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giovedì 5 dicembre 2024

Misha Chylkova – Dancing the Same Dance

#PER CHI AMA: Electro/Shoegaze/Folk
Dopo una manciata di singoli, esce finalmente il full length di Misha Chylkova, compositrice sofisticata dalla voce vellutata e intensa. Il disco si muove a ripetizione tra cantautorato dalle sonorità attuali e un'elettronica minimale e cinematica. Loop ripetitivi e circolari fanno da veri e propri tappeti volanti, visto che l'artista londinese di origine ceca, sa costruire brani sognanti e intimi, con quel pizzico di malinconia che non scade mai nel banale, mostrando un lato intimo che non si cosparge di miele ma che, al contrario, incita alla dilatazione delle pupille in una costante ricerca di qualcosa che va oltre il definito, fin dal primo ipnotico brano strumentale, "Coffee". Difficile accostare Misha ad altri artisti; la sua musica, per quanto minimale, è ricercata e certosina, dalla pulizia del suono al bilanciamento dei bassi, la produzione è infatti assai buona e gioca un ruolo importante per poter assaporare l'intero lavoro. Sonorità moderne per un incrocio di stili difficili da focalizzare, forse la Chelsea Wolfe di 'Apokalypsis' e 'Birth of Violence', in una veste meno dark e più dreampop, un folk cristallino dalla vena grigia, per ascoltatori sognanti che non rimarranno impassibili di fronte ad un brano brillante come "Sparrows", che per certi aspetti mi ha ricordato la magia del suono dei Cigarettes After Sex dell'omonimo album, ma anche le ipnotiche sperimentazioni di Anna Von Hausswolff, in chiave meno apocalittica. La bella voce della Chylkova ha venature molto velate e dolci, che ricordano molto le qualità vocali di Tracey Thorn degli Everything but the Girl, mostrando una versatile capacità d'interpretazione, con cui sposta facilmente l'ago della bilancia tra folk ed elettronica, senza cadute di stile, con piccole toccanti ed ingegnose variazioni vocali sparse tra i brani, che ne aumentano il valore e la qualità ad ogni ascolto. "Dead Plants" è un brano killer che si muove sullo stile ritmico di anthems del calibro di "Atmosphere" dei Joy Division, anche se il brano non è così oscuro ma la sua progressione mette in risalto il fatto che tra le note di 'Dancing the Same Dance', esista anche un legame sonoro con certa new wave che ha fatto giustamente la storia. Questo disco nel suo sembrare, al primo ascolto, fragile e dispersivo, nasconde invece un carattere inquieto e variegato, con punte di sperimentazione non impetuose ma peculiari, pacate e curate, tra sonorità vicine ad un moderno post rock ed un fine tocco di musica elettronica d'ambiente. Un album che non si assimila con un solo ascolto, sarà necessario ascoltarlo più volte per carpirne la giusta essenza, magari di notte guidando in solitudine. Un album comunque, che merita e che conquisterà la vostra attenzione. (Bob Stoner)

lunedì 25 novembre 2024

Maverick Persona – In the Name of

#PER CHI AMA: Post Rock/Experimental Sounds
In quante occasioni ci siamo persi nel vasto mondo della musica pop internazionale, cercando qualcosa di interessante da ascoltare, senza mai guardare ai confini nazionali? Ecco, con il nuovo album dei Maverick Persona, vi renderete conto che l'album della "porta accanto" esiste e può avere un respiro internazionale, risultare intrigante e destare la vostra curiosità senza nemmeno passare per il mainstream, preconfezionato e molto spesso vuoto di spessore e idee (vedi ultimi Blur o simili). Il progetto dei due musicisti italiani, Amerigo Verardi e Matteo "Deje" D'Astore, esprime tra le sue note proprio questo, la volontà di essere liberi di creare musica per come la si intende, senza confini o condizionamenti. Infatti, in una intervista uscita al tempo del loro primo album, 'What Tomorrow?', dichiaravano quanto segue: "Non abbiamo la possibilità di investire migliaia di euro in promozione, foto o videoclip; tanto meno siamo in grado di comprare i passaggi nelle radio o in tv, né ci interessa acquistare pacchetti di ascolti virtuali in playlist del cazzo. Adottiamo invece una forma promozionale tutta nostra che si misura in energia piuttosto che in economia: provare a liberare un flusso creativo tale da permetterci di registrare anche due album in un anno, possibilmente uno migliore dell’altro". La magia di questo nuovo disco si misura proprio in questa libertà, e se ci si associamo i testi, cantati in lingua inglese, volti alla critica di una società al limite tra ipocrisia e decadimento culturale e sociale, il gioco è fatto. Il duo cita i generi electronic, experimental, psychedelic, pop, rock, spoken word, new jazz, world music e gli ingredienti ci sono tutti, e si srotolano con un enorme piacere di ascolto. "Somewhere We Have Landed" e "Underword Conspiracy" sorprendono per la maturità del suono, musica ad elevato impatto psichedelico ed emotivo ad ampio respiro internazionale, un elettro-ambient sofisticato, ma non solo; l'impazzito jazz di "Sirshka" e i sussulti new/acid jazz di "Where Are You", confondono ed ampliano gli orizzonti musicali. L'insieme dei brani mi ricorda le teorie ricostruttive di Bugge Wesseltoft in 'New Conception of Jazz' del 1996, aggiornate con rianimata verve e suoni di nuova provenienza, ma l'album nasconde anche tante stanze segrete tra le sue note, sentori di acido trip hop per "Try to Get the Sun", mentre per "Dreaming Laurel Canyon", come dice tra le righe anche il titolo, dream pop e drone, si fondono per donarci una vera e propria sensazione di volo. 'In the Name of' è un disco di palpabile spessore artistico, carico di sorprese, adatto ad un pubblico moderno, che ama il sound variegato, curato e dalla trama intelligente. Un disco che allieterà i vostri ascolti, portandovi anche alla riflessione in più momenti, perché la rivoluzione nel mondo passa anche da suoni che sembrano innocui e pieni di luce ma che in realtà esprimono tanta ribellione. Consigliato l'ascolto! (Bob Stoner)

martedì 29 ottobre 2024

Esoctrilihum - Döth-Derniálh

#FOR FANS OF: Experimental Black
The French project Esoctrilihum has been, since its inception back in 2016, a relentless force of creativity, pushing the boundaries of extreme metal with a vast palette of influences. Asthâghul’s musical vision has navigated between the frontiers of black and metal, combining both genres with experimental and atmospheric arrangements. This combination varies with each album, achieving a very singular career full of monumental albums which obviously are not for everyone. The length, complexity, and brutality of some albums, may take some time to digest, but the reward is always worth your time. It is important to highlight how active Esoctrilihum has been during these years, releasing albums each year, which is quite impressive taking into account the intricate nature of its music.
 
