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venerdì 14 febbraio 2020

Palmer Generator/The Great Saunites - PGTGS

#PER CHI AMA: Psych/Kraut Rock
Un anno e mezzo fa mi ero preso la briga di recensire 'Natura' dei Palmer Generator. Oggi ritrovo i nostri in compagnia dei lombardi The Great Saunites, per uno split album di un certo interesse in ambito psych acid rock strumentale. La family band marchigiana apre con un paio di tracce da proporci, "Mandrie" pt 1 e 2. La prima delle due mostra la rinnovata attitudine post-rock della famiglia Palmieri con un sound che strizza l'occhiolino agli americani *Shels. La song ammalia per le sue venature psichedeliche mentre la sua seconda parte stordisce per quell'incipit noise rock sporcato però da ulteriori influenze che chiamano in causa i Pink Floyd, in quel basso pulsante posto in primo piano e quelle ridondanze lisergiche che non fanno altro che ammorbarci ed infine ipnotizzarci. La song scivola via eterea, liquida, quasi dronica in un finale dai lunghi svolazzi siderali e caratterizzata da un impianto musicale che non fa che confermare quanto di buon avevo avuto apprezzato in occasione di 'Natura'. È il momento dei The Great Saunites e della lunghissima "Zante", quasi 18 minuti di psych kraut rock di stampo teutonico. Il comun denominatore con i Palmer Generator risiede sicuramente in quella ossessiva circolarità dei suoni, visto che la pseudo melodia creata da quelli che sembrano strumenti della tradizione indiana, continua a ripetersi allo sfinimento tra un tambureggiare etnico-tribale, suoni elettronici assai rarefatti e sussurri appena percettibili, che ci accompagneranno da qui fino alla conclusione della song. Prima, quella che credo sia una chitarra, prova ad insinuarsi all'interno di questo avanguardistico ammasso globulare sonico generando un effetto a dir poco straniante. Ci prova poi il clarinetto di Paolo Cantù (Makhno, A Short Apnea) a innescare atmosfere tremebonde ed orrorifiche che fanno salire la tensione a mille, accelerando il battito cardiaco, e rendendo, ma non solo per questo, la proposta del duo lodigiano davvero interessante. Sebbene la musica non sia certo di facile presa, lo split album di Palmer Generator e The Great Saunites non fa che mostrare le eccelse qualità di una scena italiana in costante ascesa e di un rinnovato desiderio di competere con i mostri sacri internazionali. Ben fatto ragazzi. (Francesco Scarci)

