccia dei Runeshard srotola quasi sei minuti di sonorità epico-sinfoniche, il cui tema sembra strettamente collegato con draghi e castelli incantati, cosi come certificato anche dall'artwork di copertina. La musica pertanto qui, come nelle successive "Crimson Gates" e "Atlantean Sword", si muove su riffoni heavy - no, non posso dire black - montagne di dungeon synth ed orchestrazioni trionfali, suoni da menestrello e vocalizzi che si alternano tra un growl graffiato e calde voci pulite, in 17 minuti votati a battaglie insanguinate per salvare la nostra principessa dal perfido incantesimo di un mago o presunto tale. Che la saga dei Runeshard abbia pertanto inizio, spero solo che, a differenza dei Bal Sagoth, i nostri possano trovare più variazioni al tema, che alla lunga rischia di stancare notevolmente. Intanto, fiato alle trombe e godetevi questo 'Dreaming Spire'. (Francesco Scarci)

mercoledì 21 novembre 2018

Avast - Mother Culture

#PER CHI AMA: Post Black/Shoegaze, Deafheaven
Sono passati quasi due da quando recensii il primo album dei norvegesi Avast. Era infatti il 25 dicembre del 2016 quando pubblicammo, sulle pagine del Pozzo, la recensione dell'EP omonimo della band. Due pezzi che mi avevano colpito per quella loro selvaggia ed inquieta emotività di fondo. Oggi, i ragazzi di Stavanger tornano con un nuovo capitolo, 'Mother Culture', che tocca temi scottanti e d'attualità come quelli dei cambiamenti climatici, che cosi da vicino ci stanno coinvolgendo, dagli incendi della California alle concomitanti furibonde nevicate della East Coast, arrivando alle devastanti calamità che da poco hanno colpito anche il nostro paese. Su questi temi e il rapporto natura-uomo, ecco insinuarsi la musica degli Avast, attraverso sei pezzi di un blackgaze che risponde con forza e convinzione alla proposta degli statunitensi Deafheaven. Tutto questo è assai palese sin dall'opener, la title track, che si prende la grande responsabilità di aprire l'album. Signori chapeaù. La song è debordante, una maligna cavalcata post black (e con qualche ricamo hardcore), che nei suoi attimi di quiete, cede ovviamente il passo ad aperture eteree degne del miglior post rock d'autore e ad atmosfere che ricordano da vicino quelle degli Alcest. Un pezzone insomma, che trova conferma nell'esplosività di "Birth of Man", passando però prima attraverso le ispirate note strumentali della suadente e splendida "The Myth". La terza traccia conferma tutto l'ardore palesatosi nell'opening track, forse qui ancor maggiore; ci pensano però i break acustici a spezzarne la furia e stemperarne gli animi. E le chitarre tremolanti del duo formato da Ørjan e Tron, abbinate al drumming furente di Stian ed ai vocalizzi al vetriolo di Hans (peraltro anche bassista), rendono 'Mother Culture' un disco davvero degno di nota. "The World Belongs to Man" ha un piglio decisamente più orientato verso il post metal: affascinanti le linee melodiche, le ferali urla del frontman, cosi come le sfacciatissime accelerazioni post black di metà brano e il malinconico tremolo picking nella seconda parte del pezzo, in una salita emotivamente incandescente che avvicina i nostri ai miei preferiti di sempre, i nostrani Sunpocrisy. Arriviamo nel frattempo a "An Earnest Desire", song dalla quale i nostri hanno estratto il loro notevole video in bianco e nero, un viaggio dall'alto su desolate spiaggie, accompagnato dalle splendide sonorità blackgaze del quartetto norvegese. Ahimè, siamo già all'ultimo pezzo e "Man Belongs to the World" sancisce quel doppio filo che vede l'uomo legato alla natura e viceversa, in un'ultima galoppata, decisamente più ritmata delle precedenti, dove l'essere più controllati non significa per forza essere meno convincenti. Forse il pezzo perde un po' in fatto di imprevedibilità, ma il bel break acustico a metà brano, mette d'accordo tutti sulla qualità eccelsa degli Avast (anche in termini di produzione) e non fa altro che aumentare il mio desiderio di ascoltare quanto prima una nuova gelida proposta musicale dei quattro scandinavi. Nel frattempo, vi suggerisco di procedere in ordine, ascoltare il debut EP, e poi consumare questo 'Mother Culture' nel vostro lettore preferito, non ve ne pentirete di certo. (Francesco Scarci)

