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sabato 5 novembre 2011

Acherontas - Vamachara

#PER CHI AMA: Black ritual, occulto, ellenico
L’incipit di questo cd mi ha fatto respirare quei vapori tipici di zolfo di primi anni ’90 che contraddistinguevano quasi tutte le release provenienti dalla Grecia (Varathron, Rotting Christ, Thou Art Lord, Zemial, Rex Infernus, Septic Flesh) e quell’odore acre di zolfo, emerge preponderante anche nell’intro infernale di questo “Vamachara”, album neanche a dirlo, ad opera di un’altra band greca, gli Acherontas. Certo siamo lontani anni luce dai tempi di quelle mistiche, quasi ritualistiche release assai peculiari della scena ellenica, tuttavia qualcosa è rimasto anche nel sound di questo quintetto ateniese che con questo “Vamachara” arriva al terzo album, dopo una serie interminabile di Split cd. Quello che balza all’occhio guardando la biografia è che l’act greco non è formato certo da degli sprovveduti, ma da gente che ha alle spalle anni e anni di militanza con altre formazioni e l’esperienza fin qui maturata, si esplica nelle note di questo lavoro. Occultismo, misticismo e spiritualità continuano ad essere i temi portanti delle liriche della band, mentre, per ciò che concerne la musica, ci si muove in territori palesemente black fin dalla prima vera traccia “Blood Current Illumination”: una sfuriata di sette minuti che sembra provenire direttamente dall’inferno, e suonata da Satana in persona, anche se negli ultimi tre minuti della song mi sembra di percepire qualcosa di nuovo (o meglio preso in prestito dai francesi Glorior Belli), ossia quella sorta di southern black and roll che ritornerà anche nelle successive songs. È forse questa la novità degli Acherontas targati 2011? Non so, quel che è certo è che anche “Abraxas” (che non può che ricordarmi Dylan Dog) viaggia sulle stesse coordinate stilistiche, questo black occulto, sporcato da sonorità più legate alla musica southern blues che al black. Non so se sia l’effetto di grandi quantitativi di whiskey assunti, ma la band greca, con questa nuova fatica, prende un po’ le distanze dalle precedenti release e si lancia verso nuovi stilistici. Ovvio, non ci sono stravolgimenti totali nel sound della band, la furia iconoclasta che da sempre contraddistingue la band, continua a rimanere, anzi, man mano che si avanza nell’ascolto del cd, sembra ritornare più forte che mai. Mi lascia alquanto perplessa la produzione del cd, che penalizza il suono della batteria che risulta assai ovattato, mentre le chitarre mantengono il loro riffing tagliente, di chiara derivazione scandinava, anche se attenzione perché il solo della title track sembra più di matrice heavy metal che di musica estrema, neppure ci fosse Adrian Smith alle sei corde. Sono disorientato dall’inizio (anzi dall’interezza) di “Ohm Krim Kali”, song che si rifà sicuramente alla tradizione ritualistica indiana: sembra quasi di fronte alla celebrazione di una morte sulle rive del fiume Gange (o forse siamo sulle sponde dell’Acheronte e non ce ne siamo ancora accorti). Si prosegue e la ferocia del combo greco torna a prevalere con una song mortifera, prima della lunga (11 minuti) e conclusiva “Drakonian Womb”, che ci conduce lentamente verso le viscere più profonde della terra, là dove le anime bruciano per i loro peccati, là dove siede il signore delle tenebre, là dove la colonna sonora non può essere che quella degli Acherontas… Mefistofelici! (Francesco Scarci)

(Agonia Records)
Voto: 75

Svarttjern - Towards the Ultimate

#PER CHI AMA: Black Death Moderno
Devo essere sincero, di primo acchito questo album non mi diceva nulla di che: le solite schitarrate brutali e finita li. L’ho ripreso in mano per dargli una seconda chance; insomma mi sembra strano che dalla Norvegia esca qualcosa di assai anonimo, e ho provato ad aprire maggiormente il mio cuore, oltre alle mie orecchie; cosi dopo i lamenti dell’intro iniziale, ecco che mi lascio investire dal glaciale vento del nord (che in questi giorni sta flagellando anche la nostra penisola) di “Hellig Jord” e un po’ mi sono dovuto ricredere. Scrivo un po’, perché in effetti la band di Oslo, a parte mostrare una costante brutalità di fondo fine a se stessa, basa il proprio sound su sfuriate iperveloci di death/black, in cui il quintetto si diletta a torturarci con pesantissimi ritmiche e costanti blast beat; tuttavia, ogni tanto la furia ancestrale viene placata e lascia il posto ad un sound mid-tempo di spessore granitico, ma non illudetevi troppo, perché si tratta solo di rari sprazzi di quiete prima della classica tempesta tonante pronta a deflagrare all’interno delle casse del vostro stereo. E cosi, i singoli episodi di questo “Towards the Ultimate” scorrono via via, l’uno dopo l’altro, senza che si memorizzino nella nostra testa, ma fungendo semplicemente come pura valvola di sfogo adrenalinica, dopo una dura giornata di lavoro. Forti di una eccellente produzione, che rende assai corposo il loro sound, altrettanto preparati da un punto di vista tecnico, ma ancora abbastanza statici e poco propositivi da un punto di vista di sperimentazione, gli Svarttjern, finiscono in quel calderone di band senza parte né arte, bravi si a far del male, ma che ben presto finiranno nel dimenticatoio per non aver certo concepito un album memorabile, ed è proprio un peccato, perché a mio avviso le potenzialità per fare bene ci sono eccome, perché in una song come “Aroused Self-extinction” si intravede anche un briciolo di sperimentazione a livello vocale dove lo screaming eccellente di HansFyrste, si tramuta in una cantato cibernetico, ma è solo un altro frammento di quello che poteva essere questo album, il classico ago nel pagliaio. Anche in “I AM the Path part II”, oltre alla cruda e pura violenza, completamente scevra di melodie (se non in taluni rari frangenti), c’è un tentativo di personalizzare il proprio sound con un qualcosa che sembra esulare dal black primordiale dell’act scandinavo, ma purtroppo l’esperimento viene immediatamente naufragato. Insomma, tante possibilità di scrollarsi di dosso il fatto di essere una band come mille altre, che propone sì un moderno black metal, ma ahimè tutte sciupate o abortite sul nascere. Da risentire con un prossimo album, dopo attenta riflessione (da parte della band però)! (Francesco Scarci)

