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sabato 2 febbraio 2019

Rostres - Les Corps Flottants

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale, Pelican, Pg.lost
Dai Pirenei ecco scendere i Rostres, duo proveniente da un piccolo villaggio rurale al confine tra Francia e Spagna, per proporre il loro sound strumentale all'insegna di un post metal dalle fosche sfumature post rock. Si rivela rischioso proporre un disco senza il minimo accenno di vocals, però voglio immediatamente spoilerarvi il finale: i due ragazzi di Pau hanno superato la difficile prova. Non era facile, perchè conoscete la mia allergia a sonorità interamente strumentali, che mi porta ad annoiarmi ben presto per quella che trovo essere una privazione fisiologica di uno dei più importanti strumenti di una band, la voce appunto. Eppure il duo transalpino s'impegna con una certa efficacia a portare a casa un lavoro pulito e convincente già con l'iniziale title track e i suoi otto minuti di oscure sonorità post metal, che tra tonanti riff di chitarra e sospese melodie dal sapore etereo, mi conquista sin dai primi istanti. Credo tuttavia che sia la successiva "Exorde" a cogliere in pieno tutta la mia attenzione: inizio quasi ambient, guidato da tocchi di basso, pizzichi di chitarra e sfioramento di piatti, per quella che sarà una vera progressione musicale atta a condurci all'estasi. Non servono voci se sei in grado di riempire gli spazi con una musica adeguata, qui a tratti quasi dronica, pur vantando una ritmica che potrebbe stare su un lavoro qualsiasi dei Cult of Luna. Si prosegue con la malinconica delicatezza fluttuante di "Méandres", una song che dipinge freddi paesaggi in bianco e nero, come quelli esposti nell'artwork del disco. La traccia avanza un po' ipnotica e paranoica almeno fino a quando ad innescarsi è la ritmica possente del duo formato da Alain e Lionel. L'attacco tribale di "118" invece entra e s'insinua nella testa, e da li non accenna a muoversi in un mantra evocativo evocante anche i Pg.lost. Sublimi, non c'è che dire dal momento che ho amato alla follia anche l'ultima release della band svedese. Più hardcore oriented "Glaire", figlia di un retaggio ruvido e genuino che in passato ha fatto parte del bagaglio musicale dei Rostres. Non mancano tuttavia nemmeno qui quei momenti di quiete in grado di stemperare il lato più arcigno dei due musicisti, azzeccatissimi e curati senza ombra di dubbio. Una semplicissima chitarra acustica apre la più lunga delle canzoni, "Au Faîte des Honneurs", una song che si dilunga forse un po' troppo nell'apparato introduttivo (circa tre minuti) per poi dare libero sfogo alla sua dirompente furia elettrica, spezzata solo da altri intermezzi ambientali, in un esperimento interessante ma a tratti interlocutorio e poco incisivo. Ancora scosse di adrenalina nel finale affidato alla corrosiva matrice ritmica di "Déversoir", gli ultimi cinque schizofrenici minuti di questo consigliatissimo 'Les Corps Flottants'. (Francesco Scarci)

giovedì 20 dicembre 2018

AstorVoltaires - La Quintaesencia de Júpiter

#PER CHI AMA: Doom/Post-rock, Antimatter
Juan Escobar è musicista cileno parecchio attivo nella scena underground. Dopo aver militato negli ormai disciolti Mar de Grises, e aver fatto parte di una miriade di band tra cui Lapsus Dei e Bauda, il factotum sudamericano, ora trasferitosi in Repubblica Ceca, non solo è mente degli AstorVoltaires, ma anche membro di gente del calibro di Aphonic Threnody o Mourning Sun. Nei ritagli di tempo, si fa per dire, si diletta con la sua creatura, gli AstorVoltaires appunto, da poco usciti con questo 'La Quintaesencia de Júpiter', a rappresentare il terzo album, uscito a sei anni di distanza da 'BlackTombsForDeadSongs'. La proposta di Juan è all'insegna di un umorale post-rock, ampiamente suonato in acustico. I riferimenti per il nostro bravo artista, ci guidano in primis verso gli Antimatter dell'amico Mick Moss, piuttosto che indirizzarci verso le cose più malinconiche degli Anathema, penso ad un lavoro come 'Eternity', ad esempio. E il risultato non può che essere eccellente. "Manifiesto" è la perfetta song da collocare in apertura, un malinconica traccia strumentale che apre magnificamente questo lavoro che per alcune cose, proprio rinverdendo i bei tempi degli Anathema, si avvicina ad una song come "Angelica". Peccato solo per l'assenza della voce, che esce invece nella seconda "Hoy", una canzone aperta da un lungo tratteggio di chitarra acustica e piano, e poi la calda voce di Juan, che come una sorta di artista di strada, sembra volerci intrattenere con le sue melodie dalle tinte autunnali, che verso metà brano, sembrano caricarsi di maggiore energia. "Un Gran Océano" strizza l'occhiolino ancora alla band dei fratelli Cavanagh, con una maggiore elettricità a livello ritmico e con le liriche cantate in spagnolo. La voce drammatica del vocalist è davvero buona e ben si amalgama con la poetica musicale messa qui in scena, seppur inusuale per questo genere musicale. Strano ma originale e per me questo basta a giudicare in modo estremamente positivo la performance del nostro bravo polistrumentista. "Thrinakia: El Reino del Silencio" è un altro esempio dove la malinconia funge da driver del flusso sonico, che si oscura in un break centrale atmosferico che sembra arrivare da un qualunque lavoro sperimentale dei Pink Floyd. Il retaggio doom del mastermind c'è e si sente (e non è affatto un male), soprattutto nella coda un po' più pesante di questa traccia. Più eterea invece "Un Nuevo Sol Naciente", vicina a morbide sonorità post-rock che chiamano in causa nuovamente gli intimismi degli Antimatter, i Lunatic Soul o più semplicemente Juan Escobar stesso in questo 2018. "Arrebol" è un altro pezzo strumentale che ci rimette in armonia col mondo mentre con le conclusive "La Quintaesencia de Júpiter" e "Más Allá del Hiperbóreo", Juan propone l'espressione più "dura" della propria musica, con la lunga title track prima ed una chiusura con una breve song che evoca invece spettri di "ulveriana" memoria. In definitiva, 'La Quintaesencia de Júpiter' è un buon lavoro, che stacca dalle precedenti produzioni di Juan e spinge i suoi AstorVoltaires in una nuova sfida, da prendere o lasciare. (Francesco Scarci)