I was curious to listen to what this French project could offer after the particularly lengthy and complex 'Astral Constellations of the Majickal Zodiac', which was like a musical summary of the previous albums. It was an appropriate moment to push once again the boundaries of its music and unsurprisingly Esoctrilium has made it with the new opus 'Döth-Derniálh'. Don’t get me wrong, there is not a radical change here, as most of the well-known elements used by Asthâghul can be found here. Nevertheless, there is a very interesting and generous use of acoustic guitars, which helps to create some kind of folk horror atmosphere throughout this album. The widespread use of clean vocals, alongside the aforementioned acoustic guitars, make this album a more intimate, mysterious, and dark piece of work. It is also less extreme in comparison to other previous albums, although the rage erupts when you least expect it. The keys also play an interesting role in enhancing the occult-like atmosphere of the album. The first track, entitled "Atüs Liberüs (Black Realms of Prisymiush’tarlh)" is a clear example of it, with these great keys, whose melodies are really hypnotic. The already mentioned acoustic guitars make their first appearance, accompanied by some kind of violin or similar instrument, creating an interesting mixture of sounds. The clean vocals have a great role here, as you will notice throughout the album, although in this track they are particularly omnipresent. As said, there is room for some fierceness in this album although to a far less degree, this track being also a clear portrayal of it. Moments of brutality with some great shrieks and relentless double bass can be found here and there, like for example in the second track, being that section one of my favorites as it masterfully combines the fury with some captivating melodies. The third and fourth tracks explore this heavier side, but still keeping a relevant space for the acoustic sections that define this album. The unique approach of this album diminishes the immediate impact of the compositions and requires more time from the listener to become accustomed to it. However, if you allow yourself to be enveloped by the atmosphere, this album can be an intriguing musical journey.
 
Esoctrilihum continues its highly personal musical exploration with the new opus 'Döth-Dernyálh'. The French project has delved into new territories with a more acoustic approach, while still maintaining its dedication to extreme metal. This album may not be the first one I would recommend from this project, as I personally feel that some moments lack brutality, which could have helped achieve a better balance. Nevertheless, the unfathomable and esoteric atmosphere of 'Döth-Dernyálh' makes it a captivating experience. (Alain González Artola)
 
(I, Voidhanger - 2024)
Score: 80
 

domenica 20 ottobre 2024

Rot Coven – Nightmares Devour the Waking World: Phase I + Phase II

#PER CHI AMA: Black/Drone/Ambient
L'universo musicale di questa band proveniente dalla Pennsylvania, è fatto di sensazioni cosmiche, costantemente avvolte da un alone sinistro, che disegnano un immenso spazio sonoro, decisamente oscuro e minaccioso, ampio e misterioso. La base di partenza è il noise e l'ambient dronico, sfregiati da lunghe e laceranti digressioni doom, death e black metal, in un infinito viaggio psicologico verso i meandri più oscuri della percezione umana. 'Nightmares Devour the Waking World: Phase I + Phase II' è un disco non di facile approccio e volutamente ostile al pubblico, che si rivela come un alternarsi di umori gelidi che generano suoni contorti, vortici capaci di introdurre chi ascolta, verso universi paralleli assai intriganti. L'amalgama sonora è in perfetta sincronia con un'ispirata vena compositiva, che in questo genere deve far da padrona o si rischia la caduta nell'inascoltabile o nel già sentito, e devo dire che in questa versione estesa dell'album (ricordo che la prima parte, Phase I, era uscita l'anno scorso), l'opera si compie a dovere, e per l'ascoltatore già iniziato a questo genere, la scoperta di questo disco (edito dall'Aesthetic Death), risulterà un'ottima sorpresa. Brani dagli intro apocalittici, colonne sonore noir che rasentano uno stile cinematografico in continua evoluzione, dove l'unico colore che emerge è il nero, ecco come si palesa il disco. La voce è inghiottita dal rumore, il distorto veglia su tutto e fa da padrone nel mood dell'intero lunghissimo lavoro (oltre 80 minuti), proiettando il suono verso lidi estremi di post metal di difficile collocazione ma con retaggi, per certi aspetti classici, che vengono ampliati, appunto, dall'uso di suoni strettamente lisergici e psichedelici, qui riadattati all'umore cupissimo della band. In tal contesto, non si può dimenticare il vistoso lato industrial dei Rot Coven, che è molto radicato nel DNA della band, cosa che, unita al maniacale piacere verso suoni distorti e riverberati, costituisce l'essenza del sound di quest'album. Paesaggi siderali costruiti per mettere a dura prova la resistenza psichica e una forte sensazione di disagio psicologico, sono le armi che vengono utilizzate nei solchi di questi brani apocalittici, accompagnati da un senso di caduta costante e tangibile. Non è di facile approccio, come detto in precedenza, ma questo disco, ascoltato nella totalità dei due album, è veramente un'esperienza da provare, ed è inutile smembrarlo per trovarne pregi o difetti tecnico-stilistici, poiché l'ideale è assimilarlo nella sua interezza, lasciandosi trasportare dalla sua fredda corrente. Buon viaggio nella parte più nascosta e oscura della vostra mente. (Bob Stoner)

venerdì 11 ottobre 2024

Doortri - Eeeeels

#PER CHI AMA: Noise Rock Sperimentale
Un album complicato, un album difficile, figlio di una visione ampia e trasversale, disomogeneo, un disco differente. Il secondo disco dei Doortri, cambia le coordinate musicali che li avevano contraddistinti nell'album di debutto (opera sonora di denuncia contro l'inquinamento dei PFAS nella regione Veneto), optando qui per una veste più sperimentale, senza regole, un suono sfuggente a tutte le categorie, fatto di rumori, urla, jazz sperimentale, noise, sussulti punk e hip hop atipico. 'Eeeeels' è una specie di concept diviso in varie tappe, che contengono brani molto diversi tra loro, i quali portano ancora i segni del disco precedente, con tracce della no wave nel segno di James Chance and the Contortions, ma di cui perdono l'urgenza sonora per approdare a un sound ricercato nei meandri del mondo noise più ortodosso, sacrificando parte del sax e di quella batteria così sanguigna, in favore di voci, cantati distorti e non, e tanti rumori sparsi qua e là, come tanti fiori in un prato. Il suono è in generale astratto, in cui vive un'aggressività sofisticata, e spesso, gli esperimenti diventano cerebrali, a volte schegge impazzite, al limite della follia. La batteria spesso suona effettata, come in certi esperimenti solisti di Big Paul Ferguson, in taluni casi si sentono eterei profumi kraut rock, ipnotici richiami tribali ("Filasteen Hurra", con ospite alla voce Ghufran Alkhalili), persino echi etnici e di certo crudo e pesante acid jazz anni '90 ("Jelly Belly"). "Untilted (Untitled)" suona folle e rumorosa (anche senza chitarre distorte), tanto che non sfigurerebbe a un'edizione dell' Obscene Festival; "Monkey Christ" sembra un retaggio dei punk inglesi Crass, con jingle stile carica delle giacche azzurre nei film di Rin Tin Tin, mentre la lunghissima "Sleeeee", funge da portabandiera del cambiamento sonoro attuale della band, dove l'effetto Zorn è calpestato da una batteria pressante e da una sequenza di rumori, synth, interferenze e distorsioni, che impediscono al sax di emergere, riportando alla memoria le oblique teorie musicali dei God nel brano "Love". I Doortri sono una band formata dal percussionista Gianpaolo Mattiello, fiati e programming di Tiziano Pellizzari, e dai rumori vari ottenuti anche dalle frequenze di una vecchia radio portatile usata praticamente come synth non convenzionale da Geoffrey Copplestone, che si occupa anche alle parti vocali, utilizzate sempre ad effetto, ma in quantità contenuta. Inoltre, in questo album la band ha voluto fortemente ampliare la rosa sonora introducendo i già citati synth e parti campionate pre-registrate, rumori d'ambiente, voci e quanto altro gli girava per la testa, utilizzando tanti arnesi che provocano rumori e fruscii. Mixati dalla leggenda Elliot Sharp, che ha suonato anche la chitarra sul brano finale "Sleeeee", l'album è uscito sotto le ali della Zoar Records, l'etichetta newyorkese, appunto di Mr. Sharp. Un disco che ha molte facce e si diversifica continuamente, dove molti brani oscillano tra poco più di uno-due minuti fino a un massimo di ventidue (!), sottolineando così la sua veste surreale. A volte si ha l'impressione di essere di fronte a un disco di elettronica stile Autechre, ma subito si viene smentiti, mentre a un ascolto approfondito, ci si accorge che tutto è suonato veramente da musicisti sperimentatori che rumoreggiano con arnesi di fortuna, coperchi di latta, campanelli e molto altro, uniti a strumenti musicali acustici ed "Eeeeels" è la prova concreta, e forse il brano che più di tutti, richiama nel suo sound, quel pizzico di mondo alternativo proveniente dalla Grande Mela, intrinseco da sempre nella musica del trio vicentino. La conclusiva "Greyhound Bus", è un jingle dal ritmo country folk per un carosello dal finale ambient, suonato in piena regola. Questo disco è un gran bel traguardo, qualcosa che guarda oltre, qualcosa di processato, pensato e distillato in studio nota dopo nota, rumore dopo rumore, ritmo dopo ritmo. Jazz non jazz, sense non sense music, rumoristica, no wave, uno Zorn scarnificato fino all'osso, pillole di musica alternativa per intellettuali amanti dei suoni inusuali e multi direzionali. Ecco, il nuovo mondo dei Doortri è servito. (Bob Stoner)