(Agonia Records)
Voto: 65

Abstract Spirit - Horror Vacui

#PER CHI AMA: Funeral Doom
In fatto di gusti musicali mi ritengo una persona fortunata. Ho maturato, con il tempo, un’attenzione quasi maniacale verso gli aspetti più prettamente spirituali della musica, in ogni loro incarnazione. Dico questo perché sono giunto alla conclusione che quasi esclusivamente il genere doom, nelle sue molte derivazioni, è riuscito a imprimere il suo stigma universale nel profondo dei cuori di molte creature, affascinate da un suono che punta quasi ad un’illuminazione mistica. “Horror Vacui” ne è l’esempio: squarcia di netto il confine tra reale e irreale, distrugge il senso di comprensione, isola dai nostri simili. Le sette tracce di questa formazione russa rappresentano a tutti gli effetti ciò che un ascoltatore degno di questo nome si può aspettare da un full-length totalmente funeral doom. Compaiono certamente le tastiere, magistralmente non invasive, che non si arrogano nessun diritto di prima linea e attenuano un pressante senso di panico che pare incombere all’orizzonte. L’epico suono delle trombe dirige una marcia funebre cosmica accompagnato da litanie da cattedrale sconsacrata (ricordo “Until death overtakes me”). Le voci si alternano, a seconda dell’andamento, in growl (lento), sospiri (sottofondo), urla maniacali (stacco di tempo e cambiamento di riff). Sebbene la registrazione pesante accentui la compressione delle chitarre, la direzione verso cui punta la band è decisamente legata ad interessi atmosferici. Non lo considero come un equilibrio di causa-effetto, ma di sicuro un motivo ci sarà se sei tracce su sette superano i dieci minuti. Eh si, devo ripeterlo ancora una volta, perché è fondamentale: “Horror Vacui” è un viaggio nelle regioni più remote dello spirito nella comune tradizione ‘funeral’, un viaggio da affrontare da soli e tutto d’un fiato. L’ascolto ripetuto può avere conseguenze fisiche, quindi fate attenzione. Un momento topico di questo incubo nero lo troverete nella seconda traccia, “Post Mortem”, sintesi di quello che dovrebbe essere un caposaldo del genere. Solitude Productions… La mia etichetta perfetta… (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 75
 

