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lunedì 24 ottobre 2022

No Point in Living - Heaven

#PER CHI AMA: Progressive Deathcore
I giapponesi No Point in Living hanno una discografia pazzesca. La one-man-band originaria di Sapporo, formatasi nel 2015, conta ben 32 album e 13 EP all'attivo, di cui quest'ultimo 'Heaven' e dire che ho tralasciato gli split, le compilation e i singoli, e se non è record questo, poco ci manca. Fatto sta che il buon Yu ci consegna tre pezzi di black/death melodico che irrompono con le ritmiche tempestose di "Heaven That We Can't Reach" che si mette in mostra per una melodica linea di chitarra, un po' meno per le grim vocals del frontman e per una drum machine troppo poco umana. Il sound potrebbe essere ascrivibile al melo death di In Flames e co., dotato però di un piglio malinconico ma poi quello screaming efferato finisce per rovinare un po' tutto. Strano leggere sulla pagina metal-archives della band che la proposta dovrebbe essere un depressive prog black perchè di questo genere trovo ben poco, considerato il fatto che sul finale della prima song, si sfocia addirittura nel deathcore. La seconda "Burn Your Heart" riparte alla velocità della luce con una ritmica assai ritmata, sporcata di un synth in sottofondo, come a dire che nel sound del factotum giapponese, ci sia un'altra tonnellata di influenze che confluiscano nelle note partorite. Ci trovo infatti un po' di metalcore e prog deathcore, cosi come pure nevrotiche sfuriate post black anticipare nel finale rallentamenti al limite del doom che rendono l'ascolto di questo lavoro alquanto eterogeneo. In chiusura, la rutilante prova di "Red Ocean" completa questi 20 minuti che ci permettono di conoscere questa creatura a me sconosciuta fino ad oggi. Peccato solo che la drum machine renda il tutto cosi asettico, perchè le schizofreniche linee di chitarra di Yu ci faranno sfociare anche nel mathcore. Da tenere sotto controllo, soprattutto per saggiare la verve creativa di questo funambolico individuo. (Francesco Scarci)

lunedì 19 settembre 2022

Bloodshoteye - An Unrelenting Assault

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Metalcore/Deathcore
Un urlo in pieno stile Phil Anselmo, ai tempi d’oro dei Pantera, apre il secondo cd dei canadesi Bloodshoteye, intitolato 'An Unrelenting Assault'. Effettivamente quello della band nord americana è un vero e proprio assalto ai nostri padiglioni auricolari, un attacco deathcore al nostro cervello con il puro scopo di fonderlo. La cosa incredibile, che balza subito all’occhio leggendo la line-up del combo, è che il growling brutale profuso è ad opera di una donna, tal Jessica. Amici, l’avvenente singer ha una voce cattiva, profonda e intensa, anche quando, nei rari frangenti di tranquillità, la utilizza nella sua forma pulita e sussurrata. L’act dell’Ontario suona poi una sorta di metalcore in stile tipicamente americano, imbastardito e incattivito da un brutal death di derivazione sempre di origine statunitense: riff taglienti come rasoi costruiscono la base del disco; veloci blast-beat e l’oscuro vocione di Jessica completano il quadro di un lavoro non propriamente avveniristico ed originale. 'An Unrelenting Assault' è un lavoro monolitico che già verso la sesta traccia inizia a stancare ed annoiare il sottoscritto, che comunque imperterrito va avanti per ascoltare le evoluzioni canore della bella cantante. C’è da dire una cosa a sostegno della band: ossia il tentativo di costruire brani complessi che si discostino dall’ondata metalcore americana; grind, thrash, hardcore e techno death confluiscono infatti nelle note di questo cd. Per il resto, i Bloodshoteye avrebbero solo potuto sfiorare la bravura dei Killswitch Engage, non fosse altro che si sono sciolti dopo il successivo album complice il fatto di una incapacità di distinguersi dalla calderonica massa di band che suonava questo genere. (Francesco Scarci)

venerdì 4 marzo 2022

Monolithic - Frantic Calm

#PER CHI AMA: Death/Hardcore
Se l'idea di una traiettoria musicale che scaturisce dagli sbaciucchiamenti death grind dei Napalm Death di 'Scum' (ad esempio in "Nemesis") per giungere al deathcore peace-n-love dei Converge (udibile in "Payback") con tanto di doom-lentone da slinguazzata sul divanetto mentre il doppelganger di Chuck Palahniuk mastica i vostri intestini ("No Way Out"?), magari transitando attraverso metanfetamiche cavalcate analog-hardcore (i quasi 200 bpm di "Into Dust") e ipervoltaiche tempeste psych-jam stile tool-divorati-da-un-branco-di-cinghiali-klingoniani (la sorprendente "Cry Out"), possa stimolare a dovere i vostri nauseabondi gangli necrotici, allora questo secondo album pubblicato dalla band composta da due jötunn al basso e alla chitarra e un kråken alla batteria, potrebbe avere su di voi lo stesso effetto piacevolmente anestetizzante del gigantesco Uomo della pubblicità di Marshmallow sulla mente di Ray Stantz. Ascoltate questo disco violentissimo, increduli del fatto che due membri della band su tre, abbiano conseguito una laurea in musica classica e jazz presso il conservatorio di Trondheim. Un posto dove a questo punto vi sconsiglio di mettere piede. (Alberto Calorosi)

