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martedì 17 gennaio 2017

Kalmankantaja - Kuolonsäkeet

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Burzum
Sono infine giunto, al buio, circondato da antiche rovine Quechuas, con l'unica compagnia di un freddo gelido, a Pueblo Fantasma, Bolivia, 4690 metri sul livello del mare. Eolo sul mio volto sferza il suo fiato ove scanna runiche rughe intrise nel mio sangue con i suoi invisibili aghi, rune che brillano e pulsano nell’oscurità. Mi chiamo Kalmankantaja e sono un druido votato al male. Non mi ricordo nemmeno come ci sono arrivato fin qui. Dev'essere l'effetto delle troppe foglie di coca che ho masticato per resistere al freddo, alla fame e per riuscire a trascinarlo. Una cosa, però, me la ricordo bene: il motivo per cui sono lì. Scelgo la chiesa, ove accendo, con uno dei miei incantesimi occulti, un arcano fuoco. Lo pronuncio: “Sieluton Syvyys” e le fiamme divampano poco lontano da me. È stata per l’appunto “Sieluton Syvyys”, entry-track strumentale di 'Kuolonsäkeet', dei finnici Kalmankantaja ad evocare questa mia storia: la sua tastiera occulta, geopardata da rare ed arcane parole, ci inizia all’arte con note che da profonde, sulla scia dell’organo, si trasformano, s’innalzano e mi portano con loro nell’alto dei cieli. Accedo all’Empireo tenendo per mano Beatrice ma dimenticandomi di Dante. Ecco che odo i primi lamenti, i primi strazi, della mia vittima. Ebbene, non sono solo, l’ho portato con me. Finora aveva taciuto, sotto l’ipnotico effetto del mate de coca. Ora si sta risvegliando, tossisce. Quindi urla. Non oso immaginare quali oscure creature si annidino lì, nel posto in cui mi trovo, quali lugubri presenze stia per evocare, ma non ho paura. Io non ho paura di niente. Io non temo nessuno. Nessuno al di fuori di me. Sì, al di fuori di me, perché di me ho paura. Di me ho davvero paura: so come sono. Dentro. Tanto gentile e tanto onesto appaio ma chi mi calpesta… muore. No. Non subito: attendo buono per anni, con paziente disciplina. Faccio maturare per anni il mio silente odio proprio come si fa con il buon vino o come fa il più bastardo dei virus e solo quando tutto sembra tranquillo, quando sono certo che tutti abbiano dimenticato, solo allora colpisco. E vado fino in fondo, senza paura di insozzarmi. Calo la mia falce. Scanno, squarto. Ma non lascio mai tracce. Le sue urla. Sono le sue urla a dare inizio a “Yhdessä Kuoleman Säkeet Kohtaavat” lo strazio di uno che viene torturato e che mi chiede disperatamente di non venire ammazzato. Io semplicemente lo ignoro, anzi, dentro di me godo nel prolungarne le sofferenze. Lui per primo mi ha fatto del male. Senza motivo. La batteria scandisce un ritmo semplice, cadenzato, un quattro quarti lento, con brevi incursioni in ottavi, tipico del genere. Convince il gioco di velocità aumentata solo a tratti, dà corpus e magnificenza a questo brano. Le urla di strazio aumentano ed in quest’armonia s’incarnano alla perfezione in uno screaming potente. Bel lavoro ragazzi, ben fatto davvero. Chitarre distorte all’ennesima potenza punzecchiano ed infastidiscono con pure note di sana ultraviolenza la mia vittima che mai smette di lamentarsi, di contorcersi, come se a ripetizione fosse punta da migliaia di vespe mandarinia japonica. Urla. Urla nell'oscurità. Ma no, no, la mia falce non ha ancora mietuto la sua vittima, c’è ancora così tanto tempo e così poche cose da fare. La sua lama brilla perché ancora non ha assaggiato e non percola, lungo il suo filo, lacrime di sangue. Del suo sangue. Punto il mio bastone, mi concentro, rivolgo lo sguardo al cielo, levito ed al mio comando “Ruoskittu Ja Revitty”, lingue di fuoco all’improvviso si animano, s’innalzano e quindi tracciano un complesso e rotondo sigillo sul terreno con al centro la vittima che ancora urla. I suoi pochi stracci vengono divorati dalle fiamme che assaggiano fameliche anche qualche brandello delle sue carni ma niente di più: non vi sono infatti nuovi ingredienti rispetto la precedente track, non percepisco alcun gusto nuovo. Anzi lo schema si ripete. Belli i dieci minuti di "Yhdessä..." ma forse i successivi dieci di "Ruoskittu..." non vanno ad aggiungere molto. Non sono poi così tanto diversi, forse qui l’agonia viene prolungata un po' troppo. Sulle note di “Memento Mori”, la vittima inizia non solo a prendere atto che deve morire ma che la morte è ormai vicina. Mai giocare con i sentimenti di qualcuno. A meno che non si voglia finire… così. Le sapienti pennellate in solo di tastiera di “Oman Käden Teuras” ed i suoi crescendi, sanno risvegliarmi dal torpore, dandomi qualcosa di nuovo da assaporare. Di mio gusto le interruzioni di batteria. La vittima adesso viene tatuata agli occhi con aghi incandescenti. È questo il mio modo per dire: buona la prova di voce. Nuove sonorità e vocalizzi mi colgono impreparato in “Minun Hautani”: bella questa sorta di dialogo tra vittima e carnefice ovvero il gioco di voci pulita e screaming. Di fronte a “Synkkä Ikuisuus Avautuu” non mi resta che lanciare una moneta per decidere le sorti di questo 'Kuolonsäkeet': testa promosso, croce si muore… …ma la mia è una moneta speciale, dedicata a Giano… e Giano si sa… ha due facce. Invece con la mia vittima non sarò così buono: pollice verso. Morte! Morte! Morte! Mai giocare con… (Rudi Remelli)