(Bloody Sound Fucktory/Brigadisco/Il Verso del Cinghiale - 2020)
Voto: 74

http://palmergenerator.blogspot.com/
http://thegreatsaunites.blogspot.com/

Swan Valley Heights - The Heavy Seed

#PER CHI AMA: Stoner/Space Rock
Mi risulta difficile dire che questa band di Monaco non sia brava, sarà la copertina bella e curatissima che mi coinvolge e mi fa sognare ad occhi aperti guardandola con i suoi due cacciatori primordiali spaziali in prima linea ed una grafica degna dei paesaggi cosmici di Yuri Gagarin. Devo ammettere che questo disco incute un certo fascino. Ovviamente se state cercando novità compositive nel genere in questione (ah dimenticavo stiamo partlando di stoner rock), credo che avrete delle difficoltà, poiché da anni in questo ambito sonoro l'immobilismo sembra regnare sovrano, quindi i chiaroscuri, cosi come le evoluzioni acide srotolate dai nostri, suoneranno proprio come da copione. Detto questo, i teutonici Swan Valley Heights si muovono alla grande tra le coordinate che furono dei The Spacious Mind o degli attuali My Brother the Wind, con quel taglio tra la psichedelia rock dei primi Motorpsycho ed il post grunge dei Three Fish di Jeff Ament dei Pearl Jam, trovando il suo apice compositivo all'interno disco, nel conclusivo lungo brano "Teeth & Waves", che si erge dal lotto per la sua forza propulsiva. Il lato più debole di 'The Heavy Seed' lo si può identificare invece nelle parti vocali che sembrano essere state poco prese in considerazione, tenute in sordina, con l'effettistica sonora che soffoca il canto peraltro in uno stile così morbido e filtrato che poco si sposa al resto del sound liquido e lisergico, risultando talvolta pure stentato o molto distaccato. Sono convinto che valorizzandolo a dovere la proposta della band avrebbe più potenziale e quella leggera influenza nelle parti soft, derivante dai lavori più psych di Steven Wilson, potrebbe fare la differenza nei prossimi lavori. Detto questo, torniamo a valutare la band con voti pregiati, dicendo comunque che il combo germanico suona bene, la produzione è buona e le evoluzioni sonore si sviluppano in maniera molto matura e intelligente. I quaranta e più minuti dell'album, uscito via Fuzzorama Records, appagano l'ascoltatore portandolo in lidi cosmici surreali, nella galassia infinita dei Swan Valley Heights. Altra interessante particolarità è che in nessun brano di 'The Heavy Seed' ci si imbatte in una psichedelia violenta dal classico taglio metal o doom anzi, il sound caldo e acido avvolge che è un piacere, e alla fine è una sensazione liberatoria di avventuroso viaggio ultra terreno quello che collega le atmosfere dei cinque lunghi brani del cd. 'The Heavy Seed' è alla fine un lavoro per cultori dello space rock e di quello stoner poco sabbioso e più visionario che potrebbe rivelarsi un'isola felice. (Bob Stoner)

Hourswill - Dawn of the Same Flesh

#PER CHI AMA: Heavy Prog, Anacrusis
Ci eravamo lasciati nel 2017 con i portoghesi Hourswill alle prese col loro secondo lavoro 'Harm Full Embrace'. I nsotri tornano sul finire del 2019 con questo nuovo 'Dawn of the Same Flesh', album sempre targato Ethereal Sound Works, proponendo il loro classico heavy prog dalle forti tinte malinconiche, come dimostrato già dall'iniziale "Asherah", una song piacevole ma forse un po' troppo sdolcinata per i miei gusti. Le cose iniziano a migliorare dalla seconda "Innocence", un pezzo dotato di una bella base ritmica, ottime vocals, discrete melodie, ma poco altro. Non che si tratti di una song brutta, non fraintendetemi, anzi il suo strizzare l'occhiolino più volte ai Nevermore, la fa apparire anche interessante, però è quel senso di stra-sentito che dopo pochi minuti mi infastidisce e me ne fa perdere l'attenzione. Ci si riprova con "A Beauty in Bloom", un pezzo ben più tirato (che risulterà anche essere il mio preferito), complice un muro ritmico che sembra combinare nello stesso momento heavy, hard rock, prog e thrash, in una combo che mi ricorda un mix tra Anacrusis, Xentrix, Meshuggah e Saxon. Strano no? Vi basti però dare un ascolto attento a quelle chitarrone un po' sincopate verso metà brano per capire cosa stia blaterando. Si torna a delle sonorità più soffici con "Now That I Feel" e francamente questo è il lato che fatico maggiormente a digerire dell'ensemble di Lisbona, troppo dura per essere considerata la classica ballad, troppo leggerina per essere definita una song metal, per non citare poi quel duetto tra il frontman e la classica fanciulla di turno (Neide Rodrigues) a offrire i propri servigi canori dietro al microfono (la vocalist tornerà anche in "Hanwi"), che non ho trovato proprio appropriatissimo. Si ripassa al robusto heavy rock di "Enlightenment" con la voce di Leonel Silva fin troppo sopra le righe, mentre alle sue spalle, giochi di chitarre, basso e batteria, regalano attimi di grande interesse soprattutto nella seconda parte della traccia. Si arriva cosi al trittico formato da "Benightedness (Part I, II & III)", che lungo i suoi oltre dodici minuti alterna un po' tutti gli umori sonori del quintetto lusitano, dai suoni in penombra di quell'introduttivo piano (con terribile voce a complemento), passando da ringhianti riff di chitarra della seconda parte per arrivare fino alle partiture acustico jazzy-flamencate della terza sezione. Il disco ha ancora ben quattro da offrire ma soprattutto una schiera di numerosi ospiti da proporre. Tra questi, mi soffermerei su Agostinho Lourinho che nella conclusiva e già citata "Hanwi", trova modo di dar sfoggio della sua creatività al sax con un assolo pauroso in un caldo pezzo atmosferico che sembra esser stato concepito sulle spiagge di Salvador de Bahia dal duo formato da Toquinho e Gilberto Gil, per un esperimento questo, davvero riuscito. Che altro dire degli Hourswill quindi? C'è ancora sicuramente molto da lavorare; in "Dawn of the Same Flesh" si trovano cose decisamente interessanti alternate ad altre un po' più noiose e scontate, tuttavia mi sento di dare fiducia al combo portoghese auspicando in nuovi passi in avanti nel futuro della band. (Francesco Scarci)