giovedì 3 ottobre 2024

O.N.O.B. - Viva! Underground (retrospettiva sotterranea)

#PER CHI AMA: Alternative Rock
È successo di nuovo. Lo stravagante collettivo veronese dell'associazione culturale Teuta Gwened, è tornato sotto nuove spoglie. Un po' alla stregua dei Thee Maldoror Kollective, che a ogni album modificavano il proprio moniker, anche i nostri, che includono peraltro il buon Bob Stoner, si presentano sulla scena con differenti sembianze: Cardiac, Agatha, De La Croix, giusto per fare alcuni nomi delle varie incarnazioni, e oggi sotto questo intrigante acronimo, O​.​N​.​O​.​B. (Onirica Notturna Ostentazione di Bellezza), pronti a sfornare un nuovo lavoro, 'Viva! Underground'. Il disco consta di otto tracce che nascono ai tempi dello scioglimento dei Cardiac, e da lì ripartono sfoggiando suoni sperimentali, che si palesano sin dall'iniziale "Torture", song dotata di un riffing impastato su cui poggia un parlato quasi indecifrabile. Tutto assai normale direi, almeno fino a quando il ritmo viene alterato dal diafano poetico cantato di Betty che mi ipnotizza con le sue parole "...il tempo fa tic tac..." che si imprime nella mia testa e da lì non è più voluto uscire. La ritmica non è certo delle più raffinate, buono il lavoro di basso in sottofondo, ma ecco nulla di memorabile, perchè tutta la mia attenzione si focalizza sulla seducente ma al contempo sgangherata, voce della frontwoman, una sorta di italica Julie Christmas, forse meno rabbiosa della vocalist americana, ma sicuramente dotata di una buona dose di personalità. Con "La Madre, l'Inaspettato e l'Apocalisse, il sound dei nostri sterza verso sonorità più garage rock punk, coadiuvate peraltro da una porzione vocale decisamente più accessibile, un peccato, visto che ho adorato la prova della cantante nell'opening track. Il brano è dotato di una buona carica di groove, la voce di Betty è si qui calda ma le mie aspettative forse si erano troppo elevate. Con "Contessa" ci imbattiamo nella prima cover del disco, che ci riporta al 1980, quando quei Decibel, guidati da Enrico Ruggeri, la proposero al Festival di Sanremo. Il pezzo, riletto in chiave più moderna (e molto meno beat nel comparto tastieristico), mostra quella ripetitività marziale tipica della musica italiana di fine anni '70, dando sempre comunque rilievo alla vocalità della brava cantante e a un brano che vede una brusca accelerazione nel finale. Con "Destino" si torna a esplorare territori oscuri di punk sperimentale: buona la ritmica (ma tenete presente che la produzione Lo-Fi ne penalizza notevolmente l'acustica) che esalta costantemente la pulsione del basso, a discapito delle chitarre; eccellente ancora una volta la prova vocale, che sembra tenere a galla le velleità artistico-sperimentali degli O.N.O.B. "Anima Sbagliata" è un mattone di oltre 10 minuti che ci trascina in ambientazioni da film horror, che per certi versi mi hanno evocato alcune cose proprio di quei Thee Maldoror Kollective che avevamo citato inizialmente e del loro ultimo 'Knownothingism', complice la voce irrazionalmente espressiva della frontwoman, che ci accompagna fino a un certo punto, prima di abbandonarci in sonorità lisergico-catartiche davvero ispirate, che sfoceranno addirittura in un assolo dalle tinte psych rock. Il disco ha ancora modo di offrirci altre piccole chicche: dal noise rock di "Agli Occhi degli Uomini" alla più sghemba "Ombre", che chiuderà il disco, passando attraverso la seconda cover del disco, la più normale e rockeggiante "Diversa", a firma The Underground Frogs. Un disco quello degli O.N.O.B., in grado di esaltare la filosofia del DIY e farci potenzialmente ampliare nuovi confini della nostra mente. (Francesco Scarci)

martedì 24 settembre 2024

Cabal - Magno Interitus Rework

#PER CHI AMA: Death/EBM/Industrial
I danesi Cabal hanno fatto uscire nel 2022 'Magno Interitus', un disco all'insegna di un death black, impreziosito da venature djent/hardcore. A distanza di due anni da quel lavoro, la band di Copenaghen torna con un EP, 'Reworks', che include quattro pezzi di quel lavoro, riletti in chiave elettro industriale dai talentuosi artisti elettronici Inhuman, John Cxnnor, Misstiq e il bassista della band, Johu. Ecco, quello che ne viene fuori è qualcosa di notevole, ma solo se siete di mente aperta e apprezzate le contaminazioni in toto in stile dei messicani Hocico e il loro EBM da discoteca. Si perchè quello che si palesa alle nostre orecchie è un sound intriso di musica techno che esplode veemente nei suoi battiti per minuto, quasi ci trovassimo in un rave party dove ballare tutta la notte su ritmi danzerecci. Quello che tiene la proposta ancorata al metal sono forse le vocals, rancide e rabbiose quanto basta. Questo almeno quanto ascoltiamo in "Magno Interitus", visto che già dalla successiva "Plague Bringer", gli ancoraggi alla musica estrema saranno molto più evidenti, sia a livello vocale (imponente il growling del frontman) che musicale, con una ritmica devastante, infettata da qualche effettistica elettronica giusto qua e là, cosi come qualche voce pulita estraniante il contesto. Il risultato però è figo anche laddove i nostri sfondano la barriera del death doom. Ma con "If I Hang, Let me Swing", le cose tornano a pompare pericolosamente in ambito techno hardcore con un quantitativo di bpm davvero sopra le righe, e vocalizzi growl che poggiano appieno sull'impetuoso tappeto ritmico. Ancor più folle la conclusiva "Exit Wound", che ci proietta in mezzo alla pista da ballo, con suoni sintetici in sottofondo, voci aliene, partiture industriali e tanto tanto altro ancora che vi invito ad ascoltare con le vostre orecchie. (Francesco Scarci)
 