mercoledì 15 maggio 2013

Riul Doamnei - A Christmas Carol

#PER CHI AMA: Black Sinfonico
“Marley, prima di tutto, era morto.” “Marley, prima di tutto, era morto.” “Marley, prima di tutto, era morto.” È questa l’insolita litania che avverto ripetersi, amplificarsi tra le solide, elastiche pareti della mia testa. Parole che rimbalzano e sinuose riverberano, scolpiscono arcuate, altissime navate nella gotica cattedrale della mia mente. Crollo estasiato, mi piego dinanzi al mio io più profondo, ma non ne soffro, al contrario ne godo: mi regalo un piacere tra i più sublimi. Mai nulla di sacro, nelle mie, di cattedrali. Era mio obiettivo trasmettere, a te lettore che stai leggendo, quello che sento, quello che avverto avventurandomi in questa novella, “A Christmas Carol”, concept basato sull’omonimo romanzo breve, partorito dal genio di Charles Dickens e rivisitato per noi dagli italianissimi Riul Doamnei, band gigante rossa, grondante sangue, materia oscura che occupa lo spazio vuoto di quel vasto universo qual è il symphonic black metal. Genere vasto, oserei dire oceanografico. Mi sovvengono quei famosi versi di Dante “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita.” Ma questo non è il caso, la via non è per niente smarrita, anzi, il concept nel quale i nostri tricolori patrioti ci vogliono inebriare è ialino, adamantino. Mi concedo giusto due parole sulla trama della novella per incuriosire quei lettori che non fossero avvezzi all’opera Dickensiana: il ricco quanto avaro protagonista, tal Ebenezer Scrooge, viene visitato da tre spiriti nel bel mezzo della notte di Natale nella Londra del 1843: il Natale Passato, il Natale Presente ed il Natale Futuro. A seguito di questi incontri, il comportamento di Scrooge cambierà radicalmente. Abituato come sono, a vederli sul palco con i loro “scherzi da prete” che devo dire, dentro di me, ho sempre molto apprezzato (solo chi segue anche dal vivo questa band capirà codeste mie parole), non hanno mancato, questa volta con inedite ed evanescenti sembianze da spettri, di stupire ancora il pubblico, come sempre entusiasta. Non mancate assolutamente quindi di vedere questa interessante, nostrana formazione esibirsi anche dal vivo: è questa infatti una band sempre molto attiva, che batte numerosissimi palchi in patria e non solo, dalla presenza scenica d’effetto, travolgente, con una certosina meticolosità nella cura del dettaglio in particolare dal punto di vista vestiario, sempre molto creativo e d’impatto. Pur essendo calcificati come unica traccia, i testi di questa spina dorsale sostengono a meraviglia uno scheletro articolato su cinque vertebre talvolta triplicemente fratturate tramite “subtitoli”. Sarete accompagnati non solo da musica ma anche da campioni ambientali durante questa sonora novella: un amalgama di testi, musiche e suoni, trasmetterà forti emozioni percepibili dai cinque sensi. Voglio per una volta scordarmi dell’udito, senso troppo semplice da utilizzare in campo musicale e tra l’altro da me già troppo sfruttato in certe mie precedenti infusioni metallare. Un contributo importante, questa volta, ci viene dalla vista: le vostre macule saranno certo deliziate dalle meravigliose immagini del filmato, magnificamente realizzato, che accompagna le melodie. Inutile dire, però, che anche qui il sentiero sarebbe per me troppo facile da seguire. Voglio divertirmi a seguire un percorso molto più impervio, tipo quello di Frodo verso Monte Fato: direi che la strada giusta questa volta è quella dell’olfatto. Mi divertirò interpretando l’armonia di questa riuscita opera musicale dal punto di vista olfattivo. La immaginerò come fosse un profumo. Non solo musica nella formulazione di quest’orgasmo olfattivo. La nota di testa, che si percepisce subito, ci viene dai suoni ambientali: vi aiuteranno a calarvi nel giusto stato psicofisico. Di quali volatili molecole ci stanno nebulizzando? Un canto di Natale. Una carrozza trainata da cavalli che si muove sulla pietra bagnata e resa sdrucciolevole dalla neve fresca: ne avvertirete gli zoccoli. Forse non erano zoccoli equini ma… luciferini. Passi, passi nella neve. Il vento che soffia, sibila, sferza tagliente la neve. La sposta, crea strani disegni, sigilli degni del Liber Juratus Honorii, è Eolo, Eolo che gioca col suo mefitico alito sino ad infrangerlo incazzato sugli stipiti di una logora porta. Un portale delle tenebre che si apre e si richiude scricchiolando minacciosamente alle vostre spalle. Un portale dal quale non tornerete indietro: lasciate ogni speranza o voi ch’entrate. Lì vicino sento pure un fuoco: arde. E catene, catene trascinate nell’oscurità. La nota di cuore, percepibile nelle ore che seguono la scomparsa della nota di testa, ci arriva, in questo nostro singolare percorso olfattivo, dal growling: percepisco le singolari corde vocali di Federico come intrise del sangue di vergini sacrificali. Sangue che vedo ritmicamente gocciolare sulle corde delle due chitarre della formazione. Veloci file di ordinate gocce, come formiche operaie corrono sicure e, prima di cadere nell’oblio del vuoto più nero, percorrono le corde delle chitarre in tutta la loro lunghezza. Corde che nel mio immaginario, certo evocato dalle singolari melodie, vedo montate non su chitarre ma su di una coppia di arpe. Arpe pizzicate non da semplici dita ma dai velenosi ed affilati denti aguzzi di teste di serpe montate sul capo della mitologica Idra. Ad accompagnare queste erpetologiche plettrate troviamo la sempre precisa, simmetrica ragnatela tipica della vedova nera: così vedo perpetrata la fitta tessitura delle melodie provenienti dalla tastiera. Pressioni dei tasti certo veloci come le forbici di Edward ma al tempo stesso precise, precise come mandala tibetani. A conclusione di questa mia profumata dissertazione, la nota di fondo, ultima parte del processo profumiero che contiene gli elementi persistenti, senza alcun dubbio, in questo caso, ci viene dal basso e dalla batteria: due strumenti che quando s’incontrano, in questo particolare genere musicale, come sempre non suonano ma fanno l’amore. In questo “A Christmas Carol”, ve l’assicuro, ci danno dentro di brutto. Grande e lodevole, quindi, anche la prova di basso e batteria: tamburi di certo ricavati da pelli umane provenienti da quel particolare tipo di spregevole peccatore mammifero di nero vestito si ben descritto in una precedente traccia dei Riul Doamnei, mi riferisco a “Sodoma Convent” presente in “Fatima”. Le stesse corde del basso certo hanno la stessa origine mammifera ma questa volta si tratta di budella anziché di pelli. Come noto, di un certo tipo di animale da fattoria, non si butta mai via niente... (Rudi Remelli)

mercoledì 23 gennaio 2013

Kalki Avatara - Mantra for the End of Times

#PER CHI AMA: Sonorità esoteriche
Chiudete gli occhi e meditate. Concentratevi sullo scorrere del tempo visualizzandolo come note sul pentagramma. Ascoltatele o meglio abbandonatevi al loro lascivo abbraccio. Sentitevi avvinghiare dalla loro densa, impudica nebbia. Vi avvolge. Vi stringe. Vi penetra. Vi possiede. Aggrappatevi a questa fonte di inesauribile piacere e fatelo vostro. Viaggiate. Viaggiate molto, molto lontano. Tanto, tanto tempo fa. Indietro. Indietro. Indietro nel tempo. Sarò la vostra mefistofelica guida in un’epoca più che remota, prima della comparsa del vecchio saggio Vyāsa. Un’epoca dove le persone comuni ancora ricordano i Veda a memoria, al primo ascolto, afferrandone nell’immediato le profonde implicazioni. Nell'epoca del Kali Yuga (l'era attuale) durata della vita e memoria si sono assopite, vengono meno, gli individui sono spiritualmente meno acuti. Ecco che allora Vyāsa discese nel mondo, mise i Veda in forma scritta, li divise in quattro parti e compose tutti i 18 Purana, uno in particolare: il Bhagavata Purana. 25 sono i maha avatara che lo compongono. Kalki è sempre l'ultimo di questi in ordine cronologico: la tradizione lo descrive nelle sembianze di un valoroso condottiero dalla fiammeggiante spada in pugno, a cavallo di un bianco destriero. Sradicherà il male dal mondo, si dice. Rinnoverà la Creazione stabilendo un regno dei giusti, si narra. I lettori più accorti avranno certo colto questo mio tentativo d’iniziazione ai magici misteri dell’induismo. Religione poco nota, da noi, se vogliamo, e proprio per questo molto affascinante. Ma questo è solo un mio personale punto di vista, non condivisibile se vi pare. Fatto sta che queste rocce millenarie rappresentano il fulcrum, vero e proprio concept di questo EP “Mantra for the End of Times” rilasciato in sole mille copie da Kalki Avatara: tricolore progetto solista autoprodotto da Paolo Pieri "Hell-I0-Kabbalus" nel 2008 (già attivo in band quali Aborym e Malfeitor, per chi non lo conoscesse) e rilasciato poi dall’etichetta canadese Shaytan Productions nel 2009 in sole mille copie. Ma procediamo con ordine nell’eviscerare questa tetraedrica liturgia dai sapori orientali decisamente evocativa. Mi calo in una sorta di sopor aeternus cullato come un fanciullo dai primi atmosferici suoni di “Mankind Collapses”. Poche, ma ben concepite note di tastiera s’amalgamano armoniosamente ad un ritmo molto lento di batteria. Molte, e lunghe, le pause. S’intersecano a quest’arcano disegno, voci corali che mi accendono circuiti neurali del tutto inesplorati. Le scintille si fanno poco a poco fiamma che prima tentenna al vento per poi sfociare in fuoco con l’avvento della voce. Uno screaming cavernoso, da rigurgito (senza offese, è un complimento) ben dosato, senza eccessi dunque, che si contrappone alle pulite, alte voci corali. Segue un intermezzo strumentale costruito su una magnifica fuga di tastiera, coadiuvata dalla batteria, che qui si concede una breve galoppata. Il pezzo torna a rallentare e viene reintrodotto il tema principale che conduce alla fine del pezzo. Campane tubulari, percussioni e non ben definiti strumenti etnici introducono “Ruins of Kali-Yuga”. L’introduzione sfocia però poi in un tema che ricorda tutti i sapori della precedente traccia. Unica novità, a mio avviso, è la presenza di un intermezzo jazz che prende il posto di quello che prima era il posto della fuga di tastiera. Segue “Purification”: la sorpresa qui sta nel fatto che è cantata in tedesco, una lingua dura che sposa molti, anche se non tutti (power e progressive ad esempio), i generi di metallo. Caratteristica degna di nota di questo pezzo è, per me, la tastiera. Qui ricorda un carillon e mette brio alla composizione melodica di base. La fine dei tempi viene scandita dall’ultima delle quattro track, l’outro “Awaiting the Golden Age”: ancora una volta odo i cori ma qui diventano salmodici, oserei dire omelici. Sono accompagnati da quello che azzarderei essere un sitar. L’urlo finale mi catapulta senza preavviso al presente: fatto di tasse, crisi ed imminenti elezioni. Non c’era quindi titolo più azzeccato di questo per fare ironia: bisognerà purtroppo aspettare davvero molto per entrare nell’età dell’oro, anche se le pepite che da sempre preferisco sono quelle di metallo pesante. (Rudi Remelli)

