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martedì 3 maggio 2011

The Death of Her Money - You Are Loved

#PER CHI AMA: Post Metal, Sludge, Isis, Neurosis
Eccomi di ritorno dopo una pausa e di nuovo fedele servitore del Pozzo dei Dannati. Riprendiamo quindi con i The Death of Her Money (THoHM), trio inglese di Wales in opera dal 2006, anno in cui hanno rilasciato il loro primo EP Scandinavian Accent (NdP. esclusivamente su vinile, scelta coraggiosa) per poi produrre altri lavori fino a questo LP "You Are Loved" prodotto dalla sempre più attiva russa Slowburn Records. Questo LP contiene 7 tracce per quasi cinquanta minuti di heavy music, come gli stessi The Death of Her Money amano definire il loro genere. Se vogliamo dire qualcosa in più è un metal sludge con qualche influenza post stoner rock. Dopo la dovuta introduzione, passiamo alle canzoni e vediamo cosa ci aspetta. Entrando nel tetro mondo dei THoHM con "Held Hands", capiamo subito che i pesanti riff distorti sono l' elemento portante del loro sound, con la tanto inflazionata voce scream che conferma il taglio sludge metal della band. Canzone con qualche buon riff ma di per sé monotona e pesante (in negativo). La terza traccia si intitola "Missing Time" e per otto minuti abbondati non si discosta molto dalle precedenti. Lunghi riff incalzanti, qualche break e pochissimo testo urlato. Ma arriviamo all' opera magna "Truth", dieci minuti di lenta potenza intervallata da pause e riprese di ritmo. Effettivamente il pezzo più vario e se vogliamo, addirittura con qualche sprazzo di creatività. Certo, i campionamenti non cambiano il destino di una canzone, ma almeno bisogna provarci. "New Bodily Functions" è un breve sperimento di sludge ambient fatto di chitarre pulite e riverberi spinti che creano un' atmosfera cupa che sposa ottimamente lo stile THoHM. Concludo spendendo poche parole di valutazione perchè gli altri pezzi si possono considerare molto simili a quelli precedentemente discussi. I THoHM sono già sulla scena rock da qualche anno, alcuni miglioramenti sono reali ma come sempre la creatività non viene solo dal duro lavoro. C'è o non c'è. Per i THoHM probabilmente serve ancora del tempo per produrre un album degno di nota, oppure non accadrà mai, vedremo. (Michele Montanari)

(SlowBurn Records)
Voto: 60

lunedì 2 maggio 2011

Routasielu - Pimeys

#PER CHI AMA: Opeth, Amorphis, In Mourning
Evitando tediosi preamboli o acrobazie lessicali, si può affermare senza indugi che i Routasielu sono la rivelazione del 2011 in campo death metal. Sono comunque d'obbligo alcune precisazioni, perché se è vero che il suono di “Pimeys” è di chiara derivazione death, vi sono diversi elementi che concorrono ad ampliare le prospettive del genere verso un’espressione più complessa e poliedrica. Progressivo è quindi il termine che più si addice alla proposta di questi esordienti finlandesi, che si accostano ad una formula musicale prossima ad Opeth, Amorphis e In Mourning, ma con una dose di freschezza francamente inaspettata. Se è vero inoltre che le parti vocali rispettano la tradizione “growl”, numerose sono le concessioni al cantato pulito, senza dimenticare che la peculiarità più intrigante di “Pimeys” è la scelta dei testi, scritti ed interpretati integralmente in lingua madre. Forse è per questo motivo che alcuni brani sono contaminati da suggestioni vagamente folk, anche se il termine non deve trarre in inganno, perché i Routasielu, per fortuna, non indossano imbarazzanti elmi vichinghi, né si applicano posticce orecchie da elfo. L’inizio dell’album è a dire il vero piuttosto tiepido e non lascia trapelare nulla di entusiasmante, ma già con la terza traccia, “Sukuhautasi”, si entra nel vivo di un sound robusto, dai riff convincenti, con una perfetta integrazione della melodia in un costrutto ritmico che travolge. La successiva “M.E.V.” ripropone a grandi linee la stessa ricetta, ma amplificando il contributo della voce pulita, a delineare la natura più autentica ed enfatica del gruppo. Violenza e dinamismo esplodono invece in “Soturi”, mantenendo comunque salda la coesione con episodi vocali di una drammaticità emozionante e mai troppo opprimente. “Pimeys” scorre con un sound compatto e coerente anche nei brani successivi, amalgamando la durezza del death a squarci armonici che denotano un notevole gusto e che svelano il lato più accessibile del gruppo nelle tastiere progressive di “Kaipaus”. L’apice viene infine raggiunto con “Loppu” e la struggente “Ystävä”, poste in chiusura di un debutto sorprendente, che pare riuscito in ogni suo punto, mettendo in luce le doti straordinarie di una band sconosciuta e ancora in erba. (Roberto Alba)

