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domenica 7 giugno 2015

Shakhtyor - Tunguska

#PER CHI AMA: Post Sludge/Stoner
Tunguska esercita, a più di un secolo di distanza, ancora un fascino esagerato. Non si sa cosa accadde realmente quella mattina del 30 giugno 1908, forse un grande meteorite, oppure una cometa, addirittura c'è chi ipotizza un blocco di antimateria proveniente dallo spazio, fatto sta che una vasta area della Siberia centrale fu rasa al suolo. Oggi, dopo essere stata menzionata da altre band, si torna a narrare in musica, la storia di quell'evento catastrofico. A farlo sono i tedeschi Shakhtyor, che con 'Tunkuska' arrivano al secondo album, edito dalla Cyclone Empire. Il nuovo disco del trio di Amburgo contiene sei lunghi brani strumentali che si muovono tra lo stoner/post metal della opening track, "Baryon", approdando nelle tracce successive, a divagazioni drone/post rock inserite nella melma più totale dello sludge. Tuttavia 'Tunkuska' si rivela un disco ostico e complesso: nella prima song accanto a chitarre dapprima stoner, suoni drammatici si dilatano in una claustrofobica rassegna che spazia tra il doom e lo sludge, andando a costituire la colonna sonora di quelle terribili fotografie che ritraggono la steppa siberiana spazzata via dall'urto di un qualcosa che aveva la potenza di mille bombe atomiche di Hiroshima. Il sonoro dell'act germanico è comunque oscuro, dilaniante, e la seconda metà di "Baryon" ha anche un che di funereo. Con "Pechblende" i nostri ci trascinano in abissi profondi che fungono in realtà solo da preludio alla successiva e lunghissima "Zerfall". Oltre 10 minuti in cui gli Shakthyor offuscano la nostra mente: l'inizio è criptico, la sensazione è quella di percorrere uno stretto e metallico condotto dell'aria, con una carenza d'ossigeno al limite dell'estremo e con l'ansia che si stringe in gola, mentre il tribale suono della batteria aumenta a rotta di collo, inseguita dalla minimalista chitarra di Chris e dal basso tonante di Chrischan. Il suono sembra farsi più ruvido man mano che passa il tempo, sembra essere sul punto di esplodere ma poc'altro succede se non una danza reiterata che ha la sola ambizione di alimentare paure e frustrazioni. Finalmente la furia distruttiva che si andava celando nella terza traccia, fuoriesce più selvaggia che mai nel turbinio ritmico di "Schlagwetter", song in cui emerge il temperamento post black della band teutonica. È comunque una canzone che ha il pregio di non peccare di immobilismo sonoro, proiettata com'è in una serie di divagazioni musicali che deviano più volte il sound degli Shakhtyor, proiettandolo nuovamente verso il post rock o il desolante sludge. Desolante è la parola che torna nella title track per descrivere la percezione che si respira durante il suo ascolto. È come se realmente mi trovassi nella landa siberiana e guardandomi intorno a 360°, l'unica cosa che vedo è solo uno spoglio orizzonte e null'altro, niente alberi, niente case, niente persone o cose, niente di niente. Neppure un deserto è cosi nudo all'occhio umano. Questa è "Tunkuska", queste le emozioni evocate dalla sua mortale litania. Giungo alla conclusiva "Solaris" sfibrato, privato di forze ed energie, causa il suono estenuante degli Shakhtyor e complice anche la totale strumentalità di un lavoro che rende il tutto più difficile da digerire. L'ultima traccia è comunque la più dinamica, la più lineare e melodica da seguire, quasi che il futuro riservi comunque un bagliore di speranza... (Francesco Scarci)