(Shaytan Productions)
Voto: 80

http://www.shaytanproductions.com/

martedì 18 settembre 2012

Novel of Sin - Sound of Existence

#PER CHI AMA: Deathcore, As I Lay Dying, Neaera
Il Kjeragbolten: un antico molare norvegese, un cariato dente di roccia che sta per cadere. Incastonato tra le mandibolari Kjerag Mountains, è sospeso sull'orlo dell'abisso a circa mille metri di quota sopra il nulla. Lì mi trovo, in piedi, in una posizione dall'infinita energia potenziale e, indomito, guardo giù, di sotto. Avverto la scarica adrenalinica impossessarsi famelica del mio corpo ma mantengo il controllo. Mi giro, come niente fosse e sorrido alla gente che si trova a poca distanza me e da quel "molare". Su vicine "gengive" di roccia, la gente, mi osserva, impaurita o ammirata. Nessuno mi dice niente ma leggo, nelle loro menti, la pazzia che ognuno di loro mi attribuisce. Fuori resto serio ma dentro... dentro già me la rido. Tutti si mantengono a debita distanza. Estraggo con nonchalance, da quello che ho camuffato come un semplice zaino Invicta, i miei auricolari ed il mio paracadute. È vietatissimo il base jumping da quel punto ma me ne frego, ormai ci sono ed indietro non ci torno. Già sono preda dei psichedelici vocalizzi di "728(16)102" breve preludio a "Voices, Prayers and Remembrances", prima vera track di questa release: "Sound of Existence" dei ravennati Novel of Sin. Pochi secondi ed una testata da 20.000 chilotoni deflagra nelle mie sinapsi: plettrate non lente ma comunque poco veloci e dalla potenza incisiva. La distorsione è tale che ho difficoltà a trattenermi dal pogare. La melodia, contagiosa, mi vedrebbe scatenato nell'headbanging più sfrenato ma no, devo restare serio. Il lancio è una specie di rito. Il mio rito. Torno allora indietro di pochi passi accompagnato dalle octopiche note di "Alone Through the Tides". Pause ad effetto intercalate tra i breakdown che ne rallentano il ritmo, un voluttuoso accoppiamento con i ripetitivi accordi di chitarra, una batteria martellante e l'alternanza tra scream e growl, danno vita ad una particolare, viscerale, amalgama che vede, quale ingrediente segreto al posto del mercurio, l'intercalare di crash e splash. Dietro di me, intanto, poco più in là, l'invitante precipizio mi seduce, mi sussurra, quasi avverto la voce di Trilly, fata dell'aria dell'Isola Che Non C'è: io però, sono un Peter Pan particolare, un Peter Pan sul quale la polvere di stelle non ha effetto alcuno e che non ha bambini sperduti da salvare. I piedi ce li ho ben saldi a terra. Adesso. Ululanti spire di vento, mi corteggiano, lambiscono, attirano. Poco sotto, l’abisso, semi offuscato dall'umida nebbia crepuscolare, m'invita al più dolce dei tuffi. Un salto da mille metri ad accarezzare, quasi con mano, un affilatissimo profilo di roccia spinti anche dalle incontrollabili, repentine, brusche, raffiche di vento. Eolo non è dalla mia, quel giorno. Lanciarmi da lì. Che bella idea m'è venuta. Mi giro infatti di scatto e, soggiogato dalle tonanti rullate di "A Key For Nowhere" corro deciso e mi getto nel vuoto. A braccia aperte. A volo d'angelo. Una capriola in avanti e poi giù di testa, in picchiata, braccia tese lungo i fianchi. Non la vedo più, la gente, ma me la immagino terrorizzata farsi sempre più piccola lassù, sopra di me. Il vero spettacolo, che dura pochi istanti, è lì, nell'aria. Osservo il suolo approssimarsi sempre più. Comincio a distinguerne bene i particolari. Non ho ancora aperto il paracadute: lo faccio adesso, sulle melodie di "Fragile" che questa release ripropone anche in chiusura in una versione remixata dai Demon Kids. Tocco dolcemente il suolo facendomi cullare da "Extinguish". Ad estinguermi, poco dopo, ci pensano infatti gli sbirri: giù di sotto non era il suolo ad attendermi: c'erano lì loro ad aspettarmi, per farmi una multa, non da 20.000 chilotoni sull'Atollo di Bikini ma da 4.000 Euro nel mio portafogli. (Rudi Remelli)

(Kreative Klan)
Voto: 70

lunedì 9 luglio 2012

Eternal Samhain - Obscuritatis Principium

#PER CHI AMA: Black Gothic, Cradle of Filth
Vedo percolare, al lume di una nera candela, da una malsana e demoniaca stigmata, impressa su una mano di Gloria, lente, calde, rosse gocce di densa ceralacca a sigillare un occulto, dannato, oscuro, tesoro. Si fondono, piano, senza fretta alcuna. Vi vedo imprimere un pentacolare sigillo con elementi terra e fuoco puntati verso l'alto, per celebrarli e lo spirito, dannato e consacrato al male, puntare verso il basso, addirittura sorvegliato e tenuto sotto scacco, da due famelici mastini. Non so quale famelica entità si sia scatenata nel momento stesso in cui ho osato spezzare quel sigillo: quando l'ho fatto, la luce, che fino ad un istante prima mi circondava è, per un attimo, quasi venuta a mancare, sopraffatta, succube delle tenebre. Mi avventuro in questo iniziatico percorso in cinque tappe e comincio ad assaporarne, ad apprenderne, il primo dei cinque arcani segreti che con Fatima, nulla hanno a che fare. M'incammino, accompagnato da logoranti note di tastiera, sul sentiero di "Ante Lucem" che mi introduce in questo sacrilego rituale. Avverto la melodia di "Black Frame" esplodere con l'avvento di chitarre distorte e batteria. Incontro in questa mia crepuscolare incursione, un vecchio saggio. Piegato dal tempo sul suo nodoso bastone, vestito di stracci, in preda al delirium tremens, cieco, del tutto privo degli occhi, maleodorante per suppuranti ferite, mi allunga la sua rachitica mano. M'invita a seguirlo. Sarà lui la mia guida: comincia a conversare in quel suo magnifico growl cavernoso, sembra il canto di un vulcano ma è la sua voce naturale, non avverto infatti sforzo alcuno o un'autoimposta forzatura. Ottima prova quindi, quella del vocalist. Crescendi di batteria, oculati e sapienti accenti di piatto, molte gustose galoppate di doppio pedale, accompagnate da deliziosi soli di chitarra, rendono quest'opener una perla. Sono decisamente soddisfatto. Chissà cos'altro m'attende... continuo a camminare seguendo questo mio nuovo amico che già si è conquistato la mia fiducia e lui m'illustra, con la sua parlantina sempre più spigliata e veloce, le meraviglie della dannazione con "Vas Damnationis", un vero e proprio incantesimo musicale da cui resto immediatamente folgorato: un po’ come S. Paolo sulla via per Damasco, solo che qui si tratta di me sulla via della dannazione, strada che non ho mai smesso, né mai avuto intenzione di abbandonare o paura di calcare. È questa musica, quest'armonia, questo sconsacrato ambiente naturale di cui da sempre sono famelico e che assolutamente non potrò mai, mai farmi mancare. È come una sorta di perversa, erotica eccitazione: ogni volta che ne assaggio, ne vorrei sempre di più, ancora, ancora e ancora... Le melodie si fanno più selvagge, s'inviperiscono: non vedo più corde su quelle chitarre, sbiadiscono lasciando il posto a venefiche serpi che s'aggrovigliano, sibilano sempre più inacidite e ad ogni successiva plettrata, cercan di morder le dita di chi suona, senza riuscirvi mai. Troppo veloci, troppo precisi quei movimenti. Giungo nei pressi di un lago dalle calme acque. Sembrano immobili. Su di esse, si riflette maestosa la luna che su questa levigata superficie scivola, sembra disegnare. Il suo incedere sicuro, come la sfera di una biro, allunga la sua falce. S'illumina sempre più, sempre più pronta a mietere vittime. Dapprima non odo alcun suono. Poi, al suo centro, su di un levigato sperone roccioso, accarezzato dalle nebbie e che per questo scorgo solo a tratti, intravedo una figura. È una magnifica ninfa. Con la sua arpa m'introduce alle peccaminose note di "Sinful In Every Choice". È di così bell'aspetto che ne resto fin da subito ammaliato. Quali indicibili pensieri sfiorano la mia mente drogata da quelle ipnotiche, sinergiche e velocissime tastiere. Mi trascinano nel più largo, profondo e potente dei Maelstrom. Pause cadenzate valorizzano ritmiche metronomicamente perfette che scandiscono quest'armonia giocosa, guizzante che riesce pian piano a perturbare, quella calma piatta che da tempi remoti e fino ad un istante prima, regnava in quei luoghi. Il mio viaggio, purtroppo, e spero solo per ora, si conclude con la title track "Obscuritatis Principium", un ricettacolo di tutti gli ingredienti visti finora, una degna chiusura di un seppur breve ma magnifico sogno dal quale non vorrei svegliarmi mai. Sono le ultime parole di quel mio curioso compagno di ventura, a chiudere questo mio viaggio spirituale che non poteva concludersi senza una decisiva maledizione. Dopo essere stato infatti fin da subito e per tutto il tempo gentile con me, dopo essersi conquistato la mia fiducia, ed avermi fatto desiderare ardentemente quella dolce ninfa, si gira di scatto, mi guarda con quelle due sue orbite nere, profonde e... vuote. Sprofondandosi lentamente nel terreno, ricongiungendosi agli inferi dai quali era venuto al mondo, mi maledice in eterno con codeste parole: "Obscuritatis Principum Proxima Est Omnibus Damnatio Damnatio Damnatio Damnatio". (Rudi Remelli)