mercoledì 10 dicembre 2014

Endname - Demetra

#PER CHI AMA: Post-metal, Doom, Ambient
Un disco concettualmente diviso a metà: due lunghe tracce da una parte, due dall’altra, come suonate da band differenti (sono quattro tracce, ma è un full-lenght vero e proprio: l’intero lavoro dura quasi 45 minuti). I russi Endname sono in grado di mescolare ingredienti estremamente diversi in un unico flow strumentale che, strano ma vero, fila via dritto come un missile. 'Demetra' si apre con “Duplication of the World”: pesante e ossessiva, delirante nei tempi dispari, carica di intensità doom. A seguire “Union”: la traccia più complessa, dove distorsioni e ritmiche si inseguono per quasi 12 minuti di oscurità e groove, tra crescendo e calando di pulsazioni metalliche e sonorità nerissime. Ce ne sarebbe abbastanza per fare un EP, catalogabile banalmente come post-metal strumentale. Ma gli Endname osano di più e si avventurano in territori completamente diversi. La seconda parte del lavoro si apre con una lunghissima (17 minuti) suite ambient, “Forest”. Emerge il lato riflessivo e inquieto del terzetto di Mosca: campioni elettronici, suoni sottili, lunghi respiri del vento. La foresta è buia e avvolta nella nebbia, siamo soli nell’oscurità e qualcosa di terrificante sta per accadere. È “DOTW RX”: come un mostro che emerge dalla notte, gli 8 minuti della traccia di chiusura sono sconvolgenti e folli: dissonanze, lunghe cavalcate noise, disturbi elettronici. Pazzia pura, come nelle malate dimensioni alternative pensate da H.P. Lovecraft: si perde il senso del ritmo con la batteria completamente sfalsata, che accelera e rallenta ignorando il percorso degli altri strumenti per esplodere in un finale rumoroso e disturbante. Pur penalizzato qua e là da una produzione non sempre all’altezza della situazione, questo 'Demetra' è proprio un bel lavoro: rompe le regole del post-metal proponendo un ascolto complesso, difficile, denso di dettagli, stili, riferimenti. Un disco per pochi. (Stefano Torregrossa)

(Slow Burn Records - 2014)
Voto: 75

giovedì 13 novembre 2014

Sequoian Aequison - Onomatopoeia

#PER CHI AMA: Post Rock/Doom
Dalla ricca città russa di San Pietroburgo arriva questo album post-rock, rigorosamente strumentale e prodotto dai Sequoian Aequison. La band è un quartetto formatosi nel 2012 e da allora ha raccolto il materiale necessario per produrre questo 'Onomatopoeia', disponibile in versione digitale, cd e vinile. Quattro brani per più di quaranta minuti di suoni ambient/post-rock, ricchi di malinconia e break di pura rabbia, il tutto per trasmettere nel miglior modo possibile le emozioni dei musicisti. Lo schema è il solito: chitarre strapiene di riverbero/delay, mentre la parte ritmica rimane lenta ed articolata, a volte anche troppo. Per carità, le emozioni sono personali e non possono essere fintamente positive, quindi se queste sono quelle della band, allora va bene così. "Opening Walls" apre con un arpeggio inquietante a cui poi si legano gli altri strumenti, il tutto ad una velocità vicina al doom e quindi ascoltabili se si è in un particolare mood esistenziale. Suoni sempre perfetti per la situazione, ma quello che manca è un tema principale che permetta di memorizzare la traccia o per lo meno di distinguerla da tanti altri brani presenti nell'etere. Infatti "Rest On The Way To Nowhere" coglie questa sfida, sfruttando al meglio il basso e rendendo gli arrangiamenti protagonisti del brano. Le stesse chitarre sono più incisive, con una distorsione non esasperata ma messa al punto giusto, il groove può cambiare in meglio e arricchire la melodia già di per sé, semplice e lineare. L'album è fatto bene, per gli amanti del genere è altro materiale da consumare avidamente, ma la numerosità di ensemble simili, rende la concorrenza spietata e quindi sopravviverà chi riuscirà a dare quel qualcosa in più. Infatti le grandi band hanno interpretato il genere a modo loro, inserendo influenze oppure puntando su suoni e ritmiche particolari. Aspettando che il prossimo lavoro veda la luce più velocemente di questo, speriamo che i Sequoian Aequison evolvano, scegliendo un percorso personale ben preciso. (Michele Montanari)