(Ethereal Sound Works - 2019)
Voto: 67

https://www.facebook.com/Hourswill

giovedì 13 febbraio 2020

Aes Dana – Inks

#PER CHI AMA: Electro/IDM
Cosa dire di più di Aes Dana non saprei, produttore, compositore, dj, co–proprietario della Ultimae Records, sperimentatore elettronico e conoscitore di paesaggi sonori a tema ambient tra i più prolifici del panorama. Con questo suo ottavo album, il musicista francese si cimenta in un mastodontico lavoro che racchiude tutte le sfaccettature del suo stile, optando questa volta per l'uso massiccio di ritmi rubati alla drum' n bass ed alla techno trance/IDM di prima scuola. Ipnosi ed iperspazio sonoro rappresentano le parole d'ordine di 'Inks', che ci fanno entrare in un mondo astratto e visionario, cosmico e rarefatto, costruito su suoni introspettivi, microscopici e pulsazioni quasi industriali, bassi profondi e drone music partorita da sintetizzatori infiniti. Cascate di suono cristalline si riversano in un mare lisergico sospeso nel nulla (a riguardo ascoltatevi lo splendido brano "Peace Corrosion"). Undici brani medio lunghi, tutti tra i 6 e gli 8 minuti circa, dal fascino notturno e crepuscolare, un disco da assaporare obbligatoriamente da soli, al buio osservando un cielo stellato in piena notte, suggestivo, evocativo. Alta qualità del suono e produzione modernissima e spettacolare come di consuetudine in casa Ultimae (con l'edizione digitale su bandcamp a 24 bit che è ormai un appuntamento immancabile), copertina eccelsa come da copione per l'etichetta di Lione, una lunga carrellata di musica avvolgente ("Alep Offset" è una vera gemma sonora), che usa un linguaggio digitale per raccontare storie e intrighi di vita come dichiara Vincent Villuis (aka Aes Dana). Un ottavo disco che si presenta come un ottimo biglietto da visita, un'introduzione alle opere dell'artista, forse non il suo album più intimo ('Pollen' rimane il mio preferito di sempre) ma sicuramente l'opera ideale per approcciarsi alla sua arte più recente. 'Inks' è l'ennesimo tassello di qualità che va a rinforzare la già immensa cattedrale del suono ambient di casa Ultimae Records. Un ascolto obbligato per gli amanti della musica elettronica d'ambiente, quella più più sofisticata e ricercata. (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2019)
Voto: 80

