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martedì 28 settembre 2010

Wrath Prophecy - Becoming the Absolute


Ahhhh!!! Ho perso la bussola già dopo l’ascolto dei primi 2 minuti di questo schizofrenico lavoro e già mi ritorna alla mente lo stesso effetto disturbante che ebbe nel mio cervello l’ultima release dei marchigiani Infernal Poetry; e qui non siamo dopo tutto cosi distanti da quella folle proposta. La giovane band di Feltre fa dell’imprevedibilità infatti il proprio credo: appresa alla grande la lezione impartita dalle grandi techno death bands di sempre (Atheist, Death e Cynic) e miscelata alla perfezione con la follia di Between the Buried and Me e Dillinger Escape Plan, con un pizzico della ferocia dei Cephalic Carnage, il quartetto della provincia di Belluno sciorina qualcosa che forse in Italia non era mai stato concepito e sperimentato prima d’ora. Eh si perché questo “Becoming the Absolute” può essere personalmente considerato come la risposta italica alle grandi band d’oltreoceano che fanno di furia (ascoltare le prime tre tracce), la follia (ascoltare “Brainless” per credere, dove fa la comparsa la voce schizoide di Paolo Fontolan ad interrompere il growling brutale di Matteo), il tecnicismo (udibile ovunque), la melodia (rara), la disarmonia e la bizzarria, il proprio punto di forza. I Wrath Prophecy osano osano e poi osano ancora con soluzioni musicali estreme che saranno in grado di annichilirvi fin dalle prime ardite note. Fortunatamente la title track ci dà il tempo di riassettarci e rimetterci in piedi come se un pugno sferrato da Mike Tyson ci avesse fratturato le ossa di mandibola e mascella e ci avesse messo a tappeto, ma non illudetevi perché la macchina da guerra imbastita da questi quattro ragazzi è pronta a ripartire e tornare a far male. La violenta “Into the Eyes”, ma soprattutto la mia preferita “Autabuse” tornano a colpire con tutta l’arroganza, la genialità e l’eccentricità che contraddistingue la proposta musicale di questo ensemble veneto. Sorprendente ancora l’inserto jazzy della strumentale “Napalm Jazz” o l’assolo di clarinetto in “Lucy’s Ballad” a cura di Gabriele Soppelsa, l’incedere spagnoleggiante di “87 Octane”. Insomma “Becoming the Absolute” è un arrembante carico di emozioni, che se fossero state adeguatamente supportate da una produzione all’altezza, da una migliore performance a livello vocale (forse unico neo della band) e da una promozione degna delle migliori band americane, forse saremo qui a parlare del nuovo fenomeno mondiale Wrath Prophecy. Per ora accontentiamoci di segnalare che una nuova band, mostruosa sotto ogni punto di vista (tecnico-compositivo), è nata in Italia e spero che sia in grado presto di farsi strada. Meritano senza dubbio la vostra attenzione, mi raccomando non perdeteli di vista, sarebbe un terribile peccato… (Francesco Scarci) 

(Hot Steel Records)
voto: 75

domenica 26 settembre 2010

October Tide - A Thin Shell

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Katatonia
Quando ormai pensavo le speranze fossero finite, ecco vedermi recapitato a casa un pacchetto anonimo con dentro il nuovo, terzo capitolo degli svedesi October Tide. Erano ben 11 anni che attendevo con trepidazione l’uscita di quello che era il side project di J.Renske e F.Norman dei Katatonia, autore di 2 ottimi album di death doom. Oggi la band, orfana di J.Renske, ha assoldato tra le sue fila Tobias Netzell voce degli In Mourning e Robin Bergh (Amaran) dietro le pelli e sfodera un’altra, l’ennesima prova di quanto si può essere ancora maledettamente decadenti nel 2010. La dipartita del vocalist dei Katatonia non ha per nulla intaccato l’integrità del sound degli October Tide, forti sempre dell’apporto in chiave ritmica dell’ormai ex chitarrista dei gods svedesi, che da sempre ama creare un contrasto tra chitarre pesanti, distorte ma sempre estremamente melodiche (vero marchio di fabbrica degli October Tide) coniugate ad ambientazioni malinconiche e meditative grazie all’utilizzo di parti acustiche veramente interessanti che si insinuano nella nostra mente portandoci alla disperazione (basti ascoltare le prime due songs, “The Custodian of Science” e “Deplorable Request” per capire). Se avete amato i Katatonia di “Brave Murder Day”, non potrete fare a meno anche degli October Tide e del loro nuovo lavoro, che continua il filone iniziato con quel capolavoro di ormai 14 anni fa, mai dimenticato. Le songs, sette, rinverdiscono i fasti di un tempo, regalandoci più di 40 minuti di musica emozionale, criptica, disperata e talvolta anche originale (“A Nighttime Project” è una vera sorpresa per quel suo essere cosi tribale): questi, gli ingredienti che sapranno restituirci una creatura che per molto tempo ho creduto fosse persa. “A Thin Shell” non è un album geniale, ma è la naturale evoluzione di “Grey Dawn” che farà la gioia per tutti gli amanti di sonorità death-doom. Ben tornati October Tide, vi stavo aspettando! (Francesco Scarci)