(Spinefarm Records)
Voto: 90

mercoledì 27 aprile 2011

Between the Buried and Me - The Parallax: Hypersleep Dialogues

#PER CHI AMA: Post Metal, The Dillinger Escape Plan, TesseracT
Ecco ci risiamo, lo sapevo, me lo sentivo: ogni volta che arriva un cd nuovo dei Between the Buried and Me, un mix di tensione, entusiasmo e angoscia mi attanaglia lo stomaco e ancora una volta, la band di Greensboro, fresca di un nuovo contratto con il colosso Metal Blade, sfodera l’ennesima brillante prova, con un sound che, rispetto all’eccezionale precedente “The Great Misdirect”, non cambia di una virgola il proprio mood, proponendo un solido extreme progressive foolish metal (ascoltare l’epilogo folk di “Augment of Rebirth” per capire qual è il quantitativo di follia insito nella band statunitense). In questo nuovo cd, ci sono solo tre pezzi, per un totale di 30 minuti di musica che fanno dell’improvvisazione il loro dogma; e la musica rimane quella di sempre, con una base violenta, articolata, psicotica, mai scontata, in costante evoluzione, brutale, sulla quale si riescono ad incastonare dei piccoli gioielli preziosi, che solo pochissime band ad oggi, sono in grado di proporre. Con i Between the Buried and Me, il mathcore si fonde con atmosfere rock progressive alla Pink Floyd, gli schizzatissimi cambi di ritmo si amalgamano alla perfezione con atmosfere rilassate, quasi sognanti e assai melodiche; serratissime scorribande in territori vagamente grind si esaltano con le bellissime clean vocals di Tommy Rogers, abile a proporsi come sempre anche in una veste ben più aspra. Difficile descrivere nel dettaglio i tre brani qui proposti, tante e tali sono le sensazioni che vi si possono percepire. Alla fine del cd, sono talmente stordito dalla perfezione di questa release (e stupefatto dalla precisione chirurgica a livello tecnico della band), che sento la necessità di ricominciare daccapo e rituffarmi in un vigoroso e vertiginoso vortice di emozioni spaventose. Mostruosi come sempre, graditissima conferma! (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 80

martedì 26 aprile 2011

Progeny - Insanity

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Pantera, Death
È sempre difficile dare una valutazione completa di un lavoro costituito da 3 pezzi e i 14 minuti di questo MCD non sono a mio avviso sufficienti a capire le potenzialità di questi Progeny, band comunque in giro da un bel po’ di anni (2004). Si inizia subito con la rutilante “Devourer of Worlds”, dove a dominare sono delle chitarre belle toste, sostenute da un ottimo lavoro dietro alle pelli di Luca, da un basso che disegna linee ipnotiche e un vocalist dotato di una discreta personalità, capace di graffiare con la sua impostazione vocale, mostrando di essere un buon cantante. Le coordinate stilistiche su cui si muovono i nostri, se non l’aveste già capito, sono molto vicine ai grandissimi Pantera, anche se una certa matrice di fondo techno death, tenda a spostare la proposta musicale dei nostri, verso lidi più estremi e death oriented, andando a scomodare, come paragone qualcosa dei Death o dei Morbid Angel, il che è più udibile nella seconda articolata e complessa “Disciples of Sufferings”, song che comunque non si lascia mai andare alla brutalità fine a se stessa. È forse con la conclusiva “Black Sun of Inhumanity” che i nostri provano ad accelerare leggermente la propria proposta musicale, che comunque tende ad assestarsi su un mid tempo ragionato e mai fuori controllo, caratterizzato da una ricerca di un proprio stile in grado di prendere le distanze dai filoni tanto di moda in questo periodo. Peccato ancora una volta per la breve durata di questo demo cd, altrimenti il giudizio avrebbe potuto essere più elevato. Visto che “Insanity” è abbastanza datato, mi aspetto di sentire quanto prima qualcosa di nuovo e fresco, da questa potenziale interessante band. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