(Dark Essence Records/Karisma Rec - 2018)
Voto: 80

https://avastband.bandcamp.com/

martedì 20 novembre 2018

From Ashes Reborn - Existence Exiled

#PER CHI AMA: Swedish Death, Amon Amarth, primi In Flames
Formatisi appena nel 2017, i From Ashes Reborn arrivano velocemente alla release del primo album, questo perchè i nostri non sono certo degli sprovveduti, avendo la formazione, per 4/5, militato in precedenza nei deathsters Badoc. Dalle ceneri di quella band, ecco quindi risorgere il quintetto che vede l'aggiunta in line-up di Ronni, il nuovo vocalist. Il risultato è 'Existence Exiled' e le otto song in esso contenute. Le danze si aprono con le melodie sognanti dell'intro "The Onerous Truth" che in poco più di un minuto consegna a "Fight for the Light" il compito di aprire ufficialmente le danze, in modo più efficace. Presto detto, la band inizia a macinare montagne di riff fumanti, strizzando l'occhiolino al melo death di matrice scandinava. Non mancano pertanto i riffoni roboanti, i break acustici, le growling vocals e le immancabili linee di chitarra un po' folkish che guardano ai primi In Flames ma anche agli Amon Amarth. Ce n'è per tutti i gusti, basta solo accomodarsi e prestare un po' di attenzione alla proposta dei nostri musicisti teutonici e provare a non farsi schiacciare dalla loro furia vibrante, soprattutto quella contenuta in "Follow the Rising", un brano energico (pure troppo a livello di drumming) e ficcante, che soffre il solo problema di voler imbastire la linea ritmica con un po' troppe cose correndo il rischio di sovrassaturare il sound. Questo torna fortunatamente ad essere più intellegibile nella sua esaltante sezione solistica, davvero da urlo. "The Essence of Emptiness" apre un po' nel modo dei vecchi album di Anders Friden e soci, con un bell'arpeggio su cui poi si poggiano un riffing corposo e la bella voce in growl di Ronni, in una song incisiva dall'inizio alla fine. Si può dire altrettanto della breve schiacciasassi "Infected", incazzata e roboante nel suo incedere sempre comunque pregno di melodie che rendono per lo meno il disco piacevole da ascoltare, soprattutto a livello di solismi, sempre davvero ineccepibili e coinvolgenti. Un po' più tradizionale ed incentrata su un mid-tempo invece la title track, con nessuno spunto davvero degno di nota, se non i vivaci virtuosismi alla sei corde che davvero donano parecchio brio al pezzo. Il bombardamento prosegue in "Homicidal Rampage", un altro buon brano che necessita ancora di uno snellimento a livello ritmico per risultare più centrato; qui da sottolineare un riffing più marcescente che si fa ad altri classici spinti al versante death metal, mentre la coppia di asce prosegue il proprio dibattimento in fatto di supporto ritmico+assolo. Demoliti da quest'altra carneficina, arriviamo all'ultima "The Splendid Path", gli ultimi tre minuti e mezzo strumentali che chiudono con eleganza 'Existence Exiled', un disco interessante che abbisogna, come dicevo, di un maggiore alleggerimento a livello sonoro per evitare quell'effetto caos che talvolta si respira durante l'ascolto del disco. Per il resto, direi che siamo sulla strada giusta. Un'ultima cosa, dimenticavo: la produzione di 'Existence Exiled' è stata a cura di Markus Stock (Empyrium, The Vision Bleak, Sun of the Sleepless) nei Klangschmiede Studio, mica l'ultimo degli sfigati, pertanto non sottovaluterei fossi in voi questo lavoro. (Francesco Scarci)

Petrolio - L+ES

#PER CHI AMA: Experimental/Noise/Ambient
Petrolio: non esiste monicker migliore per il progetto avviato nel 2015 da Enrico Cerrato (già con gli Infection Code, Moksa e Gabbia Inferno), una miscela in precario equilibrio tra ossessioni industriali alla Godflesh ed esplosioni harsh noise in grado di proiettarci in un mondo oscuro ed estraniante. Descrivere le emozioni che ci trasmette l’ultima fatica, dal titolo 'L+ES' (letteralmente “Le Esistenze”), nata in collaborazione con altri sei artisti del panorama sperimentale (Aidan, Sigillum S, Arbeit, Mai Mai Mai, Fabrizio Modenese Palumbo e Nàresh Ran, ognuno dei quali contribuisce a due delle dodici tracce dell’album), rappresenta una vera e propria sfida, in quanto la potenza di questa marea nera è tale da costringerci ad una continua lotta per non essere sopraffatti. Questo viaggio negli abissi sonori che rappresentano le nostre vite alienate comincia con “Ne Tuez Pas Les Anges” (ft. Aidan), una lenta marcia tra desolanti effetti ambient, tastiere grondanti tristezza e ritmiche meccaniche, efficace preludio alla definitiva immersione nel tunnel industrial-noise di “La Maladie Connue” (ft. Sigillum S), inesorabile come un male fisico. In “Scindere 2 Animes” (ft. Arbeit) la tensione è portata agli estremi da un crescendo di austere note di piano e rumori indistinti che a sorpresa si evolvono in una diafana melodia piena di malinconia, forse presagio di un pronto ritorno a galla sulla spinta della batteria saturata e degli scroscianti synth di “Fish Fet” (ft. Mai Mai Mai). Petrolio ci rivela l’inganno facendoci nuovamente sprofondare con la maestosa estridente “L’Eterno non è per Sempre” (ft. Fabrizio Modenese Palumbo), un pezzo che potrebbe tranquillamente far parte della colonna sonora di un film di Lynch e che ci avvia alla parte più disturbante dell’album: “Ceralacca e Seta” (ft. Nàresh Ran) è una finestra aperta sull’abisso di una nevrosi da cui sgorgano disperati farfugliamenti, seguono il caos rumoristico e i feedback maligni di “Heilig Van Blut” (ft. Aidan) e la martellante “Peregrinos De Almas” (ft. Sigillum S). Stiamo per toccare il fondo, la quiete della superficie è solo un vago ricordo evocato dai miraggi sonori di “Wood and the Leaf Rite” (ft. Arbeit): ciò che resta di noi, ormai schiacciato da un peso opprimente, si ritrova a vagare nei sepolcrali bassifondi di “Cut The Moon” (ft. Mai Mai Mai) e “Ojos, Eyes and l’Ecoute” (ft. Fabrizio Modenese Palumbo), alla ricerca di una qualche fonte di luce che si può solo intravedere in mezzo alla pioggia battente di effetti ambientali e percussioni ossessive. Il pachidermico groove di “Vuoto a Perdere” (ft. NàreshRan) ci riporta ad una realtà ancora più tetra dell’incubo: è l’allucinante grido finale che esplode nella cacofonia della nostra quotidianità quando la sopportazione giunge al limite (“è come se qualcuno mi spingesse o mi tirasse giù”), la voce dell’Es (forse richiamato nel titolo) che erutta spazzando via ogni repressione e tentativo di controllo conducendoci alla pazzia. In questo suo lavoro (la cui edizione fisica vedrà le tracce separate su due supporti, dalla 1 alla 6 su vinile e dalla 7 alla 12 su cassetta), Petrolio arricchisce il suo nero fluido col contributo di ogni ospite, dosandolo ed amalgamandolo come un alchimista, fino ad ottenere un vero e proprio elisir del disagio esistenziale: 'L+ES' non è certo l’album da ascoltare durante una bella giornata di sole in compagnia, bensì una prova da affrontare in solitudine, che vi sbatterà in faccia ogni vostro malessere a cui solo i più forti riusciranno a sopravvivere. (Shadowsofthesun)