(Self)
Voto: 80
 

sabato 5 maggio 2012

Opera IX - Strix – Maledictae In Aeternum

#PER CHI AMA: Black esoterico
*"Qui la turba malvagia, non paga dei prolungati eccitamenti delle torture, si saziò di sangue innocente. Salva ora la patria, abbattuto ormai il covo del lutto, là dove imperversò la morte rifulgono oggi vita e benessere." Edgar Allan Poe – “Il Pozzo e il Pendolo”.

Sperate di non ricevere mai l'invito per un rituale di magia nera, naturalmente voi non saprete che si tratterà di quello, soprattutto perché l'invito vi giungerà certo da parte di qualcuno di cui vi fidate, ciecamente, da sempre. Di qualcuno per il quale sareste disposti a mettere la mano sul fuoco. Dubitate ancor di più, e soprattutto, se quel qualcuno, di giorno, predica bene. Rimarrete certo sconvolti o ancor peggio morti, a seguito di quel che vi potrebbe accadere, o che sicuramente vedrete accadere, se sarete un po’ più "fortunati", rispetto a qualcun altro. Vi cambierà per sempre. Indietro non potrete più tornare (Requiescat in pace). Sarete volti al male, per sempre. Una sola esitazione, il ripensamento di un attimo, vi condurrà ancor più velocemente alla bara. No. Non ci sarà nessuna bara per voi. La verità è un'altra: sparirete per sempre, all'improvviso, senza lasciare la minima traccia. Di voi parleranno, forse, solo i telegiornali e, se non contate niente, per poco tempo. Vi ho reso partecipi del pensiero vomitato dalla mia mente, evocato per voi dall'ascolto dell'intro "Strix the prologue" degli Opera IX. Ammesso che non abbiate già troppa paura, spero continuerete a sanguinare in mia compagnia, leggendo, perché sarò ben felice di farvi da Polia della situazione e di condurvi, per mano, in questo hypnerotomachico onirico viaggio di "Strix Maledictae in Aeternum", concept album sulla stregoneria. I primi centocinquantaquattro secondi spettano all'intro: un talentuoso artificio di tastiera mi trascina nella più profonda delle ipnosi, un viaggio alla suspiria, senza ritorno, nel tempo, verso il 1313. Mi lascio corteggiare, sedurre, avvolgere, da queste torbide, malsane, atmosfere aiutato anche da una suadente voce femminile. Non ho dubbi, si tratta di una strega: mi sussurra, sbiadita, tra fulmini, saette e canti gregoriani. Parte "1313 (Eradicate the False Idols)", a differenza della prima, è cantata. Uno scream cupo, pieno, che urla come Dio comanda e mi regala un'altra scena: stavolta mi trovo in una piazza e vesto il saio. Si, sono un frate cappuccino dell'Ordo Fratrum Minorum Capuccinorum, ordine che al tempo ancora non esisteva, sarebbe infatti nato poco più di due secoli dopo. Là, proprio di fronte a me, in mezzo ad una folla esaltata, vedo svolgersi la solita pantomima. Una giovane donna, bellissima, dai lunghi capelli neri, seminuda, è stata piantonata ad un palo. Visibilmente malmenata, non mi stupirei se stuprata poco prima dai suoi stessi inquisitori, è sotto lo sguardo crudele della folla assatanata. Tutti gli occhi, iniettati di sangue, sono volti a lei. Sono volti al male. Tutti la additano: Strega! Strega! Loro sono nel giusto, si, perche... credono. Un mefitico substrato di tastiere, come nebbia, si diffonde tra la gente. E' sotto l'influenza di questo malefico manto che la folla si fa’ ancor più violenta, più spavalda. Vi si insinua dentro un vero e proprio empatico odio collettivo. Un assolo di chitarra, come una frusta, sferza uno squarcio alla folla ed eccolo: l'inquisitore, dinanzi a lei, con lo scream che prima vi ho descritto, cita il ben noto versetto del Vangelo di Giovanni (15,6) grazie al quale per secoli, il rogo è stato giustificato: "Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi li raccolgono e li gettano nel fuoco e li bruciano." Parti lente concedono, a tratti, qualche intarsio di veloce doppia cassa. Un rullo cadenzato, rende trionfale questa specie di marcia ed anche se con qualche sbavatura, colgo comunque quell'attimo: la fiaccola che viene calata sul rogo, le fiamme che divampano. Con quest'ultima immagine vi proietto nella successiva "Dead Tree Ballad" si parte con una batteria trionfale, da parata. Odo poi ancora quelle tastiere che fanno sesso con batteria di un di gusto che non vi dico perché voglio che lo sentiate voi stessi. Buone ma non ottime le rullate sui tom ma quella tastiera è degna di far da organo nella più meravigliosa delle gotiche cattedrali. Vedo i gargoyles prostrarsi ad essa, idolatrano il tastierista come una sorta di pifferaio magico. La batteria semina qualche peccato qua e là. Ricordo che al tempus fugit, se non si era "sin pecado" si bruciava. Nel complesso, comunque, anche questa track mi è piaciuta, mi ha lasciato qualcosa. Segue un secondo intro, "Vox In Rama (Part 1)". Canti in latino e cembali cui prima non avevo accennato, ma che comunque cadean, ogni tanto, qui è là, come coriandoli e l'atmosfera da oscuro rituale è garantita. Era l'introduzione per la successiva "Vox In Rama (Part 2)" un amalgama di scream e batteria che dapprima lenta, si fa poi più veloce, cadenzata, ma senza eccessi. "Mandragora" parte con un buon solo di chitarra anche se la sviolinata di batteria mi lascia un po’ perplesso. Ancora una volta l'entrata della tastiera mi salva da tutti i mali. Seguono "Eyes in the Wheel" su cui non mi soffermo perché ritroviamo un po’ tutti gli ingredienti di cui già vi ho in precedenza accennato. Con l'attacco di "Earth and Fire", riprendo la storia della strega da dove l'avevo lasciata. Le fiamme che divampano e la folla che urla. Ma le vere urla, strazianti, stavolta provengono dalla strega. Le fiamme infatti cominciano a lambirla, ad accarezzarla. Osservo le sue carni sciogliersi, sotto l'effetto del fuoco, ne intravedo le prime superfici del teschio sotto quei pochi lembi di carne che ancora vi restano adesi. Quello che prima era il suo bel viso, adesso si scioglie e cola sotto i miei occhi. Come una candela, si sfalda e pian piano si raggruma, accesa da un pellegrino nella più tetra e oscura delle cripte. I suoi denti ormai insanguinati brillano rossi e accesi come rubini ardenti e poi cadono, tra le fiamme, che si fanno sempre più fameliche e carnivore. Lasciano il nulla dove prima c'erano quelle sue curve voluttuose. Chitarra e scream vocale mischiati al sangue come in un calderone, marchiano nella mia mente quel suo crepitare. Quegli... scoppi. Quell'odore. Segue un'altro intro, anche questo molto suggestivo e ad effetto: "Ecate - The Ritual (Intro)". Mette una certa ansia, devo ammetterlo, ascoltatevelo al buio, magari da soli, in un posto sinistro e vi assicuro che a più di qualcuno metterà una certa paura. Degno di un Sabbah. E su questa parola mi sovviene un'altra immagine, una vera e propria opera d'arte questa volta. "Il Sabba delle Streghe" di Francisco Goya che Baudelaire, in “Fari” (ne “I Fiori del Male”), descriveva così la sua pittura: "incubo colmo d’arcani senza fine; feti cotti in un sabba, su qualche orrida balza; laide streghe allo specchio; ignude ragazzine che per tentare il diavolo si tiran su la calza.". Queste parole, rendono in modo eccezionale l'idea del rituale. Seguono "Ecate" e "Nemus Tempora Maleficarum". Anche qui non si perde certo l'occasione per descrivere un altro oscuro rito, svolto nella notte di San Giovanni e dedicato agli arcani elementi. Vi si citano persino i pianeti. Spetta ad "Historia Nocturna" dare il giro di boa a questo disco, a chiudere questo diabolico girone infernale che per solo averlo ascoltato, colloca al di là di ogni ragionevole dubbio, la mia anima, se mai una ne ho avuta, nel Cerchio VI, quello degli eretici. Quasi dimenticavo, non vi ho raccontato che fine ha fatto la strega: Riesce, prima di andarsene per sempre, a lanciare il suo ultimo anatema:

"Impia tortorum longos hic turba furores sanguinis innocui, non satiata, aluit. Sospite nunc patria, fracto nunc funeris antro, mors ubi dira fuit vita salusque tenent"*

(Rudi Remelli)

(Agonia Records)
Voto: 80

giovedì 16 febbraio 2012

Acheode - Anxiety

#PER CHI AMA: Brutal Techno Death
Ognuno di noi, per quanto gli sia possibile, si sforza giorno dopo giorno di essere tranquillo, educato e gentile. Prima o poi però, è inevitabile, bisogna fare i conti con qualche momento di pura incazzatura. Tali momenti possono certo dipendere da noi, ma anche no. In un caso o nell'altro c’è da farsela passare, giusto? E' necessario venirne fuori. Ma come? Fermi lì, tranquilli, non state ad lambiccarvi troppo le meningi, qualcun'altro ci ha già pensato per voi! Non dovrete far altro che ascoltare. Si as-col-ta-re. Si tratta di un modo sicuro, veloce, senza effetti collaterali(?) Da assaporare in qualsivoglia quantità. Una magica valvola di sfogo che potrete aprire in ogni momento, al bisogno. Sto parlando degli Acheode, affiliati del sempre più nutrito esercito Kreative Klan e precisamente del loro full lenght, "Anxiety". Energia allo stato puro, un botto nucleare più potente dello spread che vi scardinerà piacevolmente le membra fino a ribaltarvele tutte ma senza alcun fall-out radioattivo. Fin dal primo istante, credetemi, vi entusiasmerà oppure no, lo capirete oppure no, in un caso o nell'altro, non avrete dubbi. Io ne sono uscito indenne e sicuramente entusiasta, di certo arricchito e pure annichilito. La cover, rivelatrice del concept di questo full lenght, ci propone un vecchio che viene strangolato dal cordone ombelicale di un feto: una sorta di rivalsa della vita sulla morte, quindi. Il sound che le nostre cinque colonne d'Ercole tutte italiane ci propongono è così incazzato che non esiste un adeguato aggettivo per definirne l'aggressività. La cattiveria ci è subito servita a piene mani, senza paura d'imbrattarsene, ma anzi con gioia di farlo, con "Parasitic Gangrene", prima track, e non si cheta se non sul finire dell'ultima song "Anxiety". Colonna vertebrale che sostiene tutto il disco e non lo fa mai cadere nella banalità, è l'estrema velocità con la quale ogni singola traccia viene eseguita. Einstein, che di velocità ne sapeva, nella sua teoria della relatività aveva posto un limite preciso a questo parametro: quella della luce. C'è però da dire, a suo favore, che al tempo, gli Acheode non esistevano. Loro infatti, infrangono questo limite, sfruttano una sorta di NOS relativistico che gli permette di spingersi in una sorta di al di là. La batteria sembra suonata da più di due braccia. Ne servirebbero, a mio parere, almeno quattro: che il batterista sia la reincarnazione di qualche antica divinità induista? Di certo è un Dio, le sue pelli devono derivare dalle pergamene del "Codex gigas" la "Bibbia del diavolo", per non uscire distrutte dopo ogni singolo passaggio. Mi sa che se andassimo a controllare, presso la biblioteca reale di Stoccolma, dove il Codex è gelosamente custodito, scopriremmo dove siano finite le pagine mancanti: nei toms e rullante di Filippo Vanoni. Per le chitarre vale la stessa regola: mi sa che anche stando lì vicino, concentrati, a guardare, non riusciremmo a distinguere colore e forma del plettro dalla velocità alla quale si muove. Resteremmo invece di sicuro imbrattati dal sangue dei polpastrelli che scivolano sui tasti restandone corrosi. Forse siamo di fronte ad un estremo quanto raro caso di polidattilia? Direi che con tre dita in più per mano forse (e dico forse) la cosa è fattibile. Spero infine nella clemenza di Marco De Martino, abilissimo e valido cantante del gruppo. Quando diventerà padre o se magari lo è già, non mi è dato saperlo, che stia bene attento a non usarla per canticchiare ninne nanne per i suoi bambini. L’effetto sarebbe devastante: comincerebbero a scendere le scale come la bambina de "l'Esorcista" e sicuramente parlerebbero l’aramaico. Promotori della fine del mondo, bravi! (Rudi Remelli)