(Slow Burn Records - 2014)
Voto: 70

https://www.facebook.com/seqaeq

sabato 20 settembre 2014

Steny Lda - Beloe Bezmolvie / White Silence

#PER CHI AMA: Post/Sludge, Isis, Russian Circles
Cosa aspettarsi da un album intitolato “Silenzio Bianco”, da una band il cui nome significa “Muro di Ghiaccio”, e il cui, peraltro splendido, artwork mette in fila fotografie di mari ghiacciati e iceberg, rigorosamente in bianco e nero? Detto che ogni informazione supplementare bisogna sudarsela, essendo tutto (dal nome della band a i titoli dei brani e alle note di copertina) scritto in cirillico, vado in cerca di approfondimenti e trovo la recensione che il buon Franz fece dell’esordio del quintetto russo, datato 2010, allora promosso con riserva. Schiaccio play e vengo investito dall'equivalente musicale di una tempesta artica: muri di chitarre post hardcore e ritmiche serratissime, intervallate da momenti più riflessivi di stampo post rock e quindi nuove accelerazioni maestose, sottolineate da tastiere solenni e vocals sofferte e furibonde. Una bomba. Peccato che il resto del programma mantenga solo in parte le promesse fatte nei cinque minuti furiosi e drammatici del primo brano, “Fordevind”. Già, perché da qui in poi, gli Steny Lda propongono un post/sludge dalle forti componenti cinematiche ma che perde molto potenziale allorché decide, e lo fa per buona parte del programma, di rimanere soltanto strumentale. Come già rilevato nell'esordio, anche qui infatti l’impressione è che molte delle potenzialità della band vengano meno quando non supportate adeguatamente dalla voce. I tre brani successivi, infatti, mettono in fila in maniera diligente tutto l’armamentario classico del genere, come insegnato negli anni da gente come Isis e Russian Circles, il tutto incastonato sullo sfondo di quello che, come suggeriscono i titoli, sembra essere il tema portante del lavoro, ovvero il ghiaccio. Peccato che la personalità avvertita nel pezzo di apertura qui si perda e così diventa davvero difficile distinguere l’incedere lento dei 10 minuti di “Ice Storm, The Earth Ball” da quello di un qualsiasi altro brano prodotto da una delle tante band post/sludge strumentali. Quando sembra che le cose debbano incanalarsi per il peggio, ecco però che l’album sterza decisamente a partire dalla traccia numero 5 “Drifting Icebergs in the Fog, Causing Destruction and Destruction “ (metto solo la traduzione dei titoli, che già sono lunghi di loro...) che, guarda caso, vede il ritorno delle voci che innalzano immediatamente l’asticella dell’intensità emotiva. Intensità che i cinque riescono a mantenere alta più o meno fino al termine dei 12 minuti della conclusiva “Cold Earth” (quando si dice avere un chiodo fisso...), dove veniamo salutati dal suono di un vento gelido che spazza le lande desolate del nostro animo. Alcune cose ottime, altre decisamente meno. La direzione è giusta, adesso sta a loro imboccare con più decisione il bivio, sperando che facciano la scelta migliore. Adesso però vado a mettermi un maglione pesante. (Mauro Catena)

(Slow Burn Records - 2014)
Voto: 70

sabato 12 aprile 2014

Grown Below - The Other Sight

#PER CHI AMA: Post-metal, Isis
A distanza di quasi 3 anni dalla mia recensione di 'The Long Now', ecco ricapitarmi tra le mani, per mia somma gioia, il secondo full length dei belgi Grown Below. E confermo immediatamente le sensazioni positive che ebbi nel 2011, dopo l'ascolto della opening track, "New Throne". Il quartetto di Anversa ha centrato nuovamente l'obiettivo. Otto minuti e più di atmosfere sognanti all'insegna di un sound post-, a tratti rock e in altri più marcatamente metal, di influenza Isis, si sveleranno infatti all'ascoltatore. Il disco parte aggressivo con delle chitarre massicce e ipnotiche, che ben presto cedono il passo ad un suggestivo e notturno break centrale; l'effetto che lascia è quello di passeggiare tra le strade deserte di una città, la notte, in un mix di solitudine e libertà. Qui la voce pulita di Matthijs (capace anche di scorribande growl e scream) regala senza dubbio potenti vibrazioni. "My Triumph" attacca con la tribalità del suo drumming magnetico, un caldo basso in sottofondo, una chitarra che timida lascia qualche segno nell'etere e poi di nuovo la suadente voce (a tratti esaltante) del frontman belga. Ma questo lo sapevamo già, l'avevo già scritto in occasione del loro debut. Il sound minimalista dei Grown Below si alterna con quello più roboante dei nostri anche se in questa release maggiore spazio viene lasciato ad una componente dark acustica come nella strabiliante seconda metà di "My Triumph", forse la traccia più riuscita dell'album e quella che lascia intravedere ottime prospettive in chiave futura. "Phantoms" si dischiude offrendoci seducenti frammenti di musica oscura, tipicamente figlia del post rock moderno che ha il pregio di cedere anche a sfuriate elettriche da brividi. E per questo, ho la pelle d'oca alta un dito. "Reverie" è un altro esempio della classe del 4-piece di Anversa: ancora sonorità ammalianti, tenui e rilassate che esploderanno ben presto in nebulose tempeste metalliche che in questa traccia arriveranno addirittura a sfiorare il funeral doom nel finale. Ottimo ritorno questo 'The Other Sight', per una band da cui ora mi aspetto il salto di qualità definitivo. (Francesco Scarci)