(Cyclone Empire - 2015)
Voto: 75 

venerdì 6 maggio 2011

Facebreaker - Infected

#PER CHI AMA: Crusty Death Old School, Dismember, Grave
Non faccio nemmeno in tempo per riprendermi dalla mazzata nei denti infertami dagli svedesi Evocation, che mi ritrovo sparato nel mio lettore cd, la nuova fatica dei Facebreaker, che riprendendo i vecchi discorsi iniziati nei precedenti lavori, non esitano ad infliggermi il colpo di grazia, forti del loro death metal old school che riprende il crusty death svedese (quello delle chitarre dello studio di Tomas Skogsberg per capirci che ha regalato il successo a Entombed, Dismember e Grave) miscelandolo con un mid tempo di scuola inglese (Bolt Thrower su tutti). Il risultato? È un’altra mazzata nello stomaco che decisamente questo mese riesce a piegarmi sulle ginocchia, buttandomi quasi al tappeto, finendo ko. Ma ho fisico e so che posso rialzarmi e affrontare a viso aperto questi montanti, diretti, ganci che provano a colpire il mio volto. Scariche feroci di rabbia, sostenute da l’ennesimo selvaggio muro ritmico che non può non richiamare anche gli Edge of Sanity degli esordi (“Nothing but Death Remains” e non la vena più melodica di Dan Swano e soci): un uno-due vincente, efficace nel suo incedere, che dimostra l’abilità dei nostri di costruire song che fanno della semplicità il proprio credo. Crudi, brutali, graffianti, i Facebreaker vi riempiranno di cazzotti ben assestati, ma alla fine capirete che ne sarà valsa la pena; brutalità ed energia allo stato puro! (Francesco Scarci)

(Cyclone Empire)
Voto: 65

giovedì 5 maggio 2011

Mirror of Deception - A Smouldering Fire

#PER CHI AMA: Doom, Solitude Aeternus, Candlemass
Attesissimi da più parti (non di certo dal sottoscritto), tornano i doomsters tedeschi Mirror of Deception, con un album che mi ha lasciato del tutto basito per la pochezza di idee proposte. Conoscevo la band teutonica e sinceramente mi aspettavo qualcosa di più da questo lavoro, considerato anche il fatto che erano passati diversi anni dalla precedente release. “A Smouldering Fire” si presenta subito di difficile impatto con songs che faticano ad entrare nella testa e con un vocalist che di sicuro non rimarrà negli annali. La band prova subito a partire ripescando il sound dei mostri sacri Candlemass, ma ben presto mi rendo conto che è la noia ad avere il sopravvento. Le tracce si rivelano estremamente semplici e prive di quel feeling epico che da sempre contraddistingue invece la band svedese. Non so che dire, che cosa pensare, sono quasi spiazzato da una proposta che mi aspettavo di tutt’altro livello anzichenò. L’acustica “Heroes of the Atom Age” apre a quella che forse è la migliore traccia dell’album, “Bellwethers in Mist”, song che richiama anche qualcosa di “Hammerheart” dei Bathory, forse un po’ più potente ed epica delle precedenti, ma che comunque non porta la band germanica oltre ad una sufficienza striminzita. La successiva “Unforeseen” infatti si rivela uno strazio per le mie orecchie che continuano a considerare i veri alfieri del doom le band provenienti dall’est Europa. Un altro pezzo acustico e si arriva a “Lauernder Schmerz” song peraltro cantata in tedesco e quindi non potete immaginare il mio fastidio. L’album scivola via nell’anonimato più totale, con pezzi abbastanza altalenanti che ben presto, fortunatamente, si dissolveranno del tutto dalla mia mente. Se siete dei fan della band invece sappiate che la prima stampa dell’album vedrà la luce in un doppio cd con rarità e demo tracks. Inutile per chi non ama il genere, già di per sé difficile da digerire, se poi fatto non proprio con tutti i sacri crismi, può diventare un supplizio non indifferente! (Francesco Scarci)