(Audiotrauma – 2018)
Voto: 90

https://petrolio.bandcamp.com/releases

sabato 17 novembre 2018

Gutwrench - The Art of Mutilation

#FOR FANS OF: Death Metal, Autopsy
A very short-lived death metal band from the early days of the subgenre, Gutwrench is the Dutch response to a steadily fragmenting series of death metal styles at the time. With its cohesive and crushing sound, the band harnesses the unhinged intensity of New York death metal, the speed and screaming treble of the Florida sound, and the cavernous horror hiding Sweden's sickness. 'The Art of Mutilation' is a compilation and re-release of the two demos that Gutwrench had delivered within a year and a half period from March of 1993 to September of 1994. The first five tracks comprise 'Wither Without You' while 'Beneath Skin' makes up the final six tracks. Between both of these demos is a previously unreleased song, “Asphyxia”, that serves as a strong transition between these two distinctly different demos.

'Wither Without You' is the exact sort of filthy, meaty, thickly textured metal that spreads teeth and sticks deeply into gums and ribs. Whereas a slice of early rhythm in “Meatlocker” would see its cousin come up in Lamb of God's “In the Absence of the Sacred”, Gutwrench throws that sound into a dike filled with sewerage as the quintet quashes any notion that the percussive New York style was a fluke. Emerging in 1993, this cavernous and hammering cassette was initially distributed by Displeased Records, a company that would also go on to sign the likes of Nile, Cryptopsy, Deeds of Flesh, Disgorge, and plenty of other easily dropped names that pad many a metalhead's collection. Displeased seems to have known the direction the sound would take over time but somehow Gutwrench got lost in the race.

Gutwrench's sound is not only a fascinated with the viscous 'Effigy of the Forgotten' swamp that had overtaken the death metal world at the time, but it provides the variety necessary to keep its sound fresh and appealing with some Swedish as well as Florida licks along with a good sense of flow and groove making “Crawl” live up to its namesake. A great harmony setting off “Necrosis”, sounding a bit bluesy and plenty doomy with some melancholic flair, achieves the pummeling style that we all know and love as it malignantly mutates. However, in Autopsy fashion, Gutwrench drags the song into the dirt so that skin can fester and maggots can feast, malleting those 'Mental Funeral' moments into a coffin fit for an infant.

Gutwrench enjoys the call and response of scraping strings as cymbals storm through the milliseconds between them, creating an unhinged sound that grooves as much as it growls. This makes the storm of guitars in the title track crash with a thick backdrop of swirling cymbal winds and stomp on paper cities like a '50s Japanese monster. The rudimentary beginnings of this band show the strength of death metal's direction through the early '90s, one that relied on raw talent and beastly riffage rather than focusing on production value and incorporating tropes from other styles to create an exquisite sound that grabs an ear. Gutwrench is sheer aggression pushing its limits and making mincemeat out of its audience, fitting seamlessly into its time and unfortunately having been lost by the wayside during its hangover.

'Beneath Skin' comes right out the gate bearing some some striking moments with a most familiar shrill scream across the treble, rising in a harmony, that has me thinking of later more accessible bands and takes its middling pace a step or two into melodic death metal territory as it leans more towards the Gothenburg style that, by 1994, was firmly planting itself. At its heart though, Gutwrench is still a death metal band that thrashes its way 'Beneath Skin' and stomps on the exposed bones of the “Scarred and Hollow”. An overflowing putrescence of riffing and blasting makes such a dissection drown in reverberating muck before finding a rise in an echoing flying riff joined by double bass and pounding snare to make the most encompassing moments in the production erupt from their elaborate catacombs like a startled swarm of bats. Simultaneously gorgeous and treacherous, the massive and meaty “Cain” brings that New York crush to the fore before brutalizing a melody until a snippet of soloing brings this frenzy rampaging to bloody conclusion featuring a slight hint of the synth that Enslaved would ride into nihil nearly a decade later in “The Dead Stare”.