https://ultimae.bandcamp.com/album/inks

sabato 8 febbraio 2020

Sons of a Wanted Man - Kenoma

#PER CHI AMA: Post Black, Deafheaven
 Che botta! Il debut dei belgi Sons of a Wanted Man irrompe infatti con una violenza quasi disarmante nelle casse del mio stereo, con tanto di grida infernali ed ritmica arrembante, quasi a volersi presentare facendo le dovute premesse su quanto dovremo aspettarci durante l'ascolto di questo controverso 'Kenoma'. È un black scarnificante quello dei primi due minuti della opening (e title) track che evolve però verso lande desolate di un sound che ammicca in modo indiscutibile al post metal (e con relative vocals che virano improvvisamente al growl). Ma i quasi undici minuti della traccia sono multiformi, con continui cambi di tempo e forma, tant'è che mi sembra addirittura di percepire una forma primordiale di punk quando a metà brano c'è l'ennesima inversione di rotta (e vocals). Ma la song è mutevole, come ampiamente intuito nei primi minuti del brano, che ha ancora modo di proporsi sotto molteplici vesti, sfiorando il black doom e il depressive prima di risprofondare nella modalità post black della feroce "Serpentine". Qui, ritmiche tiratissime e screaming vocals, ma anche rallentamenti oscuri si coniugano in un marasma sonoro alquanto complicato da venirne fuori. E con "Canine Devotion" le cose si complicano ulteriormente e sapete il perchè? Questa volta non è un annichilente urlaccio ad aprire le danze ma la seducente voce di una gentil donzella che si assesta su un disarmonico pezzo dalle forti tinte shoegaze su cui tornerà a graffiare anche la urticante voce di Jan Buekers e di una sezione ritmica da incubo, a cavallo tra black e post-punk, dove vorrei sottolineare la prova disumana alla batteria di Mr. Kevin Steegmans, un uomo che parrebbe dotato di un paio di arti addizionali.In chiusura rientra la voce soave della vocalist in una versione più caustica dei Sylvaine. Con “Under A Lightless Sky” si torna nelle viscere dell'inferno con un intro di chitarra che poteva stare tranquillamente su 'Clandestine' degli Entombed ed un cantato di nuovo tra il possente e l'urlato. Il brano è una convincente cavalcata black metal corrotta qua e là da parti atmosferiche che ne assorbono tutta la malvagità. La parte centrale si mostra poi come un mid-tempo più controllato e melodico, ma io dei Sons of a Wanted Man, ho capito che non posso certo fidarmi e faccio bene. Appena si abbassa la guardia infatti, l'ensemble di Beringen, torna ad assestare mortiferi colpi in stile Deafheaven, sebbene accanto allo screaming ferale del cantante compaiano anche delle clean vocals. È il turno della seminale "Absent", che sferza colpi di brutal black che sconfinano nuovamente nel death metal. 'Kenoma' l'avrete capito non è un disco leggerino e "Amor Fati" non fa che confermarlo con un'altra tonante scarica adrenalinica che si muove tra ritmiche infuocate, altre mid-tempo, contestualmente ad un'alternanza vocale tra laceranti scream e oscuri growl. A chiudere il cd ecco l'outro ambient affidato a "Pleroma", finalmente la pace dopo la tempesta perfetta. (Francesco Scarci)
 
