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martedì 15 marzo 2011

Raventale - After


Come back discografico per Mr Astaroth, leader della one man band ucraina Raventale, che a poco più di un anno e mezzo dal precedente “Mortal Aspirations”, torna col suo black doom atmosferico. Se tanto avevo apprezzato la precedente release, con “After” mi sembra che il talentuoso polistrumentista abbia fatto un leggero passo indietro, proponendo sonorità molto più derivative che in passato. L’album si apre con “Gone”, dieci minuti di un doom soffocante, cadenzato e desolante, in cui la voce del nostro eroe si conferma sofferente e disperata, senza tuttavia mai travalicare in uno screaming blackish. Il sound continua ad avere come punti di riferimento i grandi maestri del genere (quelli degli esordi però), Anathema e My Dying Bride, mostrando ritmiche permeate di un pathos e di una drammaticità, oramai vero marchio di fabbrica per l’artista di Kiev. Passaggi ambient si accavallano a frangenti acustici, in cui le sole emozioni ad emergere non possono che essere quelle di un’autunnale malinconia. Finalmente, il cd inizia a prender quota e posso riconoscere le qualità dei Raventale, che nella breve (per i loro consueti standard) title track torna a mostrare anche quella cattiveria palesata nei precedenti lavori, pur mantenendo comunque quell’alone mistico di sempre. Passano i minuti ed è il turno della strumentale “Youth”, altri 5 minuti di gelidi paesaggi tipici della steppa, in cui ancora una volta, si incuneano ritmiche che richiamano alla memoria gli Anathema di “The Silent Enigma”. Ben venga quindi in questo caso l’essere derivativi, anche se gli originali rimangono irraggiungibili, anche perché il limite del buon Astaroth, è quello di essere talvolta un po’ troppo ripetitivo nei suoi giri di chitarra. Siamo quasi alla conclusione del cd ed è il turno di “Flames”, song più orientata verso il black nordico piuttosto che capace di continuare a percorrere la strada del funeral doom ascoltato fino ad ora: un po’ Immortal (quelli più epici), un po’ Burzum (quello più melodico) e un po’ Dimmu Borgir (quelli meno sperimentali), i Raventale spingono il loro sound verso la Norvegia. C’è da dire però che questa traccia non è altro che una ri-registrazione di “Shredding the Skies by Fire”, brano presente nel debutto “Means on a Crystal Field”. Quando pensavo che ormai il cd si fosse concluso dopo la quarta traccia, fa capolino una bonus track di 7 minuti, che alla fine risulterà anche essere la mia traccia preferita del disco, sicuramente la più varia, anche se i fantasmi di Burzum e Satyricon emergono ancora una volta, in una song che fa del minimalismo il suo credo. D’altro canto lo dicevo in apertura di recensione, questo “After” è decisamente l’album più derivativo del nostro amico Astaroth, tuttavia potrei continuare con un bel “chi se ne frega”, se dopo tutto la musica che salta fuori dalle tracce di questo cd, si lascia ascoltare piacevolmente continuando a trasmetterci oscure gelide emozioni; vorrà dire che passeremo sopra anche questo peccato veniale… (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

Kraaker - Musikk Fra Vettenes Dom


Quando leggo nei flyer informativi Norvegia ed experimental black, non so perché ma un fremito mi percorre la schiena, tanta è la curiosità e il desiderio irrefrenabile di ascoltare qualcosa di davvero sorprendente in questa noiosa estate. Ahimè già dalle prime note di questa release, la mia eccitazione viene subito estinta dalla dabbenaggine della proposta musicale dei nostri. Non si può prendere per i fondelli i fans (tanto meno chi scrive le recensioni), spacciando qualcosa per ciò che realmente non è: eh si perché il nostro duo norvegese non fa altro che proporre un concentrato di black old school, con qualche piccola variazione al tema, ma alla fine gli ingredienti della scuola scandinava ci sono tutti: riffing mitragliato zanzaroso, vocals belluine, suoni glaciali e qualche rallentamento presagio della comparsa di qualcosa di realmente sperimentale che possa comparire da un momento all’altro, ma che ben presto, ho inteso, non arriverà mai. I nostri musicisti erranti, al pari di corvi oscuri (questa l’autocitazione di questi strani individui), non producono assolutamente nulla di interessante, nuovo o tanto meno sperimentale, ma solo un black thrash inconcludente che rende quest’estate tra le più noiosi di sempre… (Francesco Scarci)

