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mercoledì 28 agosto 2024

Bloodshed - Inhabitants of Dis

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine  
#PER CHI AMA: Black/Death
Avevo espresso un giudizio positivo in merito al loro mcd 'Skullkrusher', e ora, in occasione dell’uscita di questo full length, torno a spendere parole di apprezzamento nei confronti della death metal band svedese. Sì, perché questo album ha almeno due pregi: pur essendo parecchio violento, non lo è in modo caotico; inoltre, nel suo insieme riesce a non essere tedioso, ciò grazie al fatto che i Bloodshed hanno saputo diversificare i brani, anziché sfornare un blocco monolitico. Le prime tre canzoni sono delle belle mazzate, veloci (anche nella durata) e spietate, poi, per fortuna, l’arpeggio di chitarra di "Release" restituisce un filo d’ossigeno all’ascoltatore stremato. Con "Dark Trace" la furia devastatrice riprende il sopravvento. "Kiss of Cruelty" è un brano potente e articolato, con indovinati cambi di velocità. "Blood Music" è un efficace mid-tempo che contribuisce a variare il menù. La strumentale "Deceit" lascia spazio alla cupa "City of Dis", introdotta da un riff granitico. Chiude degnamente l’album l’ottima "Psychosomatic Revelation". Accade di frequente di imbattersi in cd black brutali dal profilo musicale desolatamente piatto. Non è il caso di 'Inhabitants of Dis', un album che vi consiglio di non trascurare.

giovedì 6 giugno 2024

Enid - Seelenspiegel

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine 
#PER CHI AMA: Symph Black
Sono lieto di potervi riproporre il vecchio album di una band germanica dotata di uno stile personale, di un'identità non riconducibile a un modello predefinito. Proprio così: benché, in alcuni momenti (rari per fortuna), faccia capolino una voce sgraziata d'impostazione black, gli Enid non possono essere catalogati come un gruppo black metal. Le loro canzoni dal sapore malinconico sanno essere fortemente evocative. Se credete nel valore dell'epica e della tradizione, 'Seelenspiegel' saprà emozionarvi, facendo vibrare corde profonde del vostro animo. Delle nove canzoni di questo album, l'unica che non convince è la sesta, "The Forbidden Site", che paga, a livello di performance vocale, un tributo eccessivo al logoro canone black. Chi già conosce gli Enid, sa che per 'Seelenspiegel', loro terzo cd, non necessita di ulteriori ragguagli. Chi li sente nominare per la prima volta, sappia che non possono essere accostati a Falkenbach e Thyrfing, né tanto meno a Graveland o Windir (gruppi ai quali, beninteso, va tutta la mia stima): siamo in altri territori musicali, decisamente. Ma la diversificazione è una virtù, una risorsa preziosa, e le atmosfere di canzoni come "Nexus" e "Patience's Ring", sono talmente affascinanti che dubito possano lasciarvi indifferenti.
 
(Code 666/Self - 2002/2016)
Voto: 75
 

mercoledì 10 maggio 2023

Negurā Bunget - ’N Crugu Bradului

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Black Melodico
Black metal dalla Romania. “Esplorando le tradizioni folkloristiche si possono scoprire tesori nascosti”, si legge all’interno della traccia multimediale (realizzata, con la consueta perizia, da Twan Sibon) inclusa nel cd. Una dichiarazione di principio senz’altro condivisibile. Peccato che i Negurā Bunget non l’abbiano messa in pratica nella stesura delle canzoni. I quattro lunghi brani che compongono l’album presentano un’alternanza di parti aggressive e passaggi più calmi, il tutto però all’insegna del black metal, con quel che ne consegue. Sono le aperture melodiche a dare un tocco di godibilità al lavoro dei Negurā Bunget. Sappiamo tuttavia come la band è riuscita a coltivarle, arricchendo la propria proposta di ingredienti folk, e rendendo tanto più apprezzabile il proprio percorso evolutivo, interrotto prematuramente nel 2017 con la morte di Negru. Se volete potete riscoprire questo disco, riproposto peraltro in vinile nel 2021 in due colori sempre dalla nostrana Code666.

domenica 26 febbraio 2023

Rakoth - Jabberworks

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Folk Black
I russi Rakoth mi avevano letteralmente rapito con le loro atmosfere decadenti e tristi nel precedente 'Planeshift', edito anch’esso per l’italiana Code666. Questo 'Jabberworks' è il risultato di una lunga gestazione durata ben quattro anni, dal 1996 al 2000, quando è stato registrato avvalendosi peraltro dell’orchestra russa “Grotesque Orchestra”. La musica proposta qui è sempre black folk, che funge da punto d’incontro tra il passato e quello che sarà in effetti il futuro sound della band, dove le parti più lente, riflessive e folk sono più accentuate rispetto alle parti black. Sicuramente l’uso dell’orchestra ha impreziosito ancor di più quanto fatto dai russi, e come sempre, spunta uno strumento importantissimo, il flauto, che è di una tristezza infinita. Musica che riesce a coinvolgere emotivamente quella dei Rakoth, mai banale, malinconica e sognante. Ben registrata. In definitiva, un buon secondo capitolo della saga Rakoth, che lascia presagire ancora degli ottimi spunti per il futuro.

venerdì 27 agosto 2021

Rakoth - Planeshift

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Black Folk
Ho al mio cospetto un gruppo russo di black con parti folk al suo esordio intitolato 'Planeshift' fuori per la Code 666, e le uniche parole che mi vengono in mente dopo l’ascolto dei Rakoth sono trasporto e tristezza. Parole chiave, che secondo me servono a spiegare la musica proposta, perché le canzoni ti trasportano attraverso sonorità epiche e sognanti in un viaggio ben orchestrato, fatto di furia black ma anche di emozioni tipiche del folk, impreziosite da un uso veramente azzeccato e tristissimo del flauto, e delle chitarre acustiche che donano quella malinconia giusta per affrontare un gruppo cosi particolare. Anche la voce si muove attraveso tonalità tristi cercando sempre soluzioni nuove all’interno dei pezzi. Molto buono anche l’uso della drum-machine e buona anche la registrazione. Per chi non avesse avuto modo di ascoltarli in passato, questo è il momento giusto per andare a ripescarli.