(Stickman Records - 2015)
Voto: 70

http://kennethkapstad.no/

sabato 12 febbraio 2022

The Design Abstract - Metemtechnosis

#PER CHI AMA: Melo Symph Death, Scar Symmetry
Di uscite in ambito death sinfonico non ce ne sono poi cosi tante durante l'anno, cosi quando mi capita di ritrovarmi fra le mani un concentrato di death, prog deathcore, symph, il tutto spruzzato di una vena sci-fi, beh sapete cosa c'è, che mi fermo e lo ascolto gran volentieri. Questo è sostanzialmente capitato quando, per puro caso, mi sono ritrovato a visitare il sito dell'Abstrakted Records e questi The Design Abstract. E francamente, è stata una piacevole sorpresa. La band originaria dell'Ontario sciorina nove ottimi brani che dall'iniziale "Digital Dawn" alla conclusiva "Decryptor", mi hanno tenuto incollato ad apprezzarne le melodie. Quindi, se amate come il sottoscritto, band come gli Scar Symmetry o i Fallujah di 'The Flesh Prevails' o ancora Soilwork e Xerath, beh potreste fermarvi anche voi a dare un attento ascolto a 'Metemtechnosis' (secondo capitolo della trilogia 'Technotheism') e lasciarvi assorbire e sedurre dalle melodie dei synth (di ottantiana memoria) che pullulano in questo lavoro, mentre le chitarre si lanciano in giri alquanto ruffiani, adeguatamente supportati da un dose orchestrale di assoluto valore, che troverà ancor più spazio nella successiva "Born of Machines". La voce di Voiicide si muove tra il growling e il pulito (quest'ultima tuttavia è da migliorare), mentre le sei-corde viaggiano veloci ed estremamente melodiche, un vero piacere per le mie orecchie. Non c'è sicuramente un momento di pausa nel flusso ritmico del terzetto canadese, con le asce che corrono veloci anche in "The Hybrid Awakening", mostrando qui peraltro un break atmosferico già dopo 90 secondi, prima di ripartire più in palla che mai, con un'alternanza continua tra clean vocals e un growl davvero convincente. Ma il pezzo è comunque una sorpresa dopo l'altra, con un break pianistico, un bell'assolo e un riffing sempre bello serrato. Se proprio devo trovare un difetto, sta forse nella scarsa pulizia dei suoni, ma è un qualcosa che si può superare tranquillamente visto che la qualità musicale è davvero buona. "Organic Data Fusion" è un pezzo che nella sua progressione mi ha ricordato maggiormente i Fallujah, pur non mostrando la medesima violenza e robustezza della band californiana. Ma qui il lavoro è eccellente con pregevoli assoli che completano forse il brano che più ho gradito in 'Metemtechnosis'. Una bella dose di elettronica unita ad un rifferama compatto infiamma "Metropolis II" che, oltre ad avere una ritmica che richiama un mix tra Meshuggah e Fallujah, ancora una volta è da esaltare per il lavoro in chiave solistica degli axemen, Logan Mayhem e Matt Ngo, che si rincorrono con scale ritmiche e sverniciate per tutto il brano. "Aberration Omega" è un pezzo più breve che evoca maggiormente gli Scar Symmetry, soprattutto a livello vocale. "Upheaval" è un breve strumentale che ci porta a "Sentinels", un'altra song dal forte impatto orchestrale, seppur una durata più contenuta (poco più di tre minuti), che nel suo cuore, mostra un interessante break malinconico che rimarrà impregnato nelle trame del brano. A chiudere ci pensa la già citata "Decryptor" che ha nelle sue corde quell'apparato più compatto tipico del prog deathcore già incontrato qua e là durante l'ascolto del cd, e una serie di ulteriori innovazioni in chiave ritmica che non avevamo scorto sin qui. Alla fine, vorrei ribadire quanto abbia trovato piacevole l'ascolto di 'Metemtechnosis', un lavoro che mi sento di consigliare agli amanti di sonorità heavy melo death infarcite di porzioni orchestrali ed elettroniche. Bravi! (Francesco Scarci)

(Abstrakted Records - 2021)
Voto: 77

https://design.bandcamp.com/album/metemtechnosis

lunedì 24 maggio 2021

Assemble the Chariots - The Celestials

#PER CHI AMA: Deathcore/Symph Black, Fallujah, Dimmu Borgir
I finlandesi Assemble the Chariots mi piacciono, sono una band tosta che in undici anni di vita ha rilasciato quattro EP. Io rimango però in attesa di un full length o di un disco che metta insieme le quattro release dei nostri, di cui 'The Celestial', è l'ultima in ordine di tempo. Il quintetto di Helsinki propone un deathcore che corre appresso alle cose più melodiche dei Fallujah ('The Flesh Prevails'), combinandole con la robustezza del death metal ma anche con una più che discreta vena cinematico/sinfonica, scuola Xerath/Dimmu Borgir. Spettacolare l'incipit di "The Astral Creator", con delle vocals parlate che a breve diventeranno screaming/growl e un muro sonoro alto, o se preferite profondo, come la Fossa delle Marianne. Velocità vertiginose, vocals pulite sulla scia dei Cradle of Filth/Bal Sagoth, melodie pomposissime, giri di chitarra da urlo. Io voglio tenere in mano questo EP, cosi vorrei tutti gli altri, vi prego stampate questi dischetti. Quando parte "The Immortals", che vede il featuring di Patrik Nuorteva dei Mensura, la voglia si fa ancora più forte. Qui il sound è più deathcore oriented, ma è impressionante il break di voce e batteria a metà brano cosi come quando l'oscurità dei suoni si abbatte nella seconda metà del brano. Arriviamo all'ultima "The Ocean Breather", sempre assai ritmata su un mid-tempo dall'enorme vena orchestrale. Uno due tre e le deflagranti bordate dei nostri si esplicano in un rifferama pluristratificato, esaltato peraltro da un suono cristallino e potente che non concederà la minima tregua. (Francesco Scarci)