Consummatum Est - Hypnagogia

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Shape of Despair, Pantheist
Ancora Silent Time Noise Records, ancora funeral doom e il binomio continua a funzionare alla perfezione. Fa un po’ specie però che sotto l’etichetta russa ci sia questa volta una band italiana, ancora a dimostrare che nel nostro paese ci sia una grande paura ad investire nelle band underground e che alla fine il nostro prodotto debba essere sempre e comunque sdoganato. A parte le mie solite lamentele nei confronti delle scelte delle label italiane, mi abbandono immediatamente alla disperazione che questa release ha la capacità di infondere sin dalle sue note iniziali. Dicevamo all’inizio del funeral doom e qui, devo ammettere, c’è n’è in quantitativi esagerati, a partire già dalle durate non indifferenti dei quattro brani, che si assestano costantemente sui 12 minuti. Lunghe suite fatte di minacciose e opprimenti melodie, un macigno che grava pesantemente sul mio sterno. “Dolls and Ravens” apre sinistra, con grevi e lentissime ritmiche, un growling profondo (quello di Haemon), controbilanciato dal brillante lavoro ai synth di Vastitas e dalle vocals del soprano Tori. L’incedere è tetro, fangoso, una vera marcia funebre, che prosegue anche con la successiva “Hypnagogic Prospectus”: qui non c’è spazio a dinamiche cavalcate, non c’è un filo di luce nella musica dei Consummatum Est, non c’è alcuna soluzione sorprendente, ma solo tanta e profonda tristezza, enfatizzata mortalmente dalla musicalità solenne dell’organo a celebrare la fine, cosi come ad annunciare la fine arriva la campana a risuonare nel bel mezzo della seconda traccia. Mi ritrovo al terzo brano, l’omonima “Consummatum Est”, e scopro che compare come guest vocal, Greg Chandler degli Esoteric, e che la musica dei nostri, non si discosta poi più di tanto dai dettami dei grandi maestri del genere. Ovviamente, ascoltando “Hypnagogia”, i nomi che vengono alla mente sono sempre gli stessi, con Pantheist ed Shape of Despair in testa, senza dimenticare Evoken o Skepticism, tuttavia il sestetto laziale lascia intravedere anche una propria definita personalità, che si esplica soprattutto nell’utilizzo delle keys e delle voci femminili, alquanto rare in altre band funeral recensite sino ad oggi. La terza traccia è forse quella che preferisco in assoluto, quella che, sebbene più lunga, mi si imprime nel cervello per varietà (da non sottovalutare anche l’inserto folk della conclusiva “Vertebra”), per l’oscuro terrore che è in grado di inocularci, per le sue tenui atmosfere, e quel delicato utilizzo del pianoforte sempre accompagnato dall’angelica voce di Tori che va ad addolcire il growling di Haemon e lo screaming sgraziato di Moerke, tutti elementi che alla fine riescono a coesistere in un’innata armonia di fondo. E tutto ciò rivela il lavoro apprezzabile fatto dalla band, in quanto non è cosi semplice sostenere tempi ultra slow per una quindicina di minuti, senza correre il rischio di sfiancare fino ad annichilire l’ascoltatore e perdere pertanto di interesse. Gli intelligenti arrangiamenti, l’ardua ma azzeccata convivenza tra classicismi e funeral doom, tra momenti di inesplicabile pathos e drammaturgia, insomma i nostri sono riusciti nell’intento di far coesistere tutto questo e se non si è padroni dei propri strumenti o non si ha una certa personalità, vi garantisco che tutto questo non sarebbe possibile. Un plauso va dunque alla proposta degli italianissimi Consummatum Est, rara creatura di musica funebre presente anche nella nostra penisola. (Francesco Scarci)

(Silent Time Noise Records)
Voto: 75

Stielas Storhett - Expulse

#PER CHI AMA: Black Avantgarde, Fleurety, Manes
A parte una bruttissima copertina ed un indecifrabile logo, ciò che è racchiuso in “Expulse” è quanto di meglio si possa trovare negli ultimi tempi in ambito black avantgarde. Per certi versi la one man band di Murmansk, mi ha ricordato i norvegesi Fleurety, abili nel miscelare melodie psichedeliche di scuola Pink Floydiana, con il riffing glaciale di “sua santità” Burzum. Damien T.G., il musicista che si cela dietro il nome Stielas Storhett, propone il suo personalissimo “Arctic Black Metal” che, a scanso di equivoci, mantiene dal precedente lavoro, “Vandrer...” ormai datato 2006, solo lo screaming e qualche sfuriata tipicamente black, perché, poi diciamocelo, questo disco, è intriso di ritmiche rock, ammiccamenti alla malinconia del death/doom (si ascolti “Buried by Storm and Eternal Darkness”), aperture jazz (si avete capito bene!) e assoli di caratura prog. Insomma un pout pourri di generi che consentono ad “Expulse” di stagliarsi ben oltre la media ed entusiasmarmi cosi facilmente, con il suo sound fresco ed originale. Una dopo l’altra, le sette tracce qui contenute, riescono a catalizzare l’attenzione dell’ascoltatore più esigente con scelte davvero azzeccate: vuoi per aperture folkeggianti, passaggi acustici da urlo, ambientazioni deprimenti, l’inserto di parti di sassofono (ad apertura della stupefacente title track) ad opera di Grigory Valiev e sperimentazioni varie, l’album si colloca immediatamente tra le uscite più indovinate della sempre attiva e attenta Code666, ma in generale tra le più interessanti di questo 2011. Eccellente da un punto di vista tecnico (splendidi alcuni assoli ed esagerata la strumentale “Hush a Bye”, quasi presa in prestito da “Damnation” degli Opeth), ottimo a livello di songwriting, accattivante a livello emotivo ed inoltre sorretto da una buona produzione, il buon Damien con i suoi Stielas Storhett, si candida ad assurgere ad un ruolo fondamentale nell’evoluzione del black metal d’avanguardia. Ma quale black metal poi, mi domando io: se solo si abbandonasse lo stridore gracchiante dello screaming, Damien potrebbe aprire la sua raffinata musica ad un pubblico assai più vasto e io addirittura ad un voto più alto. Per molti ma non ancora per tutti; alla prossima Damien! (Francesco Scarci)