(Slow Burn Records - 2013)
Voto: 80

venerdì 13 dicembre 2013

Slowrun - Prologue

#PER CHI AMA: Post Rock strumentale
Post-rock, Finlandia e due musicisti alla continua ricerca del suono perfetto. Ottimi ingredienti per ottenere un bell'album, ma il terreno è sempre arduo e pieno di avversità nel duro mondo della musica. Creare, ispirarsi e fare qualcosa di nuovo è da sempre il chiodo fisso del musicista che vuole esprimere la propria arte, quindi facile comprendere tutto il lavoro che sta dietro a una produzione come 'Prologue'. Suoni perfetti e arrangiamenti equilibrati per il post-rock strumentale che soffre di limiti se si scegli di stare nel genere. "Approaching" è la traccia introduttiva e non ha nulla da invidiare a God is an Astronaut, Russian Circles e Sigur Ros. Tutto è al posto giusto, come le chitarre spaziali, le esplosioni ritmiche alternate a break che creano dinamicità ed evoluzione che l'ascoltatore apprezza. Ma se si è amanti del genere, subito il pensiero va ai classici e ci si chiede: ce n'era bisogno? Forse no se anche i Slowrun decidono di calcare gli stessi passi, ma forse si se questa è una prova generale per confermare che hanno le carte in regola e da qui iniziare un percorso artistico personale. Anche "Escapism" denota cura e amore per il suono e sicuramente un live con uno spettacolo di luci degno di nota guiderebbe l'ascoltatore verso profondità oceaniche avvolte da un dolce silenzio. Oppure verso un infinito spazio stellare illuminato da soli lontani che aspettano solo di incontrare forme di vita ignote ancestrali. Che sia un viaggio verso il basso o verso l'alto, i Slowrun devono continuarlo senza perdersi, ma creando loro stessi la via che li potrebbe far brillare di luce propria. E non di riflesso come spesso accade. (Michele Montanari)

(Slow Burn Rec. - 2013)
Voto: 65

https://www.facebook.com/slowrun

domenica 27 ottobre 2013

Osoka - S/T

#PER CHI AMA: Drone/Doom/Post, Sleep, Jesu, Om, Khanate
I russi Osoka pubblicano per la Slow Burn Records il loro primo full lenght datato 2013 e non potevano trovare casato migliore per esporre la propria musica. Proprio così, valutando che stiamo parlando di musica ipnotico/compulsiva, deviata e iper distorta. Stiamo parlando di un ingorgo astrale fatto di Sleep, Khanate e Jesu, musica senza compromessi devastante e letale. Non ci sono momenti di luce, il tutto risuona come una meditazione tibetana triturata da un asceta folle, innamorato del metal più estremo e rumoroso. Una catarsi sistematica che si muove insidiosa ed il suo avanzare lento è micidiale, asfissiante, totale, gonfio di sole nerissime ombre. Stilisticamente vicinissimi all'album apice degli Sleep, "Jerusalem", ma con un suono più freddo e industriale, senza le influenze '70s, agli assoli si sostituiscono cascate di lavici feedback. I vocalizzi alla Om sono un optional che a volte ritorna per aumentare l'ipnosi sotto forma di canti sciamanici siberiani... buona la grafica del cd, peccato per la grafia completamente in cirillico che assolutamente non decifriamo. L'album si snoda in sette lunghissime tracce monotematiche e monolitiche, straripanti distorte rasoiate al rallentatore, un umore nero capace di far sprofondare chiunque all'inferno e non farlo più tornare e una patologica composizione devota alla psichedelia pesante più introspettiva e cupa. Da elogiare uno sforzo sonoro di tale portata anche se l'ombra del mito antecedente, ossia il suddetto "Jerusalem", ci fa perdere un po' il senso di questo lavoro, caricandolo di idee ben sviluppate ma sensibilmente poco originali. Per amanti del genere è consigliato. (Bob Stoner)

(Slow Burn Records - 2013)
Voto: 65

http://slowburnrecords.bandcamp.com/album/osoka

lunedì 21 maggio 2012

Whales And Aurora – The Shipwreck

#PER CHI AMA: Post Metal, Sludge, Russian Circles, Isis, The Ocean, Mogwai
Al calar delle tenebre, nelle oscure acque della scena musicale italiana, si avvista una sagoma all'orizzonte. È il relitto dei Whales And Aurora, che molto lentamente va approdando nel mio stereo con “The Shipwreck”. Le prime tracce, “Refused Recounting Word”' e ”Achieving the Unavoidable” mi fanno subito capire che il giovane gruppo di Vicenza ha le idee chiare sul sound che vuole proporre: lentissimi riff che avvolgono l'ascoltatore in un totale squilibrio emotivo, accompagnati da una batteria la quale, ogni volta colpisce un tom, ci fa un'acconciatura diversa. Il tutto è reso ancora più oscuro da uno screaming disperato, che fortunatamente ci accompagnerà durante tutto il disco. La produzione è ottima, riesce a far risaltare ogni singolo arrangiamento, amplificando in modo ottimale le sfuriate di basso, le chitarre, dai muri sonori dissonanti e dalle fini modulazioni, senza dimenticare le ritmiche della batteria, che fanno da padrone incontrastate nella possanza dei brani. Traccia 3 – “The Aground Hard-Ship”: disagio. Non dico altro. La seconda parte del disco offre il culmine in termini di pathos dell’intero lavoro: dagli assuefanti delay chitarristici e dal basso inarrestabile di “Abandoned Among Echoes”, alla commovente tranquillità di “Awakened by the Aurora”, che momentaneamente mi inganna, gettandomi in un mare di lacrime per la prematura fine dell'album e i conseguenti fiumi di maledizioni verso coloro che hanno composto un disco così breve. Poi mi riprendo. Minuto 32:50 “A New Awareness”. L'intro di questo capolavoro downtempo, mi induce la pelle d'oca ad ogni singola nota, prima di scaraventarmi con innaturale forza e dolore nel pieno di questa nuova consapevolezza che racchiude tutto il malessere inimmaginabile. Tutto ciò poi va a scemare in “Floating on Calm Waters”, brano che rappresenta adeguatamente il proprio titolo, regalandoci una deriva sulle calme e silenziose acque della disperazione. Non mi rendo conto che il disco è finito, sto ad aspettare ingenuamente una nuova traccia, sperando che si ripeta l'episodio che mi ha regalato una perla come accaduto in precedenza, ma dopo alcuni interminabili attimi, mi accorgo che il lettore si è fermato. Il relitto ha terminato la sua attraversata. (Kent)