(Final Earthbeat Prod)
Voto: 55

Folge Dem Wind - Inhale the Sacred Poison


Ormai bisogna ammetterlo, la Francia è diventata una fucina di talentuose band black metal; inutile negare l’evidenza, ma Deathspell Omega, Blut Aus Nord, Alcest, Pensees Nocturne, Les Discrets (e mille altre) arrivano tutte dalla nazione dei tanto odiati cugini e anche oggi mi devo arrendere davanti alla palese superiorità di questi Folge Dem Wind e andarli ad annoverare tra le più talentuose band d’oltralpe. Fatta questa larga premessa, posso anche dire che seguo il quintetto proveniente dalla sconosciuta Montgeron, fin dal loro Ep d’esordio, “Hail the Pagan Age”, e già d’allora la band mi aveva colpito per il sound oscuro e malefico, che si delineò più marcatamente nella prima ufficiale release, ma che a mio avviso, solo con questo notevole “Inhale the Sacred Poison” sfiora apici di genialità. E lo fa fin da subito con la malatissima title track che a cavallo tra sonorità black, avantgarde e suggestioni psicotiche, ci getta in un turbine di malsana follia con i suoi 7 minuti e passa. Con la successiva “…Of Blood and Ether”, la musica dei nostri, pur palesando le nerissime radici black, ci porta a spasso attraverso territori difficilmente esplorati da gruppi black. Certo non siamo di fronte alla schizoide proposta dei norvegesi Fleurety o alla dirompente classe dei già citati Deathspell Omega, ma sinceramente certe scelte armoniche, alcune dissonanze ritmiche, la costante presenza di melmose atmosfere (ascoltatevi “Behind the Grey Veil”) e la ricerca di frammenti intimistici, non fanno che confermare le enormi potenzialità dei nostri. La terza traccia l’abbiamo già menzionata ma vorrei citarvi il meraviglioso prologo che con la musica metal ha da sicuro ben poco da spartire (chi ha citato Jazz?) e proprio in questo sta il punto vincente dei Folge Dem Wind: attaccarci selvaggiamente con i loro spietatissimi riffs di chiara matrice black nordica e poi nell’incedere aggrovigliante delle song, saperci condurre in oscuri meandri della loro malatissima mente, complici anche le vocals strazianti di Kilvaras. Voglio farvi una ulteriore premessa: “Inhale the Sacred Poison” non è un lavoro di immediata assimilazione, servono decisamente diversi ascolti per poterlo assimilare e poterlo certamente apprezzare, ma quando vi sarà entrato nelle orecchie, sarà veramente difficile farne a meno, perché ha quel quid, quella caratteristica che solo le grandi band capaci di osare l’inosabile, in grado di creare qualcosa di duraturo e sono stra convinto che i nostri abbiano queste caratteristiche. Eccezionale “…Of Reptilian Fires”, song che in sé, racchiude tutta la raffinata ricercatezza di brutalità e sperimentazione, nonché della ineffabile semplicità nel gestire lunghi pezzi con estrema disinvoltura. Il disco gira che è un piacere tra stralunate linee di chitarra, urla disumane, inserti post metal, frammenti impazziti di jazz, facendo la gioia di chi come me, è alla costante e frenetica ricerca di sonorità fuori dal comune e quelle proposte dai Folge Dem Wind, di sicuro racchiudono qualcosa di magico, esoterico, onirico e profondamente malvagio. Seducenti! (Francesco Scarci)