(Code666)
Voto: 85

martedì 1 novembre 2011

Deafheaven - Roads to Judah

#PER CHI AMA: Black/Shoegaze, Alcest, Pensees Nocturnes
Ci sono certi cd di cui sento il bisogno nel profondo dell’anima di dover recensire, non so per quale arcano motivo, ma dentro di me parte un impulso forte e incontrollabile che mi dice “scrivi!”. Cosi è stato per i californiani Deafheaven, band di cui mi sarei aspettato tutto (thrash, hardcore o peggio ancora, metalcore), ma di sicuro mai e poi mai mi sarei sognato di ascoltare questa forma di black metal spruzzato di sonorità shoegaze. D’altro canto immagino che, anche voi pensando a San Francisco, l’associazione di idee immediata che vi verrebbe da fare, sarebbe Metallica, Testament o Exodus, tanto per citarne alcuni. Invece, strano ma vero: i quattro pezzi qui contenuti sono quanto di più interessante mi sia capitato di ascoltare nell’ultimo periodo in ambito black metal fuori dai confini di quei quattro stati in Europa dove si sa suonare egregiamente questo genere (non cito i paesi poiché qualcuno si potrebbe offendere). Cosi partendo dalla opening track, come un invasato mi lancio all’ascolto di questo intrigantissimo lavoro che fa delle sfuriate black sorrette da un riffing tagliente e da uno screaming vetriolico, alternate a momenti atmosferici il suo punto di forza. Le parti acustiche, le aperture post metal, le fluide atmosfere psichedeliche fanno poi il resto, regalandoci un prodotto di elevatissima qualità che di certo farà la gioia, tanto degli amanti del black, quanto di chi segue realtà come Alcest o Les Discrets. Peccato solo che si tratti di quattro pezzi, per carità per 38 minuti di musica, ma sinceramente ne avrei voluto altrettanti, per poter saggiare ancora la furia distruttiva unita all’inusuale delicatezza di una delle più promettenti band del panorama mondiale. Citazione finale per la splendida copertina e il raffinato digipack. Da avere a tutti i costi. Ipnotici! (Francesco Scarci)

(Deathwish Inc.)
Voto: 85

Crawling Chaos - Goatsucker

#PER CHI AMA: Death Old School
Vorrei iniziare questa recensione, premettendo che quello che ho fra le mani è un promo Ep e quindi aprioristicamente non mi aspetto di ascoltare chissà che cosa dalle 5 tracce (più intro) ivi contenute. Ecco, tralasciando proprio l’insulsa e inutile intro, il cd dei Crawling Chaos cerca di creare qualcosa di accettabile già dalla seconda traccia “Companion of the Vagabond”, song aggressiva ma dal sound abbastanza old school. Sound che tendenzialmente viaggia su coordinate abbastanza estreme, anche se una propria definita identità non è ancora ben delineata all’interno del gruppo. Le songs proposte dal quartetto romagnolo (nonché la registrazione pessima perché molto ovattata) sono decisamente quelle di una band ancora acerba, alle prime armi, che pur essendo ormai in giro dal 2004, sembra non aver raggiunto una certa maturità. La musica dicevo, è un death metal che vorrebbe richiamare lo swedish death per quelle sue aperture melodiche, ma il risultato ahimè non essendo dei migliori; si spinge allora verso un lidi di un death più canonico, non raggiungendo neppure qui i risultati sperati. E dire che di idee valide se ne percepiscono all’interno di questo “Goatsucker” (quanto odio questi titoli da band di serie B) ed è per questo che non ho deciso di stroncarli violentemente, però i nostri non sono ancora in grado di raggiungere la meritata sufficienza. Non bastano le sfuriate brutal death al limite del grind a contrapporsi alle aperture melodiche che sfiorano l’heavy classico (unico pregio di questo cd), non mi soddisfano i discreti assoli propinati dai 2 chitarristi, men che meno la pessima voce di Manuel (da rivedere assolutamente); non riesco poi ad accontentarmi di qualche oscura atmosfera, “Goatsucker” è un Ep incompleto, che ha ancora ben poco da dire, pur essendo convinto delle grosse potenzialità della band ancora del tutto inespresse. Quindi non rimane altro ai Crawling Chaos di rimboccarsi le maniche e darsi da fare, mostrando realmente la pasta di cui sono fatti. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 55

giovedì 27 ottobre 2011

Ea - Au Ellai

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Ultimamente ho avuto il piacere di ascoltare questo gruppo che non conoscevo assolutamente. La band si chiama Ea, arriva dalla fredda Russia, questo “Au Ellai” rappresenta il loro terzo album, il primo risale al 2006 “Ea Taesse” (del 2009 invece “Ea II”). La particolarità che mi ha colpito in primis è il nome (Ea infatti è una divinità che deriva dalla mitologia Accadico-Babilonese e che ritroviamo anche in quella sumera con il nome di Enki); in secondo luogo, la lingua con cui cantano e scrivono i testi. Difatti la lingua che sentirete nell’ascolto (almeno per quanto riportato nel web) si è potuta ricreare tramite ricerche archeologiche. Già solo ciò sembra promettente e stuzzicante, per chi come me è appassionato di mitologia e civiltà antiche. Il cd è formato da 3 lunghissime tracce, aperte da “Aullu Eina” che dura la bellezza di 23 minuti. Come apripista è ottima e ci fa capire subito come suonerà l’album: funereo e cupo, con la chitarra impostata su un tono rilassante, sempre ben ritmata, accompagnata da un drumming lento e sinuoso. Il pezzo suona quasi come una epica, dannata e nera marcia funebre, assai complesso nel suo evolversi: ottimi arpeggi, delicati tocchi di pianoforte e parti classiche affidate a malinconici violini che si intersecano in lugubri atmosfere. Il pezzo ha una virata verso la parte finale dove la batteria si fa più violenta, ma passato questo attimo di risveglio, ci si può rimettere a sognare le oscure e cupe atmosfere che l’act sa creare. L’ascolto del cd è impegnativo per la durata dei pezzi, ma posso dire che è assai piacevole ascoltarlo proprio perché non stordisce ma anzi, quasi lo consiglierei per meditazione. Le altre track non si discostano molto dalla prima, presentando costantemente il tema tipico funeral. Ecco, ne consiglio l’acquisto e l’ascolto ai soli amanti del genere. Questi ragazzi russi hanno trovato le loro atmosfere, il loro mondo, e sono sicuramente da tenere d’occhio. Il cd si conclude con la track “Nia Saeli a Taitalae”. Già dal suo inizio si stagliano sullo sfondo tastieristico cori gregoriani, che ci fanno entrare in una dimensione mistica, sognante, rilassante, ma allo stesso tempo dannata, cupa, oscura. Il pezzo dura altri 18 minuti, e non abbandona mai le ambientazioni iniziali anzi le cavalca fino alla fine, fino ad accompagnarci al termine di questo funebre viaggio nel mondo dei Ea. A nostro parere, per la particolarità della proposta, diamo un voto alto e un plauso a questi ragazzi; vi terremo sicuramente d’occhio! (PanDaemonAeon)