(Candlelight Records)
Voto: 75

sabato 25 settembre 2010

Expedicion a las Estrellas - 27


Una delle cose più interessanti che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi mesi viene dal Messico e quale piacere ammetto di aver provato udendo le sonorità contenute in questo piccolo gioiello, che mi hanno consentito di ampliare enormemente il mio spettro di ascolti. Pur non essendo infatti un grande amante di sonorità post-metal, con questo “27”, mi sono dovuto ricredere enormemente sulle potenzialità di un genere che ha invece un sacco da dire e gli EALE sono dei maestri in questo: un gruppo follemente geniale che ha concepito un album capace di coniugare il post-rock con plumbee atmosfere doom e grugniti (rigorosamente in spagnolo) in pieno stile black, senza disdegnare invasioni in territori (post)hardcore. Insomma, avrete capito da queste mie parole che qui dentro c’è n’è davvero per tutti i gusti e forse la difficoltà starà proprio nel saper coniugare tutti questi generi in un sol boccone, ma i nostri sono stupefacenti in questo, ve lo garantisco. Insomma non riesco a trattenere l’entusiasmo dopo aver ascoltato un cosi ben fatto album, era da tempo che non mi capitava. So che per voi è difficile decifrare tutte queste mie parole, ma dovete fidarvi di me ancora una volta, cercare l’album navigando in internet sul sito myspace della band e farlo vostro, rimarrete a bocca aperta anche voi, ascoltando solo i primi 4 pezzi (e ce ne sono 15 per più di 70 minuti di musica). Atmosfere rarefatte, ultra mega dilatate, si fondono con un gusto per la melodia assai originale, con un’alternanza di ritmiche frenetiche che ci portano repentinamente dall’headbanging più esasperato al frangente successivo, dove latineggianti chitarre acustiche dipingono tenui paesaggi autunnali, con la voce di Didier Garcia che dal primo all’ultimo minuto vomita nel microfono (da rivedere alla lunga l’utilizzo delle vocals). Tocchi di pianoforte ci deliziano nella furiosa “Nonostante la mia apparenza felice mi sento come se stessi morendo”, song che parte con un intro al limite del black old school e poi si alterna tra funambolici cambi di tempo in un susseguirsi vorticoso di suggestioni ipnotiche. Un malinconico violino apre “Suicidio Lunare”, song che se non fosse sempre per la sempre vetriolica voce, potremo trovare in un disco dei Mogway o degli Explosions in the Sky per quei suoi fraseggi raffinati, il pianoforte costantemente presente e le sue grigie deprimenti ambientazioni. Il quintetto di Zacatecas è veramente in gamba: più ci inoltriamo nei meandri di “27” e più riusciamo a cogliere questo alternarsi di post rock, hardcore, avantgarde e screamo che ben si amalgamano incredibilmente tra loro in un turbinio emozionale unico, senza precedenti che chiarisce la chiara e solida personalità della band centroamericana. “Phoenix” e “Androgyne…” sono altre due magnifiche songs, ove convergono tutte le mirabili influenze del combo messicano. Interessante anche il concept che si cela dietro a “27” che narra la storia di un viaggio verso le stelle e la riflessione sulla dualità tra il bene rappresentato dalla luce e il male delle tenebre. Insomma filosofia (citazioni di Nietzsche), cultura e religione (i Maya e la tanto declamata fine del mondo nel 2012), contribuiscono ad arricchire ulteriormente i contenuti di questo disco che vorrei citare anche per il suo digipack particolare. Escursioni jazz core, math e folk completano uno degli album più entusiasmanti io abbia ascoltato negli ultimi tempi. “27” (2+7=9 , il numero di Dio) sebbene mostri ancora qualche lacuna a livello di produzione o contenga qualche parte (specialmente sul finire del cd) ancora un po’ grezza, si conferma disco eccezionale e di grande intelligenza. Strepitosi! (Francesco Scarci)