(Code 666 - 2000)
Voto: 75

https://www.facebook.com/rakothRu

venerdì 28 agosto 2020

Axis of Perdition - Deleted Scenes from the Transition Hospital

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black Ambient
Gli Axis of Perdition in questa release riprendono la storia di un personaggio solitario imprigionato e condannato a vagare per l'oscuro labirinto del Transition Hospital, e guidato inesorabilmente verso il proprio e definitivo terrore rivelatore (tema già trattato nel MCD 'Physical Illucinations'). Ecco, riassunto in poche righe il concept che si cela dietro 'Deleted Scenes from the Transition Hospital', un viaggio all’interno dei meandri post apocalittici della band inglese. Potete quindi ben immaginare cosa la band ci riservi in questo disco: atmosfere al limite della rarefazione, ambientazioni dark, chitarre incorporee e sinistre in strutture disarmoniche, un cantato catartico e pieno di dolore. Questi sono gli Axis of Perdition, quattro ragazzi capaci di suggestionare la mente di chi li ascolta con pure visioni misantropiche. Gli otto brani inclusi in questo lavoro che risale ormai al 2005 riescono ad infondere una tale angoscia da dover sospendere ogni tanto l’ascolto, perchè in debito d’ossigeno. Sono oscuri, malvagi e apocalittici, capaci di frastornarci con suoni che nascono dall’ambiente urbano e poi integrati nella loro dimensione più mostruosa. Distorsioni, rumori, crepitii, rallentamenti ipnotici, terrificanti grida, gelano il sangue nelle mie vene. Se quest’album lo ascolterete di notte, nel buio della vostra camera, vi garantisco che sarete poi costretti a dormire con la luce accesa. Gli Axis of Perdition riescono a stupirci anche con un inserto jazz nel terzo brano “Pendulum Prey” e altre trovate d’effetto, sparse qua e là nell’album. Questa non è musica ma un incubo sonoro. (Francesco Scarci)

sabato 29 febbraio 2020

Void of Silence - Criteria ov 666

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Apocalyptic Doom
Ricordo di aver atteso con grande trepidazione il nuovo lavoro dei Void Of Silence, band capitolina che nel 2001 si era già resa protagonista di un debutto esaltante, quel 'Toward the Dusk' che per alcuni è passato inosservato ma che rappresenta tutt'ora un esempio sporadico ed eccellente di come la musica estrema possa ancora rinnovarsi attraverso sonorità di matrice metal. Dopo il cambio di etichetta, da Nocturnal Music a Code666, il secondo album dei nostri, 'Criteria ov 666', rappresentò un lavoro che proseguiva nella direzione stilistica intrapresa dall'esordio e ne accentuava in modo palese la componente sperimentale, abbracciando a tratti la corrente del folk-apocalittico. La struttura portante su cui si appoggia questo disco, resta ancorata ad un doom-metal dalle ritmiche estremamente pesanti e dilatate mentre le contaminazioni di ambient industriale, costituiscono una base sempre presente, che rende unica e sublime la formula proposta dal trio romano. Il pesantissimo muro di suono creato dalle chitarre di Ivan Zara viene accompagnato dalle tastiere evocative di Riccardo Conforti, il quale si cimenta anche nell'uso di inserti disturbanti che sfiorano spesso, come nell'intro, il rumorismo di certa power-electronics. L'effettistica usata, pur non avendo un ruolo predominante, contribuisce però, a rendere terribilmente claustrofobica e angosciosa l'atmosfera dei brani e ricrea l'ideale tappeto sonoro per la voce "malata" di Malfeitor Fabban (Aborym). I rantoli sofferenti di Fabban e le sue urla cariche d'odio, affondano nella carne e la lacerano come un coltello affilato: una prestazione vocale estrema e terrificante che ricorda, in alcuni frangenti, i Katatonia di 'Dance of December Souls'. 'Criteria ov 666' rende attoniti davanti a tanta negatività, è capace di annientare, lasciando spazio unicamente al dolore e a sensazioni di morte... un'opera certamente agghiacciante, ma questa è la musica dei Void Of Silence, una delle realtà più credibili ed inquietanti che il nostro suolo può ancora vantare in ambito estremo. (Roberto Alba)

giovedì 21 novembre 2019

Slow – VI: Dantalion

#FOR FANS OF: Funeral/Doom
Dehà, the mastermind behind the moniker Slow, is known for his vast expanses of noisy Funeral Doom. To me, this record was highly anticipated, because I loved the path from number 'IV: Mythologie' to 'V: Oceans'. It’s also special because it was the first Funeral Doom record I ever purchased. I was relatively new to the genre, but hooked instantly. From the start of this new album, I can tell right away that he chose to stay on path, without compromising any of the brutal aspects of sound.

I love how the slow riffs drags the melody onwards, with the haggard screams perfectly echoing the depressive and gloomy atmosphere. Like a descending vortex of destruction, complete with drums which pummels you to the ground whenever you reach upwards. Dehàs vocals are a mixture of screams and whispers, and has always been a hallmark of this project. It always fits well with the rest of the instrumentation. The synth strings are playing a big role in supporting the constant barrage of noise, and there is little room to breathe among these dense melodies of fading hope throughout the album. Whenever I catch a break, it’s only to harden myself for a brief while before the next attack ensues. There are some small parts of guitar only, but the eerie tone does little to ease the tension in this album. It plays like a single symphony of dilapitation and disarray, filled to the brink with noise. The overall mix if bottom heavy, and it feels steadily rooted at the base. The bass lines keeps everything level, and the guitars are never too loud. It’s like the backdrop of a howling wind, which blows only for you to hear it whenever there is a quiet moment away from the ongoing slaughter.

Towards the end of the record, the strings are more prominent. The album gets more intense, quickens the pace, and the guitar screams more. The drums are more like a march, driving the listener through an ominous terrain riddled with overture notes. As the guitar echoes in solitude, it seems like a fog horn has entered, and along with it even heavier drums and Dehás bone chilling howls of torment. The throbbing pulse is slow and steady. In keeping with the other great acts of the genre. As we journey onwards, it becomes more saturated, and almost drowned in a sea of noise. A clean set of vocals are following an alternate chorus line, and it seems to be working well, despite the initial oddness. Like a starting fire, the song rages on, increasing in intensity, until it finally dies, and only the "Elégie" remain. It’s a beautiful simple melody which starts with two strings being strummed, creating a sense of desolation and sadness. As with life, they fade away into a gentle synth and strings hybrid, which cements the feeling of despair and loneliness otherwise embraced on the album. A fitting funeral anthem to be played at the great departures of great men. (Ole Grung)