(Self - 2020)
Voto: 78 

domenica 21 febbraio 2021

Crypts of Despair - All Light Swallowed

#FOR FANS OF: Brutal Death Metal
Even though the Lithuanian scene is not one of the most well-known ones, it has always delivered some interesting bands. Personally, I had some previous experience with some black and doom metal bands, but this time is the moment to discover one of those obscure bands that plays a clearly more brutal style. Crypts of Despair is a four-piece founded almost twelve years ago, though the band required almost a decade to release its first effort entitled 'The Stench of the Earth'. This was a self-release with a good quality that made possible that the always prolific underground label Transcending Obscurity Records showed interest in them. So, thankfully we did not have to wait so much time and after three years, Crypts of Despair are going to release its sophomore effort 'All Light Swallowed'.

Crypts of Despair plays death metal with a modern and clearly brutal touch, although it doesn´t reach the level of relentless speed and brutality to be tagged as brutal death metal band. Anyway, the ferocity of its sound is out of discussion. 'All Light Swallowed' has a very strong production, dense and profound, which sounds totally professional and fits the style of the band. Stylistically, as said, this is a pure death metal with a modern touch as the guitars have a distinctive disharmonic touch, that makes them sound more chaotic and smashing. Here we can find two tips of vocals, deep growls combined with more high-pitched ones. Anyhow, the first ones have a greater room, but the combination of both is always an interesting touch of diversity. The album opener "Being-Erased" is a clear example of it, with maybe a greater presence of the screaming vocals in this case. This first opus is one of the fastest of the whole album, albeit it has some nice changes in the tempo, especially in the second half with the inclusion of some mid-tempo and even slower parts. This diversity of pace is a constant touch, even if we can always expect the speedy fury so common in this genre. In any case, Crypts of Despair likes to make a clear contrast between the sections full of blast-beasts and the much slower and heavy parts. We have plenty of examples like the excellent "Anguished Exhale" and "Synergy of Suffering", where the song evolves abruptly from super-fast sections to mid-tempo ones, and in these parts the double-bass sounds absolutely smashing. No one can deny that Crypts of Despair tries to extract all the potential from this formula and they actually do it in the right way, creating songs with an undeniably crushing sound and strength independently of the chosen pace. The album flows between tracks with this aforementioned formula, where the songs, whose structure maybe doesn’t differ that much, achieve a very effective combination of rhythmic changes, making this album a fun listen.

All in all, 'All Light Swallowed' is a super solid death metal album from a band that has done a good step forward in terms of production and refinement in its compositions. A refinement done to achieve a focused brutality, that will satisfy fans of modern death metal done right. (Alain González Artola)


sabato 30 gennaio 2021

Bogwolf - A Sermon Unto Wolves

#PER CHI AMA: Symph Black/Death
Con una copertina che richiama inequivocabilmente la storia di Romolo e Remo e la lupa, si presentano a noi con questo demo di debutto intitolato 'A Sermon Unto Wolves', gli americani Bogwolf. Giusto tre brani per farci capire un po' di una proposta musicale di cui presto vorrei ascoltare qualcosa di più lungo e strutturato. Si perchè la release del trio originario di Raleigh contiene solamente due brani più una diabolica intro tastieristica, "The Culling". Poi esplode l'inferno, con un black death dalle tinte sinfoniche che deflagra con maestose melodie nelle casse del nostro lettore. È infatti la potente e melodica title track a consegnarci il bigliettino da visita della compagine statunitense, tra suoni bombastici ma violenti, screaming vocals, parti ritmate e altre decisamente più tirate. L'elemento portante della band? Senza ombra di dubbio la tastiera, cosi strategica nel suo saper dosare parti atmosferiche e mitigare quelle più tirate, dove la batteria viene sparata a tutta velocità a scardinare i nostri timpani. Terza traccia affidata a "God Damned American", più deathcore oriented rispetto alla precedente ma con una dose sinfonica sempre ben presente nella sua matrice musicale. Non ci rimane che attendere un debutto più corpulento che ci consegni un minutaggio più elevato per apprezzare le indubbie doti del velenoso terzetto della North Carolina. (Francesco Scarci)