(Nuclear Blast - 2024)
Voto: 75
 

venerdì 20 settembre 2024

Scarcity – The Promise of Rain

#PER CHI AMA: Noise/Black
L'ultima opera dei newyorkesi Scarcity, è qualcosa che va oltre le mie aspettative. D'altra parte, sarebbe stupido pensare che colui che ha preso in mano le redini del progetto Glenn Branca Ensemble, dopo la scomparsa nel 2018 del suo fondatore, non riflettesse, nella musica della propria band personale proprio gli insegnamenti del grande compositore Glenn Branca. Brandon Randall Mayers è membro del G.B.E. dal 2016, e con i suoi Scarcity, ha voluto proprio sconfinare e travisare le regole del metal, fondendole con l'avanguardia delle sinfonie di Branca. Il disco si apre con "In the Basin of Alkaline Grief", un capolavoro violentissimo di noise metal, no wave e postcore della Grande Mela, un brano spettacolare ed emblematico, quanto punto focale di quest'album, anche per il metodo di registrazione usato qui e in tutto il resto dell'opera (vedi anche "Scorched Vision" e "Undertow"). La scelta stratificata del muro sonoro è assai ricercata con l'effetto prorompente e rumoroso dell'impatto emesso, in realtà, da suoni che non intendono far insensato frastuono ma rumore clinicamente programmato e mirato. E ancora, le chitarre te le trovi puntate in faccia a dismisura, in una sorta di tortura sonica simile a un allarme isterico; la batteria in sottofondo esce da un piano interrato, per mostrare quanto si può elaborare una partitura ritmica in un brano esasperante, senza risultare ripetitiva e banale, con in più, reminiscenze jazz al suo interno. Infine il basso che, come un serpente impazzito, sfugge alle trame del brano, lavorando in una terra di mezzo per far uscire il suo valore reale. Poi, una parziale pausa al terzo minuto (ma non per le chitarre costantemente in fase di allarme) mette in risalto uno screaming che acquista un senso ben lontano dal solito grido in salsa black metal, con un bridge che non passa certo inosservato. Questo disco è strabiliante per effetto sonoro, da ascoltare in cuffia o ad alto volume, incurante del suo status di terrificante manifesto rumoroso, un campo di battaglia dove melodia, distorsione, tecnica, cacofonia e dissonanza, si fondono assieme, come se il pionieristico spirito di Glenn Branca rivivesse tra il caos di 'Evolution Through the Revolution' dei Brutal Truth, l'umore nero degli Swans di 'The Seer', e le cose più underground prodotte dai Sonic Youth, e tanto spirito No New York. Brano dopo brano, ci si innamora di questo sound corrosivo, emotivamente compromesso, che a ogni passaggio vuole esprimere creatività, una creatività estrema, illuminata e viva. Qui tutto è tensione, è un sound parallelo al canone costituito del solito metal estremo, che porta al suo interno lo spirito più duro e sperimentale della Grande Mela. Un'esperienza sonora che lascia grande soddisfazione, raccomandata e tutta da provare. (Bob Stoner)
 
(The Flenser - 2024)
Voto: 85
 

lunedì 2 settembre 2024

Mekigah - To Hold Onto A Heartless Heart

#PER CHI AMA: Drone/Ambient/Experimental
Ho recensito tutti gli album degli australiani Mekigah, seguendo da vicino l'evoluzione sonora di Vis Ortis, partendo dagli esordi dark gothic di 'The Serpent's Kiss', attraversando la fase death doom, fino ad arrivare alle ultime derive dronico-avanguardistiche dell'ultimo uscito 'Autexousious'. Un percorso assai complesso quello del mastermind di Melbourne, che con questo 'To Hold Onto a Heartless Heart', taglia il traguardo del quinto album. Una miscela sonora quella contenuta nelle sei tracce di questa release, come sempre parecchio ostica da digerire, che si dipana dalle atmosfere sinistre della lunghissima song posta in apertura. "Collapsing Under" dura infatti oltre 14 minuti, costituiti da suoni complessi, infausti e disomogenei, che spaziano con una certa disinvoltura dal drone all'ambient, passando per suoni tribali, noise, funeral e quant'altro di sperimentale possiate immaginare, il tutto accompagnato da un cantato in screaming in sottofondo, che evoca riti sciamanici o litaniche possessioni. Come immaginavo, nulla di quanto ascolterete qui è di facile ascolto, nemmeno la seconda "Broken Rhythm Pressure", che sembra debuttare più teneramente rispetto all'opener, ma presto si immerge in sonorità orrorifiche, affidandosi a suoni stralunati, vocals ingarbugliate, atmosfere tra il rarefatto e il rumoristico, e consegnandoci di fatto, un altro brano assai malato e angosciante, che richiede una grande fermezza d'animo per essere affrontato e non rischiare la pazzia. Se poi siete degli audaci, beh, allora potrete continuare a vivere il delirio musicale servito dal factotum australiano, passando attraverso la sghemba e alienante "Away Drifting From", più easy-listening delle precedenti, ma non per questo, di meno complicato ascolto. Le atmosfere continuano a mantenere contorni agghiaccianti, complice lo stridolio vocale del frontman e un incedere apocalittico che permea il disco nella sua interezza. Un cantico sirenesco sembrerà ammaliarvi nella più breve "An Infinitesimal Difference", ma fate attenzione a lasciarvi sedurre da quei suoi quasi gentili suoni, che lasceranno ben presto il posto alla marziale glacialità della sua coda noisy che sfocerà nelle derive infernali di "It Hisses So", un brano che potrebbe mischiare l'approccio danzereccio degli Hocico con la depravazione sonora degli Aevangelist, ma rallentato e amplificato rispetto alla violenta furia della band finlandese. Chi avrà la forza di arrivare sino in fondo, troverà "Eyes Glazed Over", l'ultima strenua prova di sopravvivenza offerta da quest'album; già vi avverto che non sarà affatto semplice, data la natura ipnotica, stridente e dissonante del brano che potrebbe condurre definitivamente alla follia. Pensavo che l'effetto sorpresa si fosse esaurito, ma mi sbagliavo, il buon Vis Ortis ha ancora molto da offrire. (Francesco Scarci)