(Code666 Records - 2019)
Score: 85

venerdì 14 luglio 2017

Wastes - Into The Void Of Human Vacuity

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Skepticism
Il caldo estivo non fa proprio rima con il funeral doom, genere tipicamente novembrino. Tuttavia, i franco-belgi Wastes se ne fregano delle stagioni, rilasciando lo scorso giugno il loro debut album, 'Into The Void Of Human Vacuity', un disco che ci fa piombare da una torrida giornata di calura estiva direttamente nella più brumosa delle giornate autunnali. Non lasciamoci ingannare dal fatto che questo sia un album d'esordio, tra le fila dei Wastes si nascondono membri di Ataraxie, Mourning Dawn, Funeralium e Pantheism, gente insomma che calca la scena già da una quindicina d'anni almeno, in territori più o meno dooooom, di quello con parecchie "o" per capirci. E tutto ciò si traduce in un claustrofobico lavoro, fottutamente funereo e claustrofobico e in questi sette pezzi rilasciati dalla Code666. Solitamente parto dai punti di forza di un album, quest'oggi invece darei una bella tirata di orecchie a quelli che hanno registrato un disco mettendo due secondi di pausa tra un brano e il successivo, rompendo cosi il flusso cataclismatico che s'instaura all'ascolto di ogni song. Detto questo, che penalizzerà la mia valutazione di fondo, e sorvolando sull'intro del cd, mi concentro sulla seconda "Pt. 2" che sottolinea come ritmiche a rallentatore, raggelanti voci cavernose ed atmosfere orrorifiche, caratterizzino il sound della compagine d'oltralpe, seguendo pedissequamente i dettami voluti da un genere costantemente sulla cresta dell'onda. La terza parte prosegue il flusso apocalittico eretto dai nostri che continuano a tessere melodie deviate, condite da ambientazioni glaciali nel classico incedere magmatico e soffocante, di quello in grado di attanagliare la gola e raggelare il sangue nelle vene, inducendo un pericoloso senso di oppressione e paranoia. Echi di Esoteric e Skepticism emergono forti dalle note di un album sicuramente di difficile ascolto, non lo nego, ma che certo avrà modo di entusiasmare i più incalliti fan della scena funeral doom. Vorrei segnalare infine "Pt. 6", song mostruosa per intensità sonora che (ir)rompe con il routinario sound rallentato delle precedenti tracce, mostrando il lato più death oriented della band, con una scarica detonante di batteria e chitarre ronzanti, quasi un mostro a cavallo tra il post black e la ferocia dei primi Entombed. Il tutto è poi affidato a suoni idiosincratici che introducono all'ultima spaventosa marcia funebre che chiude un album capace di intorpidire non poco i sensi. C'è poco altro da evidenziare in un disco che fa della lentezza estrema, della pesantezza del proprio rifferama, e di una certa ridondanza e riverbero nei giri di chitarra, i suoi capisaldi. Mi preme tuttavia sottolineare un'ultima cosa, ossia la capacità, in un po' tutti i brani, di deliziarci con psicotici assoli, peccato siano un po' troppo relegati in secondo piano, se solo avessero avuto un po' più "volume", avrebbero di certo dato un'ulteriore spinta ad un album comunque buono. (Francesco Scarci)

sabato 26 dicembre 2015

Thee Maldoror Kollective - New Era Viral Order

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Che i Maldoror fossero una band fuori dal comune lo si era già capito quando nel 1998 uscì il loro debutto 'Ars Magika', ma il black metal degli esordi, seppure non scevro di alcune contaminazioni di ritual-ambient, ancora non lasciava trasparire quelle evoluzioni sbalorditive che il gruppo avrebbe intrapreso in futuro. Nella metà del 2001, il secondo capitolo discografico 'In Saturn Mystique', giungeva invece come una rivelazione e metteva completamente a nudo lo straordinario talento della band torinese, sincretizzando, in un'unica formula, intricate e violente partiture black metal con suggestive esplosioni electro-wave che toccavano spesso il limite del progressive. Dopo il cambio di monicker in Thee Maldoror Kollective (che sottolinea un nuovo assetto del gruppo, teso alla collaborazione con altri progetti extramusicali), uscì il terzo full-length 'New Era Viral Order', un concept sul 'Liber Al vel Legis' di Aleister Crowley che voleva approfondire il complesso tema dell'insediamento del Nuovo Eone di Horus: il simbolo di una nuova consapevolezza e della centralità dell'uomo nell'universo. Da sempre seriamente coinvolti in studi e pratiche magistiche, i Maldoror non abbandonano quindi il loro itinerario artistico fatto di cultura esoterica e danno vita ad un'opera ambiziosa ed innovativa che si priva del sostrato mistico e spirituale. Rispetto al precedente 'In Saturn Mystique', il nuovo album si spoglia dei connotati intransigenti del black metal e prende il largo verso una sperimentazione più audace (che sarà ancor di più enfatizzata nei successivi album), contraddistinta dalla ricerca di un continuo dinamismo sonoro e di un ritmo ipnotico. Terremotanti riff di chitarra in stile 'Demanufacture' si incastrano in un tessuto sonoro complesso, fatto di ruvidi beat industriali e dalle tastiere ispirate di Evanghelya, musicista con un gusto compositivo affascinante ed insolito, sempre a cavallo tra le ambientazioni sinistre di Goblin e Jacula e la trascinante modernità dell'EBM più corrosiva. Le parti vocali del leader Kundahli mantengono la brutalità dei precedenti lavori ma vengono sporadicamente filtrate da un effetto robotico che dona un'impronta ancor più sintetica al suono. Da segnalare anche l'elegantissimo digipack, la prestigiosa partecipazione degli MZ412 con il remix di "Epidemic Noise Age" e per finire gli episodi che a mio avviso sono tra i più intensi dell'album: "Xaos DNA Released", "Haemorrhage Transmission", "Rhytmagick Disturbance" e "Slaughter Mass 2002", flussi di energia invisibile e scardinante che si insinuano come un virus nel subconscio, tutti brani che attraverso la sperimentazione rivendicano comunque una forte appartenenza al metal estremo. Seguite dunque il mio consiglio: recuperate 'New Era Viral Order' e lasciatevi avvolgere dal Chaos. (Roberto Alba)