(Self)
voto: 85

S:T Erik - From Under the Tarn


Quale goduria nel mettere questo cd nel mio lettore: era da tanto tempo che non ascoltavo questo genere di sonorità doom/stoner/psichedeliche tutte ben miscelate tra loro e in grado di produrmi dei magnifici trip mentali, come se avessi fatto un abbondante uso di LSD. Il quintetto svedese, capitanato dalle disperate vocals di Erik Nordstrom riesce in tutto questo e lo si capisce già dalla iniziale “Goddess” dove in sette minuti, i nostri palesano tutto il loro talento. Chitarroni dal chiaro stampo stoner, si alternano a momenti di delicata e lisergica psichedelia, con la sofferente voce di Erik a parlare di solitudine e disperazione. L’inizio della seconda lunghissima traccia (più di undici minuti) sembra presa in prestito dagli ultimi ISIS: 3 minuti e passa di atmosfere soffuse, dense e avvolgenti, dopo di che sale in cattedra ancora una volta il talentuoso vocalist e ci conduce tra i fumi solforosi dell’inferno, facendoci capire con le sue parole che stiamo buttando via le nostre vite. Le ambientazioni angoscianti che si percepiscono sono davvero da brividi: i sintetizzatori giocano un ruolo di prim’ordine nell’economia globale di questa release, creando atmosfere apocalittiche a tratti e spaziali in altri frangenti. Assai affascinante il risultato, soprattutto se siete nella classica cameretta a luci spente, il tutto vi sembrerà più seducente. Nella terza, altrettanto lunga, song, si mette da parte il doom angosciante e si torna a parlare di space stone rock, con i granitici riffs del duo Tomas Eriksson e Magnus Wikmark a proporre il loro ultra conservativo drone fino a quando a metà della song sopraggiunge il silenzio, forse la fine del mondo: c’è freddo, l’atmosfera si fa sempre più rarefatta, la paura ci assale per poi esplodere nella parte conclusiva della traccia… spettacolare! È come trovarsi in un brutto sogno quando quanto di più oscuro e inquietante sta per assalirci, ma il dramma, la paura che sorge è che non sai esattamente cosa sia quella entità misteriosa che sta per farti a pezzi. La musica dei S:T Erik ha lo stesso medesimo effetto: è oscura, inesplicabile, terrorizzante ma il risultato è estremamente affascinante. Un ipnotico basso apre “Black Wall” e via pronti a ripartire per un altro viaggio spaziale a bordo dell’astronave svedese. La conclusiva “Swan Song” nei suoi tredici minuti ci tramortisce definitivamente con i suo riff pachidermici, le atmosfere ultra mega dilatate, asfissianti, che ammorbano irreparabilmente le nostre menti… Non ho fatto alcun uso di droghe ve lo giuro, ma risollevarmi dal mio sofà dopo l’ascolto di questo cd, è davvero impresa assai ardua. Ottima musica (non per tutti però), ottimi musicisti e un’ottima produzione (sporca il giusto), confermano l’oculatezza da parte dell’etichetta russa Solitude Production, nello scegliere le band da mettere nel proprio rooster. Complimenti avanti cosi! (Francesco Scarci) 