(Code 666)
Voto: 75

lunedì 14 marzo 2011

Hierophant - Hierophant


Periodo florido questo per la scena italiana: dopo il post hardcore degli Amia Venera Landscape, il post metal dei A Cold Dead Body, il cyber metal degli Aneurysm o il death grooveggiante dei Mothercore, ecco approdare sulla scena un'altra interessante realtà, quella dei temibili Hierophant. L'album omonimo della band di Ravenna è un concentrato corrosivo di musica brutale che cammina su binari paralleli, (e che sia ben chiaro, mai si incontreranno), di black metal e hardcore, quest'ultimo tra l'altro, di quello più intransigente e selvaggio. Le nove feroci saette qui contenute, creano una miscela sonora corrosiva, soffocante e insalubre, che difficilmente potrà dare ossigeno ai vostri polmoni: 35 minuti al termine dei quali vi sembrerà di impazzire, schiacciati dall'insanità di cui è pregno questo cd. Già partendo dalla prima traccia, è possibile scorgere che nel DNA dei nostri è racchiuso qualcosa di malato, angosciante e psicotico, che ben presto prenderà il sopravvento. È lento ma assai minaccioso il suo incedere, pronto per esplodere nella seconda "I Am I, You, Nobody", tre minuti di musica lacerante e opprimente che propone malefici suoni black sorretti da strazianti urla, tipiche del movimento hardcore old school in pieno stile Integrity. E proprio il vocalist Dwid Van Hellion della band di Cleveland, compare in veste di ospite nella terza rasoiata, "As Kalki", che inizia all'arma bianca, all'insegna di un crust punk oltranzista per poi virare verso sonorità più ragionate. Lo stesso dicasi per la successiva "Mother Tiamat", song dall'aura decisamente sinistra che, senza mai pestare particolarmente sull'acceleratore, ha il pregio di captare la nostra attenzione su suoni che potremo immaginare come un inconcepibile mix tra Isis ed Enslaved. Non so, forse sto scrivendo cazzate, ma vi garantisco che non è affatto semplice caratterizzare il sound degli Hierophant, per quanto potrebbe essere facile e diretto fin dal primo ascolto. Ma è questo in realtà quello che mi frega e disorienta, perché ad un ascolto molto superficiale, l'idea che potremo farci di questo sorprendente ensemble, sarebbe totalmente sbagliata e finirei per etichettarlo come un classico hardcore, ma sta qui l’errore e la necessità di approfondire meglio l’ascolto di questa release e scavare a fondo nella psiche di questi ragazzi, sicuramente innamorati delle sonorità ancestrali punk/hardcore, ma di sicuro anche fortemente influenzati dalle devastanti e violente sonorità black metal di Darkthrone, Mayhem di primi anni ’90, in un inedito viaggio all’interno del diabolico mondo della musica estrema. Plauso per la finale “Hermetic Sermon Pt.3”, song che mostra l’amore viscerale dei nostri per Neurosis e compagnia. Vetriolo allo stato puro, ferali! (Francesco Scarci)

(Demons Runamok Entertainment)
Voto: 75

domenica 13 marzo 2011

Sonic Reign - Raw Dark Pure


Vengono dalla Germania, sono un duo e suonano un black metal dalle fosche tinte raw-depressive. I Sonic Reign esordiscono sulla lunga distanza, con un lavoro di difficile impatto, poiché il sound proposto dai nostri, richiama quel suono “moderno” degli ultimi Satyricon, miscelato alla ruvidezza dei Darkthrone di “The Cult is Alive”. Chitarre graffianti, ritmiche sincopate e vocalizzi malefici non possono che rievocare anche “Volcano” di Satyr e compagni. Rari fraseggi melodici, caliginose atmosfere autunnali, parti acustiche e schegge black old school, rendono “Raw Dark Pure” un prodotto caldamente consigliato a chi ama questo genere di sonorità, così glaciali e avulse ad ogni tipo d’influenza avanguardistica, in stile Arcturus. Il debut della band teutonica però non fa certo gridare al miracolo, perchè dischi del genere ne sono ormai usciti a tonnellate negli ultimi anni. Tuttavia, la band cerca di ritagliarsi un proprio definito sound, grazie ad un doppio uso delle vocals, screaming ed effettate, ma anche grazie a qualche soluzione assai rara nel black, gli assoli. La cosa che più mi stupisce è poi la scelta della casa discografica, la Metal Blade, che negli ultimi tempi aveva esclusivamente puntato, su band metalcore. Gelida la cover del cd in pieno Darkthrone style; con un po’ di lavoro in più, i Sonic Reign potrebbero essere la sorpresa del futuro... (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 65