venerdì 5 giugno 2020

Insidual - Pure Hate

#PER CHI AMA: Djent/Deathcore
Il deathcore in US è diventato quasi un fenomeno sociale, ovunque le band suonano questo genere o suoi affini (metalcore, screamo, nu, etc). L'ultima band in cui mi sono imbattuto è rappresentata da questi Insidual, originari di Spokane nello stato di Washington, cosa alquanto inusuale visto che da quelle parti è invece il post (Cascadian) black a governare. Comunque 'Pure Hate' è un EP di tre pezzi che include anche il singolo uscito nel 2019, l'apripista "Shock Therapy". E il sound che si sente sin dalle prime battute è un deathcore fortemente ritmato, venato di influenze djent nella poliritmia delle sue chitarre e sporcato pure da una componente nu metal che per certi versi mi ha evocato un che degli Slipknot. La proposta è pertanto abbastanza corposa, con le solite chitarre decisamente ribassate, una voce growl che sembra quasi rappare, e il resto degli strumenti che donano ulteriore compattezza ai nostri. "Evisceration" continua su questa scia, con un sound disturbante, fatto di una sovrapposizione vocale psicotica, un riffing sincopato, un drumming rutilante, un'effettistica in background costantemente presente ed una serie di cambi di tempo e ritmo che sembra quasi di ascoltare tre canzoni differenti in una manciata di minuti, in cui compare anche il featuring di Sam Stickel. Molto interessante la conclusiva title track, vista la sua forte aura spettrale, e quei vocalizzi isterici che ben si amalgamano con una musica qui più ispirata che altrove, dotata sia di ottime atmosfere che di altrettante accelerazioni e frenate improvvise. Niente di nuovo sotto il sole alla fine con questa breve release degli statunitensi Insidual ancora legati ad alcuni stilemi del genere, ma vogliosi di imparare ed emergere. Sentiremo in futuro che cosa i nostri hanno imparato da questa prima esperienza. (Francesco Scarci)

giovedì 19 dicembre 2019

Rose Funeral - Crucify, Kill, Rot

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Grind, Job for a Cowboy
Una pioggia minacciosa apre questo cd; poi una scarica di metallo incandescente invade le casse del mio stereo con il coro “Crucify, Kill, Rot” urlato a squarciagola dal vocalist. Inizia cosi il lavoro di questi sconosciuti Rose Funeral, autori di un sound caratterizzato dall’alternarsi di lentissimi e pesantissimi riffoni di chitarra, a brevi sfuriate death-grind. Diciamo subito che la parte predominante del cd sono proprio i breakdown che relegano in secondo piano tutto il resto, rendendo alla lunga (anzi dopo brevissimo tempo) il lavoro abbastanza noioso. La band di Cincinnati, influenzata da sonorità proprie di The Black Dahlia Murder, Job For A Cowboy, Arkangel e Prayer for Cleansing, non inventa nulla di nuovo, anzi, distrugge ciò che di buono è stato fatto fino ad ora da altri act statunitensi. La ritmica, violentissima, è interrotta troppo spesso dai già citati breaks; l’aria che si respira si fa asfissiante e tutto, alla fine, puzza di già sentito. Le doppie vocals, in screaming e growl, completano un quadro, visto fin troppe volte. Suggerito solo agli amanti di sonorità di questo tipo, gli altri si tengano bene alla larga. (Francesco Scarci)

(Siege of Amida Records - 2007)
Voto: 50

https://www.facebook.com/rosefuneralmusic

mercoledì 18 dicembre 2019

Despised Icon - The Ills Of Modern Man

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Deathcore/Grindcore
I canadesi Despised Icon (band che vanta tra le proprie file membri dei Neuraxis), freschi peraltro di una nuova uscita, nel 2007 hanno rilasciato la loro terza release con tutte le intenzione di farci del male, ne ho le prove. 'The Ills of Modern Man' (titolo peraltro sempre attuale) si affacciò sul mercato dopo il tanto acclamato 'The Healing Process' e quindi con la difficoltà di superare qualitativamente quell’ottimo disco deathcore. Il six-piece canadese non si è perso d'animo, avendo tutte le carte in regola per poterci sorprendere con una proposta selvaggia e senza compromessi. Così, dopo aver messo il cd nel lettore, non ho più avuto dubbi: il sestetto è sempre pronto per saccheggiare il mondo intero. Dieci tracce brutali, con riffs taglienti come rasoi, stop’n go, cambi di tempo vertiginosi, iper blast-beat, growling vocals e urla animalesche, ritmiche impazzite che corrono a cavallo tra death e grindcore; il risultato? Un disco malato che trasuda rabbia da ogni suo solco. Prodotti egregiamente dal loro chitarrista Yannick St-Amand (Beneath the Massacre, Ion Dissonance e Neuraxis) e mixati ancor meglio da Andy Sneap (Megadeth, Opeth), i Despised Icon per un certo periodo (visto la successiva pausa di sette anni) si sono candidati ad essere i numeri uno nella scena estrema. Brutale, cattivo e fottutamente incazzato, ecco come suona 'The Ills of Modern Man'. Se avete bisogno di scariche di adrenalina pura, questo è il disco che fa per voi. (Francesco Scarci)