mercoledì 5 settembre 2012

Eternal Deformity - The Beauty Of Chaos

#PER CHI AMA: Black Symph,/Avantgarde, Dimmu Borgir, Arcturus
Se potessi dare un voto virtuale alle etichette nostrane, beh il primo posto andrebbe sicuramente alla Code666, che da sempre, ha mostrato una certa propensione nell’andare a scovare band talentuose in giro per il mondo, lanciarle ed eventualmente lasciarle andare, a fronte di proposte di più grandi label. Se dovessi fare un paragone con il mondo del calcio, la Code666 sarebbe sicuramente come l’Udinese, club scopritore di fenomeni, pronti ad essere proiettati nel gota del calcio internazionale dai grandi club. Oggi mi spingo nel celebrare le gesta di questi polacchi Eternal Deformity, band dedita ad un black d’avanguardia, che ha ben poco da invidiare ai ben più famosi colleghi. Partendo da un sound all’insegna del death, il quintetto polacco convoglia poi tutta una miscela esplosiva ed intrigante di influenze che non fanno altro che rendere The Beauty of Chaos” accessibile alle grandi masse. “Thy Kingdome Come”, “Lifeless” sono pezzi che si impressionano immediatamente nel mio cervello, grazie ad una graffiante ritmica, melodie ruffiane (dove si odono echi alla Children of Bodom), aperture progressive (ben più palesi in “Pestilence Claims No Higher Purpose”), e vocals che si dipanano tra il growling, lo screaming e il pulito, con le tastiere che rappresentano alla fine l’elemento portante dell’album e che disegnano splendide atmosfere e sorreggono eccellenti armonie. A tutto questo c’è poi da aggiungere un’elevata preparazione tecnica dei nostri che si lasciano andare in brillanti assoli, strutture ritmiche assai elaborate, trovate avantgarde (di richiamo Arcturus), aperture black sinfoniche stile primi Limbonic Art o ultimi Dimmu Borgir, sfuriate al limite del power (ma non temete, nulla di grave) ed intermezzi acustici, che esaltano ulteriormente la prova del combo di Zory. In sostanza, la Code666 si conferma ancora una volta ottima etichetta in grado di lanciare talenti e gli Eternal Deformity, mostrano di avere le carte in regola per diventare dei fenomeni in chiave futura. Da monitorare accuratamente. (Francesco Scarci)

(Code 666)
Voto: 80

sabato 25 agosto 2012

Vampillia - Rule the World/Deathtiny Land

#PER CHI AMA: Metal a 360°
Quando ci si imbatte in opere di questo calibro, bisogna togliersi il cappello e inchinarsi, non ci sono parole per spiegare tanta genialità in un unico cd dalla durata di 25 minuti con 24 brani tra cui il più lungo dura 3 minuti e 11 secondi!!! I Vampillia vengono da Osaka e sono stravaganti come tante band che vengono da quelle parti (vedi Dir En Grey o Malice Mizer). Sono un collettivo di 11 elementi tra cui tre cantanti, violino, piano , un dj, un combo metal etc... Loro si definiscono una “Brutal Orchestra” e vi spiegherò il perché brano per brano. L'album è come un concept e si divide in due tracce che danno il titolo al cd, anche se in realtà le tracce sono 24 all'interno del dischetto e tutte insieme ci raccontano di un uomo che ha l'ambizioso sogno di dominare il mondo per mettere in pratiche le sue folli e poco convenzionali intenzioni. Si apre il sipario e troviamo subito due suite per violino e piano che ci devastano di tristezza; anche la terza traccia si apre sulle note di archi, violino e pianoforte ma come per incanto in sottofondo un caos calibrato crea il panico con una doppia cassa velocissima e una chitarra super thrash che si colloca su vocalizzi lirici di voce femminile e growl violenti e folli ci percuotono per la bellezza in neanche due minuti. La quarta traccia calca ancora la mano e sulle note disperate di un violino vagamente gitano ecco porsi un pianoforte da film muto anni '30, ancora lirica e growl animaleschi e un tiro in sottofondo che ricorda i Die Apokalyptischen Reiter in salsa noir. La quinta traccia è più lunga della prima e dura 1 minuto e 57 secondi e qui tutto come nella prima traccia, solo che le partiture si complicano e si sposano con una scrittura da musica classica, maestosa e potente con finale corale che ricorda vagamente le arie epiche di Verdi. Il sesto brano ha il ritmo di una polka e unisce la follia dei Boredoms con il sound di Uz Jsme Doma (storica band di rock in opposition dalla repubblica ceca), il tutto in soli 15 secondi. In 16 secondi riescono a fondere follia canora da camera con il miglior brutal intellettuale. Nel minuto e quindici successivo evocano la tristezza dei My Dying Bride, magistralmente cantata con voce spudoratamente clonata al miglior Tom Waits e poi cori lirici, e voci sghembe e via di pesante metal sinfonico e claustrofobico per un finale epico. La prima metà della traccia nove potrebbe essere un esperimento degli ultimi Death in June e poi tanto violino così si entra nella track10 che mescola gli strani ritmi post rock dei June of '44 con gli Alboth più taglienti e sperimentali con innesti di lirica, voce sussurrata alla Marylin Manson, growl e screaming devastanti. La track 11 cambia i toni, mostrando una piega doom subito tradita dalla track 12 che tramuta i Vampillia in una costola dei mitici Naked City del grande John Zorn in soli 20 secondi. La tredicesima traccia dura 4 secondi! E chiude la precedente! Traccia 14 e 15: un piano ricco di pathos per un totale di 1 minuto e 85 secondi. La track 16 mostra ancora il fantasma gotico dei My Dying Bride e ci introduce al brano più lungo della compilation, ovvero 3:08 di tristissima, estrema sperimentazione in chiave metal che riprende il tema d'inizio album. Con la track 18 si entra in un'atmosfera surreale, tagliata da un'assurda virata in stile ska ala Specials, per concludere in pompa magna teatrale. Inizio metallico per il diciannovesimo pezzo ma in stile decadente, devastante e cabarettistico in puro stile Vampillia. Una maratona. Siamo al ventesimo brano che in 22 secondi ci frusta il cervello con un metal psicotico da sballo. Il 21 continua la follia mentre il ventiduesimo sembra una cover di qualche colonna sonora di quei film russi di una volta... Penultimo e ultimo brano, qui la follia imperversa a dirotto; siamo a metà strada tra certa new wave di fine anni '70 e le deviazioni canore della migliore Nina Haghen. Non posso aggiungere altro: so che i Vampillia non hanno un contratto e solo questo lavoro è uscito per la Code666 e che nel frattempo hanno registrato un nuovo split/cd con i Nadja. Ci sono tantissimi gruppi al mondo ma quando si trova un lavoro così ci si ferma a pensare se non valga la pena almeno per una volta essere veramente pazzi!!! Un album da 110 e lode!!! (Bob Stoner)