Nine - It’s Your Funeral


Anche la Spinefarm ci si mette col produrre band di questo tipo? Avevo apprezzato l’etichetta finlandese per la sua coerenza di fondo nel produrre essenzialmente band provenienti dalla Finlandia e che suonassero black, death o power. Ora, con gli svedesi Nine, si passa addirittura ad una band che suona hardcore dalle influenze punk. Se dovessi citare di primo acchito una band di riferimento, penserei agli Entombed di “Uprising”, ma poi il lavoro evolve in modo strano: il cd comunque parte forte, aggressivo, con le ruvide vocals di Johan Lindqvist a dominare la scena. La terza traccia è già più tranquilla, con una piacevole melodia di chitarra, che ricama in sottofondo, inusuali giri per tale genere. Un peccato che la produzione penalizzi il suono dei vari strumenti, per porre in evidenza, a me pare, la sola voce di Johan. Le successive songs perdono un po’ della cattiveria iniziale e il cd si avvia stancamente verso una conclusione, forse troppo affrettata, in cui la band di Linkoping, sembra suonare in pieno stile Foo Fighters, ma con vocals al vetriolo. Decisione opinabile la loro, che tuttavia rende difficile anche per il sottoscritto, riuscire a dare una valutazione del tutto chiara, del disco. Mi verrebbe da definire il sound dei nostri come “post grungecore”, voi dategli un ascolto, magari potrà anche piacervi... (Francesco Scarci)

(Spinefarm)
Voto: 55

Vomitory - Terrorize Brutalize Sodomize


Ahia, quando ho letto sul pacchetto Vomitory, ho temuto il peggio per le mie orecchie già malandate di questo periodo. Torna la storica band svedese (in giro ormai dal 1989) con il sesto album, un attacco al fulmicotone costituito dal classico violento sound death a metà strada tra il brutal americano e il feroce death scandinavo. Dieci songs belle compatte, veloci e indiavolate, che costruiscono tonnellate di riffs, lanciate a mille contro l’ascoltatore. Gli ingredienti utilizzati dai Vomitory poi, sono sempre gli stessi: ritmiche efferate, growling catacombali, sfuriate al limite del grind, ma anche rallentamenti sconfinanti nel thrash. Rispetto al precedente “Primal Massacre”, le differenze sono assai poco rilevanti: forse in questo terrificante “Terrorize...”, i pezzi sono più brutali e diretti, contraddistinti comunque, sempre da un’eccellente produzione, pulita e potente, avvenuta presso i Leon Music Studios. Difficile identificare un brano piuttosto che un altro, perchè tutte le dieci tracks sono delle saette in grado di trafiggere il nostro costato. Le influenze dei vari Dismember e dei primi Entombed, nonché delle extreme gore bands americane, sono sempre ben identificabili nel background musicale dei nostri. 17 anni sono passati dal loro esordio, ma nulla è cambiato, il sangue continua a sgorgare a fiotti... Solo per amanti di sonorità estreme! (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 65