(Century Media - 2007)
Voto: 75

https://www.facebook.com/despisedicon

martedì 8 ottobre 2019

Into the Moat - The Design

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Death, Pestilence, Atheist
Gli Into the Moat sono un quintetto di Ft. Lauderdale nato nel 2001 che, dopo aver dato alle stampe nel 2003 ad un EP, hanno registrato presso i Mana Studios di Eric Rutan (Hate Eternal), questo 'The Design'. La musica è un death metal ultra tecnico che si rifà ai mostri sacri del genere, gli ahimè mai troppo compianti Death, Atheist, Pestilence e Cynic, reinterpretandoli però in modo asettico e asfittico. Mentre le band suddette riuscivano, infatti, a trasmettere emozioni forti attraverso un feeling speciale che si instaurava con l’ascoltatore, gli Into the Moat risultano freddi e poco coinvolgenti. Dal punto di vista tecnico la band americana, la cui età media si aggirava all'epoca sui vent’anni, è superlativa: le chitarre tessono trame intricatissime, la batteria è al limite del disumano e la voce si assesta su livelli buoni. È però tutto il complesso che alla fine ne esce penalizzato. Nonostante le idee non siano niente male, il tutto appare come un esercizio di tecnica fine a se stesso dove lo scopo è quello di stupire l’ascoltatore con trovate sempre nuove e originali che, in realtà, alla fine hanno il solo effetto di disorientarci. Fortunatamente questo 'The Design' non dura neppure tanto, però vi garantisco che, per arrivare al termine dei 33 minuti complessivi, è stata una vera faticaccia. Per concludere, i nostri hanno sì svolto il loro compitino raggiungendo la sufficienza risicata, troppo poco però per potermi emozionare ancora come ai bei tempi, quando Chuck Schuldiner e soci dominavano il mondo. (Francesco Scarci)

martedì 17 settembre 2019

Isonomist - Pillars

#PER CHI AMA: Metalcore/Djent, Meshuggah
Degli Isonomist dal web ho cavato meno di un ragno dal buco, zero informazioni a parte il fatto che il quartetto dal Texas si etichetta come progressive band. Ecco, partirei già col dire che allargherei un po' le maglie di questo stretto vestito, visto che la traccia di apertura di 'Pillars' ci consegna piuttosto una band che viaggia nei binari del metalcore. Comunque a parte questa necessità di etichettare le cose, c'è da dire piuttosto che la band propone cinque song parecchio vertiginose per ciò che concerne tempi dispari, ritmiche sghembe, melodie poliritmiche, tutte caratteristiche che identificano il djent, o comunque suoni affini ai Meshuggah o ancora una certa vena deathcore tipicamente americana. "Loss", "By a Thread", "Beta" e via via dicendo anche le altre song, viaggiano sui binari alquanto imprevedibili di tale musica, e in cui la definizione che ritenevo alquanto stretta di progressive, si potrebbe applicare esclusivamente per una certa perizia tecnica che contraddistingue questi musicisti. Per il resto, è il classico sound a cavallo tra metalcore e deathcore, con linee di chitarra non proprio lineari, i famigerati quanto stra-abusati stop'n go, le vocals che si muovono tra pulito e growl, e poco altro da segnalare, se non una più complicata fase digestiva rispetto agli originali, in quanto qui la melodia non è proprio una delle caratteristiche della casa, visto che il sound rischia addirittura di incancrenirsi in territori più estremi, come accade nella quarta "Fading". Manca ancora una traccia a chiudere l'EP, "Confessional", e apparentemente, sembra essere anche il brano più accessibile, sebbene ascoltandolo potreste pensare che il mio sia un eufemismo. Comunque 'Pillars' è un lavoro che rimane raccomandato per soli amanti del genere, per gli altri suggerisco come sempre di volgere lo sguardo agli originali. (Francesco Scarci)

(Self - 2019)
Voto: 60

domenica 15 settembre 2019

Vile Nothing - Pessimist

#PER CHI AMA: Crust/Hardcore
Un po' di insano punk-crust-hardcore proveniente dalla Svezia è quanto proposto oggi dai Vile Nothing e dal loro 'Pessimist'. Si tratta di un EP di quattro pezzi che irrompono con la ferocia molestia di "In Disgrace, With Fortune", un brano breve ma incisivo, costituito da chitarre sparate ai 200 km/h e da una batteria al limite del grind, per poi rallentare paurosamente sul finale con una tirata di freno a mano da cappottamento garantito. "Erased" prosegue con un'altra ritmica al fulmicotone su cui s'installano le vocals sbraitanti del frontman; da notare che come sul finire della traccia in apertura, cosi anche in questa seconda song, sono presente i classici bombastici tonfi del deathcore a contaminare ulteriormente la proposta dell'act di Stoccolma che con il proprio sound non fa altro che darci un sacco di schiaffoni. Vi basti ascoltare la ficcante proposta della terza "Dåren Är i Lådan" un pezzo di 67 secondi devoti ad un tremebondo mathcore. Il finale apocalittico è dispensato dalle note furenti di "Abhorrence", l'ultimo straripante ed iconoclasta inseguimento dei Vile Nothing. Paurosi. (Francesco Scarci)

