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domenica 24 aprile 2022

OK WAIT - Well

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
"Ok, fermi tutti". Cosi si potrebbe tradurre il moniker di questa band teutonica che nasce dalle ceneri dei Sonic Black Holes, dando vita appunto a questi OK WAIT. La band originaria di Amburgo propone un post rock strumentale assai vario e dinamico, ricco di suggestioni epiche e di molte altre influenze che si paleseranno qua e là nel corso dell'ascolto di questo 'Well'. Intanto, si parte forte con i quindici minuti e mezzo dell'opener "Wait" e già qui i nostri scoprono le loro carte con le loro lunghe fughe chitarristiche interrotte da break atmosferici, un lavoro alle pelli che sottolinea l'abilità percussiva di Lutz Möllmann, mentre le chitarre di Michel Jahn e Christoph Härtwig dipingono meravigliosi affreschi dai tratti sicuramente malinconici, complice anche la presenza di un preziosissimo violino. Sorprendentemente, la proposta dei quattro mi piace assai, il che è già una vittoria, visto che le ultime release in territori post rock, mi avevano annoiato in breve tempo. Invece, bravi gli OK WAIT a tenermi sempre ben concentrato sulla loro proposta in continua evoluzione. Si perchè l'incipit di "Blow" si palesa come fosse una colonna sonora di uno "Spaghetti Western" qualunque di Ennio Morricone, per poi progredire da tratti desertici ad altri più post metal (complice forse la presenza di Magnus Lindberg dei Cult of Luna al mastering?) assolutamente da brividi ed un finale più mellifluo che va a ribaltare quanto ascoltato sin qui. Classica apertura acustica (forse un po' troppo banalotta a dire il vero) per "Time" e poi una marcetta militaresca contigua, per una song che incarna forse tutte le peculiarità del genere e che alla fine non mi fa strabuzzare gli occhi come accaduto invece nei primi due pezzi. C'è sicuramente del prog pink floydiano in questi quasi dieci minuti di musica, ma mancano forse della medesima energia ed inventiva che mi avevano appagato sino a questo punto. Sulla stessa linea di "Time" è "Dust", ed è un vero peccato, considerate le premesse davvero stimolanti. Siamo sempre alle prese con post rock intimistico dai tratti prog, ma sembra mancare di quella stessa verve iniziale per seguire invece la massa informe di band che popolano la scena. La perizia tecnica c'è tutta, le melodie pure, ma francamente non mi emoziona più di tanto, sebbene siano palesi a più riprese, i tentativi di raddrizzare il tiro, irrobustendo il sound con chitarrate che sembrano prendere in prestito ad un certo punto, un riff dei Nirvana. A "Cope" viene affidato l'arduo compito della chiusura del disco e dopo tutto non se la cava proprio male con un riffing solido e irrequieto all'insegna del post metal, che non avrebbe certo disdegnato la presenza di una bella rocciosa voce nella sua matrice ritmica. Alla fine 'Well' è un buon debut album, con diverse luci ma anche qualche ombra su cui varrà la pena lavorare in futuro. (Francesco Scarci)