Ver Sacrum - Tyrrenika


In tutta sincerità mi aspettavo qualcosa di meglio da questa release, da più parti osannata per la scelta del combo toscano di celebrare le gesta di un popolo leggendario quanto mai sfortunato, gli Etruschi. E cosa c’è di meglio del black più feroce e tirato per compiere questa commemorazione? Mah in effetti la scelta dei nostri mi sembra quanto mai discutibile e scontata, ma si sa che quando si parla di orgoglio patriottico, non c’è miglior genere che quello oltranzista del black metal. C’è da dire però che il sound estremo proposto in questo lavoro non si limita ai suoni puramente graffianti del genere suddetto, ma convergono anche sonorità più tipicamente classicheggianti come quelle taglienti del death scandinavo o quelle corpose del thrash mittleuropeo. “Tyrrenika” rappresenta il debut album per questo quintetto senese e un po’ di ingenuità è ancora palese nei 40 minuti scarsi di questo platter. 40 minuti di ritmiche tiratissime sostenute da una batteria che più che uno strumento musicale sembra la contraerea delle notti senza stelle di Baghdad, per la sua spaventosa velocità. Le vocals gracchianti di Filippo "Veltha" Piermattei (evocative e suggestive, nei momenti in cui canta in latino) declamano, nel loro straziante incedere, la storia e le difficoltà incontrate dal popolo etrusco nella loro breve vita. In definitiva, nulla di nuovo all’orizzonte, anche se l’auspicio è che questo concept cd, sia un punto di partenza per i nostri e un punto di svolta per il black pagano italico, fiero dei suoi illustri antenati e della sua memorabile storia. Monolitici! (Francesco Scarci)

(Rock Over Records)
Voto: 65

sabato 12 marzo 2011

Grenouer - Lifelong Days


Ottima prova dei Grenouer, quartetto russo di Perm che con questo “Lifelong Days”, reissue di un album precedente uscito solo in Russia col titolo “Presence With War”, entra nel mercato europeo grazie alla Locomotive Records. Si tratta di un disco che abbraccia l’ascoltatore con un’atmosfera industrial per tutta la sua durata e che saprà soddisfare le esigenze di molti di quei metallari “duri ma non troppo”. Si inizia con la roboante “Indecent Loyalty” che introduce il disco senza troppi convenevoli per preparare lo spazio ai suoni incisivi e sincopati di “Addicted to You”: un piacevole e “diverso” momento, atto a drogare la mente di chi sa ascoltare. Stupenda “With no Concern” dove brevi e ben congegnate iterazioni, invitano la testa del metallaro al più sfrenato headbanging. La successiva “Away From Now” è solo preparatoria alla più congeniata e cattiva “Finding the One” dove la voce, a tratti growl, la distorsione delle chitarre, unitamente ad una buona prova del batterista, invitano al pogo più violento, trascinandoci in un’estasi mistica in cui tutto è concesso. La cattiveria si affievolisce solo debolmente in “Off the Back of Others” per poi essere ancora una volta riabbracciata in “The Unexpected”: una sapiente amalgama di chitarre, batteria e pause ben cadenzate tecnicizza “quanto basta” il pezzo senza scadere in eccessi. Con “Employed Beggar”, invece, il programma cambia: le chitarre diventano dissonanti, abbandonando il sound precedente. Ottima “Re-Active” di cui l’album offre anche il videoclip. A chiudere il disco la lenta, tranquilla e dalla voce questa volta pulita, “Patience” che ci riporta, purtroppo, alla cruda realtà, dalla quale le suadenti melodie di “Lifelong Days” hanno saputo solo momentaneamente strapparci. Coinvolgenti! (Rudi Remelli)

(Locomotive Records)
Voto: 80

Enough to Kill - A Reason for...