(Slow Burn Records)
Voto: 90

giovedì 16 febbraio 2012

Fading Waves - The Sense of Space

#PER CHI AMA: Post Metal
Ormai dovremo diventare reviewer ufficiali della Slow Burn Records vista la mole di materiale che ci spediscono ogni mese. Ma diciamo grazie invece che esistono ancora etichette coraggiose che cercano nelle cantine marce e buie dell' underground... Questa volta è il turno dei Fading Waves, o meglio, di Fading Waves, visto che è un progetto post-metal solista dalla madre Russia. "The Sense Of Space" è un EP di cinque pezzi che ripercorre il classicismo del post-rock, così com'è nato qualche hanno fa e che qui viene ripreso sia nella struttura che nelle scelte sonore. Elemento che tesse la trama di tutti i pezzi è la chitarra, anche se viene fatto un buon uso di basso e la batteria assolve con merito il suo ruolo ritmico. Dopo la breve intro, passiamo al secondo pezzo "Flashes" dalla struttura scontata negli arpeggi che diventano distorti verso la fine, mantenendo l'armonia costante per tutti i nove minuti. L'utilizzo di delay e reverb è d'obbligo per soddisfare i requisiti post. Per questa traccia è stata chiamata una vocalist dalla voce eterea che si sposa perfettamente con l' atmosfera sfuggente iniziale. "Perforate the Sky" viene invece interpretata dal one man band che sta dietro a questo progetto, dotato di un growl di tutto rispetto, dosato al punto giusto e all'unisono con le esplosioni strumentali. Le classiche pause e i ritorni alle ritmiche lente iniziali completano il quadro "classico", la vera grande pecca di questo album. Se arrivi primo crei un nuovo genere, se arrivi secondo ti sei ispirato, se arrivi terzo hai copiato spudoratamente. Mettiamola così, questo "The Sense Of Space" era una prova generale per mostrare le potenzialità, ora attendiamo il prossimo lavoro. NB: Fading Waves sta cercando vocalist per la prossima sessione in studio di registrazione, quindi se vi avvicinate ai Katatonia e Tesseract come stile e timbro, fatevi avanti! (Michele Montanari)

(Slow Burn Records)
Voto: 65

domenica 12 febbraio 2012

Reido - Minus Eleven

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal
L’esplorazione dell’underground musicale si ferma oggi a Minsk, in Bielorussia, per scoprire pregi e difetti del secondo album dei Reido, dopo il lustro trascorso dal precedente “F:\all”. E in cinque anni si sa, di cose ne cambiano parecchie. Dal funeral doom sporcato da influenze industrial degli esordi infatti, i nostri hanno virato la propria proposta verso lidi più melmosi, con un sound molto più affine allo sludge/post metal. Gli otto minuti di “Violence & Destruction” rappresentano un bel biglietto da visita per configurare la nuova direzione del duo bielorusso: un mid-tempo allucinato che dimenticati appunto gli influssi industrial del debutto, si lancia in ritmiche articolate, ripetitive, senza mai travalicare tuttavia la soglia della violenza. Il nuovo prodotto targato Reido sembra soffrire degli influssi dei Meshuggah, da cui certamente il duo della ex repubblica sovietica, prende in prestito il sound delle chitarre accordate a semitoni bassi, con l’aggiunta e la delezione di note, modificandone i valori, e sostituendoli armonicamente con altre fuori tonalità, in strutture sequenziali subordinate a logiche matematiche. Il risultato che ne deriva è estremamente ritmato, contraddistinto da accattivanti atmosfere create da distorte linee di chitarra, con il growling graffiante di Alexander, ad emulare quello di Jens Kidman, leader dei gods svedesi sopra menzionati. L’attitudine sludge dei nostri, la si può certamente percepire in “The Six-Day War”, la mia song preferita, anche se strumentale (cosi come pure la conclusiva “Flows & Eruption”), provvista di un feeling assai più vivace, spezzato solo da una glaciale atmosfera apocalittica, quella che d’altro canta, ammanta gelidamente questo “Minus Eleven”, ossia i gradi che si registrano in questi rigidi giorni di inverno. Curiosa la scelta di far uscire questo lavoro “-11” in data, 11/11/11, soprattutto quando anche la parola Reido è correlata alla condizione termica, essendo la traslitterazione giapponese di zero assoluto, intesa come la più fredda temperatura possibile. Artici! (Francesco Scarci)