Like the obscurity in which these demos reside, the members of Gutwrench maintained marginal roles in the death metal underground with guitarist Edwin Fölsche being the only member to come up again in as recognizable a band as Pentacle, playing guitars on the 1996 EP 'The Fifth Moon'. In all, Gutwrench seemed to have moved on long before the turn of the millennium and the beginning of this new era where underground sounds are so easily accessed and finally giving this band its deserved due. Dirty, corroded, and very much a product of its time, Gutwrench's short output is as enjoyable as it is a time capsule, filled with gems from decades past and buried in the rough underground but entirely worth being unearthed. (Five_Nails)

Julinko - Ash Ark/Sycamore Tree


#PER CHI AMA: Dark/Drone
È una raccolta di canti rituali e melodie decadenti quella di Julinko, Giulia Parin Zecchin all’anagrafe, il tutto contornato da caleidoscopici arrangiamenti di chitarra in un riverbero perenne e ancestrale. Un progetto coraggioso a livello sonoro, 'Ash Ark' più che un ascolto richiede un totale abbandono ai suoi rituali e ai suoi ambienti sacri dal sapore dimenticato e solenne. Ciò che più si avvicina ad un brano, come siamo abituati a sentirlo è quello, penso ironicamente, nominato "Ghost Track" che vede la partecipazione di Carlo Veneziano alla batteria. Il riff ha delle reminiscenze pink floydiane, più precisamente barrettiane, sia nello stile compositivo che nel suono di chitarra. Saranno stati i lidi veneziani in inverno con la nebbia e l’umidità che entra nelle ossa, ad ispirare questa piacevole volata psichedelica che non perde l’incanto mistico in una delle più belle performance vocali del disco. Mi vengono in mente quegli scenari alla 'Eyes Wide Shut', le stanze inaccessibili e le cerimonie segrete, l’incenso bruciato, le maschere e le tuniche decorate, oggetti dorati ovunque e grandi arazzi alle pareti. Tuttavia c’è anche qualcosa di molto più primitivo della massoneria, basta ascoltare la traccia "Transumanar" per trovare tracce di antichi sacerdoti sciamanici di una qualche tribù amazzonica dimenticata da millenni ma che ognuno di noi, inspiegabilmente, sente familiari. Dopo 'Ash Ark' è uscito il singolo "Sycamore Tree", una ballata acustica in stile Nick Cave, dove la voce di Giulia, di una spettrale bellezza, si fa strada in un ambiente cupo e melanconico. Si parla di morte e di immortalità, di transizione verso l’aldilà; il "Sycamore Tree", l'albero del sicomoro, è presente nei miti egizi ed ebraici utilizzato appunto per facilitare il passaggio dell’anima da questo mondo al prossimo, e la canzone, nel suo funereo evolversi, trasmette una sensazione di sospensione e di profondo struggimento, senza perdere quella caratteristica, sempre presente e pertanto fortemente distintiva, dell’artista. Siamo davanti ad un progetto da non perdere di vista perché credibile, non comune e ben curato in tutti gli aspetti; Julinko è una sacerdotessa oscura dalla voce cristallina, capace di ipnotizzare ed incantare l’ascoltatore nelle sue spire sonore, ove dolcemente vi troverete immersi in un mondo tra il fantastico e l’ignoto e farete molta fatica a trovare la volontà e la forza di tornare indietro. (Matteo Baldi)

Strunkiin - The Joy of Creation

#PER CHI AMA: Post Black Strumentale
Io francamente non me lo ricordavo, ma Bob Ross fu un pittore che divenne famoso per aver creato il programma televisivo "The Joy of Painting" tra il 1983 e il 1994, che insegnava ai telespettatori, a dipingere delle scene naturali con la tecnia dell'olio. Morì all'età di 52 anni a causa di un linfoma. Questa premessa perchè 'The Joy of Creation', secondo album dei finlandesi Strunkiin, vuole essere un tributo proprio a quell'artista che evidentemente influenzò i nostri con quel suo approccio artistico, qui applicato alla musica. E allora non ci resta altro che socchiudere gli occhi e provare ad immaginare quei paesaggi: "Island in the Wilderness" e le sue ariose tastiere mi conducono in assolati paesaggi montani, penso a quelle distese infinite di radure e foreste che caratterizzano le zone più remote della Finlandia in cui è la natura a governare. Meravigliose le melodie black che guidano il brano, il suono degli animali, di voce non v'è traccia, mi sembra quasi di vedere renne e alci scorrazzare per le lande innevate e le aquile scrutare il mondo dall'alto. La colonna sonora di tutto questo è quella contenuta negli otto minuti dell'opener, tra saliscendi di un black atmosferico assai interessante. "Northern Lights" richiama ovviamente l'aurora boreale e quei magici momenti che caratterizzano la visione di quell'unico evento naturale. La musica si muove veloce, come se fosse guidata dallo sfarfallio delle luci del nord nel cielo stellato, tra improvvise accelerazioni ricche di blast beat e momenti più soavi, in cui le tastiere assumono il ruolo cardine nell'economia del brano, talvolta animato da un tumultuoso riffing in grado di intersecarsi con momenti più calmi, guidati da un tremolo picking malinconico. Lo stesso mood nostalgico apre in acustico "Blue Ridge Falls", una song che miscela il black con un sound etereo, ricco di orchestrazioni e attimi di quiete, ove in sottofondo è sempre il verso di uccellini a tener banco. Poi largo spazio a splendide incursioni melodiche, tocchi di pianoforte e meravigliose vallate (come quelle dell'artwork) riempiono i miei occhi. Il suono dell'acqua apre "Crimson Tide", poi chitarre taglienti iniziano a descrivere con i loro accordi, nuove scene di natura estrema. Tutto molto interessante ma c'è un ma. Brani cosi lunghi (la media è vicina ai 10 minuti) trovo che sia delittuoso lasciarli privi di una voce, sembrano depotenziati e meno poetici, un qualche grido qua e la gliel'avrei messo perchè affrontare quasi 50 minuti di black strumentale, per quanto ispirato, non è tra le cose più semplici da fare. Nel frattempo siamo giunti al finale, affidato a "Wilderness Day", gli ultimi 11 minuti e mezzo di suoni orchestrati dalla rabbia del duo finlandese, che omaggia egregiamente la natura estrema del nord. (Francesco Scarci)