(Golden Antenna Records - 2022)
Voto: 74

https://okwait.bandcamp.com/album/well

lunedì 18 aprile 2022

Glasgow Coma Scale - Sirens

#PER CHI AMA: Kraut/Post Rock
Terzo lavoro per i Glasgow Coma Scale, band originaria di Francoforte con un nome dal moniker alquanto strano, poiché il suo significato lo possiamo trovare nel fatto che, la scala di Glasgow, sia una scala di valutazione neurologica utilizzata dai medici per tenere traccia dell'evoluzione clinica dello stato di un paziente in coma. All'ascolto della loro musica direi che si percepisce bene il perchè di tale nome, visto che per certi aspetti il loro sound avvolge completamente l'ascoltatore e come buon album di musica postrock strumentale predilige l'uso di parti emozionali, composizioni colme di atmosfere cristalline, magiche,ed introspettive. Giocato su continui intrecci chitarristici che caratterizzano oggi più che mai il suono della band tedesca, di fronte ad una struttura compositiva consolidata, che tende ad evolversi verso i lidi cosmici di certe creazioni dei 35007, l'intero album è omologato su di una costante lunghezza d'onda, in modo da sostenere un perfetto filo conduttore musicale e permettere così a chi ascolta di addentrarsi in lunghi viaggi sonori pieni di luci e colori, ma anche di melodie più cupe e talvolta, esplosioni di natura quasi prog metal ("Magik"). Il disco è complesso, a volte mi sembra quasi di sentire una versione più soft dei The Fine Costant, con meno ossessione verso il virtuosismo. Qui il suono così preciso e puntiglioso mi rimanda al progetto di Sarah Longfield, ma anche agli Airbag, se solo fossero un combo strumentale. Le canzoni sono tutte piuttosto lunghe come del resto l'intero album, la produzione è molto buona e l'ascolto è, come di consuetudine per la band teutonica, piacevole, fluido e sempre interessante. Rock indipendente prevalentemente d'atmosfera quindi, con puntate nel prog di casa Marillion unite a certe intuizioni musicali dei Laura, come l'intro di "Underskin", che con l'aiuto di tastiere e programmazione (bello il trucchetto del togli corrente al brano con ripresa al minuto 2:13), che assieme alla strumentazione classica del mondo del rock, permettono di ottenere un mood complessivo d'impatto emotivo costante, omogeneo e coinvolgente. "Underskin" è forse la traccia più rappresentativa della loro visione artistica che tende a non essere mai pesante, anzi, si evolve in soluzioni di continua espansione, e questo richiede un ascolto molto certosino, per cogliere tutti gli aspetti di forma e cura che stanno dietro a questo ottimo progetto nato nel 2014. Ottimo il finale affidato alla title track che coglie un bel rimando a certe cose dei Pink Floyd più recenti. In un mondo, quello del post rock, dove è sempre più difficile ritagliarsi uno spazio di vera originalità, i Glasgow Coma Scale riescono a trovare una propria vena identificativa, lavorando molto bene su di una formula che da tempo sperimentano, fatta di fine equilibrio tra gli strumenti e gli spostamenti sonori continui che si snodano in forma naturale in elaborate composizioni, ricche e piene di pathos che si fanno subito apprezzare. Disco intenso, da ascoltare con attenzione e tranquillità. (Bob Stoner)

giovedì 14 aprile 2022

The Sea Shall Not Have Them - Debris

#PER CHI AMA: Post Rock/Ambient
Per chi non ha ancora le orecchie sature di post rock semi-strumentale, ecco che un po' di nuova musica arriva dall'Australia, un luogo che sembra essere la fucina perfetta per questo genere musicale. Loro sono un duo, si chiamano The Sea Shall Not Have Them e 'Debris' è il loro secondo album che arriva a sette anni distanza dal loro debut 'Mouth'. Quando c'è post rock e Australia poi, non si può non citare la Bird's Robe Records che ne produce quasi tutte le uscite. Il lavoro dei nostri include otto tracce che con l'iniziale traccia omonima, mi prende il cuore, lo lacerano con un condensato di musica estremamente malinconica e lo lasciano accartocciato per terra come un feto abbandonato per la strada. Non un'immagine piacevole, me ne rendo conto, ma l'effetto forte e commovente della musica dei The Sea Shall Not Have Them ha generato in me queste immagini tremebonde. Con la successiva "Lower the Sky", dove compare il featuring di Ed Fraser alla voce, ci troviamo di fronte ad un brano enigmatico, introspettivo e irrequieto, dal flavour tipicamente new wave, contraddistinto da una pulsante linea di basso. Figo. Peccato poi che la band torni fin troppo a normalizzarsi con "YXO", un brano che francamente ha ben poco da offrire nella sua minimalistica ritmica ridondante. Già meglio "Splinters" che trae nuovamente linfa vitale da sonorità new wave, anche se questo insistere con i medesimi giri di chitarra (cosa che accadrà anche nelle successive "Everything Melts", dove peraltro ci sarà l'ottimo featuring alla chitarra di Ian Haug dei Powderfinger e nella noiosetta "Ash Cloud") non è che giovi parecchio alla lunga ai nostri. In chiusura ecco "Underneath", l'ultimo psichedelico atto di un disco a tratti intrigante, in altri frangenti forse troppo normale. Spunti interessanti se ne trovano qua e là a dire il vero ma io avrei osato un pizzico in più. (Francesco Scarci)