Finalmente giungono al debutto sulla lunga distanza i milanesi Enough to Kill, dopo anni di gavetta: basti pensare che il Mcd d’esordio della band è addirittura datato 2000 per capire da quanti anni il combo calca la scena. Noti originariamente come Legion, fautori di un death melodico, i nostri hanno pensato bene di sterzare il tiro e andare verso sonorità, passatemi il termine, più ruffiane, o forse dovrei dire più al passo con i tempi? Si, infatti le dieci tracce contenute in “A Reason for…” pescano un po’ qua e là nel panorama metal internazionale, lasciandosi soprattutto influenzare da sonorità tipiche swedish (In Flames e Soilwork), dal metalcore di stampo americano (As I Lay Dying e Killswitch Engage) ma anche da suoni nu metal. Quindi, niente di nuovo sotto il sole penserete voi; in effetti il disco non brilla certo in fatto di originalità, tuttavia, pur non nutrendo grossa stima nei confronti di questo genere, che altro non è che una forma involuta del death metal svedese melodico, devo dire che ho potuto apprezzare non poco la release in questione. Le chitarre si presentano belle possenti, arrembanti nella loro andatura ma al tempo stesso assai melodiche e ricche di groove, anche con qualche pregevole assolo tipo in “Lost Forever”, dove peraltro ha prestato la sua voce nel ritornello Flegias dei Necrodeth. Altre songs estremamente valide, pur non offrendo granché di nuovo ad un genere per cui più volte ho detto non aver più nulla da dire, risultano essere “Dark Way” e “New Dawn”, due ottimi pezzi che rappresentano la sintesi perfetta di quello che è l’Enough to Kill sound: ritmica incalzante (ma talvolta anche rallentata in una vena vicina a quella dei Meshuggah), ottime linee melodiche, clean and growling vocals, qualche spruzzatina di synths a riempire in modo consistente il sound del quintetto meneghino guidato da GL (bassista tra l’altro dei già citati Necrodeth). In sostanza, pur trattandosi di un disco notevolmente derivativo, devo ammettere che mi è piaciuto parecchio ascoltarlo e riascoltarlo. Magari non rientrerà nella mia top ten dell’anno, tuttavia credo che se i nostri abbandonassero un po’ i cliché tipici del genere, puntando un po’ di più su degli arrangiamenti fantasiosi e sulla creazione di ambientazioni più oscure (come in “Slivers of a Wrong Age”), grazie all’abuso indispensabile dei synth, in un futuro ne sentiremo davvero delle belle da questi ragazzi. Non perdeteli di vista e seguite attentamente la loro evoluzione! (Francesco Scarci)

(Deadsun Records)
Voto: 70

Nakaruga - Nakaruga


Band di giovanissima formazione quella che ho fra le mani: i Nakaruga, band svizzera del Canton Ticino, si è infatti formata solamente nel 2008, rilasciando nello stesso anno questo Mcd omonimo di 5 pezzi. Forti di una solida pregressa esperienza musicale, il sestetto di Lugano ci aggredisce con il loro sound moderno e ficcante, futuristico e industriale, una piccola perla per tutti coloro che amano sonorità cibernetiche vicine ai maestri di sempre Fear Factory o per tutti coloro che amano i suoni ipnotici di scuola “Meshugghiana”. L’ensemble alpino parte subito alla grande con “Nakatomy Warzone”, song che evidenzia subito le eccelse qualità di questi ragazzi: ottime le ritmiche, altrettanto buone le vocals ad opera del duo Thomas e Idris Davide che alternano il cantato growling a quello pulito, interessanti gli inserti di matrice elettro-industrial all’interno di un contesto assai grooveggiante. L’entusiasmo è già alle stelle già dalla prima song, interessante anche per quelle sue ambientazioni oscure di sottofondo. La seconda “Youth in the Matrix” attacca con le sue ritmiche sincopate di chiara matrice svedese, con il cantato che gioca un ruolo primario nella struttura delle song e il finale che evidenzia chitarre ribassate estremamente potenti. “Converter” è decisamente la migliore song del lotto: tempi dispari, melodie psicotiche grazie anche alle ottime orchestrazioni create dalle efficaci partiture tastieristiche (accattivanti anche nella quarta furente traccia) che sul finale del brano minacciano la fine del mondo. Da un punto di vista lirico, i nostri analizzano poi il pattern e i comportamenti dell’uomo nei confronti della vita di tutti i giorni. Questo è un piccolo antipasto di quello che sarà il full lenght schedulato per metà 2010 e già, devo ammettere, ho un po’ di acquolina in bocca… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

