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sabato 17 settembre 2022

1/2 Southern North - Narrations of a Fallen Soul

#PER CHI AMA: Occult Doom Rock
Della serie Les Acteurs de L’Ombre Productions colpisce ancora, ecco arrivare gli evocativi 1/2 Southern North con un esempio di dark doom occulto. ‘Narrations of a Fallen Soul’, primo capitolo della one woman band greca guidata dalla sacerdotessa IDVex Ifigeneia, si apre con la lunghissima “Alpha Sophia” che prova a darci le prime indicazioni della proposta dei nostri. Oltre dodici minuti di suoni oscuri, compassati, esoterici, psichedelici, deliziati dalle vocals della frontwoman ellenica. Il sound dei 1/2 Southern North mi ha evocato quello dei californiani Lotus Thief, abili miscelatori di psych rock, ambient, space, post e un non so che di black metal. Qui ci troviamo al cospetto di un’artista che si muove su coordinate similari e che fa sicuramente della propria voce l’elemento portante e distintivo che va poi a poggiare su atmosfere orrorifiche che vedono peraltro la presenza di una sgangherata partitura di violino nella title track a cura di Efraimia Giannakopoulou, una dei tanti ospiti che popolano questa release. “Hearts of Hades” affida la sua parte introduttiva ad una declamazione in greco che poggia su suoni di flauto e tamburo. L’effetto è sicuramente particolare, soprattutto quando la voce della cantante si fa più suadente, anche se otto minuti di questo tipo rischiano di frantumare i neuroni anche dei più stoici. E la ridondanza sonora è uno dei must di questo lavoro: ascoltatevi la parte introduttiva di “Breastfeed Your Delighful Sorrow” e ditemi se anche voi come il sottoscritto avete perso la pazienza dopo i primi 60 secondi. Poi il brano evolve in un crescendo melodico accattivante, tra parti atmosferiche, altre arpeggiate, ma che tuttavia rischia di stancare per la sua eccessiva durata, un’altra peculiarità di un disco che raggiunge I 67 minuti di durata con pezzi che si assestano tra gli 8 e i 12 minuti. L’unica eccezione è rappresentata da “Song to Hall Up High”, storica song dei Bathory dei tempi di ‘Hammerheart’, riletta completamente in chiave avanguardistica dai nostri, ma mantenendo intatta l’epicità dell’originale, “sporcandola” semmai di influenze noise/droniche. A completare il quadro delle canzoni incluse in questo disco, ci sono ancora l’inquietante “Elegy of Hecate”, forse il brano più sperimentale e progressivo del lotto che mi ha evocato peraltro anche un che dei Thee Maldoror Kollective di ‘Knownothingism’. Infine, gli oltre 12 minuti di “Remnants of Time”, un pezzo che ammicca addirittura al jazz e in cui a trovare posto sarà questa volta il sax di George Kastanos. Quello dei 1/2 Southern North è alla fine un lavoro davvero ambizioso, concettualmente interessante ma decisamente ostico musicalmente parlando, che pertanto necessiterà di svariati ascolti per essere assimilato. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions/Satanath Records/Fog Foundation - 2022)
Voto: 68

venerdì 12 agosto 2022

The Scum - The Hunger

#PER CHI AMA: Death Old School
Nati semplicemente come Scum, i sei colombiani di Manizales, hanno mutato il loro moniker in The Scum nel 2017, rilasciando successivamente il debut album 'Ashen' nel 2018 e quest'anno il secondo 'The Hunger'. I nostri sono fautori di una proposta brutale che dal rombo di chitarra (ce ne sono ben tre!) dell'iniziale "Winds of the End", sembrano poter evocare un che degli esordi di Grave/Entombed, con un pizzico in più di groove nelle chitarre soliste. La ritmica è comunque tesa con il bel vocione di José Fernando Ospina a sostenere un sound spinoso, alleggerito da un paio di assoli niente male. Le cose si ripetono anche nella successiva "I Drink Your Blood and I Eat Your Skin", song forse drammaticamente old school ma con degli assoli da urlo che si stagliano su una porzione cupa e orrorifica. Mettiamo comunque subito i puntini sulle i: per quanto il lavoro conservi un'aura retrò evocante un po' tutti i maestri del death europeo di metà anni '90, peraltro enfatizzato dal mastering del buon vecchio Dan Swanö, trovo che sia ideale come spaccaculi, suonato poi da musicisti davvero bravi e ispirati in chiave solistica. È il caso della strepitosa "Burial" con assoli epici e melodici sciorinati l'uno dietro l'altro. Un po' meno invece la malmostosa "One of Them", fatto salvo sempre per quei giochi di luci ed ombre messe in scena dalle sei corde, reale punto di forza di un lavoro che rischierebbe invece di scadere nell'anonimato. La title track ha un impatto devastante ma in corrispondenza di un rallentamento a metà brano, sigilla la sua forza con un assolo di scuola Morbid Angel, che ci accompagna quasi fino al finale. Apertura inedita per "Withered Faith" la song più lunga e strutturata del lotto, che sembra prendere le distanze dagli altri pezzi per una velocità decisamente più meditabonda ed un assolo qui più ringhiante. In chiusura, un'altra manciata di pezzi che vi permetteranno di apprezzare ulteriormente l'urticante proposta dei The Scum: dalle brevissime "The Seal" e "Redemption" alle veementi "The Death of Light" e "Rogue", quest'ultima una vera e propria contraerea a livello di batteria. Insomma una bella carneficina da quella che viene chiamata "La Città delle Porte Aperte". (Francesco Scarci)

(Satanath Records/Wild Noise Productions - 2022)
Voto: 73

https://satanath.bandcamp.com/album/sat342-the-scum-the-hunger-2022

martedì 2 agosto 2022

Haissem - A Sleep Of Primeval Ignorance

#PER CHI AMA: Black/Death
Avevo già apprezzato gli Haissem nel 2020 in occasione del loro disco 'Kuhaghan Tyyn'. Li ritrovo ora con due nuovi album alle spalle, 'Philosofiend' uscito lo scorso anno e questo 'A Sleep Of Primeval Ignorance', fuori nel 2022 per la Satanath Records e per cui concentrerò le mie attenzioni quest'oggi. Il sesto album per la one-man-band di Donetsk contiene quattro nuove tracce che irrompono con un indelebile black/death melodico sin dalla distruttiva "Shade Upon the Forsaken Grave" che apre le danze del nuovo lavoro. Devo ammettere che pur mantenendo quella vena melodica apprezzata in passato, avverto la proposta di Andrey Tollock un po' meno accessibile rispetto ai vecchi lavori. La musica è decisamente più tesa, inglobando un rifferama tagliente, che sottolinea in certi rallentamenti, e più in generale in drastici cambi di tempo, le caratteristiche di questo nuovo disco. Buone le linee di chitarra (e alcuni assoli) ma francamente mi ero esaltato molto di più con 'Kuhaghan Tyyn'. Trovo che il nuovo cd sia un gradino (forse due) sotto rispetto a quel disco, probabilmente perchè maggior ancorato ad una tradizione "old school". I pezzi, sempre lunghissimi nei suoi minutaggi, si lasciano comunque ascoltare piacevolmente. "Bleak Heaven Aloft" mostra una ritmica sghemba anche laddove il mastermind ucraino prova ad attenuarne il temperamento con parti atmosferiche o più orchestrali. "Dieu Le Veut. Chaoseed" (a mio avviso il miglior pezzo dei quattro) richiama solo inizialmente un che dei primissimi Katatonia, mentre la componente corale/sinfonica potrebbe fare il versetto a Dimmu Borgir o Cradle of Filth, certo non con la medesima caratura. Il disco però sembra migliorare man mano che si prosegue nell'ascolto e si arriva infatti alla conclusiva "At the Trail to Devastated Infinity" con un sorriso più marcato, complice quel miglioramento globale della proposta tanto auspicato. L'ultima traccia si rivela come un altro modo per tributare Dani Filth e soci in un contesto sinistro di black doom che non esiterà a lanciarsi in epiche e furenti cavalcate black contrapposte a frangenti atmosferici e partiture decisamente più melodiche per un album alla fine da ascoltare e riascoltare per poter essere davvero apprezzato fino in fondo. (Francesco Scarci)