giovedì 15 novembre 2018

All My Memories - Umwelt

#PER CHI AMA: Death/Hardcore, Fallujah
I Fallujah stanno facendo scuola. Con la loro tonante proposta di deathcore atmosferico hanno conquistato uno stuolo di seguaci in giro per il mondo, tra cui i qui presenti All My Memories. Si tratta di un ensemble proveniente da Parigi che con 'Umwelt' (un titolo che mi aveva indotto a pensare ad origini teutoniche per la band) tagliano il traguardo del secondo album. Un disco che conta undici tracce belle dirette e immediate e dalle durate non troppo estenuanti. Si parte infatti con i novanta secondi di "Terra Mater" che espongono immediatamente il manifesto programmatico dei cinque francesini, ossia un death/hardcore melodico. Chiaro che un minuto e mezzo sia poco per capire le intenzioni dei nostri ed eccoli lanciarsi immediatamente con la title track, un pezzo possente che mette in luce le buone intenzioni della band transalpina, tra suoni iper bombastici, possenti linee di chitarra che ogni tanto si concedono quelle bombe ritmiche che cosi tanto mi fanno sussultare e apprezzare il genere. E mentre i suoni scivolano piacevolmente tra i roboanti riff e pulsanti tocchi di basso di "Wasteland", a guidare il tutto c'è il bel vocione del frontman Loïc che si dimena tra un growl cavernoso e qualche chorus ruffiano. In men che non si dica, ci ritroviamo già alla quarta traccia, "Thanatos", song più oscura, ma che mantiene l'intelaiatura musicale sin qui goduta. Si prosegue con "Coward", e le atmosfere si fanno più malinconiche nel loro incedere, peccato solo si faccia fatica a goderne appieno, il vocalist per quanto bravo, a mio avviso canta un po' troppo per i miei gusti, avrei dato maggior spazio a quei rallentamenti apocalittici che spaccano in due il brano. Ottimo il comparto tastieristico, e quel piglio electro death all'inizio di "Burn The Heaven" (ma sarà ben più enfatizzato in "Behind The Wall", dove peraltro ci sarà il featuring di Anthony Doniak, dei Here Come The New Challenger), in una song che fondamentalmente si muove sulla falsariga di quanto fatto sin qui e che verrà fatto da qui fino alla fine. Forse in questo immobilismo (ed in un eccessivo numero di pezzi) risiede il punto debole degli All My Memories, anche se deve essere chiaro che 'Umwelt' è un buon album, con tutti i suoi pregi e sbavature. D'altro canto siamo solo al secondo lavoro per la band francese e la strada imboccata è sicuramente quella buona. (Francesco Scarci)

mercoledì 14 novembre 2018

The Rambo - The Past Devours Everything

#PER CHI AMA: Noise/Post-Punk/Rockabilly/Country/Garage Rock
Ascoltarli è una goduria e accostarli ad un solo genere è compito arduo e impossibile. I The Rambo, band di Lodi al terzo lavoro, proseguono la loro folle corsa verso una commistione di musiche allucinate e scapestrate fatte di garage punk, derive noise, post punk, country e rockabilly, ben intuibili anche dall'artwork scherzoso di copertina. Il tutto viene gestito benissimo con un'irruenza nevrotica e un sano tocco di pazzia tanto caro alla Captain Beefheart, con tanto di vocals degenerate, paranoiche e indigeste. I primi tre brani impazziti di questo 'The Past Devours Everything', volano che è un piacere e ci mostrano ballerini country intenti a pogare, lanciando per aria il loro cappello texano, poi si entra con il ritmo rumoroso, ipnotico e malato di "Rope of Sorrow" e qui si sventolano alte le bandiere in onore del psychobilly alla Cramps. Il disco prosegue con la bellissima "The Past Returns" e si continua sulle coordinate schizoidi tra punk e no wave, corrosiva e tagliente, mentre ci si arresta nei ritmi di "Napalm", brano dai connotati blues, tanto vintage alla Stones vecchia maniera che amplifica e mette in risalto le già note capacità compositive della band lombarda. Siamo a metà dell'opera e un titolo assurdo "Wh_T's Th_S S_Ckn_Ss?", ci porta una ventata di festoso quanto strampalato country da saloon che fa da apripista alla sbilenca, e diciamo per certi versi, etnico-balcanica, "The Devil Lurk in the Holy House". Il tutto seguendo sempre i canoni stilistici psicotici e rumorosi del gruppo che afferma ad ogni brano la propria personale visione dei generi toccati volta per volta. Accenno di ottimo post punk a ritmo di ballo liscio per la breve e sfuggente "Deadline Show" e finale esplosivo acido e perverso con la conclusiva "Shining Light". Una carrellata di generi e stili in circa mezz'ora di musica piena di energia e originalità, brani brevi e veloci, vitali e taglienti, un attitudine punk e un piglio compositivo da far invidia, che non sempre emerge nelle band italiane di certa musica trasversale. Non saranno di facile ricezione ma il buon intenditore saprà apprezzarli per bene. Ottimo album. Buona follia a tutti! (Bob Stoner)