(Solitude Productions)
Voto:75

mercoledì 26 ottobre 2011

Iron Maiden - Somewhere in Time

#PER CHI AMA: Heavy Metal
Della serie riscopriamoli, il 1986 è l'anno dove la strumentazione musicale ha subito una particolare modifica; è stata creata una nuova sonorità tramite i sintetizzatori per basso e chitarra elettrica. Questo è anche l'anno in cui il sesto album degli Iron Maiden, registrato tra i "Compass Point" e i "Wisselrood" Studios in Olanda, fu rilasciato con il titolo di "Somewhere in Time". La composizione dell'album fu affidata a solo due dei componenti della band, ovvero Adrian Smith (chitarra) e Steve Harris (basso), salvo per la traccia numero 7, intitolata "Deja vu", che fu scritta da Dave Murray (chitarra) che poi venne arrangiata con l'aiuto di Harris. Otto tracce in totale per questo album, che venne definito "spartiacque", perchè lo stile duro che i Maiden solitamente avevano utilizzato, dovette lasciar spazio a qualcosa di più melodico. L'azione prodotta dai sintetizzatori portò a fare varie prove su questo "melodic hard style" (mia piccola definizione). Vollero mantenere pur sempre il loro stile originale, cercando di non rivoluzionare tutto con uno stile puramente commerciale come fecero altre band. "Somewhere in Time" venne definito l'album più "snobbato" della loro intera discografia, perché tutt'ora solo alcune canzoni possono essere suonate live come ad esempio "Heaven Can Wait" e "Wasted Years". Le restanti tracce sono risultate impossibili da eseguire live perchè l'effetto dei sintetizzatori renderebbe le canzoni di scarsa qualità a differenza dalla registrazione in studio. "Heaven Can Wait" venne scritta e arrangiata completamente da Steve Harris: parla di un malato di cancro che lotta tra la vita e la morte. Una canzone con una base melodica che però poi sfocia in un coro continuo. Altra canzone da sottolinare è "Sea of Madness", scritta da Adrian Smith, mostra le notevoli e potenti cavalcate di basso di Harris; un particolare in più che mi fa apprezzare questa canzone è l'inizio del ritornello che la rende più attraente. Altro fantastico pezzo è "The Loneliness of the Long Distance Runner"; Steve Harris ci mette del suo per rendere grande questa song che contiene dei spaventosi giri di basso. Ultima ed epica, ecco far capolino "Alexander the Great" traccia che parla delle grandi gesta del mitico condottiero macedone che all'età di 33 anni ha conquistato terre e nazioni senza mai essere stato sconfitto sul campo di battaglia. La song della durata di circa otto minuti si rivela complessa e con una lunga parte strumentale, ma nel complesso è una canzone con delle buone fondamenta. "Somewhere in Time" vuole dare l'idea che pur essendo proiettati nel futuro e alla costante ricerca di migliorare il proprio stile, i Maiden vollero mantenere un saldo legame con il passato: basti dare un occhio alla copertina e molti particolari salteranno davanti a noi: un piccolo esempio è la torre dell'orologio che segna le 23.58 facendo riferimento alla canzone "Two Minutes to Midnght" dell'album "Powerslave". Questo sarà l'ultimo album prima che Adrian Smith lasci la band per la sua piccola parentesi in una carriera da solista che non ha avuto un gran successo, lasciando il posto al nuovo entrato Janick Gers, ma questa è un'altra storia. Catalogabile decisamente come un buon album nel complesso. (Alessandro Vanoni)