lunedì 9 maggio 2022

Circle of Chaos - Forlorn Reign

#PER CHI AMA: Death Metal
Se Atene rappresentò la culla della cultura, Stoccolma può senza ombra di dubbio essere definita la culla del death metal. La città ha infatti dato i suoi natali, tra gli altri, ad Entombed, Bloodbath e Dismember e proprio dalla capitale svedese arrivano anche questi Circle of Chaos. Il genere? Manco a dirlo è death metal nudo e crudo, dotato di una discreta vena melodica. 'Forlorn Reign', la terza fatica del quintetto scandinavo, che conta nelle sue fila ex componenti di Carbonized ed Abused, ci spara in faccia a mille all'ora la propria onesta proposta di death old school, che vede pochi tratti di originalità sia chiaro, ma che da un punto di vista tecnico-compositivo-distruttivo, sembra alquanto ispirato. Questa almeno l'impressione che ho avuto durante l'ascolto della roboante "Fires of Armageddon", un brano che ci prende a schiaffoni tra un riffing serrato e compatto, un growling incisivo, un drumming dirompente ed una componente solistica davvero con le palle, che con le sue derive melodiche (di scuola statunitense), rende più accessibile il pezzo. Non si può dire altrettanto della successiva title track che, minacciosa e torva, assembla tuttavia nella sua ritmica un'inaspettata sezione acustica che sembra richiamare più un pezzo hard rock che di metal estremo, il che cattura definitivamente la mia attenzione, grazie anche a ritmiche sghembe, ululati del vocalist in bilico tra scream e growl ed un finale caotico che mi ha rievocato "Raining Blood" degli Slayer. Si continua a correre veloci sui binari del death senza compromessi con "The Great Rite", un'altra traccia al fulmicotone che non fa certo prigionieri. Tuttavia, la band è abile nel cambiare repentinamente il proprio mood, passando da ritmiche selvagge a momenti più ragionati che in questo caso mi hanno ricordato lo straordinario 'Once Sent from the Golden Hall' degli Amon Amarth (peraltro un'altra band di Stoccolma, guarda caso). Il disco alla fine si muove su queste stesse coordinate anche nei successivi brani mettendo in fila momenti di grande devastazione ad assoli di un certo spessore. Ci provano i nostri a partire in modo più atmosferico in "Embracing Chaos", tra l'altro con una sezione ritmica piena, tortuosa e tonante, a cui dare seguito poi con un mid-tempo più compassato. Complice forse una durata più significativa (quasi sette minuti), che non consentirebbe la sopportazione di cotanto dolore inferto. Quando i cinque vichinghi decidono di pestare sull'acceleratore però, non ce n'è per nessuno e ci spazzano via con cotanta furia, accarezzandoci poi nuovamente con una raffinata sezione solista che a più riprese emerge dal caos primordiale costruito dalla band. Efferato l'attacco di "Spectral Disease" e siamo solo al giro di boa, visto che ci sono altri sei pezzi ad attenderci con altrettanta determinazione atta a frantumarci le ossa, tra potentissime ritmiche, acuminati assoli e spaventose vocals. Ci sono anche le song in lingua madre, la graffiante "Förödelsens Tid" con un assolo da paura e "Óveður", dove sperimentare ancora partiture acustiche, a dare risalto alle qualità dei nostri. Un intermezzo strumentale, "Age of Chaos" e si arriva all'epilogo affidato a "New Order", l'ultimo veemente atto di questo 'Forlorn Reign': qui il frontman si diverte a giocare con l'effettistica della voce, mentre le chitarre tratteggiano ancora una volta ritmiche forsennate e assoli taglienti come rasoi, a sancire l'eccelso lavoro fatto dai nostri a livello strumentale. Sull'originalità poi ribadisco, c'è ancora spazio al miglioramento. (Francesco Scarci)

(Satanath Records/The Ritual Productions - 2022)
Voto: 70

https://satanath.bandcamp.com/album/sat346-circle-of-chaos-forlorn-reign-2022

martedì 5 gennaio 2021

Mazikeen - The Solace Of Death

#PER CHI AMA: Black, Emperor
Il nome Mazikeen ho imparato a conoscerlo dalla visione della serie TV 'Lucifer', dove impersonava uno dei demoni a servizio di Lucifero, sebbene l'origine del suo nome sia da ritrovarsi nella DC Comics che la incornicia come una delle figlie di Lilith, la presunta prima donna di Adamo. A parte queste premesse, i Mazikeen sono anche la band di oggi, un quintetto originario di Melbourne che lo scorso anno, ha rilasciato il qui presente debut, intitolato 'The Solace of Death'. L'album include otto tracce di black/death più la bellezza di quattro cover. Ma andiamo con ordine raccontandovi un po' di che pasta sono fatti i nostri, che partono discretamente bene con la title track e una tempesta di sette minuti di black dalle tinte sinfoniche. Nulla di originale sia ben chiaro, però i musicisti sembrano preparati, le melodie piacevoli, anche un pochino ruffiane ma va bene, con tutti gli elementi del classico black anni '90 a disposizione dei nostri. Un tuffo nel passato quindi, sottolineato anche dalla successiva "Apostate" che con i suoi 10 minuti, e insieme agli altri 10 di "Vexation Through the Golden Sun", rappresentano i due brani più lunghi del disco (in un lavoro che comunque sfiora gli 80 minuti!). Anche in queste circostanze, la band si presenta con parti death atmosferiche che si alternano a sfuriate di scuola norvegese (Emperor/Carpathian Forest), con uno strano utilizzo delle vocals (tra screaming e qualcosa di corale). Certo gli originali sono tutt'altra cosa, però i nostri si difendono in un qualche modo, anche se avrei evitato di proporre quasi 21 minuti di musica in soli due pezzi, il rischio di incappare in una certa ridondanza si fa infatti più elevato. Ma i Mazikeen si mettono in gioco, rischiano e non ne escono nemmeno con le ossa rotte sebbene dopo un po' il desiderio di skippare lo avverta anche. I nostri musicisti australiani macinano riff a profusione con velocità sostenute, sempre contraddistinte però da una buona dose di melodia e addirittura da qualche assolo di scuola heavy classica (mi vengono in mente gli Iron Maiden nella seconda song) o addirittura da qualche break acustico che conferma le discrete qualità dei nostri. Per me il disco si poteva fermare alla soglia del quarto brano visto che qualche dolore in più inizia a palesarsi. Inutile infatti la tempesta sonora di "Fractricide" cosi come la più compassata, almeno all'inizio, "Psychotic Reign", un pezzo che francamente alla fine non è nè carne nè pesce, visto l'enorme baccano profuso fino a quando un ottimo assolo dilaga nel caos creato dai nostri; peraltro queste due tracce vedono il guest alla voce di Josh Young degli Astral Winter. Toni spettrali con l'interlocutoria "Harrowing Cessation" e ancora tocchi di piano con "Mors Vincit Omnia", per due brani la cui collocazione è quanto meno discutibile. "Cerulean Last Night" (qui il guest è del vocalist dei The Maledict) chiude il lotto di pezzi dei Mazikeen in modo a dir poco selvaggio. È il turno delle cover: si parte con "Freezing Moon" dei Mahyem e "Night's Blood" dei Dissection. Qui alla voce Nathan Collins dei Somnium Nox che presta i propri latrati a due grandi pezzi del passato, riletti quasi praticamente in un ugual modo rispetto agli originali dai Mazikeen. Poi uno dei miei brani preferiti di sempre, "The Mourning Palace" dei Dimmu Borgir, riproposti qui con una stravagante linea di tastiere che mi lascia un attimo perplesso. A chiudere quest'estenuante disco 'Transilvanian Hunger" dei Darkthrone, riproposta peraltro con la stessa pessima produzione dell'originale per mantenere intatto quel mood primigenio della band di Fenriz e Nocturno Culto. 'The Solace Of Death' è alla fine un disco che non fa dell'originalità il proprio credo, evidenzia ombre e luci (pochine a dire il vero) dei Mazikeen che per fare il salto di qualità, dovranno necessariamente mettere più personalità nel prossimo album. Per ora siamo oltre la sufficienza ma mi aspetto molto di più in futuro. (Francesco Scarci)