(Dischi Bervisti/Wallace Rec/Cloudhead Rec/Villa Inferno/Il Verso del Cinghiale Rec - 2018)
Voto: 70

https://dischibervisti.bandcamp.com/album/the-past-devours-everything

Panchrysia - Dogma

#PER CHI AMA: Black/Doom
La Satanath Records deve avere un buon scouting in giro per il mondo, andando a pescare band in tutti gli angoli della terra. La compagine di oggi, i Panchrysia, arrivano dal Belgio, dalla zona di Anversa per l'esattezza e per quanto a me siano totalmente sconosciuti, 'Dogma' rappresenta già il loro quinto lavoro da quanto sono in giro. Non devono essere troppo prolifici però, dato che si sono formati nel '98 e questo cd arriva a ben sette anni di distanza dal precedente 'Massa Damnata'. La proposta del quartetto si prefigura come un black dalle fosche tinte atmosferiche, con buone accelerazioni post-black. Ciò è quanto si evince almeno dalla brillante opening track, "Each Against All", che offre buone soluzioni melodiche, un bel riffing compatto ed una più che dignitosa performance vocale. Nonostante le premesse, queste vengono deluse da una seconda song più piatta, "Salvation", sempre in bilico tra un black e doom che poco di nuovo hanno da proporre. Ci riproviamo allora con "Gilgamesh", di sicuro più grintosa della precedente ed avvolta da un'aura old school. La song vive in realtà di sussulti tra spinte notevoli e intriganti rallentamenti, in cui il cantante si avvale di spoken words per affascinare l'ascoltatore. Interessante ma da riascoltare. Sembra decisamente più stuzzicante "Kairos" e la sua alternanza perpetua tra soluzioni incazzate e reminiscenze mi portano a 'Dance of December Souls' dei Katatonia, anche se il riffing qui viaggia su binari death black. Il disco si conferma altalenante: se la seguente "War With Heaven" non mi convince appieno, ancora un po' piattina nella sua evoluzione, "Never to See the Light Again" ha modo di regalare un prog black aggressivo evocante per certi versi, gli Enslaved. Lo stesso dicasi di "28 Steps", ma è forse con "Rats", che la band belga trova la quadratura del cerchio con una prova convincente quanto sperimentale, tra suoni anni '30 proposti come intro, spaventose accelerazioni e lunghi momenti atmosferici. C'è ancora molto da lavorare per elevarsi sopra le masse di band che propongono simili sonorità, speriamo solo di non dover aspettare un altro lustro per sentir ancora parlare dei Panchrysia. (Francesco Scarci)

(Satanath Records - 2018)
Voto: 65

https://panchrysia.bandcamp.com/

martedì 13 novembre 2018

Black Space Riders - Amoretum Vol.1 - Vol. 2


#PER CHI AMA: Heavy/Psych/Space/Stoner/Alternative Rock
La Germania ci ha sempre abituati ad una certa avanguardia stilistica a tutto campo: dalla purezza del Bauhaus al kraut-rock, dai robotici Kraftwerk al calzino con sandalo, dai Rammstein ai würstel bianchi. Non stupisce, quindi, che una band come i Black Space Riders provengano proprio dal cuore della Germania. Stupisce anzitutto la loro produzione musicale: ben cinque album in sei anni prima di questo doppio lavoro 'Amoretum', che da solo sfiora i cento minuti di durata (cento!), divisi tra Volume 1 e Volume 2, usciti a soli sei mesi di distanza. I due volumi di 'Amoretum' condividono evidentemente una scrittura uniforme e comune, come in un gigantesco concept album di ventidue tracce diviso in due macro movimenti: il primo, appena più psichedelico; il secondo più disposto ad osare con il lato oscuro, distorto, pesante. E, proprio come nel giardino evocato nel titolo, i brani germogliano impazziti come milioni di diverse varietà vegetali: nascondono o riflettono la luce del sole, hanno spine pungenti o fragili petali, fiori colorati o foglie nerissime, radici infestanti o steli delicati, profumano l’aria o la soffocano. Le coordinate musicali dei Black Space Riders non sono facili da identificare: se da una parte pescano a piene mani da una certa new wave anni ’80 — nelle melodie, sempre piacevoli e orecchiabili — (“Soul Shelter”) dall’altro non disdegnano le distorsioni fumanti tipiche dello stoner rock (“Come and Follow”, “Lovely Lovelie”, “Ch Ch Ch Ch pt. 2”), le atmosfere ipnotiche dello space rock più settantiano (“Movements”), un songwriting che ha molto a che spartire con il prog-rock (“Lovelovelovelovelovelovelovelove Love”, o la lunghissima e conclusiva “The Wait is Never Over”, assoluto capolavoro). Ad un ascolto più attento, emergono persino una certa ambient minimale, voci growl, parentesi dub/reggae (“Fire! Fire!”), chitarre shoegaze, atmosfere orientali (“Ch Ch Ch Ch pt. 1”) — e, in generale, l’impressione di assomigliare contemporaneamente a The Cult, Monster Magnet, U2, Colour Haze, Mogwai, Brant Bjork, Hawkwind e chissà quanti altri. So cosa state pensando: troppi generi, troppa carne al fuoco — il disco non può che risultare sconnesso, disomogeneo. Tutt’altro. Nella selva di emozioni e ispirazioni all’interno dei due capitoli di 'Amoretum' c’è, presente e sottesa per l’intero lavoro, una coerenza innegabile: l’amore immenso e incontenibile per la sperimentazione, la libertà, l’immaginazione senza vincoli se non quello, perfetto, della bellezza. Cos’è il rock, nel suo spirito più puro, se non questo? Poco dovrebbe importarci delle etichette di genere, quando siamo davanti a capolavori di scrittura e invenzione come questo. Da ascoltare, senza alcuna paura di perdersi — anzi, proprio per perdersi. (Stefano Torregrossa)