(EMI Records)
Voto: 75
 

lunedì 24 ottobre 2011

Laments of Silence - Restart Your Mind

#PER CHI AMA: Death Melodico, Dark Tranquillity
Smarrito e solo sull'Isola di Creta, nell'ipotetico e labirintico Palazzo di Cnosso qual'è la mia mente, mi ritrovo al buio, dopo aver consumato la mia unica torcia e senza alcun filo di Arianna, abbandonato ma in compagnia di un'unica certezza: il minotauro. Il minotauro è vicino, ancora non lo vedo, no non lo vedo, ma ne avverto, là, sempre più vicino, l'oscura, malvagia presenza. Ho paura, certo, ho paura, ne sento il ringho e gli zoccoli, sì i suoi zoccoli scalpitare. La paura però, mi coglie solo per un attimo: non mi faccio prendere dal panico, no di certo. Sono abituato a ben altro. Questo è niente. No! Sarà lui, o meglio quella cosa, a dovermi temere. Sento il mio coraggio rinvigorire il mio spirito all'udir di codeste, incazzate corde vibrare. Non perdo tempo: Lancio subito, senza esitare, il mio simbolico ed atipico urlo di guerra: "Restart your Mind!". Sarò io il cacciatore: lui la mia preda. Voglio il suo scalpo. "Restart your Mind": così è stata battezzata la title track di questa adamantina release degli spagnoli Lament Of Silence. Duecentottantacinque secondi di pura cattiveria giocati su una batteria maestosa, strofe interpretate con sapienti scream vocals e, come il genere vuole, sul classico matrimonio tra distorsioni di chitarra ed una "doppia pedalata" sì rapida e precisa da far invidia a quella del Fausto Coppi dei tempi d'oro. Cammino attento nel labirinto, mi inoltro sempre più nelle sue spire, nei suoi meandri. Rimango all'erta, vigile, attento. Spada e scudo mi accopagnano. Sguaino la mia lama sulle note di "Sentenced", la voce diventa a tratti pulita: batto allora l'elsa sullo scudo, a sfidare, impavido, il mio nemico. Voglio che mi senta. Odo l'eco dei suoi passi, sempre più vicini... ad accompagnarli velocissime rullate di toms. Tamburi. Tamburi nell'oscurità. Nella mia mente, l'immagine di lui che si ferma. Si gira. D'mprovviso. Avverte d'un tratto la mia presenza. Immagino un'ipnotico rosso brillare nelle sue iridi. Le vedo accendere d'un tratto l'oscurità e riempirla con il loro odio. Osservo i capillari delle sue sclere gonfiarsi, anzi inzupparsi del suo stesso sangue. Odo di nuovo il suo ringhio, lo schema dell'alternanza vocale, infatti, si ripete anche nelle successive "Paper Dolls" e "Homeless on the World of Souls". Un ritornello pulito si intercala, concatenandosi, con strofe growl. L'idea, però, non essendo a mio parere innovativa, viene forse un pò troppo sfruttata. Il risultato finale, ad ogni modo è più che gradevole. In men che non si dica mi ritrovo catapultato, invischiato in "Doomed". Mi fermo allora un istante ed ascolto. Da bravo cacciatore cerco di percepire i suoi passi, d'intuirne i movimenti. Le melodie me lo consentono, questa volta sono meno incazzate, meno serrate. Vivo "Doomed" come una sorta di quiete prima della tempesta. Corro, gli corro incontro, l'attesa snervante mi ha ormai stancato. La tempesta arriva con "Within my Dreams" preceduta da "Scream in the Darkness" e "Solitude" che vanno a prolungare, sulla scia di "Doomed" l'attesa, prima del mio scontro finale. Ecco, ci siamo, me lo trovo di fronte. Ne incrocio impavido il suo sguardo. Due fari che si accendono nell'oscurità. Mi osserva, mi studia. Io non mi fermo, continuo nella mia corsa e quindi salto, tento di colpirlo con un fendente dall'alto. Lui lo schiva, sicuro, veloce. Tenta di incornarmi ma intercetto rapido con lo scudo le sue corna. Il contraccolpo è potente, cado a terra, all'indietro, ma non perdo scudo e spada. La battaglia non è persa. Mi carica, tentando nuovamente di incornarmi, ma io resto fermo. Fermo fino all'ultimo e quindi scarto, rotolo veloce su me stesso, quindi mi rialzo. Lui si gira: rapido, sorpreso. Veloce gli scanno la gola, ne stacco la testa, la vedo rotolare a terra. Il suo torso, decapitato, si accascia al suolo. Inerme. (Rudi Remelli)