lunedì 25 aprile 2011

Dynabyte - 2KX

#PER CHI AMA: Electro Death, Cyber, Industrial
Sono sempre stato un grande fan di Cadaveria e quando lasciò gli Opera IX, produsse un vuoto incolmabile nella band di Vercelli, nonché nella mia. Fortunatamente in seguito, la nostra carismatica e brava singer è tornata con il suo progetto omonimo e questi Dynabyte, dove poter dar sfogo alle proprie attitudini più sperimentali, tra l’altro con grandi risultati fin dall’esordio, “Extreme Mental Piercing”, di cui custodisco preziosamente la mia copia. Con questo nuovo “2KX”, il cui significato sarebbe 2010, il trio Cadaveria; L.J. Dusk e l’inossidabile John, non si pongono limiti e si spingono verso lidi probabilmente mai esplorati fino ad ora. Gelidi suoni cibernetici si fondono con break di chiaro rimando techno, con appendici industrial che poggiano su un solido background di musica estrema, ma in questa nuova schizoide release, tutto alla fine si rivelerà estremo. “Equilibrium” apre le danze con la litania pulita di Cadaveria alle vocals che si alterna con il suo growling feroce, sopra un tappeto ritmico contraddistinto da ritmiche assassine create da un riffing dinamico e un pesante intervento di di drum machine e synths. Il marchio di fabbrica si ripete anche nella successiva “F.T.L.” caratterizzata da suoni disturbanti posti ad aprire la traccia, soavi e melodici vocalizzi della nostra lei e un impianto elettronico che fa dell’ossessività il suo punto di forza, non temendo mai di spingere cosi forte sull’acceleratore. I Fear Factory più industriali si fondono con i The Kovenant più elettronici in un arrembante miscela di suoni coinvolgenti, talvolta danzerecci (sempre di pogo stiamo parlando sia chiaro), frenetiche percussioni tribali che penetrano le nostre menti già per conto loro disturbate da una società al limite dello sfacelo. E in questo contesto si pone il tema delle lyrics della release, ossia sul rapporto uomo-macchina, tema già affrontato da diverse altre band nell’ultimo periodo. Intanto il cd scorre via senza un attimo di esitazione, con la voce di Cadaveria (e tonnellate di sintetizzatori) a far la differenza con qualsiasi altra proposta di questo tipo, ad alternare suadenti clean vocals, growling periodo Opera IX e striduli vocalizzi degni del miglior King Diamond. “Cold Wind of Fear”, la psicotica “Speed”, l’inquietante “I’m not Scared” fino alla conclusiva enigmatica “Blinded by my Light” sono solo alcuni degli ottimi esempi di cyber music inclusi in questa nuova release targata Dynabyte, che ha il suo tocco conclusivo di difformità nella scelta di produrre il tutto su una chiavetta USB assai ricca di contenuti multimediali. Nel 2011, i Dynabyte sono decisamente al passo con i tempi, anzi ho come l’impressione che li stiano anticipando in un qualche modo… (Francesco Scarci)