mercoledì 28 agosto 2019

Under Eden - The Savage Circle

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Deathcore, Hatebreed
La Black Lotus deve aver puntato molto a suo tempo su questo quartetto proveniente dal Minnesota (USA), visto che venne indicato come nuova speranza del death-metalcore americano. Il sound proposto è molto vicino alle produzioni di Darkest Hour ed Hatebreed. Ahimè, come spesso accade però con la label greca, la produzione non è mai delle migliori e ciò che ne risente alla fine è la qualità del suono, sporco e assai grezzo. 'The Savage Circle' rappresenta l’album di debutto della band statunitense, che ha mosso i primi passi sul finire degli anni ’90 grazie a Ryan McAtee, chitarrista e bassista, a cui si sono poi aggiunti il fratello Christian (chitarrista), Eric Thon (vocals) e Josh Fetzeck (batterista). L’album è un concentrato dinamitardo di death metal in stile americano che si combina con lo swedish sound e ovviamente con il metalcore. Insomma di recensioni di questo tipo, credo di averne scritte un centinaio ed oramai, il più delle volte rappresentano la fotocopia delle fotocopie. Non esulano da questa situazione nemmeno gli Under Eden: dieci brani che trattano la creazione del genere umano, il suo declino e la sua fine, su un tessuto musicale complesso, con interessanti inserti melodici e soprattutto carico di molta aggressività. La traccia numero cinque, “Veil of Twilight”, la migliore del disco, ingloba un po’ tutte queste caratteristiche. Gli Under Eden sono ancora un po’ acerbi, ma la classe fa’ sicuramente parte del loro bagaglio tecnico-musicale: ottimi, infatti, gli assoli e la sezione ritmica, con una prova davvero superba del batterista. Ciò che mi convince meno è la prova del cantante in versione growl, mentre ottime sono le clean vocals. Peccato per la produzione scadente, un “bombastic sound” avrebbe reso questo disco un vero gioiellino. New sensation americana? È presto per dirlo, ma le basi ci sono tutte. (Francesco Scarci)

(Napalm Rec - 2005)
Voto: 60

martedì 20 agosto 2019

Rings of Saturn - Lugal Ki En

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Slam/Deathcore
Diarroici schizofrenismi batteristici stocasticamente alternanti trrrrrr e tktktktktk, schizofrenici diarroismi chitarristici stocasticamente alternanti gdgdgdgdgd, gnaaaaaaugn e semibiscromatici pilipilipilipili iper-metal-decerebro-progressive, un basso impercettibile, probabilmente inesistente, immaginifici vocalismi cloaca-gorgoglianti, per cui si favoleggia che Ian Bearer sia in grado di imitare con la voce il vomito di qualunque specie vivente del regno animale, con tanto di virate bronto-gorgoglianti (almeno in "Infused"). Contrastano, una produzione assurdamente limpida, sintetica, extrasensoriale, al cui confronto gli ultimi Dream Theater vi sembreranno il primo demo-tape dei Mummies: una sensazione che individuerete con maggior facilità nei rari momenti infra-slam ("Godless Times", una specie di versione RoS del concetto di new age) è nelle iperspaziali code clean di "Beckon", "Senseless Massacre" o nei pre-finali di "Eviscerate" e "Unsympathetic Intellect", per esempio. Ciò che vi farà ragionevolmente pensare che, in fondo in fondo, il sedicente aliencore ultraterreno espresso dai RoS altro non sia che una specie di banalissimo synth-metal anni duezero punto dieci. Una specie di Milli Vanilli, ecco. (Alberto Calorosi)

(Unique Leader Records - 2014)
Voto: 58

https://uniqueleaderrecords.bandcamp.com/album/lugal-ki-en

mercoledì 15 maggio 2019

He Comes Later - Cognizance

#PER CHI AMA: Deathcore
La scuola americana deathcore fa proseliti anche in Italia. È il caso dei bolognesi He Comes Later, una band nata nel 2010 e votata inizialmente al metalcore, che ha poi virato il proprio tiro verso il deathcore con l'ingresso in formazione nel 2013 del bravo vocalist Andrea Piro. I punti di riferimento guardano ovviamente agli USA, dove negli ultimi tempi si è visto un pullulare frastornante di una miriade di gruppi dediti a queste sonorità che puntano ad emulare, ahimè senza grossi risultati, i gods Rivers of Nihil e i compari Fallujah. Con i nostrani He Comes Later siamo però un po' più distanti dalle melodie sognanti e un po' ruffiane di quelle due realtà, sebbene un uso massiccio dei synth già a partire dalla malinconica opener di questo 'Cognizance', intitolata "Despondency". Quello che mi sento immediatamente di sottolineare è la potenza di fuoco messa in mostra dal quintetto italico e da quel rifferama ribassato (coadiuvato da martellanti blast beat) che evoca, per forza di cose, i maestri Meshuggah. Il growling di Andrea poi è davvero notevole nella rabbia profusa e nella profondità della sua timbrica. Il disco avanza attraverso tracce quali la sincopata e djentleliana "Execution" e la più atmosferica "Detachment", detonando ritmiche possenti su cui s'installano i synth cibernetici (a tratti psichedelici) dei nostri, che per certi versi richiamano gli americani Honour Crest. In "Torment" il gruppo sperimenta soluzioni alternative, miscelando un urticante death metal (con tanto di pig squeal vocali) con la musica classica, rallentamenti paurosi ed una onnipresente dose di melodie, peccato solo che la traccia sfumi in modo brutale sul finire. Ancora atmosfere e ritmiche incendiare con la brutale "Healing", dove accanto ad ubriacanti sterzate ritmiche e vocalizzi animaleschi, la band trova ancora il modo di coniugare ottime melodie con stop'n go da cavare il fiato. Cosi come convincente è l'arrembante "Guidance", tra riffoni serrati, una buona sezione solistica ed ottime keys, quasi a evidenziare che di cali fisiologici la band emiliana non ne vuole sapere. Lo stesso dicasi di "Atonement", song assai ispirata a livello atmosferico, con keys spettrali davvero convincenti che non rappresentano un semplice corollario alla sezione ritmica ma che assumono invece un ruolo da assolute protagoniste. "Quiescence" è un breve brano strumentale che funge da bridging con la dinamitarda "Resurgence", song dalla ritmica a tratti compassata che mi ha ricordato un che degli statunitensi Kardashev. A chiudere ecco la furibonda title track ed i suoi quasi quattro minuti di killer riff, rallentamenti da paura, vocals belluine, synth di "tesseractiana" memoria e quanto di meglio possa offrire oggi il panorama deathcore. Interessante anche il concept che si cela dietro al disco, ossia la vicenda di un ragazzo depresso, voglioso di suicidarsi che tuttavia, nell'attimo di compiere l'atto fatale, fallisce entrando in uno stato cognitivo di pre-morte che lo porterà a vivere varie esperienze che lo arricchiranno di una nuova consapevolezza verso la vita. Insomma, 'Cognizance' è un buon debutto sulla lunga distanza dal quale iniziare la scalata verso le vette del deathcore mondiale. (Francesco Scarci)