(LADLO Prod - 2020)
Voto: 70

Pray For Sound - Waves

#PER CHI AMA: Post Rock strumentale, Sleepmakeswaves
Li avevamo accolti nel Pozzo dei Dannati in occasione del loro EP di debutto, 'Monophonic'. Era il 2012. Dopo otto anni, riabbracciamo i bostoniani Pray for Sound in occasione della release del loro quarto album, 'Waves', che conferma la tempra post-rock del quartetto strumentale americano. La musica, a distanza di anni, è la solita, semplicemente più matura e con obiettivi, a detta della band, leggermente differenti, ma andiamo con ordine. Detto che la presenza di un vocalist per il sottoscritto sia imprescindibile, la sua assenza è tamponata qui dalle eccelse capacità dei musicisti, dalla loro carismatica personalità e dalla loro verve. I brani scivolano infatti lisci come l'olio, da "All the Days", opener dinamica, ariosa e propositiva, a seguire con la più introversa "Julia" (ove compare in veste di guest star Chris LaRoque), cosi ricca in riverberi e parti riflessive da lasciarmi sospeso in compagnia dei miei soli pensieri. 'Waves', stando al messaggio della compagine, dovrebbe recare speranza e felicità, quindi il mood malinconico della seconda traccia mi lascia alquanto perplesso per quanto la canzone sia comunque apprezzabile. "Spiral" prova a riportare pensieri positivi con la sua vivace e contagiosa ritmica iniziale, che vede ottimi giochi di chitarre e percussioni a farla da padrone. Che volete che vi dica però, io continuo a percepire sentori di una certa nostalgia romantica, una caratteristica che, se intrinseca ai quattro ragazzi, immagino sia un po' complicato rimuovere. Tuttavia apprezzo la proposta dell'ensemble del Massachusetts, lasciandomi guidare dall'estaticità delle sue melodie e dalle struggenti parti atmosferiche, per cui sfido voi e chiunque altro a dire che percepite felicità in queste note. Ma non importa, perchè "The Mountain" nelle sue parti acustiche ci sbatte in faccia riferimenti pink floydiani e ancora una volta non posso che ringraziare. Con la title track si gioca con i synth attraverso lo srotolare di scale musicali su cui si installano i delicati arpeggi di chitarra. E la breve "Wren" non fa altro che confermare il carattere adombrato della nuova release dei Pray For Sound, con un ambient cupo e rarefatto, che ci introduce a "The Canyon", un'altra song che sembra seguire un po' troppo il canovaccio del genere e quindi mostrare un'aria affannata alla release. La band ci prova con "Talus" e i tremolo picking della conclusiva "Ezra" a risollevare le sorti di un cd che era partito bene ma che poi si è un po' perso nell'universo del "già sentito", in un genere ove portare qualcosa di innovati è ormai diventata impresa titanica. (Francesco Scarci)