(Solitude Prod.)
voto: 80

Time's Forgotten - Dandelion


Bravi! È la prima impressione che rimane subito dopo aver ascoltato il CD autoprodotto da questa giovane band del Costa Rica. “Dandelion” esce a due anni di distanza da “A Relative Moment of Peace”, album d'esordio che ha dato la possibilità a questi sei ragazzi di partecipare a diversi festival Progressive-Rock nel continente sud-americano e di farsi un nome grazie al loro indiscutibile talento. Quello che stupisce sin dal primo ascolto del cd è la capacità innata di combinare assieme tutti gli elementi in un mix sorprendentemente piacevole e omogeneo, in cui nessuna componente risulta sacrificata rispetto alle altre. Partendo dalle tastiere infatti, con un Calvo che oltre a essere il principale compositore dei brani si dimostra anche un ottimo musicista, abile negli assoli tanto quanto nella parte elettronico-digitale, la musica dei nostri scivola via che è un piacere. Le chitarre svolgono un lavoro egregio, gli assoli sono ottimi, non solo dal punto di vista della velocità d'esecuzione ma anche per l'energia che sanno trasmettere così come il basso che fa sentire la sua presenza in ogni traccia. Le voci sono decisamente pulite anche se in alcuni passaggi non sono perfette al 100% (forse troppo “acerbe” in alcuni frangenti). Nota al merito inoltre per la batteria: Jorge Sobrado è decisamente un batterista talentuoso, certo non siamo ai livelli di Portnoy ma comunque ha un'ottima impronta, bravo negli inframmezzi jazz, abile nei passaggi più complessi e dinamici così come nell'utilizzo del doppio pedale. Interessante infine l'intrusione etnica con le parti di flauto di Eduardo Oviedo che si integra molto bene con l'identità dell'album. In definitiva “Dandelion” è un lavoro elaborato e ricco di ottime melodie ricercate; raccomandato non solo agli amanti del genere. Da ricercare assolutamente! (Alberto De Marchi) 

(Self)
Voto: 75

Kailash - Past Changing Fast


Secondo cd per i nostrani Kailash, duo proveniente da Viterbo, che propone un sound estremamente personale e sperimentale. Partendo da basi math, l’act laziale esplora un po’ tutti gli ambiti della musica metal e non solo. Devo dire che mi ha fatto un po’ impressione leggere in giro per il web che i nostri siano una formazione black metal (relegato ad un paio di rare incursioni selvagge), perché a mio parere questa informazione è estremamente fuorviante di quelle che sono invece le reali note che si trovano nelle corde del duo Marco/Andrea. La prima “Water Glimpse” è una song strumentale (come tutto il resto del disco d’altro canto) decisamente ispirata al post rock, in cui si susseguono passaggi che vanno a dipingere ambientazioni oscure ed altre più brutali. La successiva title track è un gioiello in cui si incastonano gemme di jazz, avantgarde, math-core e progressive, che la incoronano decisamente al primo posto tra le mie preferenze. Sia ben chiaro “Past Changing Fast” non è uno di quei lavori estremamente semplici da essere affrontati: il fatto di essere cosi eclettico pone come condizione basilare la necessità di avere una mentalità estremamente aperta a questo genere di sonorità, non sempre facili da digerire. Andando avanti con l’ascolto dei brani, ci si rende sempre più conto della elevata capacità tecnica dei fratelli Basili che già avevano messo in luce le proprie potenzialità in passato sotto il monicker di Krom. I nostri sono dei maestri nell’alternare momenti di delicata poesia, ad altre esplosive evocazioni sonore, esaminando in modo approfondito il proprio intimo e le percezioni più distorte della psiche umana. Forse sto vaneggiando si, ma è solo l’effetto ipnotico che l’incedere di questo disco provoca alle mie cellule neuronali. Sono destabilizzato da quest’alternanza di suoni disarmonici, completamente disorientanti, che sembrano volti a portarci in un universo parallelo in cui tutto va all’incontrario. Bello, ma tutto decisamente strano, mi trovo quasi al termine dell’ascolto del cd e ho perso la cognizione del tempo e dello spazio. È un andirivieni di emozioni che travolgono l’ascoltatore, che spesso si ritrova spiazzato dalle soluzioni adottate dai nostri, decisamente dei maestri nel saper miscelare influenze provenienti da più ambiti musicali. L’unica scelta che magari non condivido troppo è il fatto di non avere un cantante in pianta stabile nella band, una di quelle voci sofferenti che potrebbero donare al tutto ancora maggiormente un feeling di disperazione, inducendo quindi l’acquisto di questo disco solo ad un ristretto numero di persone. L’ultima segnalazione riguarda il rifacimento di “Remembrance of the Things Past”, song dei norvegesi Ved Buens Ende, logicamente riletta in chiave Kailash style. Se volete abbandonare il vostro mondo e immergervi in un altro per una quarantina di minuti, il suggerimento che vi do è di tuffarvi nelle note di questo futuristico “Past Changing Fast” e lasciarvi andare ad un alternanza di pensieri confusi e distorti, attenti però a non sfociare nella pazzia! Raffinati e intensi, ma decisamente poco abbordabili e relegati per ora, solo all’ascolto di una di nicchia di persone. (Francesco Scarci) 