(Code 666)
Voto: 110

http://www.vampillia.com/

lunedì 23 luglio 2012

Agruss - Morok

#PER CHI AMA: Post Black, Death, Crust, Behemoth, Dissection
Cheffigata. Vorrei liquidare così la recensione di questo "Morok" degli ucraini Agruss. Sono veramente senza parole dopo l'ascolto di questo lavoro. Felicemente sconvolto dalla loro opera mi metto a cercare le parole giuste per descriverla al meglio per poter trasmettervi quello che ho provato io all'ascolto delle prime note di questo trionfo della morte. Non è tanto la musica a far da padrone a quest'opera ma le atmosfere che essa produce. Beh comincio presentandoveli con informazioni reperite dalla rete, dato che le uniche parole del packaging sono solo la tracklist sul retro della confezione. Gli Agruss si formano nel 2009 a Rivne, e "Morok" è il primo disco di una trilogia riguardante la "vita" dopo il disastro di Cernobyl. Difatti l'opera è stata rilasciata durante il 26° anniversario della disgrazia sovietica. L'attitudine della band è orientata verso il crust, quindi due cantanti (uno specializzato in growl ed uno in scream), improvvisi cambi che portano a ritmi forsennati ed atmosfere malsane. Dai tag avrete già capito che ha qualcosa di speciale questa musica. Ma bisogna davvero ascoltare per riuscire a capire veramente ciò che vorrei raccontarvi. L'opera si apre con "Damnation", preludio colmo di un oscuro shoegaze, accompagnato da apocalittici cori che vanno a sfociare in una malvagità senza precedenti. Il primo impatto è un black/death imponente dal ritmo pestato, ma all'entrata del rullo giunge il black metal più totale, con lo screaming lacerante che poco dopo si alterna ad un growl gutturale, accompagnato da veloci fraseggi chitarristici. Con il blast beat si raggiunge l'apice della violenza di questo primo scorcio di dolore, stoppato da un breakdown che mi trasporta in un attimo di calma shoegaze per poi rifiondarmi di nuovo nella più totale brutalità crust. La traccia, alquanto prolissa e sconvolgente come introduzione di quest'opera ci lascia, scemando con un sottofondo costituito da un ribollio inquietante che apre la seguente "Morok". La title track si presenta dalle tinte lugubri per poi trasformarsi in un death metal tecnico e corposo che in alcune occasioni si maschera di depressive. La parte centrale del disco presenta più compattezza compositiva con "Punishment for All", "Fire, the Savior From Plague" e "Ashes of the Future". Tracce capaci di concentrare al massimo il tecnicismo death, i gelidi riff del black e la devastazione del crust. "When the Angels Fall" sinceramente non m'ha preso subito come le altre, la ritengo la traccia più core per via dei vari breakdown e della prevalenza del growl, tuttavia ognitanto scopre delle parentesi con notabili sfuriate crust e tremolo picking black. Ora inizia la triade di "Under the Snow". Tracce che racchiudono la parte più shoegaze, depressive ed ambient della band, con episodi che a tratti raggiungono anche un funeral doom, in primis la parte III. Non viene però accantonata la vena più malefica del combo ucraino che puntualmente riprende il predominio sulle composizioni. Gli Agruss hanno saputo fondere vari generi ed ambientazioni assai ostiche, difatti ricordano i gruppi più disparati all'ascolto: breakdown in stile Molotov Solution, passaggi alla Nile, muri sonori tipici dei Nagflar o Behemoth, rabbia rifacenti ai Iskra e Martyrdod, insieme ai riff più freddi e malefici di Craft e Ancient. Ma i gruppi che più mi sovvengono come elemento portante di tutto sono i Dissection per come riescono ad amalgamare il black più grezzo alla potenza del death e i Black Kronstadt per la struttura musicale (ad esempio le classiche intro narrate o le malsane atmosfere) e lo spaziare dalle parti più tranquille al crust più cieco e devastante. Beh, che dire, sono stato veramente sorpreso fin troppo positivamente da questo debut album. Anche se non amante delle sonorità brutal death, mi son trovato davanti ad un prodotto veramente ben congeniato che merita l'appoggio di tutti gli amanti delle sonorità estreme. (Kent)

(Code 666)
Voto: 85
 

mercoledì 11 luglio 2012

Bilocate - Summoning the Bygones

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth, Death, Orphaned Land
VIII sec. A.C., nascono i primi insediamenti a Petra, antica capitale dei Nabatei, localizzata nella regione giordana dell’Edon. Città assai misteriosa, fu abbandonata in seguito alla decadenza dei commerci e ad una serie di catastrofi naturali, e, benché le antiche cavità abbiano ospitato famiglie beduine fino ad anni recenti, fu in un certo senso dimenticata fino all'epoca moderna. Da queste parti, nascono anche i Bilocate, formazione techno prog death di Amman, che dopo aver rilasciato un album con la Kolony Records, ha messo a segno un altro colpo vincente con la release del terzo lavoro, “Summoning the Bygones”, con la Code 666. La proposta fantasiosa di questo nuovo cd, arricchisce di gran lungo il già brillante predecessore, ammorbidendo leggermente i toni, in favore di una ricerca a dir poco notevole, di splendide melodie mediorientaleggianti, dando assai spazio ad una tecnica, mai fine a se stessa e sfruttando atmosfere etnico/tribali. Per certi versi accostabili alle sonorità degli Orphaned Land, per altri ai Death di “The Sounds of Perseverance”, per tecnica ai Dream Theather, per idee agli Opeth, per cattiveria agli Edge of Sanity, a cui prendono in prestito anche il vocalist, il mitico Dan Swano che in un paio di song, “Hypia” e “A Desire to Leave”, ci delizia con la sua suadente voce; e poi ancora, il progressive dei Porcupine Tree si mischia a sonorità gotiche o doom, come nell’oscura “Passage” o nella cover, peraltro suonata egregiamente, di “Dead Emotion” dei Paradise Lost. “Summoning the Bygones” è quello che si suol dire un signor album che ha l’assoluto divieto di passare inosservato, grazie all’eccezionale bravura dei suoi musicisti, nel proporre pezzi aggressivi, altri più decadenti, che magari rischiano di rifarsi alla tradizione svedese dei Draconian, come proprio la già citata “Hypia”, dove vi sembrerà di ascoltare una song dei Nightingale, abbandonando quindi gli umori molto più brutal della prima parte del disco. A chiudere l’album, una vera bomba, torno a sottolinearlo, ci pensa una lunga suite di venti minuti, suddivisa in tre capitoli, dove ancora una volta fa capolino il buon vecchio Dan a contrapporsi al velenoso growl di Ramzi e dove i nostri si dilettano con splendide linee di chitarra orientaleggianti, eccellenti melodie e tanta, tanta classe. Ottimo comeback, da avere a tutti i costi! (Francesco Scarci)