mercoledì 28 agosto 2024

Eventide - Waterline

#PER CHI AMA: Experimental Sounds
Gli Eventide sono una costola che si è staccata del gruppo francese degli Epitaphe, o come da loro stessa ammissione, un'evoluzione sonora verso altri lidi musicali, territori che con la band madre non potevano essere evidentemente raggiunti, visto il genere prog, doom, atmospheric black metal trattato. Qui siamo di fronte a una naturale svolta verso l'ambient, il drone, con aperture al dark/jazz e una palese attitudine compositiva che ama le lunghe distanze, come se i brani fossero piccole colonne sonore. Si toglie spazio al ritmo, le chitarre diventano eteree, lisergiche, in funzione della ricerca atmosferica, in un'esplorazione che si avvale anche dell'aspetto sperimentale del jazz, e del suono del sax, che si mette sempre in buona luce in contesti simili. I 15 minuti di "Eventide", si aprono con aria mistico/ipnotica di casa Brendan Perry, con un cantato ancestrale (che è peraltro l'unico presente nell'album), per diventare in seguito un omaggio alle soundtrack degli Ulver, e alle lunghe sperimentazioni e libere improvvisazioni d'insieme. Si muove come una lunga intro dal suono d'ambiente, misteriosa e intensa. Il brano successivo, la titletrack "Waterline", l'unica a esser stata registrata in studio (il resto è tutto live), spiazza un po' l'ascoltatore con il suo mood virato a certe forme, almeno nella sua prima parte, lounge/ambient/jazz (ma prendete con le pinze questa definizione), e un ingresso di batteria che ricorda alcune cose più orecchiabili, e a mio modesto parere discutibili, sempre degli ultimi Ulver. Un brano che non spinge in realtà così tanto verso la sperimentazione, e che non aggiunge molto al già sentito in questi ambienti, e che sembra altresì adagiato su standard usuali, anche se mostra una buona coda finale. L'arrivo di "Adrift", è la cosa più disattesa, per quello che fin qui la band di Grenoble ci aveva fatto sentire. Si tratta infatti di un pezzo breve, di circa due minuti e mezzo, che si sorregge su note pizzicate di piano e acquisisce, per certi aspetti ipnotici, atmosfere eteree di matrice celtica, create dall'arpa splendida di Alan Stivell, che lo renderanno alla fine magico e assai intrigante, simbolo di una piena e raggiunta maturità compositiva. L'opera si chiude con la lunghissima "Sphere", che parte tra rumori in sordina e un sax in sottofondo, che mi ricorda le cose fatte dai Londinesi Lowering (non gli omonimi newyorkesi) in una versione più noise e underground, affidati però a una veste più ansiogena, strumentale e minimale del Dale Cooper Quartet and the Dictaphones. In definitiva, 'Waterline' si configura come un bel disco, sicuramente di transizione, che apre a un nuovo futuro per questi musicisti, un evidente distacco totale dalle belle cose fatte in passato con gli Epitaphe. Un nuovo tassello che va ad ampliare ulteriormente il già prolifico roster del multi artistico collettivo Eptagon di Grenoble. (Bob Stoner)

venerdì 26 luglio 2024

Venomous Echoes - Split Formations and Infinite Mania

#PER CHI AMA: Black/Death Sperimentale
Ascoltando quest'album, posso dire con certezza assoluta che le strade del metal estremo sono infinite e assai variegate. Ho scoperto di recente questa creatura estrema, e fin dal primo approccio, ne sono rimasto affascinato. La one-man-band del polistrumentista americano, Ben Vanweelden, torna in pista dopo l'ottimo debutto 'Writhing Tomb Amongst the Stars', con un nuovo album, uscito per I, Voidhanger Records, che continua sulle orme del suo predecessore e ne consolida la prolifica vena compositiva. Diciamo subito una cosa, 'Split Formations and Infinite Mania' non è per niente un album metal convenzionale. Al suo interno ci troviamo influenze di varia natura, dal black al suicide metal, dal death al metal d'avanguardia, e il noise, che è una componente molto importante per definire il concetto contorto, rumoroso e inquieto, di questa proposta musicale. Il disco nasconde sicuramente una forte vena oscura di avantgarde black metal ma l'interpretazione vocale e i testi rivolti alla dismorfia corporale e alle sue implicazioni psicologiche, virate tra il cosmico e all'horror, donano un landscape concettuale completamente diverso dalle classiche atmosfere maligne tipiche del black e death metal e, seppur usufruendo dei vari stilemi e crismi artistici, Venomous Echoes, crea un universo personale parallelo, dove certi canoni del genere vengono in parte sovvertiti. Di fronte a un impatto sonoro vicino alla devastazione propinata dai Portal, dove vi si può assaporare anche la vecchia scuola dei Morbid Angel, l'uso esagerato della voce in mille sfumature diverse, con conseguente utilizzo della migliore effettistica di scuola grindcore, fanno la differenza qualitativa di questo album. Penso anche che la quantità enorme di cantato, sempre con connotati drammatico / teatrali esasperati, che occupano un buon 70% delle composizioni, lasci nell'ascoltatore qualcosa di appetibile e facile da apprezzare, un contraltare che sopprime almeno in parte, alla poca presenza di veri e propri assoli di chitarra in stile classico, e alla natura del disco stesso propenso al rumore, cosi come inteso dall'artista americano, come mezzo d'espressione musicale, che qui, trova la sua massima espressione nel devastante brano "Abhoth Multiplied to Thy Millennium". Troviamo anche sparse qua e là, chitarre malate, malatissime, ed è il caso del pezzo che chiude il disco e che gli dona il titolo, "Split Formations and Infinite Mania", una vera e propria (s)tortura sonora con aspetti melodici multipli, degni di un vero film horror. Non mancano poi momenti oscuri e molto dark-oriented, come in "Miscreated Pustules", dove dopo appena un minuto circa di infuocato death/black, ci si imbatte in un jingle psicologicamente pericoloso, guidato da un basso spettrale, per poi tornare sulla via maestra. "For Thy Avant-void ha una cadenza rarefatta e i suoi suoni futuristi, stravolgono e spiazzano l'ascoltatore, trasportandolo nel finale verso le desolate terre del doom più decadente. Il metal estremo visto con gli occhi di un visionario cosmico, con una propensione all'horror psicologico, che non lascia nulla per scontato, dalla tipologia dei suoni usati, alla cura maniacale della voce, una splendida voce distorta. Un disco di sostanza che non punta mai sulla tecnica fine a se stessa, ma semmai gioca sulle atmosfere e sul piacere che porta una buona composizione nel suo insieme. La ricerca dell'impatto emotivo come fondamenta sonoro su cui orchestrare il resto, scalza il concetto del solo impatto ritmico/sonoro tipico del metal. Come se parlassimo di un'opera teatrale o cinematografica con effetti paralizzanti, focalizzati ad ammaliare la persona con una vena psicotica e oscura. Un disco che prosegue il cammino di un artista-sperimentatore, un disco che lo evolve ulteriormente, senza mai cadere nel calderone della banalità. Un album insano, terribilmente bello, straripante nella sua capacità espressiva. (Bob Stoner)

mercoledì 24 luglio 2024

LLNN/Sugar Horse - The Horror/Sleep Paralysis Demon EP

#PER CHI AMA: Sludge/Experimental
Una volta si facevano gli split album, oggi il minimalismo sonoro è arrivato addirittura a uno split 7": una canzone per uno quindi, cosi che i danesi LLNN e gli inglesi Sugar Horse, sono accontentati, e con loro, tutti i fan delle due band targate Pelagic Records. Si parte con gli LLNN e la loro "The Horror", un trip sonico all'insegna di un sound ambient-ritualistico, che riesce a sfociare in sonorità che parafrasano il titolo del brano, cosi orrorifiche e angoscianti, con l'arcigna voce affidata a Martin Skou guerriero live dei folksters Heilung. La proposta è davvero intrigante, con un sonicscape electro-industrialoide inquietante al massimo, affidato a suoni freddi e sintetici. Quando arriva la band di Bristol, è quasi un toccasana per le mie orecchi, vista una proposta qui virante a un post punk dissonante. Ecco infatti come si presenta "Sleep Paralysis Demon" sin dalle sue strambe e oblique note introduttive, con una voce pulita che lascerà presto il posto a lancinanti grida hardcore e al ringhiare delle chitarre, che arrivano a sprofondare successivamente nei meandri di uno sludge melmoso e altrettanto sghembo e disturbante, che proverà a insediare quei pochi neuroni residui del mio cervello. Anche qui la proposta è piuttosto particolare e alla fine devo ammettere, che avrei voluto ascoltare di più di entrambe le band. Speriamo pertanto che questo 7" sia il giusto antipasto per una portata di ben altra consistenza. (Francesco Scarci)