domenica 6 marzo 2011

Dark End - Assassine


Tornano i Dark End, con il loro secondo lavoro, dopo il loro discreto debutto, "Damned Woman and a Carcass". Bene, diciamo subito che da quel primo acerbo album, concentrato di black death melodico vampiresco dalle tinte sinfoniche, poche differenze si colgono, se non una certa maturazione nel song writing; per il resto, la proposta del sestetto emiliano, viaggia sulle medesime coordinate stilistiche del precedente cd. L’apertura è affidata ad un inquietantissimo “Pater Noster” un po’ rivisto nella sua recita al limite della satanica litania, che lascia ben presto posto al black sinfonico, perennemente influenzato dalla band di Dani Filth e soci (periodo “Cruelty and the Beast”), di “Mater Terribilis”, song dalle raffinate orchestrazioni e da un uso ben dosato delle tastiere. “A Bizarre Alchemical Practice” cela nel suo interno una lunga parte cantata in italiano che ha rievocato nella mia mente quei 2 pezzi, sempre cantati in italiano, contenuti nell’album di debutto degli Aborym, da brividi. Decisamente i Cradle of Filth rimangono il punto di riferimento della band nostrana, per quella ricerca costante di atmosfere orrorifiche e per quel suo riffing, non certo originalissimo, ma che comunque al giorno d’oggi ben poche band sanno eseguire. Eh si perché, cari amici, il black sinfonico non fa più tendenza come nella metà degli anni ’90 e quindi ascoltare ogni tanto dischi di questo tipo (ricordo che in Italia esistono anche i veronesi Riul Doamnei a cimentarsi in questo genere di sonorità) non fa altro che alleviare la mia sofferenza per la perdita di quello che da sempre è stato il mio genere preferito. I nostri proseguono nel loro cammino, martellando selvaggiamente l’ascoltatore con ritmiche tirate, inframmezzi acustici gotico vampireschi e da qualche pomposa orchestrazione e, udite udite, da assoli di scuola tipicamente heavy. Rispetto al debutto, di sicuro è sparita la componente più progressive lasciando esclusivamente spazio alla malvagità di suoni black, coadiuvate da una produzione pulita e da una componente tecnica medio alta. Se a ciò aggiungiamo anche che le liriche del cd ruotano intorno ad un concept legato agli assassinii compiuti dalle serial killer donne nel corso delle varie epoche storiche, la release in questione acquista ancora più fascino. Altro passo in avanti verso la maturazione, ma ci vuole ancora tempo, sudore, tanto lavoro e pazienza, ma sono convinto che ci sarà chi come me, apprezzerà non poco questa tipologia di proposta musicale. Avanti cosi! (Francesco Scarci)