(My Kingdom Music)
Voto: 75
 

Blue Birds Refuse to Fly - Anapterωma

#PER CHI AMA: Future Pop, Electro Music
La Grecia "elettronica" continua a sorprendere positivamente. Dopo gli ottimi esordi di Audioplug e Genetic Variation, un altro nome interessante della scena musicale ellenica torna sotto le luci dei riflettori, ma questa volta non è di una band alle prime armi che si parla. I Blue Birds Refuse To Fly con il loro secondo album e dal lontano 1998 (anno in cui uscì il debutto "Give Me the Wings") hanno subito alcuni sostanziali cambiamenti che hanno coinvolto il gruppo. Kyriakos Poursanides, che fu il tastierista dei Wasteland dal 1990 al 1998, è rimasto il principale responsabile del progetto, mentre Cristina Mihalitsi non è più della partita, per cui la sezione vocale di "Anapterωma" è stata affidata all'ex-The Illusion Fades George Dedes, coadiuvato da George Priniotakis e Maria Kalapanida per le backing-vocals. Il battito soffice di "House of Sex" è un assaggio gradevole che anticipa quel che potremo ascoltare nei minuti successivi, ovvero un'elettronica dai contorni imprecisi che, nell'arco di tredici brani, sfiora diverse dimensioni stilistiche. Romantiche atmosfere future-pop, arrangiamenti di classe e motivi "radio-friendly" dal facile appiglio sono le componenti che fanno di "Anapterωma" un prodotto appetibile ed eterogeneo al tempo stesso. Vale a dire che per alcuni la varietà stilistica sperimentata dal gruppo potrà costituire un quid positivo, per altri una fastidiosa spina nel fianco. Di certo la levatura artistica dei Blue Birds Refuse To Fly non si discute e canzoni come "Lacrima di Balena II - The Revenge" o "Some Roads Can Take You Everywhere" denotano un songwriting raffinato che saprà ammaliare gli ascoltatori più attenti al particolare. D'altro canto, va sottolineato che non tutti gli episodi riescono a colpire nel segno ed è proprio la disomogeneità della scaletta ad ostacolare un percorso fluido e senza intoppi. Si pensi ad esempio al brano "The End", che pare un tentativo di "scimmiottare" i Laibach in un contesto pop/sinfonico di dubbio gusto. Per il resto, "Anapterωma" si fa pregio dell'ispirata prova vocale di Dedes e di una produzione limpida e pulita, attestandosi come un prodotto di buona qualità che andava solo smussato in qualche punto per poter risultare più fruibile all'ascolto. (Roberto Alba)

(Decadance Records)
Voto: 70 
 

domenica 23 ottobre 2011

Circles - The Compass

#PER CHI AMA: Djent, Progressive, TesseracT, Dillinger Escape Plan, Periphery
L’Australia è da sempre sinonimo di ventata d’aria fresca e innovativa: basti pensare ai primi anni ’90 quando da Camberra saltarono fuori gli Alchemist e poi più recentemente i grandissimi Ne Obliviscaris e i Silver Ocean Storm. E ora è il turno di un’altra eccezionale band, i Circles, che con “The Compass” arrivano al debutto per la Basick Records. Muovendosi in territori musicalmente molto vicini al djent, sfoderano una prova a dir poco entusiasmante, molto probabilmente attribuibile in primis alla forza e bravura del cantante, che è bravo nell’alternarsi tra un growling possente (assai raro a dire il vero) e un cantato molto vicino a quello di Mike Patton. La musica poi è schizoide, imprevedibile, con dei riffoni ultra ribassati, stop’n go disorientanti, ritmi sincopati, cambi di tempo mozzafiato, che ci fanno passare da momenti tirati, improvvisamente a delicati attimi di romanticismo, quasi da non credere. Si, ne voglio di più, perché a partire dalla magnifica opening track, “The Frontline”, passando attraverso “Clouds are Gathering”, fino a giungere alla conclusiva “Ruins”, i Circles offrono una prova magistrale su tutti i fronti: ottima musica, con delle melodie estremamente indovinate, tecnica eccelsa (requisito fondamentale per suonare questo genere, altrimenti vi prego astenersi, please), una perfetta produzione con un suono cristallino che enfatizza enormemente il risultato finale di un EP, che ha il solo difetto di non essere un full lenght, perché tanta e grande è la voglia di ascoltare la musica di una band, che sa prendervi per mano, sedurvi con un paio di smancerie (la presunta semiballad “Act III”) per poi prendervi a mazzate sul muso, con una miscela entusiasmante di suoni che dal djent si dirigono verso il progressive, techno metal. Accattivanti, tanto quanto (forse anche di più) dei TesseracT o dei ben più famosi Periphery, i Circles vi conquisteranno al primo ascolto, posso metterci la mano sul fuoco e so che non mi brucerò. Sono arrivato al termine di questo cd e soffro già di crisi di astinenza, quindi che fare? Meglio premere nuovamente il tasto play e lasciarsi conquistare dalla genialità di questi cinque straordinari musicisti australiani, di cui sentiremo certo parlare a lungo in futuro. Mezzo voto in meno perché si tratta di un EP. Fenomeni! (Francesco Scarci)

(Basick Records)
Voto: 85

Comatose Vigil - Fuimus, Non Sumus...