(Satanath Records/Iron, Blood and Death Corporation - 2020)
Voto: 65

https://satanath.bandcamp.com/album/sat282-mazikeen-the-solace-of-death-2020

lunedì 28 dicembre 2020

In Tenebriz - Bitter Wine of Summer

#PER CHI AMA: Black/Doom
Le one-man-band piovono come le stelle dalle parti di Mosca. Gli ultimi in ordine di tempo arrivati sul mio tavolo sono gli In Tenebriz, progetto guidato da tal Wolfir in giro dal 2005, con ben 12 album (più altrettanti EP e split) rilasciati con questo moniker, più un'altra serie come Chertopolokh, Tomatoes Fuck Potatoes o Wolfir stesso. La proposta del musicisita moscovita è un black doom che dà ampio risalto a melodie malinconiche con intermezzi acustici e catartici passaggi nell'oscurità più buia (l'opener strumentale "With a Taste of Wormwood" ne è un esempio). Con la seconda canzone, la title track, compaiono le harsh vocals del frontman su di un tappeto ritmico affidato quasi interamente ad un tessuto di solismi e tremolo picking che rendono il tutto estremamente gradevole e assai prog oriented, anche se l'intelaiatura rimane ancora un po' grezzotta con suoni impastati e decisamente poco cristallini. In "Into Crimson Oblivion", ecco apparire invece le contaminazioni doomish lungo un brano dai toni compassati e dalla forte componente acustico-atmosferica. "Stellar Dust" prosegue su questa scia di tranquillità sonica, con linee di chitarra piuttosto semplici e lineari, in cui la melodia delle note ci guida nell'ascolto. Interessante a tal proposito un inedito break acustico con un beat trip hop che si riproporrà anche a fine brano. Ancora melodie laceranti nella strumentale "Grass Still Remembers Your Trace" che ci accompagna gentilmente verso "Heart in the Pattern of Roots", un pezzo che evidenzia ancora le potenzialità melodiche dell'artista russo inserite in un tessuto ancora sporco, che trasuda comunque di black depressive. C'è ancora spazio per un altro paio di song: la prima è "The Birth of August" con i suoi tocchi delicati che si contrappongono ai laceranti vocalizzi del mastermind russo e ad un riffing black old school che mantiene comunque intatta la vena melodica del brano, il meno riuscito del lotto a dire il vero. La conclusione di 'Bitter Wine of Summer' è affidata ai suoni post-rock di "Let the Night Do the Talking", un pezzo strumentale che chiude degnamente questo nuovo capitolo targato In Tenebriz. (Francesco Scarci)

mercoledì 9 dicembre 2020

Eclipse of the Sun - Brave Never World

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, Morgion
Da un luogo dal nome impronunciabile, Székesfehérvár, arrivano questi Eclipse of the Sun, quartetto ungherese dedito ad un death doom d'annata. 'Brave Never World', atto secondo nella discografia dei nostri, a dieci anni dalla loro fondazione, è un disco onesto, che francamente se fosse uscito vent'anni fa, avrebbe meritato qualche chance in più. Si, perchè l'iniziale "Pillars of Creation" non fa altro che rimarcare quelle che sono le influenze quasi trentennali del disco, che ci riportano alle prime release dei My Dying Bride. Questi, in compagnia di Morgion, Swallow of the Sun, primi Paradise Lost e moltissimi altri, potrebbero figurare tra le principali influenze del quartetto magiaro. Anche la successiva "Things Called Life" fa l'occhiolino alla "Mia Sposa Morente" sia per utilizzo della voce pulita (ma qui compare anche un cantato sporco) che per un impianto sonoro che suona un filino datato. Ed è un peccato perchè mi scoccia limitarmi ad una mera sufficienza come sprono per una band che fondamentalmente avrebbe le capacità per fare meglio ed essere un po' più personale. Questo perchè gli Eclipse of the Sun sanno suonare, creano discrete atmosfere (ascoltate la title track e quel suo fare sinistro), ma quello che manca è una buona dose di freschezza e da una band in giro da ben dieci anni, beh mi sarei aspettato qualcosa in più che seguire i puri dettami dei maestri del genere e poco altro. Tra i mie pezzi preferiti vi citerei la sofferente "Not a Symbol" e la più sperimentale "Home", dove la voce è lasciata in sola compagnia di una batteria di accompagnamento in una prova quasi del tutto riuscita. Ancora ampi sprazzi atmosferici in "World Without Words", song guidata dalle tastiere e da una larga parte ambient che esploderà in un finale a dir poco devastante e che a mio avviso rappresenta l'ultima vera apprezzabile traccia del disco, complice una song conclusiva, "Era of Sun", ancora troppo ancorata al sound dei My Dying Bride. 'Brave Never World' è alla fine un disco che sembra mostrare ancora il lato acerbo della band, o comunque non farne uscire i reali valori. C'è da lavorare ancora duro per scrollarsi di dosso i facili paragoni e togliersi qualche discreta soddisfazione. (Francesco Scarci)

(More Hate Productions/Satanath Records - 2020)
Voto: 62

https://satanath.bandcamp.com/album/sat291-eclipse-of-the-sun-brave-never-world-2020