(Code 666)
Voto: 85
 

domenica 6 maggio 2012

Manes - Vilosophe

#PER CHI AMA: Avantgarde, Ulver
Mi aspettavo grandi cose dai Manes! Immaginavo che se mai ci fosse stato un seguito di “Under Ein Blodraud Maane”, quell'album avrebbe preso le distanze dal black metal o quanto meno avrebbe sconvolto l'audience "estrema" con delle soluzioni imprevedibili e assolutamente fuori dagli schemi. Sicuramente le mie previsioni sul futuro artistico dei Manes potevano apparire atipiche per un fan di vecchia data del gruppo, ma il desiderio di ascoltare qualcosa di nuovo dal genio di questi norvegesi era troppo forte per potermi accontentare di un sequel in linea con il precedente album o di un lavoro che si affermasse semplicemente come una buona conferma. Non c'è che dire! Ogni personale aspettativa nei confronti di “Vilosophe” è stata pienamente soddisfatta e anche oggi, come in occasione dell'uscita dell'esordio “Under Ein Blodraud Maane”, mi ritrovo ad esultare per un altro capolavoro a nome Manes, un album che, oltre a tagliare definitivamente i ponti con il passato, prende il largo verso un'esplorazione musicale senza ritorno, amalgamando gli elementi stilistici più disparati in una collezione di otto brani veramente straordinari. Ecco allora ritmiche jungle, psichedelia e space rock che si fondono in un corpo unico, quasi ad assumere le sembianze di un appetibile e moderno rock alternativo, ma nascondendo tra le trame di un'apparente ‘normalità’ qualcosa di subdolo e poco rassicurante. È come se in una sorta di continuazione con le atmosfere terrificanti e gelide del loro passato, i Manes ci fissassero sorridendo mellifluamente e sotto le mentite spoglie di una nuova accessibilità covassero i medesimi sentimenti disillusi e cinici di un tempo. Viene quasi naturale l'accostamento dei Manes ai conterranei Ulver, non tanto per il tipo di musica proposto ma per la simile metamorfosi che entrambe le band hanno affrontato in questi anni, passando improvvisamente dal black metal ad una forma musicale estremamente più libera e multiforme. Per il resto, classificare un album come “Vilosophe” risulta talmente arduo da rendere futile ogni tentativo: a giungere in mio aiuto sono allora gli ascolti della band, che vanno da Hawkwind, Pink Floyd e David Bowie fino ad Aphex Twin, Massive Attack e Mogwai, influenze che in “Vilosophe” si disperdono fino ad annullarsi, per poi ricomparire improvvisamente tra l'irruenza delle chitarre, i camaleontici e melodiosi passaggi vocali, le note struggenti di un piano e i ritmi spezzati di drum'n'bass. Cerebrali e sofisticati, eleganti ed irriverenti, poliedrici ed inclassificabili: questi erano i Manes del 2003, una band geniale che sicuramente ha fatto discutere e che probabilmente avrà visto l'insorgere delle solite accuse di "tradimento" da parte dei puristi del black metal. Ho lasciato volentieri certe chiacchiere a chi pensava ancora di aver qualche voce in capitolo sulle scelte musicali di un artista e limitandomi a riconoscere il valore di “Vilosophe”, un album straordinario che ha fatto dell'avanguardia e della libertà artistica una lezione di stile. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 90

sabato 18 febbraio 2012

Handful of Hate - Vicecrown

#PER CHI AMA: Swedish Black Metal, Marduk, Dark Funeral
Dopo dieci anni di vita e dieci anni di onesta militanza tra le frange più estreme dell'underground metal, con “Vicecrown” gli Handful of Hate raggiunsero il traguardo del terzo full-length e sotto l'ala protettrice della Code666 pubblicarono quello che secondo il mio parere è il loro disco migliore. Durante gli anni Nicola Bianchi ha mantenuto in vita in maniera caparbia e coraggiosa un progetto che fin dagli inizi ha affondato le proprie radici nell'intransigenza sonora del black metal, mantenendo nel contempo una fiera autonomia di pensiero che all'interno della scena estrema lo ha reso estraneo sia alle tentazioni verso la blasfemia grossolana, sia alle arie altezzose e fintamente erudite di tanti improvvisati opinionisti dell'occulto. Ad accompagnare la musica degli Handful of Hate è invece un substrato culturale credibile e serio, un punto di forza che ha sempre coinciso con altre due qualità fondamentali che vanno attribuite al gruppo toscano: una grande coerenza ed un'umiltà comune a pochissimi altri nomi italiani. Riguardo al lato strettamente musicale va detto che la band si è sempre dichiarata in qualche modo debitrice del black metal di matrice svedese, ma con “Vicecrown” è evidente come il suono di Dark Funeral e Marduk sia stato assimilato talmente bene da ottenerne una piena padronanza, tanto da riuscire a creare qualcosa di nettamente più coinvolgente di quanto stiano proponendo oggi le due navigate formazioni scandinave. Rispetto ai primi due album, “Qliphotic Supremacy” e “Hierarchy”, il salto qualitativo compiuto è dunque notevole, non solo per il superbo lavoro di produzione che finalmente rende giustizia alle capacità tecniche dei musicisti, ma soprattutto per la validità dei nove brani, che stavolta riescono a fare male sul serio! Quello dell'opener “I Hate” è un assalto frontale senza compromessi, una spietata affermazione di supremazia e di cieca determinazione che apre il varco alla furia di “Beating Violence” e “Risen into Abuse”, le quali si susseguono in un'incessante manifestazione di violenza che a tratti potrà risultare difficile da sostenere per chi non possiede orecchie ben allenate. Urla laceranti e paurosamente glaciali sono accompagnate da una sezione ritmica precisa e devastante che nei rari momenti di tregua concessi non perde nulla della sua intensità e contribuisce, anzi, a rendere ancor più equilibrato il suono, aiutando a sottolineare la monolitica pesantezza dei riff di chitarra più lenti (come in “Boldly Erected” e “Hierarch in Lust”). Persino nei momenti più tirati, quando gli strumenti vengono spinti a folle velocità, la band mantiene un invidiabile controllo sull'esecuzione, dando vita ad un magma sonoro compatto e distruttivo che vede costantemente in primo piano l'enorme lavoro di chitarre, le assolute protagoniste dell'intero lavoro. Per chi non è avvezzo a certe sonorità è indubbio che la pesante omogeneità dei brani potrà rendere “Vicecrown” un'opera ostica da digerire e questo è l'unico neo che penso si possa individuare in un album comunque ottimo, che resta destinato principalmente a chi ricerca nella violenza e nella velocità - non certo nell'intrattenimento - il pane per i propri denti. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 75
 