lunedì 21 marzo 2022

Endless Dive - A Brief History of a Kind Human

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
'Una breve storia del genere umano', ecco cosa ci vogliono raccontare i belgi Endless Dive in questo loro secondo album. Una storia iniziata nel 2016 con la pubblicazione dell'EP omonimo di debutto e proseguita nel 2019 con 'Falltime' e che arriva oggi a questo 'A Brief History of a Kind Human', un lavoro all'insegna di un post rock strumentale, contaminato da derive elettroniche e ambientali. Come quelle che si sentono nell'apertura affidata a "Blurred", una traccia che raccoglie fondamentalmente tutti i dettami del genere e li fonde in un'unica song, che si muove tra intriganti e arrembanti linee melodiche interrotte da un break ambient nel finale. Tutto molto interessante, ma lasciatemi dire, anche piuttosto scontato, questo perchè capisco già dove la band voglia andare a parare. Attenzione, questo non significa che i brani non siano ben suonati anzi, la title track attacca con sonorità quasi post punk ad esempio, ma poi va a finire nei classici anfratti post rock, quelli sentiti una miriade di volte e che ora stentano a conquistarmi. Il disco si muove su queste coordinate  per tutta la sua durata, evocando nei momenti più pesanti ("Elevator to Silence" ad esempio) i Pelican o pure i Cult of Luna. "Ingeborg" è invece un breve intermezzo acustico, mentre "Archimboldi" divampa con tutta la sua imprevedibile furia hardcore che evolverà dopo 90 secondi in suoni ben più tiepidi e nuovamente votati ad un post rock intimista prima di tornare a ingranare la marcia a 90 secondi dalla sua fine. Ipnotico il gioco di chitarre di "Tropique Triste", ma in tutta sincerità, non mi ha entusiasmato più di tanto. Ancora linee di basso post punk nella conclusiva "Au Revoir" e forse queste finiscono per essere gli elementi che più ho apprezzato in questo disco che necessita di una ancor più elevata dose di personalità per prendere le distanze da un filone che dir saturo è dir poco. (Francesco Scarci)

sabato 26 febbraio 2022

Preamp Disaster - By The Edges

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna
Con gli svizzeri Preamp Disaster (chissà se vuole realmente significare il disastro del preamplificatore), torna a riaffacciarsi sul Pozzo la Czar Of Crickets Productions con una delle sue intriganti creature cosi come abbiamo già avuto modo di apprezzare in passato. 'By the Edges' è il lungo e nuovo EP della band originaria di Lucerna che torna sul mercato a cinque anni di distanza da 'Waiting for Echoes'. In tutta franchezza non conosco i nostri, quindi sarà interessante valutarne il loro sound come un novizio alle prime armi. L'apertura è affidata ai robusti suoni di "Above the Bloodline", traccia piacevolmente melodica a cavallo tra post metal e post rock, con i punti di forza del primo (chitarre belle toste) e di debolezza del secondo (gli eccessivi riverberi tipici del genere). I quattro musicisti elvetici giocano comunque su saliscendi ritmici, roboanti chitarre e psichedeliche atmosfere. Tutto molto carino, già sentito mille volte però. Non serve nemmeno quella voce incazzosa a fine brano a togliermi quella sensazione di eccessiva strumentalità della song. Bene, ma non benissimo. Mi muovo sulla seconda song, "Dark Brilliance" e le cose iniziano a farsi più interessanti con una proposta più atmosferica e delicata (non sono certo una mammoletta ma cerco qualcosa di più emozionalmente toccante e meno scontata). Qui i nostri, emulando un che degli Isis più ispirati (e morbidi), ci regalano un approccio più pacato, prima di una totalmente inaspettata esplosione di violenza con una ritmica inferocita e un growling corrosivo. Poi, un break con ancora un landscape delicato su cui poggiano spoken words, che destabilizzano positivamente la concezione musicale che avevo di questo ensemble. Finalmente, qui le cose iniziano a funzionare in modo adeguato e riesco a scorgere segni di una più ricercata proposta musicale. Chitarre di stoneriana memoria si dispiegano invece in apertura di "Holdun", prima di lasciar spazio ad un incedere lento ed evocativo, con le voci quasi sussurrate del frontman a guidarci nel profondo di un brano accattivante che avrà ancora modo di mostrare atmosfere soffuse e un growling di tutto rispetto alla Cult of Luna, in un finale in crescendo che ci sta alla grande. Non saranno originalissimi, ma mi prendono bene. E le cose sembrano andare meglio con la chiusura affidata alle noste di "Entering One Last Epoch", la traccia più lunga del lotto (oltre nove minuti) che mostra un bel basso in apertura che ammicca allo stoner ed una progressione sonora che ci porterà nei paraggi di un post metal sporcato da atmosfere darkeggianti dotate comunque del loro perchè. Alla fine 'By the Edges', pur non inventando nulla, è un lavoro piacevole e strutturato che farà la gioia di tutti gli appassionati di sonorità post metal. Quindi gliela diamo o no una chance a questi Preamp Disaster, che dite? (Francesco Scarci)