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Un giorno di pioggia. Un funerale. Il mio funerale. Le note dei Comatose Vigil ad accompagnare la sepoltura, mentre il pianto contenuto dei presenti, si presenta di fronte alla Signora Morte. E io rinchiuso in quella bara oscura, ho freddo, con la consapevolezza che tutto è finito; l’unica cosa a cui non possiamo sottrarci è finalmente giunta a prelevarmi e portarmi via con sé. La musica del terzetto russo è cupa, straziante e angosciante, come può essere il sopraggiungere della morte stessa. Tre lunghi infiniti brani di drammatico funeral doom, che si aprono con il primo capitolo, la title track, quasi mezz’ora di suoni funerei che non possono far altro che annunciare qualcosa di tremendamente negativo, la perdita di una vita umana. Non c’è alcuno spazio riservato alla luce, neppure ad un barlume insignificante di speranza, sono solo le tenebre che avvolgono la vita, rendendola inutile e priva di alcun significato. La musica dei Comatose Vigil è quanto di più oscuro ci potessimo aspettare in questo ambito (e dire che mi ero spaventato con i Septic Mind), ma qui i toni apocalittici, si fanno ancora più catastrofici, con un riffing pesante, ossessivo, lento che scandisce gli ultimi istanti che ci sono rimasti da vivere, come i tocchi di una campana che suona a morto. Parafrasando il titolo di questa release, “Fummo, non Siamo”, ci troviamo di fronte ad uno scenario di morte globale, forse portata dai venti di guerra che flagellano costantemente il nostro degradato pianeta. E ad annunciare la fine del mondo, ci pensa la voce tremendamente growling di A.K. iEzor, accompagnato dalla sezione ritmica della consistenza di un mammut di Vig’iLL e dagli emozionanti quanto mai sconvolgenti (e vincenti) inserti di tastiera di Zigr. “Autophobia” con i suoi ventitre minuti abbondanti di disperazione è il masso che ci mancava, quello da un quintale ancorato alle nostre gambe che improvvisamente cadono in acqua; una discesa lenta e dolorosa nel profondo degli abissi, mentre i nostri polmoni si riempiono di acqua fino a scoppiare. Si, la morte torna sovrana, come unica regina del mondo, a cui nessuno può sottrarsi, neppure gli uomini più potenti del pianeta. La morte è il giusto destino per tutti e il cammino verso di essa è accompagnato ancora una volta dalle note di questa straordinaria band, che in questa traccia hanno anche l’ardore di un magnifico inserto ambient, straordinari. Gli ultimi ventiquattro minuti sono per “The Day Heaven Wept”, l’ultimo cappio da cingersi al collo prima di salire su quella sedia da cui non si scenderà più. Il terzo capitolo celebra, con toni apparentemente meno lugubri la fine dell’esistenza, anche se la malinconia di fondo pervade ovviamente l’intero magnifico brano. Certo, il funeral doom non è un genere aperto a tutti, tuttavia non abbiate paura ad avvicinarvi, giusto solo per curiosità, a dare un ascolto a questo magniloquente lavoro. Ora ne ho la certezza: dopo avere ascoltato “Fuimus, Non Sumus…”, non ho più paura di affrontare nostra Signora. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 85

sabato 22 ottobre 2011

Falloch - Where Distant Spirits Remain

#PER CHI AMA: Shoegaze, Epic, Folk, Alcest, Agalloch
Talvolta scrivere una recensione è la cosa più facile che ci sia al mondo: ci sono band infatti che consentono alle dita di battere sulla tastiera alla velocità della luce ciò che la musica ha da trasmettere. Credo che gli scozzesi Falloch (nome che si rifà alle cascate omonime di Crianlarich) siano una di queste: mi è bastato infatti premere il tasto play e lasciarmi immediatamente conquistare dall’avvolgente musicalità della band di Glasgow e dalla raffinata furiosa delicatezza dei propri suoni. Come al solito, vi avrò disorientato, ma con mio sommo piacere, preferisco non farvi capire nulla per instillare nel vostro animo, la curiosità ad andare avanti nella lettura della recensione. I Falloch sono una band con tutte le carte in regola per sfondare nel mondo della musica metal: miscelando infatti lo shoegaze dei transalpini Alcest con la spiritualità, l’epicità e la furia del sound degli statunitensi Agalloch, il duo, formato da Andy Marshall e Scott Mclean, ha sfoderato una prova eccezionale, tanto da spingermi a definire “Where Distant Spirits Remain”, il mio album del mese. Dall’iniziale “We are Gathering Dust” dove forte è il richiamo agli Alcest, passando attraverso le prove di “Beyond Embers and the Earth” dove invece più marcata è l’influenza della band di Seattle del periodo “The Mantle”, con sfuriate tipicamente black che si alternano a passaggi più onirici o di derivazione “Pink Floydiana“, l’ensemble ci accompagna con somma maestria attraverso un malinconico viaggio nel cuore della tradizione celtica. Ne è testimonianza “Horizons” con quel suo forte flavour folk, neppure fosse uscito dal film “Braveheart”. L’epicità sgorga a tonnellate anche nella successiva “Where We Believe”, la song forse più selvaggia, vuoi anche per l’uso di vocals più aggressive che si contrappongono con quelle estremamente pacate che si ritrovano nel corso di tutto l’album. Mi piace, mi piace e mi piace, non sapete voi quanto: parti acustiche, ambientazioni autunnali, sfuriate black interrotte da break autunnali pregni, stragonfi di malinconia e dolcezza (complice anche la presenza di una voce femminile). Le chitarre affrescano con assoluta semplicità paesaggi molto più vicini a quelli del nord est degli USA o del Canada, piuttosto che ricordare le desolanti colline scozzesi. Colori caldi infatti riscaldano il nostro animo, ascoltando questo esagerato lavoro, che ha preso posto nel mio stereo e non vuole assolutamente abbandonarlo. Non so che altro dire a proposito di un album che si candida ad essere seriamente tra i miei top dell’anno. Magico e poetico! (Francesco Scarci)

(Candlelight Records)
Voto: 90