lunedì 9 gennaio 2012

Enid - Seelenspiegel

#PER CHI AMA: Black Epic, Summoning
Gli Enid, fondati da Martin Wiese e Florian Dammasch, muovono i primi passi nel 1997 e inizialmente si pongono come unico intento quello di proporre uno stile musicale del tutto simile agli austriaci Summoning. La band, grazie ai due album usciti per la label australiana CCP ("Nachtgedanken" e "Abschiedsreigen"), comincia gradualmente a sviluppare un suono più personale ed è con questo terzo lavoro "Seelenspiegel" che l'identità della formazione tedesca appare maggiormente definita. Lo stile del quartetto di musicisti (che qui si avvale di un quinto elemento alla batteria, ossia Moritz Neuner degli Abigor) può essere definito come un metal dalle forti connotazioni epiche, in cui le parti aggressive toccano l'asprezza del black metal e vengono alternate a momenti più rallentati e sognanti, caratterizzati dall'uso di una voce pulita e da cori dal sapore folk. Una proposta non molto originale ma che, ad ogni modo, risulta apprezzabile per la cura negli arrangiamenti e per l'interpretazione vocale di Martin Wise che sa essere sempre impeccabile e melodiosa nelle parti pulite. Meno convincente è invece la prova nel cantato black che, a mio parere, si rivela incerto e tutto sommato superfluo. 'Seelenspiegel' è un album che pecca di qualche ingenuità ma che risulta comunque piacevole. Consigliato agli amanti delle sonorità epiche e fiabesche. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 70
 

domenica 8 gennaio 2012

Wormfood - France

#PER CHI AMA: Avantgarde, Fleurety, Arcturus
La prima, e ce ne saranno tante, ve l’assicuro, delle molte stranezze in cui m’imbatto nell’ascoltare questo concept, è venir accolto da una voce che non canta. Assisterò invece ad una lezione di francese. Butto l’occhio sul Cd che ruota veloce nel lettore. Lo guardo. No, non appartiene alla serie del corso di lingua che mi hanno prestato, è proprio “France” dei Wormfood. Aspettate, ora che lo guardo bene, mio Dio sta cambiando aspetto! È diventato un disco flessibile rovente e diamantato che sta smerigliando l’ultimo dettaglio di “Sfera dentro sfera” di Arnaldo Pomodoro: sono investito dalle scintille. Noooo, è cambiato ancora! Adesso è diventato la ciambella glassata rosa pralinata dei Simpsons. Ne vedo cadere a pioggia dal cielo. Ma torniamo a noi: avete mai assaggiato una di quelle caramelle “tuttigusti più uno”, quelle che compra Harry Potter sull’Hogwarts Express? Beh, io l’ho fatto. L’ultima volta che l’ho incontrato, perché siamo ottimi amici, sapete, ne ha offerta una a me e un’altra ad Hermione. Anche in quell’occasione ho ravvisato lo stesso stupore. Questo per darvi un’idea della varietà musicale che caratterizza questa release e di come questa band mi abbia impressionato. Positivamente. Si perché questo è uno di quei casi in cui è sbagliato etichettare la band con “un genere”. Mi trovo piuttosto a passeggiare in una galleria che espone opere d’arte delle più divergenti e disparate correnti musicali: dal doom, thrash, french variety, death, gothic, punk, pop, classic, al baroque, com’è precisamente indicato sul foglietto informativo posto sul retro del disco. Mi chiedo a questo punto se non ci siano controindicazioni. Non ce ne sono di indicate, ma fatevene voi un’idea dopo che avrete finito di leggere queste mie righe. Torno ad ascoltare quella voce, (ah si, il titolo della song è “Lecon de Francais/French Lesson”) dice che mi trovo sulle strade di Parigi. Vengo quindi gettato a capofitto, come risucchiato da un buco nero, in questo onirico viaggio nella perversità francese, nella metropoli parigina per la precisione, dalla voce di un barbone, si proprio un barbone. Ha una voce gutturale, lo sento prima vomitare, sputare per terra poi, ed inveire contro non so chi, non so perché. La sua voce rivela senza alcun dubbio che è completamente ubriaco: a conferma di ciò, il trillare della bottiglia vuota che evidentemente si è appena scolato e che rotola per terra, che gratta sull’asfalto, urtata di sicuro da uno dei suoi passi nel suo incedere incerto. Osservo attorno a lui un và e vieni di auto, un traffico vero e proprio. E lo sento anche, non sto scherzando. Lì vicino passa anche un treno, d’altronde siamo nel bel mezzo di una grande metropoli, Parigi appunto, eppure in un posto del genere, che dovrebbe straripare di gente, avverto la sua solitudine, non c’è anima viva, è completamente solo. Poi un colpo. Secco. Oddio è stato travolto dal convoglio in arrivo. Vedo il suo corpo martoriato rotolare, credo senza vita, in prossimità dei binari. Nessuno lo ha visto, né tantomeno se né accorto. Da vivo esisteva di per sé ma non esisteva per nessuno. Adesso che è morto, poi, almeno credo, non è cambiato, nella sostanza, nulla. La seconda traccia è una canzone vera e propria, “Bum Fight” s’intitola. Parte lenta, con solo chitarra e batteria. Lunghe pause e poi un assolo heavy metal seguito da un growl rabbioso, come se a cantarlo fosse proprio quel barbone: ma allora ancora non è morto... Eh no! Ecco di nuovo le sue invettive. Un rullo in quarti ben scandito ne accompagna la voce che si fa pulita. La traccia continua tra battiti di mani e una fisarmonica prende il sopravvento. Torna la voce ancora growl, la canzone rallenta un’altra volta, stop alle telefonate, e non solo: anche alla voce, si, perché passa un’ambulanza, sento la sirena. Si ritorna quindi a cantare, incazzati neri, ad urlare fino a ferirsi le corde vocali. La traccia si conclude con lo scricchiolio come quello emesso dalla punta del braccio meccanico di un giradischi nella pausa tra una canzone e l’altra. E siamo solo all’inizio. Segue “Ecce Homo”: una folla acclama qualcuno. Squillano addirittura le trombe. E poi una voce intona “…Les Sodomie!” a cui si accodano dei diabolici grugniti che sembrano quelli di un demone, delle frustate con applausi al seguito, il tutto dura poco meno di un minuto, ma mi ha lasciato così, con la mia faccia a sembrare “L’urlo di Munch”. Era quindi l’intro per la successiva “TEGBM (Fantaisie Galante du Grand Siècle)” che parte tra violente scariche di chitarre distorte e un drumming molto pesante. Veloci colpi di charleston aperto introducono un organo e la voce tituba tra il growling e un pulito a tratti. Ancora una volta, gente che ride di gusto, che commenta. Segue una frase in francese che non comprendo, sono sincero, introduce qualcosa che ha a che fare con niente poco di meno che Jean Baptiste Moliere. Riparte il growl, una fantasia di tastiera talvolta solista, accompagna distorsioni di chitarra e un’incipiente batteria. Segue “Daguerréotype”, altro breve inframezzo che mi fa pensare, per i cori femminili, alle vecchie fiabe per bambini e che introduce la successiva “Miroir de Chair”. La song parte incazzata poi s’incupisce; un sonaglio introduce qualcuno che piange, nel silenzio. La voce si fa parlata ma tremante, tristissima, accompagnata da una sapiente tastiera e poi risfocia ancora una volta nel growling, tra gli eterei cori femminili. Il grugnito di un elefante e poi una musichetta a mo’ di circo con tanto di banditore. Che storia, non mi sono mai imbattuto in niente di simile prima d’ora. Altro breve intermezzo con “Comptine”, che stavolta ci propone un motivetto fischiettato. A questo punto sto ridendo di gusto da solo, proprio non me l’aspettavo. Segue l’incazzosa “Vieux Pèdophile” che descrive il decadimento umano nella versione forse più atroce e cattiva, quella della pedofilia, che ci viene proposta attraverso gli occhi di chi l’ha vissuta. La successiva “Dark Mummy Cat” parte con una litania cantata che mi rammenta l’Islam. Anche questa come le altre è sicuramente da ascoltare. Come le precedenti, intercala tra le note le sue chicche. Questo filo di perle si conclude con le successive “Omega = Phi” e “Love at Last”. In definitiva, quindi, l’immagine che mi resta dopo l’ascolto di “France”, è quella di un diamante che sfaccettatura dopo sfaccettatura, song dopo song, brilla sempre di più. Ogni singolo pezzo ha qualcosa da raccontarmi, ogni racconto non è mai banale, non c’è qualcosa che non mi abbia stupito. Una pietra preziosa che merita di essere incastonata nella più meravigliosa delle parure regali. (Rudi Remelli)