(BlackSpaceRecords/CargoRecords - 2018)
Voto: 90

https://blackspaceriders.bandcamp.com/

sabato 10 novembre 2018

Unhold - Here is the Blood

#FOR FANS OF: Post Metal/Sludge, Cult of Luna, Neurosis
There is a Swiss quintet, better to name it fivesome considering the mass of this album, presenting a humble masterpiece called 'Here is the Blood, the release issued on 9th November 2018 from Czar Of Crickets Production. Everytime I reach such an artwork my biggest struggle is “to have never seen a live performance of this band is such a pity”. The outcome is a mature and full-bodied wave of magnitude, this heavy bernese band is not a newcomer in the metal scenario, they actually look like being active since at least 25 years, not a surprise when it comes to analyse their tracks’ texture, engineering, mixing and mastering: Unhold is definitely candidated to be one of the best niche European sludge realities. Taking a considerable distance from the initial noise roots spotted in the previous LPs, this last work’s style reminds us to Cult of Luna and Neurosis even if the synth layers and the astonishing voice of Miriam Wolf, co-vocal and pianist, define a unique sound amenable to a personal and unique trademark. 'Here is the Blood' starts with "Attaining the Light", brilliant and convincing invitation to enjoy the whole product, "Convoy" pulls us with a stoney riff into a hidden rage corner, announcing the arrival of a bloody flow. The following tracks Deeper in and Curse of the Dime shepherd the path with remarkable vocal atmospheres. In "Hunter", Miriam takes the lead and orchestrates a melancholic break, a teardrop of hope in a ocean of fury but also a bid, a bid to test our integrity, coherence and our responsibility. "Pale" and "Altar" dive again into waters of anger, the hoarse voices of the guitarists Philipp Thöni and Thomas Tschuor, spread oblivion and agony. The last track, "The Chronic Return" encases all the adjectives compliant to this 50 minutes album: emotional, aesthetic, hopeful, existential, a wall of depth. This alpine ensemble latest production is definitely a must buy! (Pietro Cavalaselle)

(Czar of Crickets Productions - 2018)
Score: 80

https://unhold.bandcamp.com/album/here-is-the-blood

Pavallion - Stratospheria

#PER CHI AMA: Psichedelia/Kraut Rock/Prog, Porcupine Tree
Psichedelia in tinta progressiva per questa giovane band tedesca al suo secondo album intitolato 'Stratospheria' che si riallaccia musicalmente al precedente buon lavoro del 2017. Il quartetto di Krefeld ha continuato il suo percorso sulla scia di un suono floydiano mischiato ad aperture e chiaroscuri alla Riverside e Porcupine Tree, con toni cupi e riflessivi che sfoderano atmosfere care a certe composizioni del miglior post rock dell'ultimo decennio. I Pavallion riescono a dare spessore alle loro composizioni con un'amalgama sonora sempre ben equilibrata, il canto è coinvolgente, leggero e astratto, le chitarre liquide che ricordano i mitici fraseggi malinconici di Robert Smith nei The Cure oppure le parte più melodiche e sognanti degli Isis se ci focalizziamo sul modo di utilizzo della sezione ritmica. Il nuovo album si presenta con l'iniziale "Waves", un brano dalla durata di circa dieci minuti che dona speranza grazie a quel suo incedere cristallino e alla sua diffusa sensazione di fluttuare nell'aria, una song dal taglio molto soft, ambientale e post rock, con aperture ariose e un buon cantato ed una coda finale esplosiva, in una situazione sonora dove i nostri giovani suonatori si muovono in perfetta sintonia. Anche nella lunghissima (24:37 minuti) e conclusiva terza song, "Stratospheria", che dà il titolo all'intero disco, la musica rimarca i canoni compositivi della band. Forse il brano è effettivamente molto lungo, impegnativo, pieno di divagazioni, il cantato è molto bello e intenso, in alcuni momenti la traccia prende le vie epiche e la forza degli ultimi Solstafir e da contraltare pone strutture chitarristiche, seppur rimodernate e rivisitate, col sapore vintage delle cavalcate dei migliori Big Country. Dentro questo brano c'è veramente molta roba. In realtà mi sono riservato di parlare per ultimo del brano centrale, "Monolith", di soli cinque minuti, perchè lo reputo un piccolo capolavoro, il suo passo lentissimo, la sua evoluzione, il senso di staticità, la sospensione provocata da questi accordi è fantastica e l'idea di unire il suono cristallino del prog con l'andamento lento e decadente di certo doom di classe, è stata proprio un'ottima scelta. Questa band ha tanto da dire e lo fa sempre con una buona dose di personalità. Possono vantarsi degnamente di appartenere alla categoria del Neo prog con la N maiuscola, con un disco da ascoltare più volte, che non è per tutti ma è da assaporare lentamente in tranquillità. Raccomandato l'ascolto. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2018)
Voto: 75