(Czar Of Crickets Productions - 2022)
Voto: 74

https://preampdisaster.bandcamp.com/album/by-the-edges

Godspeed You! Black Emperor - Asunder, Sweet and Other Distress

#PER CHI AMA: Post Rock
L'incedere epico dei pezzi anziché apocalitticamente ascetico, una minore emozionalità più rock-oriented, la scomparsa di tutti quegli ammenicoli sonori funzionali all'esperienza live ma fastidiosi in cuffia: nel quinto album dei terroristi del borborig-metal attraverserete il deserto del Maghreb seduti sul parafango di un carro armato in un tardo pomeriggio autunnale col cielo scuro di petrolio bruciato (vi basti ascoltare "Peasantry" o "Light! Inside of Light!"); darete la caccia a un fastidioso calabrone di mare coi piedi attaccati alla carcassa di un sommergibile a testata nucleare arenata sul fondo dell'oceano ("Lambs’ Breath"); attraverserete il Nunavut (non sapete cosa diavolo è? andatevelo a cercare su Wikipedia) attrezzati esclusivamente con un thermos di punch e un paio di racchette da tennis ai piedi ("Asunder, Sweet"). Dopodichè, manderete a cagare questo album, i Godspeed e l'autore di questa cialtronata di recensione e vi andrete a sedere in balcone con una moretti ghiacciata, una paglia, 'Slippery When Wet' dei Bon Jovi a palla nel giradischi e vaffanculo al secchio ("Piss Crowns are Trebled"). (Alberto Calorosi)