(Kreative Klan Records)
Voto: 80

domenica 8 gennaio 2012

Wormfood - France

#PER CHI AMA: Avantgarde, Fleurety, Arcturus
La prima, e ce ne saranno tante, ve l’assicuro, delle molte stranezze in cui m’imbatto nell’ascoltare questo concept, è venir accolto da una voce che non canta. Assisterò invece ad una lezione di francese. Butto l’occhio sul Cd che ruota veloce nel lettore. Lo guardo. No, non appartiene alla serie del corso di lingua che mi hanno prestato, è proprio “France” dei Wormfood. Aspettate, ora che lo guardo bene, mio Dio sta cambiando aspetto! È diventato un disco flessibile rovente e diamantato che sta smerigliando l’ultimo dettaglio di “Sfera dentro sfera” di Arnaldo Pomodoro: sono investito dalle scintille. Noooo, è cambiato ancora! Adesso è diventato la ciambella glassata rosa pralinata dei Simpsons. Ne vedo cadere a pioggia dal cielo. Ma torniamo a noi: avete mai assaggiato una di quelle caramelle “tuttigusti più uno”, quelle che compra Harry Potter sull’Hogwarts Express? Beh, io l’ho fatto. L’ultima volta che l’ho incontrato, perché siamo ottimi amici, sapete, ne ha offerta una a me e un’altra ad Hermione. Anche in quell’occasione ho ravvisato lo stesso stupore. Questo per darvi un’idea della varietà musicale che caratterizza questa release e di come questa band mi abbia impressionato. Positivamente. Si perché questo è uno di quei casi in cui è sbagliato etichettare la band con “un genere”. Mi trovo piuttosto a passeggiare in una galleria che espone opere d’arte delle più divergenti e disparate correnti musicali: dal doom, thrash, french variety, death, gothic, punk, pop, classic, al baroque, com’è precisamente indicato sul foglietto informativo posto sul retro del disco. Mi chiedo a questo punto se non ci siano controindicazioni. Non ce ne sono di indicate, ma fatevene voi un’idea dopo che avrete finito di leggere queste mie righe. Torno ad ascoltare quella voce, (ah si, il titolo della song è “Lecon de Francais/French Lesson”) dice che mi trovo sulle strade di Parigi. Vengo quindi gettato a capofitto, come risucchiato da un buco nero, in questo onirico viaggio nella perversità francese, nella metropoli parigina per la precisione, dalla voce di un barbone, si proprio un barbone. Ha una voce gutturale, lo sento prima vomitare, sputare per terra poi, ed inveire contro non so chi, non so perché. La sua voce rivela senza alcun dubbio che è completamente ubriaco: a conferma di ciò, il trillare della bottiglia vuota che evidentemente si è appena scolato e che rotola per terra, che gratta sull’asfalto, urtata di sicuro da uno dei suoi passi nel suo incedere incerto. Osservo attorno a lui un và e vieni di auto, un traffico vero e proprio. E lo sento anche, non sto scherzando. Lì vicino passa anche un treno, d’altronde siamo nel bel mezzo di una grande metropoli, Parigi appunto, eppure in un posto del genere, che dovrebbe straripare di gente, avverto la sua solitudine, non c’è anima viva, è completamente solo. Poi un colpo. Secco. Oddio è stato travolto dal convoglio in arrivo. Vedo il suo corpo martoriato rotolare, credo senza vita, in prossimità dei binari. Nessuno lo ha visto, né tantomeno se né accorto. Da vivo esisteva di per sé ma non esisteva per nessuno. Adesso che è morto, poi, almeno credo, non è cambiato, nella sostanza, nulla. La seconda traccia è una canzone vera e propria, “Bum Fight” s’intitola. Parte lenta, con solo chitarra e batteria. Lunghe pause e poi un assolo heavy metal seguito da un growl rabbioso, come se a cantarlo fosse proprio quel barbone: ma allora ancora non è morto... Eh no! Ecco di nuovo le sue invettive. Un rullo in quarti ben scandito ne accompagna la voce che si fa pulita. La traccia continua tra battiti di mani e una fisarmonica prende il sopravvento. Torna la voce ancora growl, la canzone rallenta un’altra volta, stop alle telefonate, e non solo: anche alla voce, si, perché passa un’ambulanza, sento la sirena. Si ritorna quindi a cantare, incazzati neri, ad urlare fino a ferirsi le corde vocali. La traccia si conclude con lo scricchiolio come quello emesso dalla punta del braccio meccanico di un giradischi nella pausa tra una canzone e l’altra. E siamo solo all’inizio. Segue “Ecce Homo”: una folla acclama qualcuno. Squillano addirittura le trombe. E poi una voce intona “…Les Sodomie!” a cui si accodano dei diabolici grugniti che sembrano quelli di un demone, delle frustate con applausi al seguito, il tutto dura poco meno di un minuto, ma mi ha lasciato così, con la mia faccia a sembrare “L’urlo di Munch”. Era quindi l’intro per la successiva “TEGBM (Fantaisie Galante du Grand Siècle)” che parte tra violente scariche di chitarre distorte e un drumming molto pesante. Veloci colpi di charleston aperto introducono un organo e la voce tituba tra il growling e un pulito a tratti. Ancora una volta, gente che ride di gusto, che commenta. Segue una frase in francese che non comprendo, sono sincero, introduce qualcosa che ha a che fare con niente poco di meno che Jean Baptiste Moliere. Riparte il growl, una fantasia di tastiera talvolta solista, accompagna distorsioni di chitarra e un’incipiente batteria. Segue “Daguerréotype”, altro breve inframezzo che mi fa pensare, per i cori femminili, alle vecchie fiabe per bambini e che introduce la successiva “Miroir de Chair”. La song parte incazzata poi s’incupisce; un sonaglio introduce qualcuno che piange, nel silenzio. La voce si fa parlata ma tremante, tristissima, accompagnata da una sapiente tastiera e poi risfocia ancora una volta nel growling, tra gli eterei cori femminili. Il grugnito di un elefante e poi una musichetta a mo’ di circo con tanto di banditore. Che storia, non mi sono mai imbattuto in niente di simile prima d’ora. Altro breve intermezzo con “Comptine”, che stavolta ci propone un motivetto fischiettato. A questo punto sto ridendo di gusto da solo, proprio non me l’aspettavo. Segue l’incazzosa “Vieux Pèdophile” che descrive il decadimento umano nella versione forse più atroce e cattiva, quella della pedofilia, che ci viene proposta attraverso gli occhi di chi l’ha vissuta. La successiva “Dark Mummy Cat” parte con una litania cantata che mi rammenta l’Islam. Anche questa come le altre è sicuramente da ascoltare. Come le precedenti, intercala tra le note le sue chicche. Questo filo di perle si conclude con le successive “Omega = Phi” e “Love at Last”. In definitiva, quindi, l’immagine che mi resta dopo l’ascolto di “France”, è quella di un diamante che sfaccettatura dopo sfaccettatura, song dopo song, brilla sempre di più. Ogni singolo pezzo ha qualcosa da raccontarmi, ogni racconto non è mai banale, non c’è qualcosa che non mi abbia stupito. Una pietra preziosa che merita di essere incastonata nella più meravigliosa delle parure regali. (Rudi Remelli)

(Code 666)
Voto: 90
 

giovedì 22 dicembre 2011

Mr. Death - Descending Through Ashes

#PER CHI AMA: Swedish Death, primi Entombed
Solo, avvolto tra le spire della più fitta ed umida delle nebbie, lungo la più ripida e tortuosa delle mulattiere transilvaniche, avverto impotente quegli ultimi borbottii. Provengono dal cofano dell'auto su cui mi trovo. Decretano l'irreversibile quanto flebile ultimo respiro di questo diabolico congegno meccanico fatto di bielle, valvole e pistoni. Ci vedo una sorta di artificiale forma di vita nei motori e come tali, destinati, ahimè, prima o poi, in questo caso adesso, a spegnersi. Per sempre. E lì mi trovo. Solo. Come sempre. In mezzo al nulla. Incazzato nero, scendo. Mi consolo con l'unica compagna che non ti tradisce mai, ti dà tanto senza pretendere nulla, fatta di note, pause ed accenti, quell'orgasmica espressione del talento umano denominata musica. Con gli auricolari indosso, decido di spararmene un'overdose letale, di quella giusta, quella dei Mr. Death, pentacolare formazione svedese. M'incammino quindi, e sulle note di "To Armageddon" mi accorgo che la via più breve per il più vicino centro abitato consiste nell'attraversare un vecchio cimitero. Il cancello che ancora mi separa dal camposanto, da quella che sarà la mia final destination, è semiscardinato: quasi un invito ad entrare. Mi faccio quindi strada senza ben sapere a cosa vado incontro... non appena ne calpesto il suolo, percepisco fin da subito, aldilà di ogni ragionevole dubbio, la malvagità di cui è intriso. Dalla suola della mia scarpa sento risalire questa gelida sensazione che mi pervade, mi possiede, mi entra dentro, avvinghiandomi. E' un sound rugginoso, grattugiante. Ti si sferza pian piano nel costato e ci si fa strada, ti rigira le membra, è come se le corde di quelle chitarre fossero arpeggiate da uno dei corpi semidecomposti ivi sepolto, con un plettro ricavato da una scheggia del suo stesso cranio. Sfondato. Ebbene proseguo nel mio cammino, passo dopo passo, con circospezione, addentrandomi sempre più in questo territorio infestato, in questa dantesca selva oscura che ancora non ho del tutto ben identificato. Per condurre un'accurato esame autoptico di questa release, mi lancio nell'ascolto della successiva track "The Plague and the World It Made" concentrandomi stavolta sulla voce. Vediamo se riesco a farvela "sentire" anche se in questo momento non la state ascoltando. Proviamoci, via. Tanto non c'è per me cosa più divertente da farsi: ecco, vi trovate in un cimitero, ricordate? E state passeggiando, ve lo ricordate, vero? D'un tratto, si d'un tratto, notate un rivolo di condensa risalire dalla base di una sgangherata lapide 'si vecchia e logora che non se ne legge più nemmeno l'epitaffio. D'improvviso, un braccio, o meglio quel che ne rimane, si fa strada in quella terra dimenticata da Dio e ne emerge, seguito dall'intero cadavere mezzo decomposto. Intriso di larve. Voi restate lì. Impietriti da quella visione. Spaventati da quella mandibola, con il residuo di quei pochi denti rimasti e con l'orbita sfondata. Impalliditi, vi sentite raggelare il sangue nelle vene, ne sentite la densità aumentare, avvertite le vostre pulsazioni. Vorreste ahimè urlare ma è come se questo comando vi fosse d'improvviso vietato e non riuscisse a raggiungere la vostra mente: dalla bocca non vi esce un fiato. Ve ne restate lì, succubi, ad ascoltarla emettere quello screaming cupo, cavernoso, truce come l'aria asfittica insufflata da logori mantici nelle vetuste canne del più antico degli organi sacri. Una voce che perfettamente si sposa nel contesto di quelle melodie. Ci fa sesso. Un incastro perfetto, dal disegno Escheriano, ingannevole, che non è davvero come appare. Una voce che non ricorda certo l'Ave Maria di Schubert ma che trasuda nella mia mente una lisergica versione del Dies Irae. No, non quella famosa di Mozart. Quella intonata da Satana stesso ogni qual volta, nel suo piccolo, s'incazza. Ebbene, vi ho già raccontato parecchio ma aspettate un momento, concedetemi ancora un istante. Si perchè mica finisce qui. Ancora non vi ho condotti, mano nella mano, nella mia terra promessa. Si ormai la conoscete, l'abbiamo calcata altre volte assieme, è il mio personale Eden fatto di piatti e tamburi. Ve lo faccio ancora una volta, via, proviamoci, "sentire" anche se come prima non lo state ascoltando. Chiudete gli occhi ed immaginate il dio Vulcano, quello impresso sulle vecchie 50 lire, per intendersi, ve lo ricordate? Lo vedete il metallo ardente forgiato colpo su colpo dal suo martello? Osservatene le copiose scintille, percepite le vibrazioni del contraccolpo del martello trasferirsi e risalire lungo il vostro braccio. Ecco, è esattamente questo quello che io stesso provo nel momento in cui per primo, percuoto i miei di piatti ed è la stessa medesima sensazione, che vivo, in questo momento, ascoltando "Descending Through Ashes". Immaginate adesso da voi i tamburi: non posso mica dirvi sempre tutto io. Ancora una volta, adesso, tutti vi starete chiedendo: si ma sta cavolo di storia come andrà a finire? Ebbene, nella verità, la macchina non si era fermata. Si era invece fracassata contro quel cancello. E' il motore della vostra vita, ad essersi spento. E si è portato via la vostra anima, sempre che ne abbiate mai avuta una. Si, se l'è portata via, ma solo per 34 minuti e 14 secondi: l'esatta durata, per intero, di questi dieci comandamenti incisi su lapidi denominati "Descending Through Ashes". Alla fine dell'ascolto sarete ancora vivi e vegeti, non temete. O forse... (Rudi Remelli)