(Self - 2018)
Voto: 74

mercoledì 6 febbraio 2019

Down to the Heaven - [level-1]

#PER CHI AMA: Djent/Cyber/Deathcore, Meshuggah, Enter Shikari
Avete voglia di divertirvi, ascoltare qualcosa di moderno, carico di groove, con quel pizzico di ruffianeria che non guasta mai, senza dover rinunciare ad un bel po' di riff schiacciasassi? Beh, a prestarvi aiuto in tali richieste, ecco giungere dalla Polonia i Down to the Heaven, una band proveniente da Bielsko-Biała, che nel qui presente '[level-1]' fonde death metal, metalcore, arrangiamenti ben orchestrati, elettronica e djent, in un calderone di potenza e melodia davvero intrigante. Il tutto è testimoniato da "Catharsis" che segue a stretto giro quella che appare essere l'intro del disco, "Down to the...". Poi giù tante mazzate, con dei riffoni sparati a tutta velocità, ma con una componente melodica davvero vincente, che si muove tra influenze che chiamano in causa indistintamente Dark Tranquillity, Enter Shikari, Meshuggah, Coraxo, ...And Oceans e tanti altri, in un vibrante concentrato dinamitardo da sentire e risentire, meglio se sparato a tutto volume in automobile o comunque lasciato libero di fondervi le orecchie per il volume inaudito a cui dovrete sottoporlo. Stratosferico. Fenomenale, come la cavalcata furibonda che chiude "Unbroken", una song dal sapore esotico che da sola vale l'acquisto del cd. Per non parlare poi di quella cibernetica sensualità che contraddistingue le note iniziali di "No Vision", prima che l'arroganza elettrica prenda il sopravvento e ci delizi per quasi sei minuti di graffianti sonorità strumentali. Con "Kingdom of Delusion" fanno ritorno le vocals di Rusty in una song dai ritmi infuocati pur sempre carica di melodia, accostabile, molto più di altre tracce, ai Dark Tranquillity. Siamo quasi in chiusura, un peccato, a rapporto mancano però ancora "Tyrant's Fall", song debortante, che per quanto povera in fatto di originalità, ha comunque il merito di catalizzare l'attenzione per la pienezza delle sue ritmiche, le cyber trovate dei nostri che fanno da corredo ad una componente melodica sempre estremamente importante (qui si strizza l'occhiolino agli ultimi In Flames) e ad un finale sorprendentemente trascinante per intensità e profondità. "We Are" è una song dall'incipit rockettaro con un cantato che sembra quello del buon Chuck Billy, e un sound multiforme, psicolabile e che tocca vette brillantissime tra cyber metal, industrial e deathcore, a sancire l'eccelsa qualità dell'ennesima valida band proveniente dalla Polonia che ha davvero qualcosa da dire. (Francesco Scarci)

domenica 16 dicembre 2018

The Subliminal - Relics

#PER CHI AMA: Metalcore, Gojira
Dall'Olanda con furore, mi verrebbe da dire. A crearci qualche fastidio sonoro oggi, ci pensano i The Subliminal (da non confondere con gli ecuadoreñi omonimi) e il loro EP d'esordio, 'Relics', che segue un paio di singoli rilasciati tra il 2016 e il 2017. Finalmente è arrivato il momento di dimostrare la pasta di cui sono fatti questi quattro ragazzi di Utrecht, spesso indicati come epigoni di Gojira o Lamb of God. E allora cerchiamo di dissipare un po' di nubi e dire che i cinque pezzi contenuti in questo disco, pur soffrendo di qualche influenza proveniente dalle band sopraccitate, e penso all'opening track "Lowlife", mostrano, rispetto agli originali, un sound marcatamente più cupo. Certo, molti avranno da obiettare che la proposta dell'ensemble olandese è ancora un po' acerba, ma mio nonno diceva che "nessuno nasce imparato". E allora facciamoli crescere questi quattro musicisti e noi accompagnamoli nella loro crescita personale, godendo delle melodie e del groove, che comunque permeano i loro brani. "Defiance" è più roboante dell'opener, complici le chitarrone trituraossa e il vocione in formato growl di Milan Snel, ben più efficace però - e dove peraltro lo preferisco - nel cantato pulito. I nostri martellano che è un piacere, trovano tuttavia modo di spezzare il loro incedere feroce con un bel break melodico accompagnato dalle vocals a tratti ruffiane, ma estremamente accattivanti del frontman, che vanno via via migliorando nel corso di un brano che gode di notevoli cambi di tempo. Più dritta, ma in realtà solo nella prima parte, la terza "Unforeseen Demise", visto che la band si dimostra più intrigante nella seconda metà del pezzo, laddove ad un sound in your face, privilegiano un bel po' di cambi di ritmo (qui quasi dal sapore deathcore), ma c'è ancora tempo per lavorare e smussare gli angoli. Come quelli che ritroviamo in "Sleepwalkers", un altro pugno nello stomaco, che parte direttissima per poi divenire decisamente più ritmata, manco fossero i Pantera di "Walk". E poi giù di nuovo di mazzate, per un lavoro dietro la batteria davvero notevole. Ribadisco però che l'act tulipano riesce meglio dove i tempi sono più ritmati e il suono più ricercato. In chiusura, "Final Ordeal" è un'altra cavalcata dal forte sapore thrash metal in stile Testament/Exodus, rotta da ambientazioni melodiche e da un bel chorus che funge da ciliegina sulla torta per un EP che merita un po' della vostra attenzione, non fosse altro che potreste scaricare un po' della rabbia che questi giorni di festa inevitabilmente generano. (Francesco Scarci)