sabato 5 dicembre 2020

Ethir Anduin - Pathway To Eternity. The Agony

#PER CHI AMA: Black/Post-Hardcore
Gli Ethir Anduin sono un duo (uomo/donna) proveniente dall'area di San Pietroburgo in Russia. In giro addirittura dal 2006, i nostri giungono con 'Pathway To Eternity. The Agony' all'ammirevole traguardo dell'ottavo album in studio (a cui aggiungere anche altri 4 EP e 2 split, mica male). Il genere proposto? Eh, mica semplice. Cosi su due piedi, vi direi che stando a quanto eruttato nella lunghissima opener "Awareness of the Frailty of Being", potremmo parlare di ibrido tra black, doom e post-hardcore, peraltro ben suonato ed interpretato dai due musicisti russi che francamente non conoscevo, ma di cui sarò costretto a parlarvi davvero bene. Si, perchè la proposta immaginata da questi Ethir Anduin non è cosi semplice da mettere in atto. Serve conoscenza dei vari generi, grande gusto per le melodie malinconiche e perizia tecnica. Posso dirvi che ai nostri non manca nulla di tutto questo e che solo con i chiaroscuri, le sfuriate, i rallentamenti degli oltre undici minuti di apertura, la band mi ha conquistato? Ben fatto signori, ecco cosa intendo quando dico di osare. I nostri hanno miscelato due generi, il black e il doom spesso affini, con il post-hardcore, senza peraltro rinunciare a frangenti post-metal o schitarrate death. Cazzo! Magari ai più risulteranno ancora piuttosto grezzi, ma io ritengo che in queste note iniziali ci sia parecchia succosissima carne al fuoco, da prendere e farsi una bella scorpacciata. E non ci si ferma certo qui, considerato che il disco dura giusto 80 minuti in otto tracce. Sarà un massacro, lo so già, però chi se ne frega, qui di classe ce n'è un bel po' che andrebbe un attimino sgrezzata. Ma quando ascolto anche la seconda "Pandemonium" trovano conferma le mie parole, con questi chitarroni spaventosi di matrice post- che si frantumano contro parti atmosferiche ed in parallelo il growling catarroso di Luka che si evolve in soavi vocalizzi. Bomba. Intro acustica invece per "The Invisible Veil of the Cold Silence" con splendido giro di percussioni annesso e voci femminili inserite in un contesto dark/gothic da visibilio (che tornerà anche più in là con "Beneath the Ruins"), prima di una ripartenza verso un'attesa ritmica pesante, che concederà comunque largo spazio a questa componente atmosferica lugubre in cui a prendersi la scena e la disperata voce della frontwoman, in una prova di grande sofferenza, per un pezzo a cui non manca davvero nulla e che per certi versi potrebbe ricordare la collaborazione dei Cult of Luna con Julie Christmas in 'Mariner'. Più doom oriented per lunghi tratti "The Agony", visto che la pacatezza iniziale cede il posto alle intemperanze black/death della band con un assolo peraltro di chiara matrice progressiva che mi spiazza non poco e mi induce a dare un altro punticino in più alla band in una scalata verso il punteggio pieno. Ragazzi non c'è da scherzare, oggi ho scoperto una band davvero interessante che credo meriti platee ben più ampie. Lo conferma la dirompente "Eternal Shining Star" con gli strumenti e la violenza collocata esattamente nei posti dove deve stare, e con una dose di melodia sempre ben bilanciata. Il disco ha un'altra mezz'ora davanti e forse qui risiede l'unica nota dolente, la sua eccessiva lunghezza: oltre alla già citata darkeggiante "Beneath the Ruins", ecco le fumose ambientazioni sperimentali di "The Universe Hears Everything" e l'ultimo vagito affidato a "Last Struggle" che segna l'apoteosi musicale di un lavoro di grande portata che merita ampi consensi. Davvero bravi! (Francesco Scarci)

sabato 28 novembre 2020

Stromptha - Endura Pleniluniis

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
Nasce nella minuscola cittadina di Qaanaaq (656 abitanti), in una delle località più a nord del mondo, questo 'Endura Pleniluniis', secondo atto della creatura Strompth, one-man-band capitanata da J, polistrumentista francese emigrato in Groenlandia per stare a diretto contatto con la natura. Sei i pezzi per provare ad apprezzare la proposta musicale dell'artista di Tolosa che si apre sulle tranquille melodie di "De Sang et de Brouillard", ove un cantato in stile Lacrimosa fa il suo ingresso declamando versi in francese, il tuo avvolto in una atmosfera decisamente dark. La song evolve poi in una porzione decisamente più selvaggia (resa cosi anche da una produzione non proprio cristallina), un black melodico, a tratti furibondo, con la voce di J che si muove tra urla nefaste e un cantato baritonale, con la ritmica che vive sulla scia della medesima alternanza vocale, tra accelerazioni caustiche, parti atmosferiche affidate a grosse infarciture tastieristiche e aperture epiche di scuola Windir. Insomma, c'è un po' di tutto in questi primi dieci minuti che lasciano ben sperare per il proseguio. "Au Bout du Tunnel: La Nuit et la Neige" parte subito tiratissima con lo screaming sostenuto dalle taglienti chitarre e da sinistri e onnipresenti synth in sottofondo. C'è spazio anche per un altro atmosferico rallentamento che spezza quel ritmo sostenuto di inizio brano, ma la song è comunque un susseguirsi di cambi di umore che si riflettono anche in una molteplice sperimentazione vocale. Mi piace per quanto il suono risulti spesso impastato e catramoso eppure ha il suo perchè. Cosi come la successiva " Que les Corbeaux Forgent la Tempête" che si affida ad una lunga apertura ambient prima di volgersi verso una tempesta black (mid-tempo). Quello che forse realmente mi disturba è l'utilizzo della drum-machine che rende più gelido e impersonale il sound, poi devo ammettere che il musicista transalpino se la cava piuttosto bene nel creare spettrali atmosfere che in questo frangente in particolare, hanno un che di desolante e malinconico, come guardare una distesa di ghiacci dal finestrino di un treno in corsa. In "Le Passage Aux Fleurs" emergono ancora echi dei Lacrimosa nella componente vocale mentre il sound lento e ritmato avanza avvolto da un'aura gotica che permarrà per l'intera durata del brano, in quello che verosimilmente rimane l'episodio più pacato dell'album. Ma il disco sembra salire in qualità con le ottime melodie di "Brûle, Prairie de Roses" una song che mostra un lato più maledettamente romantico del musicista francese, che la candida peraltro a pezzo migliore del disco, a braccetto con la conclusiva "Quand le Cornu Moissonera" dove davvero la componente atmosferica si conferma l'elemento predominante di questa traccia con un break acustico da applausi. La sensazione è che questi ultimi pezzi siano stati scritti in un periodo differente dai primi tre e facciano trapelare ulteriori novità per un prossimo futuro. Staremo a sentire, nel frattempo godiamoci l'ascolto di questo 'Endura Pleniluniis', un lavoro che più si ascolta e più darà modo di capire qualcosa di più di questo artista. (Francesco Scarci)

(Pest Records/Satanath Records - 2020)
Voto: 70 

venerdì 20 novembre 2020

Setoml - Reincarnation

#PER CHI AMA: Black Melodico
I Setoml sono un nuovo progetto di DeMort (incontrato qui nel Pozzo con i suoi Luna) e di Krivoviaz Serge, vocalist dei I Miss My Death. 'Reincarnation' è il risultato del connubio di questi due artisti ucraini, otto tracce che faranno contenti gli amanti del black melodico. Il disco si apre con "Flames", un dirompente esempio di come la melodia possa esser messa a disposizione di un riffing serrato di matrice black, in una proposta che, pur non offrendo assolutamente nulla di innovativo, garantisce comunque tre quarti d'ora di musica solida e ben suonata. Una sassaiola di pezzi granitici che uno dopo l'altro ci vengono scagliati in pieno volto. Se la spietata "In the Cold Eyes" l'ho trovata alquanto banale tra l'altro con un songwriting piuttosto modesto, diverso è il discorso per "In the Gray Field of Hope", song devastante ma al contempo dotata di buoni arrangiamenti a cura di un lavoro di synth che la rendono decisamente più interessante anche nel suo pattern chitarristico. Più orientata verso il funeral doom è "Thousands Shimmering Souls", dove DeMort sembra trovarsi maggiormente a proprio agio con sonorità più oscure e solenni, anche se nella seconda parte del brano, i nostri tornano più indiavolati che mai con un riffing corposo e vivace e blast beat sparati a 299792458 m/s. Quello che ancora non mi convince è come l'eccellente voce di Serge mal si adatti a delle liriche che non sembrano affatto scritte per questa release. Un po' di spettralità ce la regala la lenta "By the Dark Lake", almeno nei suoi primi 90 secondi, visto il successivo e spaventoso attacco black, che si conferma ancora piuttosto scontato. Poi quando è la musica a parlare, non si possono discutere le capacità distruttive del duo ucraino, tuttavia il tutto rimane confinato all'interno di canoni ormai usurati. Un tentativo di deviazione dagli standard è offerto dalla tribalità percussiva di "Night Dance" e dall'imprevedibilità ritmica palesata nella seconda metà di "Their Wings Are Gray Like Spirits", che forse a questo punto indicherei anche come mio pezzo preferito insieme alla conclusiva "The Shadows Path". Qui, il duo di Kiev prova timidamente a staccarsi dagli stilemi classici ormai fin troppo abusati, pur non rinunciando ad una violenze sempre più traboccante. Direi pertanto di ripartire da qui e andare in cerca di una ben più definita identità musicale, coraggio, osate! (Francesco Scarci)