(A Thousand Arms/Dunk! Records/Post. Recordings - 2019)
Voto: 72

https://music.prayforsound.com/album/waves

Monolithe - Okta Khora

#PER CHI AMA: Death/Doom/Prog, primi Opeth
Da sempre i Monolithe amano giocare con i numeri, abbinando per ciascun album un determinato numero di pezzi dalla durata ben definita. Se i primi quattro lavori erano in realtà opere monolitiche costituite da un solo brano, con 'Epsilon Aurigae' e 'Zeta Reticuli' si è iniziato a sperimentare con tre pezzi da 15 minuti. 'Nebula Septem' include invece sette brani di sette minuti ciascuno. Infine, in quest'ultimo e ottavo lavoro intitolato 'Okta Khora', ecco che la scelta di Sylvain Bégot e soci, è caduta su otto brani della durata di 04.04 e 08.08 minuti (con in mezzo anche uno 04.08 ed uno 08.04) per un tempo complessivo di 48 minuti e 48 secondi. Evviva la simbologia esoterica e il significato dei Numeri, laddove il Numero Quattro è il più perfetto tra i numeri, essendo la radice degli altri numeri e di tutte le cose, mentre l’Otto è il simbolo dell’infinito, il riflesso dello spirito nel mondo creato, dell’incommensurabile e dell’indefinibile. Otto brani quindi, per chi non l'avesse ancora capito, che si aprono con "Okta Khora (Part 1)", una malinconica traccia strumentale che prende definitivamente le distanze dagli esordi funerei e funesti dei nostri. A seguire "Onset of the Eighth Cycle" (riecco l'otto), un brano che si affida ad un doom/death per raccontarci lo stato di forma dell'ensemble francese, che in questa release narra di una civiltà aliena e dell'intento di cancellare tutte le altre specie presenti nell'Universo. Allegria, in un periodo come questo di pericolose pandemie virali, la visione dei Monolithe suonava già (un paio di mesi orsono quando è uscita la release digitale) come un oscuro presagio di estinzione della razza umana. Tornando alla musica, la band si conferma maestra nel confezionare pezzi di notevole caratura tecnico compositiva, contraddistinti da ritmiche cadenzate, lunghe parti atmosferiche, eccellenti arrangiamenti ed un quanto mai inatteso utilizzo di strumenti non del tutto convenzionali per la band transalpina (flauto, sax e archi), con i vocioni growl di Sebastién Pierre e Rémi Brochard a confermarsi ad alti livelli. "Dissonant Occurence", parafrasando un po' il titolo, dà sfoggio di melodie dissonanti, cambi di tempo notevoli, ma soprattutto uno strepitoso break centrale, tra fusion, psych rock, melodie celestiali e clean vocals che ci dicono quanto sia peculiare e notevole questo comeback discografico dei nostri. "Ignite the Heavens (Part 1 e 2)" sono due pezzi strumentali che affondano le proprie radici in rituali esoterici, mentre la musica (nella prima parte almeno) ricorda quello di uno storico brano prog rock degli anni '70, "Baker Street" di Gerry Rafferty, con tanto di sax e trovate varie che sfociano anche nelle colonne sonore cinematografiche. Notevoli, non c'è che dire, ma non avevo alcun dubbio sul fatto che i Monolithe non ci avrebbero tradito. E il viaggio intergalattico prosegue con "The Great Debacle", un pezzo che sembra suggerire influenze provenienti da 'Spheres' dei Pestilence, ma soprattutto dagli Opeth dei primi album, con una rinnovata capacità di abbinare death doom e progressive con stile ed una classe davvero sopraffina. Ascoltatevi l'assolo di questo brano e godete estasiati l'eccellente release della band parigina targata ancora una volta Les Acteurs de l'Ombre Productions. Mancano ancora "Disrupted Firmament" e "Okta Khora (Part 2)" a rapporto, due brani che somigliano più alla passerella finale di un album che si conferma già oggi tra i candidati a collocarsi sul podio alla fine di quello che sarà un lungo ed estenuante tour 2020. (Francesco Scarci)

Rýr - Left Fallow

#PER CHI AMA: Instrumental Post Metal
Primo album per i teutonici Rýr, il cui moniker preso da una parola islandese, significherebbe "sterile, debole". Devo ammettere che proprio sterilità e debolezza, causa la mancanza di un vocalist, sono state le prime paure che mi hanno assalito non appena ho notato la cosa. Ho presagito ovviamente il classico lavoro interamente strumentale con tutte le conseguenze del caso correlate all'assenza di un collante tra gli strumenti in gioco, per me da sempre la voce. 'Left Fallow' è alla fine un esempio di post-metal senza troppi fronzoli per la testa. Dopo la breve intro "Left", il quartetto berlinese inizia a calcare la mano nella seconda "Fallow", song dotata di una ritmica detonante che trova in alcuni break ambientali, la classica pausa ristoratrice che contamina la musica dei nostri anche di post-rock. E il wall of sound eretto dalle chitarre si conferma pesante ed oscuro anche in "Late", il terzo brano del cd. Quello che rende la proposta dei Rýr un po' più fuori dagli schemi (ma io una voce la vorrei comunque sempre), sono certe trovate atmosferiche direi sinistre, come quelle vicine ad un loop ipnotico che abbraccia quasi interamente la terza song che, nonostante pecchi in originalità, ha comunque la sua buona dose di perchè. Complice una sensazione perennemente angosciante dettata dai suoni inquietanti delle sei corde, il pezzo convince definitivamente per quella sua spettralità di fondo. Quella fastidiosa sensazione di incertezza la si ritrova anche nei minuti della più mite "Vanished", osteggiata ben presto ed ancora una volta dalla veemenza delle chitarre. E devo ammettere che ciò che meno mi aggraderà al termine dell'ascolto di 'Left Fallow', è proprio legato alla pesantezza delle chitarre, che io avrei mantenuto più orientate al tremolo picking anzichè puntarne sulla prestanza. Infatti i pezzi che più prediligo sono quelli atmosferici, tipo "Kamso", minata peraltro da un forte mood malinconico e dove le chitarre ben si amalgano con l'impianto ritmico, completato da batteria e basso. Il pezzo più interessante per il sottoscritto è però "Surfeit" almeno nella prima metà, per quel suo mood più leggerino che sul finire lascia posto al riffing quasi thrasheggiante delle sei-corde. Il disco chiude i battenti con il rifferama caustico di "Tribulation" accompagnato da un lavoro ai piatti fin troppo asfissiante. 'Left Fallow' alla fine è un dischetto che mostra cose interessanti, altre un po' meno, su cui invito i quattro tedeschi a lavorarci maggiormente. Ultima menzione per la band ossia la lotta al razzismo, all'omofobia e al sessismo, chapeau. (Francesco Scarci)