(Slow Burn Records)
Voto: 75

sabato 4 febbraio 2012

Starchitect - No

#PER CHI AMA: Post Metal, Sludge
Dall'Ucraina con furore direi, visto che gli Starchitect vengono da questo silente paese che pian piano sta emergendo, almeno musicalmente nell'ultimo periodo. Merito della Slow Burn Records che permette a molti gruppi di uscire dall'universo underground. Questo "No" è un' album a tutto Post direi, infatti i nostri affrontano il post-rock e il post-metal con grande naturalezza e una buona dose di freschezza artistica. Infatti oggi come oggi, fare il verso ai pilastri del genere ci vuole poco, ma trovare riff alternativi (qua aiuta la contaminazione prog) e cercare nuove sonorità, è indice del fatto che c'è impegno e voglia di fare un prodotto valido. L'atmosfera dell' album è come al solito sofferente e cupa, come in "Light" che entra con un riff di chitarra quasi leggero e poi il tutto si apre in una buona esplosione strumentale. La voce, growl e scream, imperversa in tutti i pezzi ed è questa peculiarità che appesantisce tutto l'album. "Yeah" a mio avviso è un piccolo capolavoro, il pezzo con la struttura più varia e dai riff meno cupi, che lascia intravedere un riscatto e un ritorno alla luce per questo album dal taglio classico per il genere. Nota interessante il fatto che il batterista sia anche il vocalist, aumentando la difficoltà in sede live ma che dai vari video sparsi nel web, sembra comunque portare avanti con buoni risultati. Posso dire che questo "No" è un ottimo debutto (senza tralasciare il precedente split con i Fading Waves) e se gli Starchitect sapranno disegnarsi un buon percorso, avremo delle belle sorprese per il futuro. (Michele Montanari)

(Slow Burn Records)
Voto: 75
 

sabato 22 ottobre 2011

Grown Below - The Long Now

#PER CHI AMA: Sludge, Post Metal, Isis, Cult of Luna
Come sempre mi avvicino con una certa curiosità alle proposte musicali della Slow Burn Records, da sempre sinonimo di ottima musica e profonda conoscitrice di realtà underground estremamente valide nell’ambito post. Quest’oggi è il turno del debutto dei belgi Grown Below, band a me totalmente sconosciuta che con questo “The Long Now” cercando di raggiungere un po’ di notorietà in un ambiente totalmente affollato come quello del post metal/sludge. Inserisco il cd nel lettore e mi si parano immediatamente davanti tredici insormontabili (mi immagino) minuti di “Trojan Horses” e del suo ritmo ovviamente melmoso, contraddistinto dal classico vocalizzo growl del genere e da un riffing ultra distorto. Storco un po’ il naso, ho come la sensazione che mi annoierò parecchio da qui alla fine, ma immediatamente una voce pulita, pregna di sofferenza, si alterna al cantato da cavernicolo e spazza via le nubi che si stavano già addensando nella mia mente. L’atmosfera rallenta ulteriormente, si addolcisce, vengo turbato, nel senso buono sia chiaro, da suoni soavi, malinconici, addirittura romantici; l’ho già eletta mia song preferita dell’album. La performance di Matthijs Vanstaen alla voce è a dir poco esaltante, cosi come le cupe ambientazioni, che si alternano una dopo l’altra, nell’imbrigliante progressione di questo lavoro. Questa “Cavalli Troiani” decisamente ci consegna un’altra stuzzicante band che farà la gioia mia e di tutti quelli che amano gli Isis o i Cult of Luna. “Devoid of Age” deflagra nelle casse del nostro stereo con un sound potente, corposo, marcescente, tuttavia coadiuvato da un accompagnamento intrigante che la rende molto più ascoltabile. È la volta di “The Abyss” e la sensazione che ci coglie è proprio quella di sprofondare negli abissi con un sound vertiginoso, che alterna ancora una volta la melmosità sludge a momenti di delicata sofferenza e dove fa anche la comparsa una deliziosa voce femminile. Sono colpito, non lo nego, alla terza traccia, ho già ordinato la mia copia personale di questa avvincente release e non sono nemmeno a metà dell’ascolto del cd. Chiaro, le influenze provenienti dai maestri di Boston, Isis, sono evidenti, ma non importa perché ancora una volta, la classe dei Grown Below, emerge forte, convincente e vincente al tempo stesso. L’ambient miscelato al post rock, allo sludge e al metal è estremamente ben confezionato da questo quartetto di Antwerp, che esiste solamente dal 2010 e se questo è il risultato c’è ben da sperare per il futuro di questi ragazzi, che nelle tracce di “The Long Now” affrontano il tema della fine del tempo. Giusto un intermezzo ambient ed ecco altri tredici minuti con “End of All Time” a suggellare la performance dei nostri: incedere lento, opprimente, claustrofobico, insomma nel totale rispetto di tutti i sacri crismi del genere, sfiorando addirittura il funeral doom. Ma non abbiate timore ad avvicinarvi a tali sonorità, perché poi la bravura dei nostri sta nel personalizzare, rivedere, stravolgere il sistema con le proprie brillanti idee. Accanto all’indubbio valore musicale dei Grown Below, si aggiunga anche l’eccellente caratura tecnica e l’ottima registrazione che arricchisce il suono di una profondità inusuale. Mai domi, i nostri si lanciano con composizioni che superano i sedici minuti (la title track) che conferma quanto di buono espresso sinora. Ragazzi, non ho altro da aggiungere, se non fare i complimenti ancora una volta ad una etichetta dalla vista lunga e a una band dalle idee veramente chiare. Sorprendenti! (Francesco Scarci)