(Satanath Records/Kryrart Records - 2020)
Voto: 62

giovedì 12 novembre 2020

Helioss - Devenir Le Soleil

#PER CHI AMA: Symph Black/Death
Dalla Francia, ecco arriva gli Helioss, compagine nata originariamente come one-man-band di Nicolas Muller, ora invece accompagnato da tal DM (un altro di quelli che ha almeno 27 progetti paralleli) e da Mikko Koskinen (dei Proscription) alla batteria. Il connubio di questi tre artisti ha portato al qui presente 'Devenir Le Soleil', un lavoro straordinario di black death sinfonico. Francamente non conoscevo la band e dato che questo è il quinto album, credo che mi andrò a ripescare i precedenti lavori visti i contenuti davvero ragguardevoli di codesto. Forte di una ottima produzione che esalta i suoni bombastici di 'Devenir Le Soleil', il disco è un susseguirsi di bombe di un estremismo metallico fatto di eccellenti orchestrazioni che esaltano un tappeto ritmico davvero dinamico, fatto di cambi di tempo da urlo e riffoni belli violenti. I nove brani si infiammano che è un piacere dall'esplosiva apertura di "...Et Dieu Se Tut", alla successiva "A Wall of Certainty", un pezzo che nella sua parte pianistica mi ha evocato gli austriaci Angizia. Per me godimento puro soprattutto per la capacità di saper variare offrendo una tempesta sonora abbastanza originale (i contatti con i nostrani Fleshgod Apocalypse non sono cosi scontati), dato che nel sound del terzetto non compaiono solo sonorità estreme. Se penso alle linee di chitarra di "The End of the Empire", ci trovo infatti puro heavy metal classico anche se poi la song va a scavare in meandri più oscuri ma altrettanto melodici, lanciandosi poi in cavalcate arrembanti e arabeschi spettacolari. Il disco per me è una bomba, ve lo scrivo e sottoscrivo. Basti ancora dare un ascolto a random alla più tiepida e controllata (almeno all'inizio) "Let the World Forget Me" o alla schizofrenica "Singularity", dove compare il violoncello di Raphaël Verguin (uno che abbiamo già trovato negli In Cauda Venenum o negli Psygnosis) e il violino di Elisabeth Muller. Ma le ospitate non terminano qui, visto che la title track (oltre 24 minuti di durata) vede la comparsata di un elevato numero di ospiti (provenienti da altre band) che si alternano dietro al microfono (ma c'è anche un percussionista ad affiancare Mikko) in una suite davvero da applausi (per cui sarebbe quasi un delitto poterne sviscerare i molteplici dettagli e la ricercatezza dei suoni), in cui poter apprezzare tutte le qualità musicali di questo eterogeneo collettivo di artisti, in un brano che oltre a richiamare in generale i maggiori compositori classici, chiama inevitabilmente in causa anche i Ne Obliviscaris e un vecchio disco dei francesi Kalisia ('Cybion'), in un pezzo incredibile che da solo varrebbe l'acquisto di questo lavoro che si candida a questo punto ad essere nella mia personale top ten del 2020. Complimenti! (Francesco Scarci)

domenica 18 ottobre 2020

Vitam Et Mortem - El Río De La Muerte

#PER CHI AMA: Black/Death, Dissection, Morbid Angel
Il "fiume della morte", questo il titolo ovviamente tradotto in italiano del duo colombiano dei Vitam et Mortem che si pone come parallelo tra il fiume colombiano Magdalena, teatro di violenza e l'Acheronte, il fiume degli Inferi nella mitologia greca. La band, formatasi nel 2002, ha all'attivo sei album all'insegna di un death black melodico che farà la gioia di tutti coloro che seguono Dissection, Marduk e Morbid Angel, che mi sembrano le prime influenze che si palesano in "Los Cuerpos en el Río" che segue a stretto giro l'intro del disco. Il sound dei due di El Carmen de Viboral è un gorgo musicale in cui fluiscono le melodie e graffianti linee di chitarra dei nostri che mi evocano immediatamente gli svedesi Dissection, con quelle grandi aperture melodiche che si affiancano ad arrembanti cavalcate death. "La Danza de Los Gallinazos", meravigliosi a proposito i titoli dei pezzi, evoca invece a livello ritmico i Morbid Angel con quei riffoni belli pesanti e quelle voci abbastanza catacombali, sebbene poi i chorus, sembrino smorzare la violenza dei due sudamericani. Addirittura in "Aqueronte", le growling vocals cedono il passo ad un cantato più teatrale (ricordate gli Angizia?) con il sound che cambia, partendo da un ritmo marziale esplode in vertiginose schegge metalliche impazzite, tra saliscendi frenetici e oscure melodie, in un sound che potrebbe addirittura ricordare i Melechesh. Niente male affatto. Di contro la successiva "El Animero" non ha nulla di particolarmente interessante da offrire, è il classico brano che rimane nel mazzo e fa da riempimento. Molto meglio allora il brano che ne segue, "Barquero de los Muertos", più che altro per quella sua chitarra di sottofondo che evoca ancora una volta lo spettro dei Dissection in un contesto estremo dai tratti vagamente orchestrali. Una chitarra acustica spagnoleggiante apre invece "Plegaria a los Muertos", un pezzo death metal bello tirato e oscuro, sebbene poi riesca a regalare delle melodiche linee di chitarra, sfoggiando peraltro un'ottima tecnica individuale, ma non è certo la prima volta che lo si apprezza nel corso del disco. "Nomen Nescio" sarebbe una sorta di outro del cd, in realtà funge da bridge per i rimanenti due brani, "Yo Soy el Siguiente Muerto" e "Ritos de Muerte". Il primo è un vecchio pezzo della band risalente all'uscita del 2008 del disco 'Commanding the Obscure Imperius', qui riletto in chiave più moderna, strizzando sempre l'occhiolino ai Morbid Angel. La seconda è una cover dei Masacre (di cui avrei fatto sinceramente a meno), estratta dall'album 'Sacro' del 1996 della band originaria di Medellin che va comunque a completare un disco intrigante per una band da tenere assolutamente sotto stretta osservazione. (Francesco Scarci)