Voto: 60

Curiosando sul loro sito ufficiale, sono rimasta incuriosita dalla definizione che danno alla loro musica: “unorthodox doom metal”. Formatisi in Germania nel 1990, iniziano a lavorare al loro album di debutto verso dicembre 1997 (dopo tre demo), album che vedrà la luce solo nel 2001, con tanto di tour promozionale. Dopo 3 album usciti in 9 anni, e svariati cambi di line-up (di nuovo), mi accingo ad ascoltare il loro quarto album, “A smouldering fire”, uscito nell'ottobre 2010. "Isle of Horror" si apre con un riff di chitarra pesante e grave, che già pregusta alle atmosfere cupe e alla voce tendente al solenne (sembra più una filastrocca che un canto vero e proprio). I riff di chitarra e batteria tendono a ripetersi, mentre la voce tende ad essere un po' lagnosa. "The Riven Tree" ricalca in parte le atmosfere precedenti, modificando la voce: più melodica, che ricorda vagamente Serj Tankian. Il brano si avvicina così più allo stile alternative metal, lasciando in disparte la vena doom. "Heroes of the Atom Age" è strumentale, caratterizzata dalla sola chitarra suonata lentamente, dando una sensazione di malinconia. "Bellwether in Mist" desta da subito, grazie anche alla voce che parte all'inizio accompagnata da batteria e chitarra: riprende il ritmo di “The Riven Tree”, dove la chitarra si amalgama alla voce, creando un brano molto melodico e non troppo invadente: si posso anche udire i cori del batterista nel ritornello. Con "Unforseen" si fa più sul serio, tornando alle atmosfere cupe della opening track e facendo largo uso di note di basso, specialmente nella parte più lenta. La voce rimane sempre sul pulito, accompagnata anche da cori. Solo da metà in poi il ritmo si fa un po' più serrato, la rabbia emerge, per concludersi con un ritmo che nuovamente cambia, fino a rallentare del tutto. "December", prettamente strumentale, posta a metà dell'album, continua sulla stessa linea della precedente mentre "Lauernder Schmerz" è l'unico brano cantato in madrelingua (il titolo si può tradurre come “il dolore che attende con impazienza”). In "Walking Through the Clouds" le cose cambiano: la voce si arricchisce anche di frasi parlate (e non solo cantate), e la musica lascia in disparte la vena malinconica: a mio avviso questo è il brano più bello di tutto l'album. Con "Leguano" abbiamo la terza e ultima traccia strumentale, dove la chitarra si avvale della collaborazione di maracas. "Sojourner" presenta un cantato tendente all'acuto: qui la batteria è picchiata con forza, mentre la chitarra è portata al limite più profondo, fino quasi a fondersi con il basso. Ascoltati i primi secondi di "The Flood and the Horses", mi è saltato alla mente un paragone a dir poco assurdo: i Placebo. C'entrano ben poco, a dir la verità, ma il fatto di cantare con una tonalità medio-alta, i riff che si avvicinano più al rock che al metal, una refrain che porta la testa a ondeggiare avanti e indietro, mi ha colpito non poco. Con la conclusiva "Voyage Obscure" si arriva alla fine di questo viaggio: la band ci lascia una buona impressione, con un lavoro ricco di sonorità (anche se a volte gli accordi si ripetono) che spaziano nelle più varie sfumature dell'alternative metal. Hanno sicuramente sfatato il mito che “Germania = industrial metal”, dimostrando quanto la scena teutonica possa sfornare musiche per ogni palato. (Samantha Pigozzo)