(Crash & Burn Records)
Voto: 70

Black Sun Aeon - Routa


Torna il buon vecchio Tuomas Saukkonen, già mastermind dei Before the Dawn, con uno dei suoi innumerevoli progetti (Dawn of Solace, Bonegrinder, Rajavyöhyke, Jumalhämärä, The Final Harvest, gli altri). “Routa” rappresenta il secondo capitolo della saga Black Sun Aeon, album particolare perché diviso in 2 cd: il primo “Talviaamu” che significa mattino invernale e il secondo “Talviyö” ossia notte invernale. E proprio su questa alternanza giorno/notte d’inverno, giocano le musiche di questo interessante lavoro di dark death doom. Aiutato da Mikko Heikkila (Sinamore), Janica Lonn (Lunar Path) e forte della presenza in fase di stesura delle liriche, di Sami Lopakka (Sentenced) e Ville Sorvail (Moonsorrow), Tuomas sfodera ancora una volta una prova, all’altezza delle aspettative, che renderà felici tutti i fan delle sue band. Riprendendo in mano il discorso iniziato lo scorso anno con il debut “Darkness Walks Beside Me”, i nostri sono bravi nell’amalgamare suoni malinconici, cupi e gotici, ben orchestrati da melodiche linee di chitarra e da un buon song writing nella prima parte del cd, quella un po’ più calda, capace di dipingere tiepidi paesaggi polari, in cui un lieve manto di neve ricopre le verdeggianti foreste e dove il sole sfiora timido l’orizzonte. “Frozen”, “Sorrowsong” e “Wreath of Ice” sono caratterizzate da suoni decadenti, in cui la componente heavy è comunque sempre ben presente (basti ascoltare la title track per intenderci). La seconda parte del cd abbandona per cosi dire la componente più intimistica del buon Tuomas, per lasciar posto a suoni più glaciali, caratterizzanti la lunga notte delle latitudini polari. Messe da parte le atmosfere plumbee delle prime sette tracce, i nostri si lanciano in songs un po’ più selvagge, dove comunque riescono pur sempre a trovar spazio i dualismi vocali (growl-clean) dei due vocalist e i tipici rallentamenti al limite del doom, del combo finnico. Sinceramente delle due parti ho apprezzato maggiormente la prima, dove tra l’altro in “Dead Sun Aeon”, compare anche la voce angelica di Janica, e dove il sound emozionale dei nostri è in grado di animare maggiormente il nostro spirito romantico… (Francesco Scarci)

(Cyclone Empire)
Voto: 75

sabato 5 marzo 2011

SKW - Numbers


Allora, partiamo subito col dire che il disco non è male. Ecco, magari lo senti una volta e non rimani fulminato, non si scorgono grandi segnali di originalità e alcune canzoni sono più lunghe del dovuto. È, però ben prodotto e ottimamente suonato. L’ultima fatica degli italiani SKW (ex Skywalker), prodotta da Frank Andiver (Labyrinth, Oracle Sun) e registrata in Italia, non ha molto da invidiare ad altri prodotti d’oltreoceano. L’idea generale che si ricava è quella di un disco molto compatto e che segna una successiva evoluzione dello stile della band verso un suono più duro. Le tracce, prese singolarmente, sono apprezzabili, ben suonate e la voce del singer Marco appare sempre pulita. Menzione per l’introduttiva “1Minute2Lie” e “Cow(ard)” che hanno in comune piacevoli inserti di chitarra. Più aggressive “C.U.C.K.”, “Hate3” e “2Muchwords”, anche se quest’ultima parte con una certa velocità per poi rallentare e ha certe parti vocali forse fuori luogo. Tranquilla e sognante “Sleep”, spicca come una piacevole pausa, con sonorità particolari che fanno da contraltare alle altre songs. Le altre canzoni, pur mantenendo il livello, paiono dotate di minor personalità, talvolta dilungandosi o perdendosi troppo: spiace davvero. Da notare anche il remix di chiusura di “Hate3”, che porta un certo sapore elettronico alla canzone originale. Batteria precisa e basso efficace: molto meglio di quello che si sente in giro. Impossibile non citare le chitarre di Simone (colleghi più rinomati dovrebbero sperare in sue lezioni), sempre potenti e con assoli di pregio. Un solo appunto sulla prestazione del frontman: la voce è un po’ troppo lineare, da rivedere in futuro. Niente di stupefacente riguardo ai testi delle canzoni, che seguono l’idea del titolo dell’ellepì. Una parola sull’artwork del CD che personalmente trovo molto ben curato dalla Carosellolab, ma qualcuno li avverta che su iTunes glielo hanno pubblicato a testa in giù… Un lavoro alla fine concreto, che sicuramente piacerà agli amanti del genere, ma se cercate qualcosa di mai sentito o qualche alchimia particolare, potreste anche non trovarla. (Alberto Merlotti)

(AdverseRising)
Voto: 65