(Satanath Records/Exhumed Records - 2020)
Voto: 72 
 

domenica 4 ottobre 2020

Haissem - Kuhaghan Tyyn

#PER CHI AMA: Prog Black/Death
Gli Haissem sono una one-man-band originaria di Donetsk (Ucraina), il cui leader, Andrey Tollock, è mente anche dei Sunset Forsaken, due entità che sembrano condividere la stessa devozione al death melodico da parte del polistrumentista ucraino. La differenza sostanziale è forse legata al fatto che gli Haissem sono nati come black band, poi evolutasi verso un death black melodico, che vede questo quarto capitolo, 'Kuhaghan Tyyn', l'apice della carriera. Francamente, non conoscevo la band e quando ho ascoltato su bandcamp questo lavoro ne sono rimasto quasi folgorato. Il motivo? Semplice, ho sentito energia, idee, splendide melodie e una verve che non ritrovavo da tempo in un album. "Black Tide Dominion" è una opening track con i fiocchi, muovendosi tra sonorità primigenie stile Katatonia, con tanto di magistrali melodie di chitarra che guidano tutta l'architettura sonora della band, un grande utilizzo di sintetizzatori, urlacci black ma anche clean vocals di scuola Opeth, che si piazzano sulle parti più atmosferiche della song, nel finale per l'esattezza dove compare una porzione d'archi da brividi, a cura della violoncellista Alexandra Zima. Niente male direi, a voi che ve ne pare? "Arcanum" parte decisamente più aggressiva con le chitarre dal piglio più ringhiante, anche se poi troveremo modo di prendere fiato in un bel break atmosferico, in cui vanno a fronteggiarsi chitarra acustica ed elettrica. Poi il sound di Andrey sembra un fiume in piena, in un vorticoso incedere black, soprattutto nel roboante finale dove la ritmica sembra quasi raddoppiarsi. "Aokigahara", il cui nome si rifà alla foresta giapponese tristemente conosciuta per essere teatro di numerosi suicidi, è un pezzo che a livello ritmico miscela efficacemente partiture black con un death melodico, il tutto ovviamente corredato dagli aspri vocalizzi del polistrumentista ucraino e dalle splendide tastiere che ne arrichiscono costantemente la proposta, e che nel corso dei suoi quasi dieci minuti, riesce comunque a cambiare mood una miriade di volte, alternando davvero una sequela di cambi di tempo che mi danno l'idea di aver ascoltato almeno tre pezzi differenti. Non ne parliamo poi dell'ultima "Кuhаҕан Тыын": l'incipit sembra provenire da 'Brave Murder Day' dei Katatonia, poi il sound vira verso sonorità settantiane di scuola Opeth, ma solo per un attimo visto che poi il tutto si fa più ruvido sparandoci in faccia una ritmica annichilente che dura però solo pochi secondi perchè a subentrare questa volta è la voce (non troppo convincente ahimè) di una gentil donzella, alias Alyona Malytsa, che spezza l'ormai ubriacante ritmo, che troverà ancora modo di evolvere una svalangata di volte, quasi a polverizzare gli ultimi neuroni residui nella testa. Insomma, 'Kuhaghan Tyyn' è un album davvero interessante che coniuga alla grande più generi e che mostra quanto ci sia ancora spazio per dire qualcosa in ambito estremo, se si ha personalità e ottime idee. (Francesco Scarci)

sabato 15 febbraio 2020

Abigorum - Exaltatus Mechanism

#PER CHI AMA: Black/Doom, primi Samael
Alexey Korolev non è solo il boss della Satanath Records e tastierista dei Taiga, scopro solamente oggi infatti che è anche il fondatore di questi Abigorum e fino al 2019 vero factotum strumentale in quanto one-man-band fino allo scorso anno, quando si sono uniti bassista e chitarrista/voce, lasciando concentrare il buon Alexey alle sole batteria e tastiere. Fatto questo largo preambolo, vi dico anche che 'Exaltatus Mechanism' è il debutto sulla lunga distanza per i nostri dopo uno split datato 2018 in compagnia degli Striborg e uno nel 2016 con i Cryostasium. Finalmente possiamo dare un ascolto anche all'album, un disco che si apre con le infernali vocals di "Grau und Schwarz" e le sue solfuree atmosfere black doom. Il cantato in lingua germanica è dovuto al fatto che i due nuovi ingressi in formazione sono proprio tedeschi. Quello da sottolineare sono le melmose sonorità a rallentatore sciorinate dal terzetto, con una serie di rumori in sottofondo che sembrano quelli prodotti da un fantasma ridotto in catene. La voce di Tino "Fluch" Thiele è davvero arcigna e ben ci sta in un contesto musicale del genere. Con "Maskenball" si prosegue all'insegna di ambientazioni tenebrose e vocals che si muovono tra il grim e lo spettrale in un impasto sonoro che non è propriamente funeral probabilmente nemmeno black, essendo un qualcosa al crocevia di questo marasma sonoro. Pertanto, mi viene da dire che la proposta degli Abigorum sia piuttosto originale, sebbene sia alquanto complicata da digerire. "Jetzt" è una marcia atta a smuovere le anime dei dannati negli inferi con un cantato quasi declamatorio e perentorio in un contesto a tratti oppressivo ed esoterico. Non mi dispiace affatto la proposta del trio per quanto possa rivelarsi stralunata, ma le melodie, soprattutto in questa song, funzionano a meraviglia nel creare atmosfere orrorifiche. Sia chiaro che non abbiamo tra le mani un capolavoro ma un album comunque degno di nota per quel suo spirito sperimentale, questo si. "Für Die Ewigkeit" è un altro bell'esempio di sonorità che per certi versi mi hanno evocato i Gloomy Grim degli esordi, cosi come la successiva "Königreich Dunkelheit", con quella sua aria ampollosa, gli arrangiamenti orchestrali ed una costante aura industrial a completare il quadro sonoro. Il disco prosegue su questi stessi binari, proponendo alcune song più interessanti delle altre e penso alla bombastica (per atmosfere e linee di chitarra riverberate) "Der Ängstliche Mensch" e alla sinistra "Über Dich" che rendono l'ascolto di 'Exaltatus Mechanism' comunque soddisfacente fino alla fine. (Francesco Scarci)