(Frostscald Records)
Voto: 75

Illidiance - Synthetic Breed

#PER CHI AMA: Cyber Death, The Kovenant, Fear Factory
Da più parti indicati come la migliore cyber metal band russa, gli Illidiance con questo Mcd di cinque pezzi (più un live video), confermano effettivamente le proprie eccellenti doti musicali. Formatisi appena nel 2005, e già con due full lenght alle spalle e diversi concerti di supporto ad act quali Rotting Christ, Deathstars e Grave Diggers, con “Synthetic Breed” i nostri vogliono regalarci un gustoso antipasto in attesa dell’uscita (speriamo prossima) del loro terzo cd. Musicalmente parlando possiamo collocare il quartetto di Rostov sul Don a cavallo tra le l’electro death dei The Kovenant e il cyber thrash dei Fear Factory. Si parte alla grande con “Cybergore Generation”, song di notevole spessore, in cui il combo russo mette in luce il proprio bagaglio tecnico-compositivo: un potente attacco frontale, arrembanti synth, gustose melodie, l’alternanza di clean vocals con il growling di Dimm “Xyrohn”, la indicano come la migliore traccia dell’Ep, mostrandoci fin dall’inizio di che pasta sono fatti questi russi. Si prosegue con “Infected”, song più ritmata, che mi ha ricordato le ultime cose dei nostrani Ensoph, per quelle sue atmosfere esoterico-futuristiche. La terza “Mind Hunters” conferma le buone cose sentite fino ad ora: ritmiche schizzate su basi melodiche industrial cibernetiche che ci travolgono con quei suoi catchy riffs e per le sue vibrazioni elettroniche capaci di infettare l’ascoltatore. “Razor to the Skin” esordisce molto in stile Kovenant, ma poi prosegue con la sua furia high-tech. Un plauso particolare va fatto ai due vocalist, bravissimi come impostazione vocale, altrettanto bravi nel saper alternare il cantato growl e clean. Chiude la bonus track, “Cybernesis”, trionfante marcia di chiusura per un lavoro che conferma effettivamente le qualità di una band che non conoscevo, ma che è stata in grado di conquistarmi fin dal primo ascolto. Da tenere sotto stretta osservazione! (Francesco Scarci)

(Hellcome to Dollywood Records)
Voto: 75
 

Defamer - Chasm

#PER CHI AMA: Brutal Death, Cannibal Corpse
Album d’esordio totalmente home-made per questi cinque ragazzi australiani provenienti dal Queensland che forse però sono troppo audaci nel voler fare tutto da soli, peccando d’inesperienza. Fin dall’inizio infatti, l’intro “In Umbris” di oltre 2 minuti (un po’ troppi) dei Boyd Potts non si dimostra una felice collaborazione, il pezzo infatti resta slegato al resto della scaletta e risulta essere piuttosto noioso. Seguono poi le canzoni della band, che subito lasciano spiazzati per la somiglianza dei due brani in sequenza “In Winter it Began” e “The Inverse Dominion”. L’album si risolleva a buoni livelli con i pezzi “Black Oscene” e “Of the Chasm” ma si perde poi nuovamente, in un mix di canzoni che tentano di imitare i maestri Cannibal Corpse, senza però mostrare niente di veramente originale: la voce prepotentemente growl risulta infatti monotona e troppo pastosa, mentre i passaggi strumentali, pur dimostrando una certa talentuosità non sono mai innovativi o particolarmente interessanti: la batteria corre veloce, ma non ci sono veri momenti degni di nota, mentre chitarre e basso tentano sia la strada del virtuosismo velocistico sia quella dei riff più lenti, senza però riuscire mai a sorprendere. In definitiva resta un album d’esordio mediocre che non emerge dalla massa; si attende con impazienza una nuova produzione per vedere in che direzione si potrà muovere l’ago della bilancia, sperando che questo primo album dia alla band la possibilità di avere in futuro l’aiuto di una consulenza discografica d’esperienza che potrà certamente giovare sul risultato finale. Trattandosi di un’autoproduzione la nota conclusiva riguarda la qualità del CD: la produzione risulta essere buona per quanto riguarda registrazione e incisione delle tracce, mentre una nota negativa va al booklet ed alla copertina del CD, che risultano essere di scarsa qualità. Da rivedere (Alberto De Marchi)

(Self)
Voto: 50