https://pavallion.bandcamp.com/album/stratospheria

mercoledì 7 novembre 2018

Nomura e Nulla+ - Impronte / Lacrime

#PER CHI AMA: Sludge/Post Black
Siamo di fronte allo split 'Impronte / Lacrime' di Nomura / Nulla+, un disco di 5 pezzi che si muove tra lo sludge, il black e il post. Le atmosfere cupe sono la linea tematica, l’italiano usato con rabbia e disperazione è il mezzo. Si tratta di un quarto d’ora di inferno, uno sguardo dentro un oscuro abisso di disagio e disperazione. Il brano dei baresi Nomura, "Salice", diviso in due parti, è una sferzata di post black sanguigno ma anche spirituale legato alla natura e alla convinzione che essa sia al di sopra di tutto e di tutti, che assista impassibile allo svolgersi delle più efferate atrocità che l’uomo sia in grado di concepire. Il Salice è un simbolo, un albero piangente che si duole e soffre con l’umanità per la sua destinata e catastrofica fine. I Nulla+, con il loro black metal al vetriolo, si concentrano invece sulla sofferenza umana, nell’incomunicabilità tra le persone, le lacrime come effige di una lotta mai vinta e mai combattuta, che non può che finire in una cocente disfatta. I rampolli arricchiti che sperperano denaro e tempo negli oggetti e nelle attività più inutili, in un mondo in cui la fame non molla mai e le persone che hanno fame, alla fine muoiono per gentile concessione della società cosìddetta civile. Uno split imbevuto di petrolio viscoso e velenoso, una volta toccato, penetra nella pelle e pervade ogni emozione, solo il nero regna sovrano per ricordarci che il male esiste, vive e non se ne andrà mai. (Matteo Baldi)

(The Triad Rec/Italian Extreme Underground/Nothing Left Records/Boned Factory - 2018)
Voto: 75

https://nomuratheband.bandcamp.com/album/impronte-lacrime

Alchem - Viaggio al Centro della Terra

#PER CHI AMA: Progressive Metal
Se non sapessi che la release degli Alchem 'Viaggio al Centro della Terra' fosse uscito nel 2018, avrei senz’altro pensato, dopo l’ascolto, che fosse datato almeno di 15 anni. Questo album mi ha fatto tornare indietro ai tempi in cui da sbarbatello, sotto gentile concessione dei miei gentiori, andavo alle sagre di paese e scoprivo per la prima volta che la musica non era soltanto 'Hit Mania Dance' e 'Hot Party' ma che invece esisteva, al di fuori di queste compilation, un intero mondo di persone che si ritrovava settimanalmente in uno scantinato nell’intento di preparare live performance. L’ultimo lavoro del collettivo romano fondato da Annalisa Belli e Pierpaolo Capuano è un prodotto genuinamente umano e si capisce subito come i musicisti abbraccino il motto “Do it yourself”: la qualità di registrazione infatti, insieme alle scelte di composizione, sembra inequivocabilmente riconducibile ad una band che da più di un quarto di secolo si è isolata nella sua comfort zone e si è dedicata con zelo a trasportare sogni e visioni su un pentagramma. Non ci vuole molto tempo per trovare informazioni sugli Alchem e scoprire che la loro mission non si esula soltanto nei meandri del progressive metal ma abbraccia anche progetti di visual e grafica, insieme ad una considerevole serie di collaborazioni con altri musicisti. 'Viaggio al Centro della Terra' ahimé non spicca per innovazione e scelte stilistiche azzardate, è un super classicone del genere, condito da intraprendenti breaks vocali che strizzano l’occhio a spiritualità e alla magia. Consiglierei questo album a chi, come me quando non avevo ancora la barba, si dovesse svegliare un mattino di novembre e capire che la musica non è soltanto un daw-software ma è nata e sopravvive, ancora oggi, grazie a persone che sentono il desiderio di comunicare pensieri ed intuizioni. La musica non è solo mixtape e remixe, ma è nata e sopravvive anche nel 2018 grazie a persone che periodicamente s'incontrano e si arrovellano il gulliver per trasformare idee in note, esercitarsi ed esibirsi. (Pietro Cavalcaselle)

(The Triad Records/Black Widow Rec/Maculata Anima/Hellbones Records - 2018)
Voto: 55

https://hellbonesrecords.bandcamp.com/album/alchem-viaggio-al-centro-della-terra