Mourner - Apogee Of Nihility

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride
Se dico Russia voi a cosa pensate, fatto salvo per il buon vecchio volpone Vladimir Putin? Io ormai vado col pilota automatico e dico death doom, cosi quando ho letto che i Mourner venivano da quelle parti e soprattutto avvantaggiato da questo moniker, l'associazione è stata fin troppo semplice. Infilato 'Apogee Of Nihility' nel lettore, ho avuto conferma della mia ipotesi in tempo zero. La band suona appunto un death doom, molto death nella sua parte ritmata, un po' vetusta e obsoleta nel suo approccio, ma al tempo stesso quando ci infilano quel malinconico violino di scuola My Dying Bride, ecco che è davvero tutta un'altra musica. Anche quel mostruoso vocione growl del vocalist Gor assume un tono più umano. E l'opener "The Scorched Sun" è la prima testimonianza di quanto scriva, cosi poco brillante in chiave ritmica, ma davvero brillante nello sciorinare il suo lato più malinconico. Il problema ovviamente si ripete nelle tracce successive: "Do Not Get Through" è un altro pezzo classicheggiante (in ambito death doom ovviamente che evoca 'Serenades' degli Anathema) che non smuove nulla almeno finchè si muove tra sgroppate death e growling vocals; poi uno squarcio acustico, una voce meno cavernosa e più sofferente, preludio forse di una nuova parte drammatica che arriverà solamente a pochi secondi dalla fine del brano. "Slaves of Fate" sembra fare il verso ai My Dying Bride di 'The Dreadful Hours' quelli più violenti per intenderci, e proprio di fronte alla veemenza di fondo del terzetto russo, rimango fondamentalmente impassibile, impietrito da un sound che da dire non ha praticamente nulla. La magia sembra ristabilirsi questa volta per l'apparizione di un synth che regala un fronte melodico intrigante, rimaniamo lontani però dai fasti emotivi della prima canzone. Ci si prova con la title track, doomish quanto basta ma lontano parente dell'opener, per quanto, nel momento di assolo del basso, abbia pensato a "A Kiss to Remember" dei MDB che rappresentano l'influenza principale del trio russo, almeno sul versante doom. Il disco si avvia verso la conclusione ancora con qualche cartuccia da sparare: si parte con "The Broken Life", traccia più dinamica di scuola primi Paradise Lost questa volta (e il trittico magico l'abbiamo citato del tutto) che sfoggia un timido ma evocativo violino che accompagna la pesante base ritmica. "Cobweb of Captivity" è la song più lunga del cd (quasi nove minuti) e qui ho pensato di associare ai Mourner anche un che dei cechi Master's Hammer, più che altro da reminiscenze che sono radicate nella mia testa e si risvegliano non appena ascolto qualcosa di simile. La band è piuttosto ridondante a livello ritmico, ma qualche cosa di gradevole lo si riesce a pescare anche qui, che probabilmente è il capitolo più sperimentale dell'album (che ricordo essere il debuto per i Mourner). L'epilogo è affidato alla strumentale "Epilogue" che sancisce la conclusione di un disco ancora un pochino acerbo ma dotato comunque di qualche buona trovata. Se potessi fare una richiesta esplicita, spingerei molto di più sull'utilizzo del violino, io gradirei molto. Forza e coraggio, usciamo dai classici schemi precostituiti. (Francesco Scarci)

(Satanath/The End of Time Records/More Hate Productions - 2019)
Voto: 63

https://satanath.bandcamp.com/album/sat257-mourner-apogee-of-nihility-2019

venerdì 14 febbraio 2020

Inhibitions – With The Fullmoon Above My Head

#PER CHI AMA: Swedish Black, Dark Funeral, Dissection
Bollati dal sottoscritto in occasione del precedente lavoro come ancora impantanati nelle sabbie mobili del symph black di metà anni '90, i greci Inhibitions tornano con questo 'With The Fullmoon Above My Head', terzo capitolo della loro discografia. Le cose sembrano essere mutate in seno al duo ateniese, non mi è ancora chiaro però se in meglio o piuttosto in peggio. Facciamo subito chiarezza dicendo che se 'La Danse Macabre' era venato di influenze riconducibili a Emperor o primi Dimmu Borgir, 'With The Fullmoon Above My Head' sembra volersi far largo a colpi di black metal old school. Ecco, la domanda per il sorroscritto sorge spontanea: che necessità c'è di voler suonare black rimanendo ancora cosi ancorati ai dogmi di un genere ormai prossimo al pensionamento? Mi duole dirlo ma in questa terza release riesco a salvare davvero ben poco della proposta del combo greco. Francamente, la serie di schegge impazzite rilasciate dal duo formato da Pain e Dimon's Night non mi dice nulla di nuovo. È una sassaiola di riff di scuola svedese lanciati a tutta velocità, senza peraltro offrire melodie degne di note o qualcosa di comunque estremo ma originale. Mi spiace sempre segare un album, perchè so perfettamente il lavoro che vi sta dietro, e l'investimento che la band prima e l'etichetta poi, fanno. Dannazione però, in un periodo in cui chiunque può pubblicare musica dal proprio sottoscala e in cui la competizione è pertanto cosi elevata, non trovo il senso di un disco del genere in cui, a parte qualche epica schitarrata qua e là (le mie song preferite sono "When the Hope is Gone", la mid-tempo "Voices Inside" con quei suoi chiari riferimenti al tremolo picking dei Dissection e quel break acustico centrale e le più atmosferiche e sinfoniche sonorità della title track e di "Phenomenon", ove a mettersi in luce è il chorus che dà il titolo alla song), rimane ampiamente sotto la soglia della sufficienza, costringendomi ad un'altra sonora bocciatura. Dico sempre che c'è da lavorare anche nelle release più positive, qui c'è da raddoppiare gli sforzi per non rimanere insabbiati nelle viscere dell'anonimato più profondo. (Francesco Scarci)

giovedì 23 gennaio 2020

Order of the Ebon Hand - VII: The Chariot

#PER CHI AMA: Hellenic Black
L'Attica, la culla della civiltà occidentale con la sua splendida Atene, luogo da cui emerse l'hellenic sound. Il quintetto degli Order of the Ebon Hand arriva proprio da là, forgiando il proprio sound laddove nacque quello di altre divinità greche quali Rotting Christ, Kawir, Thou Art Lord, Zemial, Necromantia, giusto per citarvene alcuni. La band di oggi si riaffaccia col terzo album, 'VII: The Chariot', fuori per la russa Satanath Records, dopo ben 14 anni dal secondo disco, 'XV: The Devil', sebbene nel mezzo siano usciti un paio di split. I pezzi per convincerci della bontà del lavoro di quest'oggi sono otto. L'album si apre con "Dreadnaught", un black mid-tempo che mi colpisce soprattutto in chiave solistica, visto un lungo assolo dai connotati heavy rock da stropicciarsi gli occhi. La song è poi ammantata da una sinistra aura occulta che rende più appetibile il dischetto. La seconda "Μόρες" è decisamente più tirata con un forte orientamento ad un black minimalista; quello che colpisce in questa traccia, oltre alla ferale architettura ritmica, sono delle limitatissime ma orchestrali tastiere di sottofondo che sembrano smorzare la furia incontrollata dei cinque ateniesi. Con "Wings" si prosegue sulla stessa lunghezza d'onda, con i classici suoni neri come la pece, fatti di taglienti melodie di chitarra (in stile Swedish black) e gracchianti vocalizzi. Peccato solo siano scomparse quelle chitarre classiche che mi avevano ben impressionato nell'opener. Si continua infatti a picchiare come forsennati anche nella successiva "Sabnock", song che vede la partecipazione alla voce, in veste di guest star, proprio del buon Sakis dei Rotting Christ, quasi a dare il proprio benestare al lavoro degli Order of the Ebon Hand; e la prova del frontman è come sempre indiscutibile. "Knight of Swords" parte più tranquilla con un arpeggio di un minutino a prepararci alla furia distruttiva di un brano di elevata intensità che mi porta a pensare "che mazzo deve farsi il batterista dei nostri". La grandinata prosegue anche in "Αίαντας" ma sarà cosi fino alla fine: in questa song compaiono delle sofferenti ed epiche voci parlate, mentre in "Bael" il ritmo si fa addirittura più furioso. "The Slow Death Walk" è l'ultimo episodio del disco caratterizzato da un riffing più trattenuto che si muove a braccetto con stralunati e quasi barocchi tocchi di tastiera che mi hanno evocato un'altra band greca, gli Hail Spirit Noir. Quello degli Order of the Ebon Hand è un gradito ritorno anche se un po' troppo derivativo. Speriamo solo che la band si levi un po' di ruggine di dosso e non ci faccia attendere altri tre lustri per un nuovo full length. (Francesco Scarci)