(Cyclone Empire) 
Voto: 75

Evocation - Apocalyptic

#PER CHI AMA: Swedish Death, Dismember, Edge of Sanity, At the Gates
Con grande titubanza mi avvicino all’ascolto di questo cd, dando per scontato che si tratti dell’ennesimo anonimo gruppo che vuole fare il verso ai gods del passato, ma con grossa sorpresa mi devo ricredere della qualità di questi svedesoni già dai primi giri di chitarra. Non che ci troviamo di fronte chissà quali geni della musica, però la genuinità dei nostri, abbinata ad una furia melodica di fondo, sorprende per il risultato finale. Eh si, perché quello che ci troviamo fra le mani è qualcosa che scotta e che fa male per quelle sue rasoiate che penetrano profondamente la nostra pelle. Immaginate dunque un ipotetico mix tra Edge of Sanity, Unanimated e Dismember e forse potrete capire di che cosa sto parlando: gli Evocation affondano infatti le proprie radici nel puro death metal svedese, sporcandolo con la vivacità di chitarre crusty (ricordate i primi irraggiungibili Entombed?), dal flavour vagamente melodico, contraddistinte da una malvagità di fondo tipica del black di matrice svedese (i Dissection vi dicono niente?), con una ritmica spesso serrata, ma talvolta capace anche di proporre visioni “apocalittiche”, come accade per esempio in “Reunion in War” o nella successiva “Psychosis Warfare”, dove anche cenni dei Dark Tranquillity più ruvidi finiscono per intromettersi nel sound dei nostri. Si ve l’ho detto, non c’è nulla di originale in questo cd, visti i richiami ad una intera generazione di band che hanno dato vita ad un genere musicale, ma che volete che vi dica, per un nostalgico che è cresciuto con queste sonorità, “Apocalyptic” non può che essere un buon esempio di come si dovrebbe fare metal senza fronzoli nel 2010. Gli Evocation mi hanno convinto appieno e mi sento di poterli suggerire a chi ama questo tipo di sonorità brutali. Un cenno anche alla copertina in bianco e nero, opera dell’artista polacco Xaay, responsabile delle cover art di Behemoth e Nile che amplifica enormemente questo senso di fine del mondo. Bravi! (Francesco Scarci)

(Cyclone Empire)
Voto: 70

domenica 6 marzo 2011

Black Sun Aeon - Routa


Torna il buon vecchio Tuomas Saukkonen, già mastermind dei Before the Dawn, con uno dei suoi innumerevoli progetti (Dawn of Solace, Bonegrinder, Rajavyöhyke, Jumalhämärä, The Final Harvest, gli altri). “Routa” rappresenta il secondo capitolo della saga Black Sun Aeon, album particolare perché diviso in 2 cd: il primo “Talviaamu” che significa mattino invernale e il secondo “Talviyö” ossia notte invernale. E proprio su questa alternanza giorno/notte d’inverno, giocano le musiche di questo interessante lavoro di dark death doom. Aiutato da Mikko Heikkila (Sinamore), Janica Lonn (Lunar Path) e forte della presenza in fase di stesura delle liriche, di Sami Lopakka (Sentenced) e Ville Sorvail (Moonsorrow), Tuomas sfodera ancora una volta una prova, all’altezza delle aspettative, che renderà felici tutti i fan delle sue band. Riprendendo in mano il discorso iniziato lo scorso anno con il debut “Darkness Walks Beside Me”, i nostri sono bravi nell’amalgamare suoni malinconici, cupi e gotici, ben orchestrati da melodiche linee di chitarra e da un buon song writing nella prima parte del cd, quella un po’ più calda, capace di dipingere tiepidi paesaggi polari, in cui un lieve manto di neve ricopre le verdeggianti foreste e dove il sole sfiora timido l’orizzonte. “Frozen”, “Sorrowsong” e “Wreath of Ice” sono caratterizzate da suoni decadenti, in cui la componente heavy è comunque sempre ben presente (basti ascoltare la title track per intenderci). La seconda parte del cd abbandona per cosi dire la componente più intimistica del buon Tuomas, per lasciar posto a suoni più glaciali, caratterizzanti la lunga notte delle latitudini polari. Messe da parte le atmosfere plumbee delle prime sette tracce, i nostri si lanciano in songs un po’ più selvagge, dove comunque riescono pur sempre a trovar spazio i dualismi vocali (growl-clean) dei due vocalist e i tipici rallentamenti al limite del doom, del combo finnico. Sinceramente delle due parti ho apprezzato maggiormente la prima, dove tra l’altro in “Dead Sun Aeon”, compare anche la voce angelica di Janica, e dove il sound emozionale dei nostri è in grado di animare maggiormente il nostro spirito romantico… (Francesco Scarci)

(Cyclone Empire)
Voto: 75