martedì 11 dicembre 2018

Rings of Saturn - Embryonic Anomaly

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Deathcore/Techno Death
Il vocalist Peter Pawlak passa dal growl simil maiale-sgozzato-con-un-grosso-fermacarte allo screaming tipo pitbull-malauguratamente-attaccato-al-tuo-polpaccio con la medesima disinvoltura con la quale il giallino diventa marronechiaro nelle mutande di un metallaro accampato da quattro giorni al Wacken Open Air. Il batterista Brent Siletto passa con altrettanta animalesca disinvoltura dal trrrrr velocissimo al trrrrr ancora più velocissimo al trrrr ancora più veloce dell'ancora più velocissimo. Il chitarrista Lucas Mann passa dai ghghgh-ismi ai laserchitarrismi con la disinvoltura con la quale il sottoscritto, notoriamente afflitto da sindrome di Tourette, passa dall'espressione "colgo l'occasione per porgerle i miei più cordiali saluti" appena prima di riattaccare all'espressione "mavaffan*ulo stron*odim*rda porcodun*io di quella puttanama*onna" subito dopo aver riattaccato. L'alien-prog "Seized and Devuored", in apertura, risulta l'unica canzone vagamente intelligibile. Il deathcore manieristico di "Grinding of Internal Organs" è inopinatamente introdotto da un suono dichiaratamente ottobìt. Forse reminscenze di una vecchia versione di Guitar Hero che girava su Commodore 64? (Alberto Calorosi)

(Unique Leader Records - 2011)
Voto: 45

https://www.facebook.com/RingsofSaturnband/

giovedì 15 novembre 2018

All My Memories - Umwelt

#PER CHI AMA: Death/Hardcore, Fallujah
I Fallujah stanno facendo scuola. Con la loro tonante proposta di deathcore atmosferico hanno conquistato uno stuolo di seguaci in giro per il mondo, tra cui i qui presenti All My Memories. Si tratta di un ensemble proveniente da Parigi che con 'Umwelt' (un titolo che mi aveva indotto a pensare ad origini teutoniche per la band) tagliano il traguardo del secondo album. Un disco che conta undici tracce belle dirette e immediate e dalle durate non troppo estenuanti. Si parte infatti con i novanta secondi di "Terra Mater" che espongono immediatamente il manifesto programmatico dei cinque francesini, ossia un death/hardcore melodico. Chiaro che un minuto e mezzo sia poco per capire le intenzioni dei nostri ed eccoli lanciarsi immediatamente con la title track, un pezzo possente che mette in luce le buone intenzioni della band transalpina, tra suoni iper bombastici, possenti linee di chitarra che ogni tanto si concedono quelle bombe ritmiche che cosi tanto mi fanno sussultare e apprezzare il genere. E mentre i suoni scivolano piacevolmente tra i roboanti riff e pulsanti tocchi di basso di "Wasteland", a guidare il tutto c'è il bel vocione del frontman Loïc che si dimena tra un growl cavernoso e qualche chorus ruffiano. In men che non si dica, ci ritroviamo già alla quarta traccia, "Thanatos", song più oscura, ma che mantiene l'intelaiatura musicale sin qui goduta. Si prosegue con "Coward", e le atmosfere si fanno più malinconiche nel loro incedere, peccato solo si faccia fatica a goderne appieno, il vocalist per quanto bravo, a mio avviso canta un po' troppo per i miei gusti, avrei dato maggior spazio a quei rallentamenti apocalittici che spaccano in due il brano. Ottimo il comparto tastieristico, e quel piglio electro death all'inizio di "Burn The Heaven" (ma sarà ben più enfatizzato in "Behind The Wall", dove peraltro ci sarà il featuring di Anthony Doniak, dei Here Come The New Challenger), in una song che fondamentalmente si muove sulla falsariga di quanto fatto sin qui e che verrà fatto da qui fino alla fine. Forse in questo immobilismo (ed in un eccessivo numero di pezzi) risiede il punto debole degli All My Memories, anche se deve essere chiaro che 'Umwelt' è un buon album, con tutti i suoi pregi e sbavature. D'altro canto siamo solo al secondo lavoro per la band francese e la strada imboccata è sicuramente quella buona. (Francesco Scarci)