mercoledì 8 gennaio 2020

Arallu - En Olam

#PER CHI AMA: Black Mesopotamico, Melechesh
Non più di un anno fa abbiamo recensito su queste pagine 'Six', sesto album degli israeliani Arallu. Autunno 2019 e i nostri tornano con un nuovo lavoro, 'En Olam' ed il loro inconfondibile sound black thrash mesopotamico. Non si scherza davvero con la rabbia distruttiva di "The Center of the Unknown", incendiaria opening track che solo dopo una martoriante parte thrash metal, dà sfoggio a quel marchio di fabbrica che da sempre rende gli Arallu e poche altre band (Melechesh su tutte) come alfieri del Mesopotamic sound, ossia di quelle melodie mediorientali abbinate al black, che rendono la proposta dei nostri cosi originale ed esotica. La title track si palesa in questa veste già dalle prime note con un sound decisamente più ritmato quasi tribale, con quelle splendide melodie che immagino accompagnare il sinuoso movimento di deliziose danzatrici del ventre. E mentre la mia fantasia mi guida verso bellissime donne, ecco che a scuotermi dal mio stato onirico, ci pensano le aguzze chitarre del quintetto israeliano. La musicalità di quel mondo antico si manifesta anche nella successiva "Devil's Child", brano dalle ritmiche serrate e dalle voci acuminate che mostra un bel break centrale a rallentare una song sin qui assai infuocata. La chiusura è affidata poi all'incisivo coro che inneggia proprio al titolo del brano. Non c'è tempo di prendersi pause, visto che "Guard of She'ol" irrompe a gamba tesa nello scorrere impetuoso di questo 'En Olam', che vede peraltro qui l'utilizzo da parte del vocalist, di un cantato pulito, per un esperimento davvero azzeccato. Parte decisamente in sordina invece "Vortex of Emotions", con un titolo del genere mi sarei aspettato ben altro: ci vogliono ben quattro minuti infatti ai nostri per provare ad aumentare il numero di giri al motore, con scarso successo a dire il vero, per un capitolo non troppo ben riuscito. "Achrit Ha'Yamim" è il classico intermezzo strumentale che ci introduce a "Prophet's Path" che mi sa tanto diventerà la mia song preferita dell'album, di certo quella più varia per la sua natura multietnica, peccato solo duri poco più di tre minuti. Le cose sembrano tuttavia progredire con le canzoni finali: davvero buona "Unholy Stone", che non so per quale motivo, riesce a trasmettermi quella sensazione di tensione e disagio che avvertii la prima volta che mi trovai in piena città vecchia a Gerusalemme. Lo stesso dicasi per la successiva e suggestiva "Trial by Slaves" che completa un trittico di song davvero interessante. A chiudere, la magia di "Spells", un gran bel pezzo all'insegna di un sound orientaleggiante che chiude degnamente il settimo sigillo targato Arallu. (Francesco Scarci)


(Satanath Records/Exhumed Records - 2019)
Voto: 74

https://satanath.bandcamp.com/album/sat266-arallu-en-olam-2019

Gôr Mörgûl - Elohim

#PER CHI AMA: Black/Death, Morbid Angel, Anaal Nathrakh
I Gôr Mörgûl vanno subito al sodo, senza troppi arzigogolii. "I Begin" è infatti una super mazzata nei denti che funge da opener di questo 'Elohim', atto terzo della discografia della band sarda. Death/black ubriacante e centrifugante che si palesa sin dal primo secondo con ritmi infernali e qualche rallentamento di memoria Morbid Angeliana. L'effetto, per quanto shockante possa apparire, in un paio di minuti diventa tollerabile, addirittura piacevole quando il ritmo infuocato (sempre all'insegna del blast beat) trova ulteriori rallentamenti nell'incipit della title track. Guai però ad abbassare la guardia, visto che il quartetto nostrano riprende a torturare allegramente i propri strumenti tra velocità disumane, growling ferali e qualche sporadica atmosfera satanica. Per certi versi la proposta dei nostri mi ha ricordato gli esordi dei Necromass, quelli di 'Mysteria Mystica Zofiriana', anche se la band toscana mostrava un piglio decisamente più blackish mentre i Gôr Mörgûl hanno un taglio più brutal death americano. Comunque niente paura, qui c'è ben poco da rilassarsi visti i ritmi estenuanti a cui ci obbliga la band anche nelle successive "Portal to Underworld" e nella terremotante "Rising the War for Ashtoreth", e da qui sino alla fine, senza grosse variazioni al tema. E proprio qui sta forse la debolezza del disco, ossia in una eccessiva monoliticità di fondo quando forse una maggiore varietà nella proposta avrebbe strappato un consenso maggiore. Comunque se siete fan degli album sparati ai mille allora, tipo Anaal Nathrakh o Impaled Nazarene, i Gôr Mörgûl possono fare al caso vostro. (Francesco Scarci)

lunedì 10 giugno 2019

Automb - Esoterica

#PER CHI AMA: Black/Death, Behemoth, Obtained Enslavement
Da Pittsburgh Pennsylvania, ecco a voi gli Automb, progetto black/death che vede tra le sue fila il batterista dell'album 'K' dei Morbid Angel, Scott Fuller, Serge Streltsov (ex Necrophagia) alle chitarre e tal Danielle Evans, gentil donzella (si fa per dire) per voce, basso e tastiere. Il quadro è cosi completato, ora vi serve solo capire la proposta del trio statunitense in questo primo Lp dal titolo 'Esoterica'. Dicevamo di un black death che punta più sulla veemenza delle proprie ritmiche che su un approccio melodico, e la devastante "Horned God" sembra poterlo confermare con una ritmica massiccia, serrata, un muro di cemento armato contro il quale andarci a sbattere. Eppure in questo grandinare di riff, sento una certa vena melodica di sottofondo, sorretta poi dal vociare grugnolesco della brava Danielle, che propina un growl energico, feroce ma soprattutto convincente, che permette qualche accostamento a quella Angela Gossow che sbraitava qualche tempo fa per gli Arch Enemy. Nel frattempo il suono degli Automb viaggia compatto anche con le successive "Summoning the Storm" o "Mourned", sebbene in quest'ultima, per gentil concessione, i nostri ci regalino il primo momento per prendere fiato con un breve break strumentale. Niente paura, nulla di particolarmente atmosferico, vedevo già molti di voi storcere il naso. La band riprende a macinare e viaggiare su ritmi infuocati, con un solo unico obiettivo: la distruzione dei nostri timpani. Tuttavia ascoltando più attentamente le chitarre di questa song mi viene da fare un paragone col suono delle chitarre dei gods irlandesi Primordial, anche se poi qui siamo distanti anni luce dalla proposta pagana del buon Alan Nemtheanga e soci. In questo 'Esoterica', l'avrete capito, non c'è troppo spazio per le melodie o le atmosfere, impegnati i nostri come sono nella loro opera distruttiva. Eppure anche in "Call of Hekate" riecheggia in un qualche modo, una rivisitazione sicuramente più primitiva dei Primordial a cui aggiungerei però un altro nome della scena norvegese che ahimè è scomparsa dopo un meraviglioso lavoro. Sto parlando degli Obtained Enslavement e del loro 'The Shepherd and the Hounds of Hell' che qui, in talune porzioni di disco, sembra riemergere, mostrando il lato più black oriented degli Automb. Un album per certi versi che vede nelle devastanti e annichilenti "Blood Moon" e "Into Nothingness" altri due momenti interessanti del disco. Sicuramente non siamo di fronte a nulla di originale, eppure quest'opera prima può rappresentare un buon punto di partenza per questo trio americano, da tenere sotto traccia assolutamente. (Francesco Scarci) 

(Satanath Records/Final Gate Records - 2018)
Voto: 68

https://satanath.bandcamp.com/album/sat202-automb-esoterica-2018