(Narshardaa Records - 2020)
Voto: 71

https://ryrpostmetal.bandcamp.com/album/left-fallow

martedì 4 febbraio 2020

Okidoki – When Oki meets Doki

#PER CHI AMA: Crossover Jazz
Questo nuovo album dei francesi OKIDOKI è pazzesco, illuminato come tutti i suoi precedenti e potrebbe essere descritto come un riassunto jazz dal gusto pop, sparso tra le note dello splendido "Body and Soul", o semplicemente del singolo "The Verdict", entrambi del geniale Joe Jackson, uniti al groove dei viaggi sonori esilaranti ed esotici di Isabelle Antena, filtrati dalla voglia sperimentale che spingeva la ricerca sonora e vocale di Meredith Monk ("Komori Song"). Quel pizzico di malinconia tratta dalla musica degli immensi Sedmina, arie immortali sospese a metà tra folk, jazz e rock in opposition, una leggera attitudine verso la follia psichedelica dei Catapilla di 'Changes' e una morbida vena teatrale. Ci sono sapienti mani dietro questi brani: la belga Anja Kowalski (che canta in francese, tedesco e inglese, curando peraltro le liriche) e Laurent Ronchelle (sax e clarinetto basso), due menti che hanno girato e rigirato le strade nonchè i vicoli più stretti e sperduti del mondo infinito del jazz classico e le sue forme più d'avanguardia. Tornati in compagnia di Frédéric Schadoroff (piano) ed Eric Boccalini (batteria), i nostri ci saziano di melodie e rintocchi fantasiosi, a volte vere e proprie lezioni di teoria musicale, in altri casi più spensierate ed astratte, talvolta tese a focalizzare la musica su un taglio più malinconico, senza mai perdere di vista l'originalità e quella voglia di sperimentazione che rende libero il compositore coraggioso e temerario. I brani si rivelano cosi spumeggianti, le ritmiche improbabili colpa o merito di una composizione fluida e cervellotica. L'iniziale "Le Voyage Improbable de l'Insondable Haruki" mostra ritmi spezzati e spigolosi, una bella dose di fantasia e suoni taglienti che riesumano note e sentori dal calore indescrivibile, come lo fu l'album del 1977, 'Pharoah' del mitico Sanders oppure 'Songs from the Hill/Tablet' di Meredith Monk. Tutto si muove in un universo di colori e umori diversi, contrastanti tra loro, discordanti tra un brano e l'altro. Ammalianti, sognanti, malinconici, folli, accademici, intensi, d'avanguardia e totali. Gli OKIDOKI sono una band altamente qualificata a rilasciare quest'ottimo lavoro (cosi come il resto della loro discografia), un disco semplicemente da amare alla follia. (Bob Stoner)

(Atypeek Diffusion/Linoleum - 2019)
Voto: 82

https://okidoki-quartet.bandcamp.com/album/when-oki-meets-doki