(WormHoleDeath)
Voto: 80

Ritual of Rebirth - Of Tides and Desert

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Testament, The Haunted
Inizio la recensione di questo disco dei Ritual of Rebirth partendo dal fondo questa volta, ossia cari amici metallari, sappiate che il disco è uscito con licenza CreativeCommons ed è quindi già in download gratuito e, soprattutto legale, sul seguente sito: www.jamendo.com/it/artist/ritual_of_rebirth. Detto questo, vi invito proprio a scaricare la musica autoprodotta dall’act italico e a dargli una chance, una grossa chance. Sebbene l’album sia autoprodotto, il contenuto è sicuramente di ottima fattura, fin dal suo aspetto esteriore, andandosi a collocare musicalmente in un ambito non proprio thrash, ma neppure propriamente death metal. La musica dei nostri si piazza infatti a metà strada tra i due generi andandoli tuttavia a centrifugare con aperture che sanno più di heavy metal classico nel senso del termine, piuttosto che di musica estrema, anche se fa dell’aggressività e della violenza il suo credo principale. Si parte forti con la title track, ma è già la sorprendente seconda traccia, “Skep.Tic” a dimostrarci quanto la band sia in piena forma: un treno in fase di deragliamento ci investe subito con il suo locomotore impazzito, pregno di potenza, fornito dal tandem di macchinisti, Tommy Talamanca (mastering) e Fabio Palombi (produzione), senza dimenticarci ovviamente del resto della band che ci prende a martellate furenti con feroci frustrate nel costato. Frustrate che proseguono anche con la successiva, “All is Blank”, song nervosa e stizzosa, caratterizzata da percussioni tribali a metà pezzo, mentre il drumming ossessivo affonda con estremo piacere, insieme ai fendenti (un po’ brevi a dire il vero) offerti dai solos. Questo sicuramente non è un lavoro che fa dei virtuosismi il suo punto di forza, ma è la violenza che gronda dagli strumenti dei nostri a fare la differenza, spingendoci senza ombra di dubbio in un vortice di headbanging impazzito, anche se la maggior parte dei pezzi, alterna sfuriate death/thrash con mid tempos ragionati e dove la voce del buon Alessandro Gorla, impreziosisce con il suo cantato sporco e cattivo la proposta dei cinque ragazzi genovesi. Un bel basso slappato apre “Sick Shylock” prima di concedersi ad una variazione al tema con un bridge che profuma un po’ di techno death, per poi riprendere il tema portante di sonorità thrasheggianti, contaminate da sane dosi di groove e una strizzatina di occhi a sonorità un po’ più post (fighissima la parte conclusiva del pezzo, che elevo a mia traccia preferita). Un mosh frenetico apre “Zebra Stripes” con la voce di Gorla costantemente corrosiva e le ritmiche frenetiche che richiamano ad un che degli Arch Enemy. Ancora mazzate sulla faccia con la settima “Hell to Pay” e con la lunga conclusiva “The Blind Watchmaker”, decisamente la traccia più elaborata (e un po’ più progressive), forse il primo passo alla ricerca di un sound molto più definito e personale, che deve essere in grado di elevare la band ligure sulle altre. Le potenzialità ci sono tutte e "Of Tides and Desert" ne è la palese dimostrazione: sound al passo con i tempi, furia in abbondanza, melodia un po’ col contagocce ma tanta energia da vendere… al miglior offerente! Si attendono ora le migliori offerte… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