(Agonia Records)
Voto: 75
 

lunedì 24 ottobre 2011

Laments of Silence - Restart Your Mind

#PER CHI AMA: Death Melodico, Dark Tranquillity
Smarrito e solo sull'Isola di Creta, nell'ipotetico e labirintico Palazzo di Cnosso qual'è la mia mente, mi ritrovo al buio, dopo aver consumato la mia unica torcia e senza alcun filo di Arianna, abbandonato ma in compagnia di un'unica certezza: il minotauro. Il minotauro è vicino, ancora non lo vedo, no non lo vedo, ma ne avverto, là, sempre più vicino, l'oscura, malvagia presenza. Ho paura, certo, ho paura, ne sento il ringho e gli zoccoli, sì i suoi zoccoli scalpitare. La paura però, mi coglie solo per un attimo: non mi faccio prendere dal panico, no di certo. Sono abituato a ben altro. Questo è niente. No! Sarà lui, o meglio quella cosa, a dovermi temere. Sento il mio coraggio rinvigorire il mio spirito all'udir di codeste, incazzate corde vibrare. Non perdo tempo: Lancio subito, senza esitare, il mio simbolico ed atipico urlo di guerra: "Restart your Mind!". Sarò io il cacciatore: lui la mia preda. Voglio il suo scalpo. "Restart your Mind": così è stata battezzata la title track di questa adamantina release degli spagnoli Lament Of Silence. Duecentottantacinque secondi di pura cattiveria giocati su una batteria maestosa, strofe interpretate con sapienti scream vocals e, come il genere vuole, sul classico matrimonio tra distorsioni di chitarra ed una "doppia pedalata" sì rapida e precisa da far invidia a quella del Fausto Coppi dei tempi d'oro. Cammino attento nel labirinto, mi inoltro sempre più nelle sue spire, nei suoi meandri. Rimango all'erta, vigile, attento. Spada e scudo mi accopagnano. Sguaino la mia lama sulle note di "Sentenced", la voce diventa a tratti pulita: batto allora l'elsa sullo scudo, a sfidare, impavido, il mio nemico. Voglio che mi senta. Odo l'eco dei suoi passi, sempre più vicini... ad accompagnarli velocissime rullate di toms. Tamburi. Tamburi nell'oscurità. Nella mia mente, l'immagine di lui che si ferma. Si gira. D'mprovviso. Avverte d'un tratto la mia presenza. Immagino un'ipnotico rosso brillare nelle sue iridi. Le vedo accendere d'un tratto l'oscurità e riempirla con il loro odio. Osservo i capillari delle sue sclere gonfiarsi, anzi inzupparsi del suo stesso sangue. Odo di nuovo il suo ringhio, lo schema dell'alternanza vocale, infatti, si ripete anche nelle successive "Paper Dolls" e "Homeless on the World of Souls". Un ritornello pulito si intercala, concatenandosi, con strofe growl. L'idea, però, non essendo a mio parere innovativa, viene forse un pò troppo sfruttata. Il risultato finale, ad ogni modo è più che gradevole. In men che non si dica mi ritrovo catapultato, invischiato in "Doomed". Mi fermo allora un istante ed ascolto. Da bravo cacciatore cerco di percepire i suoi passi, d'intuirne i movimenti. Le melodie me lo consentono, questa volta sono meno incazzate, meno serrate. Vivo "Doomed" come una sorta di quiete prima della tempesta. Corro, gli corro incontro, l'attesa snervante mi ha ormai stancato. La tempesta arriva con "Within my Dreams" preceduta da "Scream in the Darkness" e "Solitude" che vanno a prolungare, sulla scia di "Doomed" l'attesa, prima del mio scontro finale. Ecco, ci siamo, me lo trovo di fronte. Ne incrocio impavido il suo sguardo. Due fari che si accendono nell'oscurità. Mi osserva, mi studia. Io non mi fermo, continuo nella mia corsa e quindi salto, tento di colpirlo con un fendente dall'alto. Lui lo schiva, sicuro, veloce. Tenta di incornarmi ma intercetto rapido con lo scudo le sue corna. Il contraccolpo è potente, cado a terra, all'indietro, ma non perdo scudo e spada. La battaglia non è persa. Mi carica, tentando nuovamente di incornarmi, ma io resto fermo. Fermo fino all'ultimo e quindi scarto, rotolo veloce su me stesso, quindi mi rialzo. Lui si gira: rapido, sorpreso. Veloce gli scanno la gola, ne stacco la testa, la vedo rotolare a terra. Il suo torso, decapitato, si accascia al suolo. Inerme. (Rudi Remelli)