Zeal & Ardor - Hide in Shade

#PER CHI AMA: Avantgarde
In attesa di ascoltare il nuovo disco 'Grief', atteso per fine d'agosto, gli svizzero-statunitensi Zeal & Ardor ci danno in pasto un breve aperitivo, l'EP 'Hide in Shade'. Quattro pezzi, che saranno inclusi nell'imminente full length, utili per capire se la direzione stilistica della particolare band di stanza ora a New York, sia sempre quel connubio, da sempre vincente, di sonorità estreme unite a influenze afro-americane. E la title track (di cui è uscito anche un visualizer) posta in apertura, non fa altro che confermare l'attitudine avanguardista dell'ensemble, miscelando ritmiche estreme affiancate dal growling del frontman e partiture più morbide, con voci pulite e cori di chiara derivazione folk/gospel, con tanto di battito di mani a tenere il tempo. A me la proposta di Manuel Gagneux piace, per quanto mostri una vena un po' paracula e forse, stia un po' perdendo del cosiddetto effetto sorpresa. Tuttavia, i brani scorrono via veloci, pregni di ottime melodie, tanta ruffianeria (e "Fend You Off" potrebbe essere un esempio emblematico, comunque estremamente gradevole nella sua progressione, tra influenze alternative e di Devin Townsend memoria), una spettacolare performance canora, da sempre punto di forza del progetto, stralunate e angosciantissime derive sperimentali ("Clawing Out"), e una componente intimista ben accentuata, soprattutto nella conclusiva "To My Ilk". Insomma, un più che discreto antipastino, che però ora mi ha messo addosso una gran fame. (Francesco Scarci)

(Self - 2024)
Voto: 70

https://www.facebook.com/zealandardor/

lunedì 8 luglio 2024

Manes - Slow Motion Death Sequence Remixed

#PER CHI AMA: Avantgarde
Abbiamo appena recensito il nuovo EP 'Pathei Mathos' e la Aftermath Music ci ha sorpreso con un altro regalo: il remix del precedente album 'Slow Motion Death Sequence', realizzato da una brillante serie di ospiti di alto livello. Così, uno degli album più geniali della discografia dei norvegesi Manes, insieme a 'Vilosophe', è stato riproposto in una versione che sembra un disco completamente nuovo. Le danze si aprono con "Endetidstegn", uno dei brani più significativi dell'album. Il remix eseguito dai nostrani Aborym non mostra grandi differenze rispetto all'originale; tuttavia si nota una maggiore pulizia dei suoni, riducendo l'eccessiva ridondanza dei campionamenti elettronici presenti nella versione originale. La seconda traccia, "Building the Ship of Theseus", è stata notevolmente modificata dagli And Then You Die, che enfatizzano la voce dell'eterea cantante presente nella versione precedente e introducono un cantante dallo stile più stralunato, seppur in un contesto che sembra aver perso la magia dell'originale. La complessa "Night Vision" è stata reinterpretata dai francesi Område in modo sicuramente libero e avanguardistico, ma presenta alcune ombre a livello vocale, con una performance ovattata e penalizzante. La seconda metà della traccia è stata completamente stravolta, con un susseguirsi di suoni cacofonici al limite dello sconclusionato, ma considerando gli interpreti coinvolti, era forse ciò che ci si poteva aspettare. "Endetidstegn" è stata nuovamente proposta da Jørgen Mayer in una forma più pop, ma con un'effettistica più secca e diretta, che nella seconda metà virano addirittura verso sonorità electro-dance. Prossima è "Scion", originariamente collocata in seconda posizione nell'album originale e reinterpretata dai finlandesi Throes of Dawn, che modificano immediatamente la parte vocale introducendo una voce femminile in una versione languida e quasi ambient, ma che colpisce per le linee di chitarra reminiscenti i Pink Floyd, presenti nella seconda metà. Tuttavia, la voce di Cernunnos nell'originale è un piacere per l'udito, dotata di una timbrica unica e riconoscibile, mentre nella nuova versione, la voce tende a perdersi. "Chemical Heritage", nelle mani di Fluffybunnyfeet, viene presentata in una nuova e più accelerata veste dance degli anni '80, che sinceramente non mi ha entusiasmato particolarmente, sebbene si possa apprezzarne il tentativo ambizioso. La malinconica "Last Resort" è stata reinterpretata dal musicista norvegese Kristoffer Oustad in una dilatata e minimalista veste dronica, privata della duplice componente vocale presente nella versione originale. Infine, l'ultima traccia "Poison Enough for Everyone" è stata riproposta dagli stessi Manes in una versione completamente diversa, arricchita da una forte componente elettronica (compresa una voce robotica) che accentua il lato psichedelico del brano, ma privandola della parte angosciante che costituiva l'essenza della traccia originale. In conclusione, consiglierei questo remix a chi è alla ricerca di sonorità originali provenienti da una delle band che hanno maggiormente influenzato il panorama musicale estremo. (Francesco Scarci, Silvia Parri)

(Aftermath Music - 2024)
Voto: 70

https://www.facebook.com/manes.no

martedì 2 luglio 2024

Manes - Pathei Mathos

#PER CHI AMA: Avantgarde
C'erano una volta i Manes, quelli del mitico 'Under Ein Blodraud Maane', fautori di un black metal estremo sperimentale, che forse mai si era sentito prima del 1999. Poi vennero altri album ancor più stravaganti, di cui lo splendido 'Vilosophe', rimane probabilmente la pietra miliare della band norvegese, guidata fin dagli esordi da Tor-Helge Skei (aka Cernunnus). Poi è successo un gran casino, fatto di molteplici scioglimenti, compilation, direzioni avantgarde-jazzistiche intraprese, creazioni di band parallele (i Manii) e io, francamente, non ci ho capito più nulla. Oggi i Manes ritornano con un EP nuovo di zecca, 'Pathei Mathos', che presenta quattro brani e rivela una band ulteriormente trasformata nella sua pelle. Questa volta, l'act di Trondheim si avventura nella creazione di pezzi dal tono morbido, atmosferico e quasi psichedelico, con la voce di Marita Hellem che s'inserisce in una cornice ambientale che evoca i primi The Third and the Mortal, arricchita però qui da una sofisticata componente elettronica che impreziosisce gli arrangiamenti e il pathos dei brani. Dalle note seducenti di "Submerged" (il primo singolo estratto) si passa a "Fallen", ancora più coinvolgente, creando una sensazione di fluttuare in uno spazio-tempo senza confini definiti, in un'atmosfera estremamente onirica e dilatata che lascia un senso di torpore lisergico. Gli intrecci di synth all'inizio di "A Vessel for Change" non fanno altro che disorientare, rendendo l'ascolto di "Pathei Mathos" un'esperienza magica e inaspettata, sostenuta da una performance vocale eterea sempre impeccabile, che si fonde ancor meglio con la struttura sonora impartita nella seconda metà del brano. Ultima perla affidata a "End of the River" e a un suono che si fa qui angosciante, vibrante, emozionante, potente, vario, oscuro, malinconico, e forse potrei continuare a lungo per descrivere le contrastanti sensazioni che un lavoro come questo, potrebbero indurre anche nelle vostre anime dannate. (Francesco Scarci)