domenica 24 aprile 2011

Lingua - The Smell Of A Life That Could Have Been

#PER CHI AMA: Post Metal, Tool, A Perfect Circle
“La musica è un’energia, una vibrazione che costringe la mente ad una reazione emozionale di qualsiasi tipo, una fonte d’ispirazione, uno strumento terapeutico, una rivelazione di suoni che filtrano la realtà, la musica è una droga, una via di fuga...”. Ecco in poche righe il concetto di musica per questa straordinaria new sensation svedese, che uscita dal nulla, ha sfoderato una prova d’altissima classe e spessore, garantendosi un posto nella mia personale top 10 del 2006. Non starò qui a parlarvi della loro biografia, perchè poche sono le informazioni in mio possesso sulla band; ma partiamo subito con la musica. Il trittico di brani iniziali mi fa capire immediatamente che quello che ho fra le mani è un piccolo gioiello di musica post rock sulla scia di quanto fatto dai Tool: il riff di “May Crayons Guide the Sheep” è sì, preso in prestito dalla band statunitense, ma impreziosito poi dalla voce calda e ammaliante di Thomas, in grado di regalarci emozioni da brivido. Con la successiva “You Wonder Why...”, il vocalist scandinavo dà il meglio di sé gridando a pieni polmoni tutta la sua rabbia, grazie ad uno stupendo ritornello. “Out of Faces” è un brano più intimista, soffuso (con un’atmosfera in pieno stile Deftones) che parte piano, su un leggero riff di chitarra, per poi acquisire lentamente potenza ed esplodere nella quarta traccia, in cui la voce di Thomas si fa più corrosiva e incazzata che mai. Le restanti tracce viaggiano più o meno lungo gli stessi binari, con ottimi arrangiamenti, scariche elettriche, melodie accattivanti, momenti malinconici, il tutto accompagnato poi da un’eccellente perizia tecnica e come sempre dalla suadente voce del buon Thomas in grado di dare, quel qualcosa in più, per fare di “The Smell Of A Life That Could Have Been” un grande album di debutto. Forse la pecca principale della band sta nell’essere un po’ troppo debitrice nei confronti di band quali Tool o A Perfect Circle, e quindi di non avere ancora una personalità del tutto definita. Sinceramente però me ne frego, perchè questo lavoro ha saputo farmi rivalutare un genere che, esclusi i Tool stessi e pochi altri, aveva ben pochi protagonisti sulla scene e ben poco da dire. Per me “The Smell Of A Life That Could Have Been” rappresenta quindi un ottimo album e un ottimo acquisto da fare assolutamente in attesa della recensione dell'ultimo brillante cd per la nostrana Aural... (Francesco Scarci)

(Rebel Monster Records)
Voto: 85

Demonaz - March of the Norse

#PER CHI AMA: Bathory, Immortal
Rimasto nell’ombra per quasi quindici anni, Harald Nævdal, meglio conosciuto con il nome di Demonaz Doom Occulta, torna ad esprimere il suo talento attraverso la chitarra e ad alimentare una vena creativa ormai sopita da lungo tempo, perché relegata unicamente all’attività di paroliere in casa Immortal. Il musicista norvegese imbraccia nuovamente la sei corde e torna dunque a dar sfoggio delle sue abilità di songwriter, ma in una veste mutata rispetto al passato. Il territorio sul quale ama avventurarsi Demonaz è sempre circoscritto ai confini stilistici del metal estremo, ma l’era di “Battles in the North” e “Blizzard Beasts” è indubbiamente lontana e le sonorità aspre degli esordi con gli Immortal concedono il passo ad un’interpretazione musicale più libera, scevra dai rigidi schemi imposti dal black. “March of the Norse” ha radici ancor più profonde e attinge a piene mani da un metal di stampo classico, pregno di momenti epici che non tardano a rivelare una fortissima influenza Bathory, forse più nelle atmosfere che negli accordi. Degni di nota sono brani come “All Blackened Sky” e “Under the Great Fires”, caratterizzati da chitarre granitiche e incalzanti, che fungono da vigoroso sostegno ad un incedere vocale ruvido, talvolta magniloquente. Sono comunque “A Son of the Sword” e “Over the Mountains” le protagoniste indiscusse dell’album, due composizioni dal taglio fortemente “nordico” in cui l’avvincente melodia e i solo ben articolati di chitarra rimandano a paesaggi innevati di monumentale bellezza. Certamente la ripetitività di alcune soluzioni stilistiche potrebbe ascrivere “March of the Norse” alla categoria degli album derivativi, ma va riconosciuto che in quaranta minuti di musica non si avverte alcun attimo di cedimento e già questo è un pregio non indifferente. (Roberto Alba)

(Nuclear Blast)
Voto: 80