(Code 666)
Voto: 90
 

domenica 20 novembre 2011

Carinou - Bound

#PER CHI AMA: Electro Rock
Un "terrorista" come Fredrik Söderlund nei panni del musicista pop-rock? Non ci volevo credere! Mentre leggevo la biografia di Carinou non riuscivo proprio a figurarmi il famigerato mastermind di Puissance e Parnassus alle prese con un genere di musica così distante dai territori insani dell'industrial o del black metal. Lo ammetto, sulle prime qualche perplessità stava prendendo il sopravvento, ma già al primo ascolto "Bound" ha saputo fugare ogni mio dubbio, confermandomi che persino gli artisti più estremi sanno cavarsela con melodie ruffiane e motivetti dall'appiglio facile. Ma andiamo con ordine. Carinou è un progetto che, oltre a Söderlund, vede coinvolta la cantante Sofie Svenson e la compositrice di musica elettronica Maggie Elfving, già nota nell'ambiente pop svedese per i suoi lavori di produzione e per una recente collaborazione con i The Ark alle backing vocals del loro album. Non c'è che dire, un collettivo stravagante e che "funziona" nonostante i differenti background artistici dei tre. La diffidenza covata inizialmente verso il progetto lascia il posto allo stupore quando i primi ritornelli di "Bound" entrano in testa e a destare tanta meraviglia non è certo la stranezza della proposta musicale, ma una sensazione di immediata sintonia con le contrastanti frequenze umorali di cui l'album è pervaso. Passione, odio, rancore, apatia... queste le emozioni che in "Bound" trovano asilo, alimentandosi tra le insanabili conflittualità del nostro inconscio e consumandone lentamente gli istinti vitali, come se una sottile linea di inquietudine scivolasse invisibilmente attraverso ogni brano. Se però rifletto sul termine "negative metal" coniato dalla Code666, è solo e unicamente sull'aggettivo che mi posso trovare d'accordo, perchè Carinou ha davvero poco in comune con il metal e assomiglia piuttosto ad una versione vitaminizzata dei Placebo, con tanto di melodie vellutate, chitarre energiche e arrangiamenti elettronici di ottima fattura. A questo punto tutto sembrerebbe perfetto se non fosse per la prova vocale "impostata" di Fredrik, talvolta insopportabile nel suo tentativo di fare il verso a Brian Molko. A parte questo, un album da ascoltare, anche solo per curiosità. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 70

sabato 5 novembre 2011

Stielas Storhett - Expulse

#PER CHI AMA: Black Avantgarde, Fleurety, Manes
A parte una bruttissima copertina ed un indecifrabile logo, ciò che è racchiuso in “Expulse” è quanto di meglio si possa trovare negli ultimi tempi in ambito black avantgarde. Per certi versi la one man band di Murmansk, mi ha ricordato i norvegesi Fleurety, abili nel miscelare melodie psichedeliche di scuola Pink Floydiana, con il riffing glaciale di “sua santità” Burzum. Damien T.G., il musicista che si cela dietro il nome Stielas Storhett, propone il suo personalissimo “Arctic Black Metal” che, a scanso di equivoci, mantiene dal precedente lavoro, “Vandrer...” ormai datato 2006, solo lo screaming e qualche sfuriata tipicamente black, perché, poi diciamocelo, questo disco, è intriso di ritmiche rock, ammiccamenti alla malinconia del death/doom (si ascolti “Buried by Storm and Eternal Darkness”), aperture jazz (si avete capito bene!) e assoli di caratura prog. Insomma un pout pourri di generi che consentono ad “Expulse” di stagliarsi ben oltre la media ed entusiasmarmi cosi facilmente, con il suo sound fresco ed originale. Una dopo l’altra, le sette tracce qui contenute, riescono a catalizzare l’attenzione dell’ascoltatore più esigente con scelte davvero azzeccate: vuoi per aperture folkeggianti, passaggi acustici da urlo, ambientazioni deprimenti, l’inserto di parti di sassofono (ad apertura della stupefacente title track) ad opera di Grigory Valiev e sperimentazioni varie, l’album si colloca immediatamente tra le uscite più indovinate della sempre attiva e attenta Code666, ma in generale tra le più interessanti di questo 2011. Eccellente da un punto di vista tecnico (splendidi alcuni assoli ed esagerata la strumentale “Hush a Bye”, quasi presa in prestito da “Damnation” degli Opeth), ottimo a livello di songwriting, accattivante a livello emotivo ed inoltre sorretto da una buona produzione, il buon Damien con i suoi Stielas Storhett, si candida ad assurgere ad un ruolo fondamentale nell’evoluzione del black metal d’avanguardia. Ma quale black metal poi, mi domando io: se solo si abbandonasse lo stridore gracchiante dello screaming, Damien potrebbe aprire la sua raffinata musica ad un pubblico assai più vasto e io addirittura ad un voto più alto. Per molti ma non ancora per tutti; alla prossima Damien! (Francesco Scarci)

(Code666)
Voto: 85