(Aftermath Music - 2024)
Voto: 76

https://manes.no/

domenica 23 giugno 2024

Tlön - Through Nebulous Scars

#PER CHI AMA: Avantgarde Black
C'è un tocco perverso nelle note di questo 'Through Nebulous Scars', atto primo degli scozzesi Tlön. Continua il nostro rastrellamento nell'underground boschivo, che quest'oggi ci porta a esplorare il nuovo delirante progetto di due membri degli Ashenspire, e già da qui dovremmo intuire il deragliamento musicale che ci attenderà in questo EP di debutto. Tre pezzi per oltre 20 minuti di musica estrema, un post black avanguardista che strizza l'occhiolino alla band madre di B.B. e G.C., senza poi contare che tra le fila della band, ci sono anche due membri degli Sluagh, e il macello è presto fatto. Che aspettarsi quindi? Ritmiche sbalestrate sin dall'iniziale "Shattered Mirrors", prese in prestito da un post black sinistro, che tuttavia mette in scena un drumming veemente, serrato, a tratti schizoide, che ben si amalgama in un generale contesto spigoloso, corredato da grim vocals e intricati giri di chitarra che ahimè non sfociano mai in pungenti assoli. Il delirio prosegue nella successiva "Where Sanity Crumbles", meno isterica della precedente, ma non per questo meno stralunata, complici inusitate linee melodiche e una densità musicale che sembra mai scemare, anche laddove le ritmiche rallentano pericolosamente, anzi. Qui, i giri di chitarra assumono i connotati di assoli, che sfociano in territori jazzistici, parecchio ostici da assimilare, ma che dimostrano la voglia dei Tlön di non suonare banali e non confondersi nell'esagerata accozzaglia di band che popola oggi la scena estrema. Quindi, provate anche voi a lasciarvi andare, a vincere i timori dettati inizialmente da una proposta sicuramente fuori dai canoni sonori e farvi guidare verso quel pianeta immaginario, Tlön appunto, narrato dallo scrittore argentino J. L. Borges nel 1940. Forse scoprirete un nuovo mondo, ma nel frattempo, lasciatevi sedurre dalle insane, cupe e minacciose atmosfere della title track, che chiude con un concentrato di cacofoniche chitarre black psichedeliche da mandarvi diritti al manicomio. Insomma, 'Through Nebulous Scars' è un interessante dischetto, da maneggiare assolutamente con estrema cautela. (Francesco Scarci)

domenica 16 giugno 2024

Maldoror - In Saturn Mystique

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine  
#PER CHI AMA: Symph Black
'In Saturn Mystique' è il secondo album per la band torinese. Per chi non li conoscesse, i Maldoror hanno esordito con 'Ars Magika' nel’98 per l’Alkaid Records, che li ha da subito fatti conoscere e apprezzare per un’originalità e freschezza di suoni invidiabile. Il loro sound è da inquadrare in un black sinfonico, cupo, teatrale e occulto, con brani molto spesso suonati a velocità sostenute. Rispetto al debut album, troviamo qui delle differenze che si rendono evidenti sin dalle prime battute e si possono riassumere in una registrazione nel complesso più potente e nitida, e le tastiere che, pur riprendendo le atmosfere oscure e misteriose del passato, vengono impreziosite da suoni prettamente elettronici e astrali. Molti dicono che in Italia i gruppi non abbiano fantasia o siano succubi di sonorità estere, beh, con i Maldoror (e quello che ne è stato dopo, nelle sue molteplici reincarnazioni, Textbook Of Modern Karate o Thee Maldoror Kollective) questo rischio non si corre minimamente. Io penso che il loro punto di forza risieda nell’uso coinvolgente e prezioso delle tastiere, unito a un riffing di chitarra melodico e frenetico e a uno screaming pazzesco, che li caratterizza e li rende riconoscibili. Brani top: "E.O.N. Mysterium", "Osiris Elettro Mantrum" e i sedici minuti di "Quinto Arcano".
 
(Northern Darkness Records/Rude Awakening Records - 2000/2017)
Voto: 80
 

martedì 14 maggio 2024

Pinhdar – A Sparkle in the Dark Water

#PER CHI AMA: Dark Wave/Alternative
Ascoltare questo disco mi ha posto di fronte a un bel quesito. Può esistere di fatto, una linea di contatto sonora tra Portishead, Kirlian Camera e Chelsea Wolfe? Cosi ho provato a estraniarmi, come da modus operandi del Pozzo dei Dannati, da tutto quello che ho trovato in rete, come il fatto che la band milanese abbia collaborato in precedenza con Howie B (uno che ha lavorato con U2 e Bjork, giusto per citarne un paio/ndr), che abbia registrato in UK e che l'autore della copertina sia il fondatore dei Gallon Drunk, e ho cominciato a sezionare quest'opera senza farmi troppo influenzare da altre varianti. Il disco si muove costantemente attraverso atmosfere sospese, fluttuanti, ma toccate da una malinconia astratta, elevata, quasi ossessiva, ritmi lenti ed essenziali, uniti a una cura peculiare dei suoni. In generale, l'effetto ci porta sulla strada dei Portishead ("Murderers Of A Dying God") anche se i Pinhdar hanno un suono più freddo e tagliente, usano l'elettronica in maniera più vicina alla dark wave, e questo li avvicina molto, agli ultimi lavori della band di Elena Alice Fossi ("In the Woods"), anche se è la voce che crea i rimandi più suggestivi e porta sempre l'ascoltatore verso una piacevole catarsi uditiva, parecchio coinvolgente. La voce della cantante Cecilia Miradoli è prioritaria e non delude mai, intensa ed emotivamente viva, mostra le sue potenzialità brano dopo brano, instaurando un perenne duello con il passo lento e ipnotico di una chitarra eterea e notturna, sulla scia di "Nightvision" di Hugo Race, che riesce a mantenere comunque, pur trattandosi di musica elettronica, un ottimo contatto con il mondo del rock. Il fatto di rinchiuderli in un unico calderone chiamato trip hop, lo vedo molto riduttivo, in quanto li trovo anche divisi tra new wave e dark wave ("Cold River"), electro rock psichedelico e freddo alternative rock. Certo, non si fanno mancare attitudini e affinità raccolte dai classici, Massive Attack, Tricky, gli stessi Portishead, e Mandalay ("Humans" o la conclusiva "At the Gates of Down"), ma ripeto sono suggestioni, belle suggestioni, poiché alle composizioni del duo meneghino, manca la componente che rese unico il trip hop, ovvero il lato caldo della black music. È molto attivo invece quel lato sonoro psichedelico e oscuro, che li avvicina di fatto alle atmosfere di Chelsea Wolfe, magari di "The Graim and the Glow", oppure "Pain is Beauty", con una veste più docile, meno folk apocalittico e più elettronica, meno aggressiva e più raffinata ed evanescente. I Pinhdar si spingono molto in alto in quanto a composizione, con l'ambient elettronico di "Solanin" e "Abysses", che portano nell'animo una vena ritmica tribale molto marcata, che peraltro riesce a mostrare concretamente, che la linea di contatto tra Portishead, Kirlian Camera e Chelsea Wolfe, può essere di fatto tracciata, ascoltando questo brano. In sostanza, 'A Sparkle in the Dark Water' è un disco che richiede un'immersione a fondo, per non incorrere a facili resoconti di somiglianza, che potrebbero ingannare al primo ascolto. Musica notturna e riflessiva, atmosfere profonde, attimi di sospensione eterni, infiniti che rendono questa release una delle migliori uscite per una band in continua ricerca e crescita stilistica. Ascolto consigliato. (Bob Stoner)