(Slow Burn Records)
Voto: 85

venerdì 1 luglio 2011

Somnolent - Renaissance Unraveling

#PER CHI AMA: Sludge, Post Metal, Drone
Un nome un programma e se il buon giorno si vede dal mattino, mi dovrei aspettare dai Somnolent un bel funeral doom, cosi come era stato per il loro album di debutto, “Monochromes Philosophy”. Con mia somma sorpresa, constato felicemente che la nuova direzione musicale intrapresa dal quintetto di Odessa è invece uno sludge post metal dalle tinte progressive, che fin dall’iniziale “Exhale!”, riesce a conquistarmi per la varietà dei suoi suoni di chitarre distorte, ritmiche martellanti e growling vocals, abbinata ad una raffinata ricerca di quell’improvvisazione che rese grandi i nostrani Ephel Duath. La conferma di questo nuovo percorso stilistico, arriva anche con la successiva “Emptiness Beyond the Horizon”, che nonostante un’apertura dalle forti sfumature doomish, mi fa ben presto soffermare a riflettere sui suoni psicotici del combo ucraino con un assolo quasi preso in prestito da un certo blues rock anni ‘70. Devo ammetterlo, sono disorientato e lo sarò ancora di più con la terza “Visible World Eraser”, che apre con un bel wah-wah delle chitarre, accompagnate da un flebile basso e da una voce quasi sussurrata (di scuola Isis). Ecco che si sprofonda nella melma del sound fangoso tipico sludge-drone, con un arpeggio ipnotico reiterato, che lascerà ben presto campo aperto alle “grida” profuse da una chitarra impazzita. Otto minuti per una traccia che si muove all’interno di sonorità dal forte sapore onirico e da un intenso flavour seventies. “P.R.O.S.E. (Poem Risen On Somnolence Error)” rappresenta un breve, quanto mai inatteso, frangente hardcore/progressive/jazz (che improbabile trio, vero?) in grado di accompagnarci negli oscuri meandri di “Solipsistic Exfoliation”, song che questa volta fa del drumming il suo elemento portante, con una voce in sottofondo che parla di scienza e teologia, prima dell’esplosione finale dei suoi suoni. Mi piace, “Renaissance Unraveling” mi piace sempre di più, man mano che si spinge in avanti e osa, anche se magari talvolta non riesce a raggiungere i risultati auspicati, come le meno brillanti prove di “Chrysalis Verge” part 1 e 2. Quel che conta però è che la band non si fermi davanti a nulla e che abbia deciso di mettersi completamente in gioco, come se non avesse nulla da perdere e questo è ciò che realmente apprezzo di questi Somnolent, in quanto indice di personalità e carisma. Alla fine non ho ben capito cosa diavolo sto ascoltando o come definire esattamente questa musica, so solo che mi è entrata dentro e lentamente si è impossessata delle mie facoltà cognitive. Peccato solo per la conclusiva “Division of Nihil”, altra song estremamente interessante, dalle atmosfere tenui e pacete, ma che sembra quasi interrompersi di colpo, ponendo fine in modo alquanto affrettato ad un album che mi ha regalato ottimi spunti riflessivi: il post metal è vivo più che mai e sono certo che i confini per questo genere sono ancora estremamente lontani. Promossi a pienissimi voti, brillanti! (Francesco Scarci)

(Slow Burn Records)
Voto: 80

domenica 12 giugno 2011

Talbot - Eos

#PER CHI AMA: Doom, Psichedelia, Stoner, Cathedral, Electric Wizard
Ho ricevuto il promo di questa stuzzicante release e successivamente sapete cosa ho fatto? Sono andato sul sito dell’etichetta russa Slow Burn Records ed ho acquistato il cd del duo estone, senza alcuna esitazione e questo sarà quello che al termine di questa recensione vorrei suggerirvi di fare. Intro doomish affidata a “Threshold”, il cui riffone di chitarra viene ripreso anche dalla successiva “Cayenne”, che ci spara in faccia un sound che sembra saper coniugare alla grande gli insegnamenti dei primi Cathedral (riffs granitici e ultra slow) con lo stoner degli Electric Wizard, e con la voce di Magnus Andre che si diletta tra il growling più cavernoso e quello pulito (in taluni momenti addirittura cyber, per l’uso dei riverberi), mentre la musica perde ben presto quella sua linearità iniziale per aggrovigliarsi su se stessa in una delirante psichedelia, qui amplificata alla grande, dall’ampio spazio concesso ai sintetizzatori e dall’uso di chitarre dal forte flavour seventies. Con i minuti iniziali di “Observer X” vengo inglobato dalle visioni allucinogene della band di Tallin, come se mi spingessi pericolosamente in un viaggio di esplorazione spirituale, ovviamente solo dopo essermi calato pesanti dosi di acido lisergico. Cosi come accadde a Homer Simpson in una puntata del noto cartone animato americano, in cui il protagonista, dopo essersi mangiato un peperoncino super allucinogeno, ha delle visioni completamente distorte della realtà, e il suo spirito (un coyote) gli suggerisce come affrontare la vita, allo stesso modo, Magnus e Jarmo, ci prendono per mano e ci conducono alla ricerca di noi stessi attraverso la loro proposta musicale estremamente interessante. L’eco dello space rock emerge fortissimo nella breve title track, per poi lasciare il posto alla lunghissima (più di undici minuti) “Combat Zen Speech” che come una danza tribale attorno ad un grande fuoco, con i tamburi che picchiano ripetutamente, ci persuade ad abbandonarci alla sacralità della cerimonia, contraddistinta dal forte odore dell’essenze che saturano l’aria e di conseguenza le nostre menti. Ragazzi che botta, neppure l’uso delle droghe più forti del mondo, credo possa spingerci in un trip del genere, dove il battito del cuore accelera in modo pauroso, seguendo l’intensità sonora di questo “Eos”, il respiro si fa quanto mai affannoso e inaspettatamente ci ritroviamo barcollanti con i sensi totalmente alterati. Pur non essendo un amante di questo genere musicale, mi sono lasciato andare alla proposta dei Talbot, sono stato conquistato dall’impatto forte che ha avuto sui miei sensi, e ne sono rimasto da subito affascinato. Ultima nota da segnalare, oltre all’ottima produzione, è che il cd è stato rilasciato in versione digipack limitata alle prime 500 copie. Deliranti! (Francesco Scarci)