(My Kingdom Music)
Voto: 75
 

lunedì 26 settembre 2011

Moonrise - Under the Flight Of Crows

#PER CHI AMA: Melodic Death Metal
"Poi dirà anche a quelli di sinistra: andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli…" (Matteo 25:41). "...Dio non risparmiò gli angeli che peccarono, ma li confinò nelle spelonche tenebrose del Tartaro, custodendoli per il giudizio…" (2 Pietro 2:4). "…ed anche gli angeli, quelli che non serbarono il loro primato, ma abbandonarono la loro dimora, li ha tenuti legati con catene eterne, nel fondo delle tenebre, per il giudizio del gran giorno." (Giuda 6). "E fu precipitato il grande drago, il serpente antico, che è chiamato diavolo e anche satana, il seduttore del mondo intero fu precipitato sulla terra e i suoi angeli furono precipitati con lui." (Apocalisse di Giovanni 12:9). Quattro neri angeli caduti, scortano, sotto un cielo crepuscolare, a spalla, una bara. Odo, lassù in alto in alto, quasi a sfidare l’Altissimo, un’anulare stormo di sei corvi neri. Sei ne vedo scendere, in picchiata, e posarsi sulla rovesciata croce del coperchio della bara. Sei si librano bassi, nell’aria, a ricordare, nelle menti di chi ancora non è trapassato, l’oscura locuzione del memento mori. Ecco il cortometraggio girato dalla mia diabolica mente nel momento in cui il mio lettore ha accelerato la velocità angolare di “Under The Flight Of Crows” della pentacolare, padovana formazione dei Moonrise. La mia assonica rete neurale si è subito fatta sedurre ed irreversibilmente avvolgere dalle sue octopiche, funeralesche note, dalle angeliche immagini dell'artwork. Angeli bianchi, si, certo... ma non a caso ripresi in modo da apparire oscuri, neri. E non a caso con le ali chiuse, basse. La loro punta, sembra quella di una spada.Ma è con i corvi, si, con i corvi che si comincia. Ad affiancarli, un gong cerimoniale, di quelli che spesso accompagnano i buddisti nella preparazione del mandala. E poi quel timpano, quel timpano… non messo a caso, no, ma pensato per evocare una marcia. Funebre naturalmente. Ed ecco servito il quattro, ma su bordo di crash e non di bacchetta, come esige il rito batteristico per l'esecuzione dei pezzi più truci e violenti. Attaccano le distorsioni di chitarra. Odo accenti in ottavi in campana di ride, qualche tranquilla battuta e poi via, giù di brutto, una violenta raffica in trentaduesimi di rullo ad introdurre quella voce, si, quella voce... acuta e urlata, ma a tratti anche roca e profonda. Vedo le particelle sottili di polvere di plettro sfaldarsi nell'aria e riflettersi nel nero, brillante occhio dei corvi. Quasi si appanna, si chiude, ma poi veloce si riapre più penetrante, inasprito e incazzato. A fatica vedo quelle dita, si quelle dita... 'sì veloci e precise destreggiarsi sicure tra corde e pick-ups. Quella chitarra ci gode, si, ci gode ad urlare. Quasi non me ne accorgo, anzi me ne accorgo e mi incazzo quando scopro che il pezzo è finito. Peccato, me ne sarei inebriato ancora. Ma c'è dell'altro... "Dusk", track successiva, seguita da "Dressed by Our Dreams", non mi entusiasmano particolarmente. Ci possono certo stare, però, data la caratura della prima track, mi lasciano con la voglia di qualcosa di più. Quel qualcosa di più arriva con l'incipiente attacco di "My Ruins": bello il giro di chitarra che giustamente ritroviamo più volte nell'arco del pezzo e che ne impreziosisce la partitura. Particolare anche la struttura della canzone. Sicuramente gustosa da eseguire, per le pause cadenzate tra le veloci rullate, feroce nell'inizio, potente nel testo, è "Not in This Life". Il pezzo offre alla chitarra ottimi, solistici, camei d'espressione. La successiva "The Time of Falling Leaves" ci regala curiose incursioni vocali, qualche buona galoppata di doppio pedale che piace tanto ai metallari e che non guasta mai. L'eptade canora si chiude con "Save the Morning", potente e feroce. Bello l'inizio ed il successivo sviluppo del pezzo: un trionfo di rullo e gran cassa con dei bei giri di chitarra. A questo punto la recensione sarebbe finita ma... per soddisfare la macabra curiosità di quei lettori che si fossero chiesti: "Ma che cazzo c'era all'interno della bara?" Beh, non vedo perchè non soddisfarli: un corpo, avvolto dalla terra, pancia sotto, con la testa mozzata. Due antiche monete nei bulbi oculari ed un paletto nel petto con avvolto un medaglione con scritto: "...chi osserva la mia parola non vedrà mai la morte." (Giovanni 8:51). (Rudi Remelli 6:66)

(Punishment 18 Records)
Voto: 70

martedì 30 agosto 2011

Terminal Sick - Diagnosis

#PER CHI AMA: Death/Thrash Metal, Sepultura, Soulfly
Inizio a pagaiare tranquillo sul mio kayak inconsapevole di un’invisibile ma inequivocabile, carontica presenza. Mi lascio traghettare in un petrarchico fiume dalle chiare, fresche e diaboliche acque. Odo rullare i primi bonghi tribali. Vedo scoccare, tra le fronde, le prime frecce intinte nelle avvelenate ghiandole della Dendrobates azureus. Sono fottuto. Sono infatti stato colpito: solo di striscio, certo, ma pur sempre colpito. Avverto già, nelle mie vene, l'onirico effetto della batracotossina. Sono ormai entrato in coma: "Deep Coma". E' con questa dicotomica nomenclatura che è stato per l'appunto battezzato il primo "sintomo" di questa diagnosi. I Terminal Sick sono una cinquina tutta italiana, emiliana per la precisione. I nostri cinque incazzati mietitori fan schizzar sangue qui, a casa nostra, e non hanno inzozzato a casaccio una qualunque scena del crimine come troppo spesso, ormai, si vede fare in televisione. Hanno pennellato ad arte, questo mistico, rosso, fiume di sangue. “Deep Coma”, di cui vi ho appena scattato una mia personale fotografia, è appunto la track di apertura di "Diagnosis". Un'esecuzione incazzata si, ma senza eccessi: regola d’oro questa, nel metal, come l’ora et labora per i Benedettini. Provo sempre un certo gusto nel mescolare il sacro al profano… ma non lasciamoci andare: delle percussioni tribali vi ho già accennato, alla "Roots" dei brasiliani Sepultura mi pare azzeccato dire. Molto buone le soluzioni adottate da Alessio alla batteria; che le sue pelli siano state tratte dal Necronomicon? Velocità si, ma priva di ripetitività e scontatezza. Pause e begli accenti vanno ad impreziosire la parure di chitarra, basso e campionamenti. Il tutto è sapientemente accompagnato da un buon scream, pieno, corposo, urlato ma a tratti anche melodico. "Living Injection", secondo sintomo, costruito sul dialogo tra voce pulita e scream, è meno aggressivo del primo. Belli i passaggi di tom ma il pezzo, a mio parere, non è all'altezza del primo. "Android" e "Blind War!, pur sapendo piacevolmente accarezzare il mio lato oscuro, non riescono più di tanto a domare la mia sete di vittime innocenti. Mi affaccio invece più curioso che mai sul panorama di "Psychical Analysis" bella quasi come il pezzo forte, "Deep Coma", alla quale segue, con un sound completamente diverso, "Useless Hope": netto stacco da quanto ho finora ascoltato. Di sicuro più docile delle precedenti track, rivela preziose sonorità che finora la nostra cinquina ci aveva tenuto nascoste. Con la omonima "Terminal Sick" si ritorna al sound incazzato iniziale. I bei riff di chitarra plasmati all'incalzante batteria e alla voce di Roberto mi accompagnano per più di sei minuti senza stancarmi mai. Sulla stessa lunghezza d'onda, per me forse anche più bella della precedente, mi faccio inebriare da "Unnatural". Il sound cambia ancora con la camaleontica "My Pain": la vedo come un quadro, un quadro che si autodisegna nella mia mente con l'incedere delle note. Vi si alternano spennellate tranquille a spatolate incazzate con intercalati campionamenti, che mi diverto a pensare come ai tagli nelle tele di Lucio Fontana. Ci vedo una sorta di criptico erotismo in tutto questo, ma forse sono solo io ad essere deviato. Nel penultimo sintomo, "Forever Alone", assistiamo ad un ennesimo cambio di sound: acustico, solo chitarra e voce. Breve si, ma bello. Il disco si chiude con l'ultimo sintomo, piacevole remix elettronico di "Deep Coma", una sorta di ...e vissero felici e contenti... tra le bare ed infiniti tormenti. nemA! (Rudi Remelli)

(Copro Records/Casket Music)
Voto:75

sabato 12 marzo 2011

Grenouer - Lifelong Days


Ottima prova dei Grenouer, quartetto russo di Perm che con questo “Lifelong Days”, reissue di un album precedente uscito solo in Russia col titolo “Presence With War”, entra nel mercato europeo grazie alla Locomotive Records. Si tratta di un disco che abbraccia l’ascoltatore con un’atmosfera industrial per tutta la sua durata e che saprà soddisfare le esigenze di molti di quei metallari “duri ma non troppo”. Si inizia con la roboante “Indecent Loyalty” che introduce il disco senza troppi convenevoli per preparare lo spazio ai suoni incisivi e sincopati di “Addicted to You”: un piacevole e “diverso” momento, atto a drogare la mente di chi sa ascoltare. Stupenda “With no Concern” dove brevi e ben congegnate iterazioni, invitano la testa del metallaro al più sfrenato headbanging. La successiva “Away From Now” è solo preparatoria alla più congeniata e cattiva “Finding the One” dove la voce, a tratti growl, la distorsione delle chitarre, unitamente ad una buona prova del batterista, invitano al pogo più violento, trascinandoci in un’estasi mistica in cui tutto è concesso. La cattiveria si affievolisce solo debolmente in “Off the Back of Others” per poi essere ancora una volta riabbracciata in “The Unexpected”: una sapiente amalgama di chitarre, batteria e pause ben cadenzate tecnicizza “quanto basta” il pezzo senza scadere in eccessi. Con “Employed Beggar”, invece, il programma cambia: le chitarre diventano dissonanti, abbandonando il sound precedente. Ottima “Re-Active” di cui l’album offre anche il videoclip. A chiudere il disco la lenta, tranquilla e dalla voce questa volta pulita, “Patience” che ci riporta, purtroppo, alla cruda realtà, dalla quale le suadenti melodie di “Lifelong Days” hanno saputo solo momentaneamente strapparci. Coinvolgenti! (Rudi Remelli)

(Locomotive Records)
Voto: 80