La Mer - Tetrahedra

#PER CHI AMA: Experimental Black/Alternative
Se doveste iniziare ad ascoltare quest'album, cosi come ho fatto io, le impressioni di primo acchito, potrebbero condurvi a pensare di trovarsi al cospetto di un album rock con venature elettroniche. Una sensazione che dura giusto un paio di giri di orologio nell'iniziale "To the End", prima di essere investiti da un sound più estremo, almeno vocalmente parlando, che comunque mantiene un elevato gusto melodico. Questo perché gli scozzesi La Mer, in questo quinto capitolo della loro discografia intitolato 'Tetrahedra', propongono uno strano connubio di generi. In tutta franchezza devo ammettere che non conoscevo, almeno prima di questo disco, la one-man band di Glasgow, guidata dal buon Jeremi, in arte La Mer, a cui devo riconoscere il fatto di aver rilasciato una coraggiosa release che mi ha piacevolmente colpito. Un lavoro questo, che per certi versi mi ha evocato, per una serie di analogie musicali, i transalpini H.O.P.E. e i nostrani Drastique. Il progetto di Jeremi si muove infatti trasversalmente su coordinate gothic industrial electro rock, che sembrano trarre spunto anche da vari mostri sacri, quali Nine Inch Nails, Type O Negative e The Cure, tanto per citarne qualcuno in ordine sparso. La cosa stravagante è che poi il factotum scozzese ci butta dentro vocalizzi black, qualche bel guizzo estremo che alla fine ben si amalgama con la sperimentale architettura musicale ideata dal mastermind. E cosi ne vengono fuori pezzi azzeccatissimi, e penso all'atmosferica "Patina", all'industrialoide "Last One Out", alla katatonica (si, ci sono echi anche dei godz svedesi) e a tratti più ruvida, "Sunsets". Un concentrato di brani davvero orecchiali che passano anche attraverso le sonorità post punk/cold wave di "Stratch", corredata qui da screaming vocals e un paio di belle accelerate estreme. Audace il buon Jeremi, almeno fino a quando il disco sembra perdere l'effetto sorpresa all'altezza di "Death Dogs" e, quelle trovate che avevano reso il mio ascolto sin qui curioso, vanno lentamente ad appiattirsi nel resto del disco. Ancora degne di nota rimangono comunque la distruttiva "Gallows Hill", in grado di combinare black a suoni alternativi; gli echi dei Katatonia in "Hell Can Wait" (vero masterpiece del disco), mentre la chiusura è affidata a una poco conosciuta (e che non ho particolarmente apprezzato) cover dei polacchi Myslovitz, "Nienawiść", per un tributo finale a una band che probabilmente ha avuto fortuna solo all'interno dei propri confini. In definitiva, 'Tetrahedra' è un album per certi versi, sorprendente, soprattutto considerando l'uscita sotto l'egida della Godz ov War Productions. Un'uscita ardita a cui vi invito di dare più di una possibilità. (Francesco Scarci)

(Godz Ov War Productions/Analög Ragnarök - 2024)

martedì 6 febbraio 2024

NI - Fol Naïs

#PER CHI AMA: Prog Rock
Per capire una band come i francesi NI, bisogna semplicemente fingere di non capirli e assimilarli così come sono e per quello che ci fanno sentire. Mi spiego meglio. Ho letto in rete recensioni che li mettevano in parallelo col mathcore e le opere diversificate di Mike Patton, e il paragone in minima parte ci può anche stare, ma secondo me l'aria che si respira dalle parti della band transalpina è da ricercare altrove, e trova radici molto più indietro nel passato della musica. Se vi capitasse di ascoltare l'evoluzione de "L'Elefante Bianco" degli Area, nell'album "Crac!" del '75, troverete infatti grosse analogie con alcune delle costruzioni sonore dei NI, poiché questa band ha un legame particolare fin dalle sue prime opere con il progressive rock più folle e libero dagli schemi, e qui non posso non citare un loro precedente geniale lavoro qual era 'Les Insurgés de Romilly', e poco importa se in questo nuovo album, fino al brano "Berdic", sembrano aver ascoltato una volta di troppo i The Dillinger Escape Plan o i Psyopus, per cercare di far presa su di un pubblico più vasto con un suono più carico. Il fatto è che la frenesia, la follia, e alcuni stilemi del rock in opposition, erano già nel DNA di questo gruppo ed è bastata una produzione più scura e pesante, dove si riesce a carpire l'essenza buia di lavori come '777 - the Desanctification' dei Blut Aus Nord (anche se qui non stiamo parlando di black metal), per aprire un nuovo fronte per questo combo di gran valore, composto da musicisti di qualità, che sanno esaltare il potere dei suoni dell'avanguardia, restandone caparbiamente e intelligentemente lontani, per cullarsi una loro completa e intoccabile originalità. Vi si trovano anche tracce di free jazz contorto e schizoide ("Chicot", "Rigoletto"), sulla scia di certe composizioni sentite su 'Blixt' del trio Bill Laswell, Raoul Bjorkenheim e Morgan Agren, e per non farsi mancare nulla, anche una tensione sonora tangibile di band come gli oramai dimenticati ma mitici Jesus Lizard. Nella triade di "Triboulet part 1, 2 e 3" si sente tutto il legame con gli album precedenti con le loro evoluzioni sofisticate ma aperti anche a momenti di atmosfera, che poco si lasciano apparentare con il mathcore o il metal, ritornando a parlare di vero e proprio prog d'avanguardia di casa Zorn. Pur trattandosi di musica rumorosa e distorta, vi trovo anche una bella attitudine nel plasmare la materia prog alla maniera degli Universe Zero, ovviamente con le dovute distanze dal gruppo belga. Mi permetto di dire anche che i NI possono avere un retaggio futurista alla Meshuggah, come citato dal press kit di presentazione del disco, ma a mio avviso non li percepisco assolutamente freddi e chirurgici come i colleghi svedesi anzi, per essere prevalentemente strumentali, suonano caldi, avvolgenti ed espressivi, e mostrano un'aggressività più devota all'arte dell'immaginario astratto che alla rabbia o alla tecnica in sè. Penso si sia capito che questa loro nuova opera è uno dei migliori album del 2023 per il sottoscritto, copertina superba come sempre d'altronde, una grande produzione, musicisti in splendida forma esecutiva e compositiva, un'ottima uscita per la instancabile Dur et Doux, un disco immancabile nella vostra bacheca dell'avanguardia. (Bob Stoner)
 
(Dur et Doux - 2023)
Voto: 80