(Slow Burn Records)
Voto: 85

domenica 29 maggio 2011

Steny Lda - Steny Lda

#PER CHI AMA: Sludge, Post Metal, Isis
L’attivissima etichetta Slow Burn Records ha dato alle stampe lo scorso dicembre al full lenght di debutto dei russi Steny Lda (il cui significato è “Muri di Ghiaccio”). La proposta dell’act sovietico (non mi è dato di sapere il numero e il nome dei membri della band), è in linea con le proposte della sub label della Solitude Productions, ossia un post metal/sludge che a parte le ultime due tracce, è da considerarsi un disco meramente strumentale e proprio qui risiede il punto debole di un disco che avrebbe potuto meritare un voto molto più alto se solo una giusta voce avesse completato l’opera. Questo si evince dalla necessità di completare qualcosa di estremamente strutturato, insomma come la vedreste voi se gli Isis avessero suonato esclusivamente senza il cantato caldo e selvaggio del buon Aaron Turner? Io non molto bene, in quanto le vocals a mio avviso costituiscono un vero e proprio strumento a disposizione della band, per conferire maggiore personalità o dinamismo ad un disco. E questo “Steny Lda”, per quanto sia un cd che a me piace, trova la sua pecca nella mancanza di quelle vocals che avrebbero potuto donare una maggiore dinamicità ad un disco che è tuttavia in grado di offrire buoni spunti a livello musicale. E dire che gli ingredienti per fare il botto ci sono tutti: ritmiche in pieno stile sludge (ottima “O-M-G”) si avvicendano con atmosfere più soffuse, tipiche del post rock, quasi a voler tributare i Mogway (ascoltate “0-5-7”), con i loro passaggi delicati e a tratti ripetitivi, quasi una sorta di ninna nanna che ci spinge verso una dimensione più onirica. Ma è poi la componente elettrica a riemergere più preponderante come nella successiva “H-M-T”, che a parte riproporre le urla già trovate in “O-M-G”, viaggia sui binari del post metal melodico sospinto da una forte vena malinconica. Le fastidiose urla del vocalist tornano anche in “C-O-W” (quanto mi piacerebbe conoscere il significato di questi simboli e numeri), mentre la settima “C-W-B” mostra un sound più vicino a Mastodon e Baroness, con delle ritmiche grooveggianti dal forte flavour sudista. Ma ancora una volta è il piglio post rock depressivo a riemergere con finalmente un cantato “normale” (tuttavia da rivedere in quanto poco espressivo), cosi come pure nell’ultima “1-0” che chiude un disco che per quanto possa risultare interessante, mi lascia comunque con l’amaro in bocca, per tutte quelle potenzialità ahimè inespresse. Rimango in attesa di un come back discografico per prendere una posizione più definita per ciò che concerne questi Steny Lda. Nel frattempo godiamoci questo debutto, che “del domani non v’è certezza” (Francesco Scarci)

(SlowBurn Records)
Voto: 70

martedì 3 maggio 2011

The Deadist - Time Without Light

#PER CHI AMA: Sludge, Doom, Entombed, High on Fire
Difficile non capire fin dalle prime note di questo “Time Without Light” l’origine dei The Deadist, perché fin dal riffone portante della prima “Woven”, è chiaro che la compagine arriva dalla Svezia e che i nostri si presentano come una sorta di emuli dei ben più blasonati Entombed. Forti della produzione della sempre attenta Slow Burn Records, il quintetto di Gotheburg, ci confezione queste 5 tracce (a cui si aggiunge una traccia fantasma, che non è altro che la riproposizione di “Blizzard of Nails”) che si rifà appunto al sound più ruvido e sporco dei già citati Entombed, con bei riff di chitarra super ribassati che prendono un po’ spunto dallo sludge americano, con dei ritmi mai troppo frenetici, ma costantemente tenuti sotto controllo, grazie anche all’utilizzo di passaggi doom e fuori programma al limite della psichedelia. Se dovessi scegliere lo strumento che più mi ha impressionato in questa release, non esiterei a citare il basso palpitante di Paul Freeman, sempre in primo piano con i suoi giri che talvolta rievocano anche i suoni grooveggianti dei Kyuss, nonché il pachidermico, ossessivo e pesante sound dei primi Black Sabbath. Si, insomma se siete amanti di questo genere di sonorità, sicuramente “Time Without Light” farà al caso vostro. Chi non è abituato a questa tipologia di suoni, meglio gettarsi all’ascolto dei ben più rinomati ed originali Neurosis. Comunque da tenere sotto controllo. (Francesco Scarci)

(SlowBurn Records)
Voto: 65