mercoledì 16 febbraio 2022

We Lost the Sea - Departure Songs

#PER CHI AMA: Post Metal/Rock
'Departure Songs' rientra in quello che ormai definisco abbonamento mensile con la Bird's Robe Records (qui in collaborazione con Art as Catharsis) e nella riedizione di vecchi (ma non cosi vecchi) lavori dell'etichetta australiana, riproposti per celebrare il compleanno della label di Sydney. I We Lost the Sea non sono poi una novità su queste pagine, avendo in precedenza recensito, peraltro sempre il sottoscritto, sia 'Triumph & Disaster' che 'The Quietest Place on Earth'. Quindi potrei già dire di sapere cosa trovarmi tra le mani. Tuttavia non è proprio cosi, considerando che l'opener del disco, "A Gallant Gentleman", ha fatto da colonna sonora ad un episodio della serie tv Afterlife e già questo potrebbe attribuire una certa rilevanza all'opera del sestetto di Sydney. Per chi non li conoscesse (ah che bestemmia), i nostri sono una band che ha mosso i propri passi nei paraggi di certo post rock/metal strumentale sporcato da venature post-hardcore. Eppure, la veste più graffiante dell'ensemble non compare nelle delicatissime note dell'ouverture, un pezzo che narra la drammatica vicenda di Lawrence Oates, un esploratore britannico che morì durante la spedizione al Polo Sud. Il brano si muove su un percorso sognante e delicato, con tanto di coro di voci eteree che si materializza a metà brano, prima che il sound si faccia più magniloquente, evocativo, epico, trasognante e malinconico. Con "Bogatyri" (termine che indica i guerrieri eroici della tradizione slava) si rimane nei paraggi del medesimo sound con melodie soffuse e dilatate, affidate semplicemente ad eleganti ed ipnotici giri di chitarra che per oltre quattro minuti si fisseranno nella testa con la loro ridondanza ritmica, prima di inspessirsi, crescere, minacciare, accelerare, innervosirsi in un vortice emozionale che non lascia ampi margini di fuga, tra chitarre riverberate e altre ben più pesanti. Peccato solo manchi quella voce graffiante che mi aveva conquistato ai tempi di 'The Quietest Place on Earth', ma che poi fu costretta a lasciarci per lidi più lontani (RIP). Dopo i quasi 12 minuti di "Bogatyri", ecco i 17 di "The Last Dive of David Shaw" per un'altra maratona sonora che evoca la storia di David Shaw, uno scuba diver australiano che morì per problemi respiratori durante il tentativo di recuperare il corpo di un altro sommozzatore, morto anni prima. Potete pertanto immaginare come la musica rifletti una situazione angosciante, che tra chiaroscuri, bianchi e neri e saliscendi ritmici, dipinge una storia tragica, ossia l'ultima missione di David prima di morire. Una melodia sconquassante, suoni vertiginosi, ad un certo punto anche furenti ed esplosivi, che caratterizzano egregiamente la proposta dei We Lost the Sea. Si arriva cosi ad un'altra montagna da scalare, i quasi 24 minuti di "Challenger part 1 - Flight" che, insieme alla conclusiva "Challenger part 2 - A Swan Song", narrano l'ultima storia di questo drammatico lavoro, ossia l'esplosione in cielo dello Shuttle Challenger nel 1986, appena dopo il decollo. Ricordo bene quelle tragiche immagini e la musicalità dei nostri è affidata ad una parte parlata iniziale con le voci del personale di Cape Canaveral e a successivi landscape ambientali che riescono solo a farmi vagare con la mente ripensando a quell'evento e alla morte in diretta di quegli astronauti. La musica inizia finalmente verso il nono minuto e lo fa sempre con somma eleganza, quella che ha contraddistinto l'album sin qui. Atmosfere sinistre, le chitarre che nuovamente si perdono in loop ritmici, prima che la situazione si sblocchi con melodie più pulite ed un assolo da favola per un finale che continua con un climax costantemente in ascesa, che rischia però di perdersi in un brano forse eccessivamente prolisso. In chiusura, l'ultimo atto che ripristina una durata più umana ad una musicalità che sin qui ci ha regalato comunque grandi emozioni e che non tarderà a donarne anche nel corso di questo pezzo che sancisce la grande emozionalità di cui i We Lost the Sea si fanno portatori. I riflessi musicali che ritroviamo qui sono quelli del post rock malinconico che avrà un crescendo forse senza precedenti nel disco e troverà il suo culmine di drammaticità nelle parole di Donald Reagan e il suo messaggio alla nazione americana nel celebrare quegli eroi che "sciolsero i duri legami della terra per toccare il volto di Dio". (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records/Art as Catharsis - 2015/2021)
Voto: 80

https://welostthesea.bandcamp.com/album/departure-songs

domenica 6 febbraio 2022

Mona Kazu – Steel Your Nerves

#PER CHI AMA: Dark/Post Wave
Esce per il trittico Falls Avalanche Records/Urgence Disk/Atypeek Music il nuovo album di questo ottimo duo transalpino e vista la generosità della proposta, possiamo dire che il salto quantico dei Mona Kazu è avvenuto nel migliore dei modi e assolutamente in una forma splendente, luminosa, quasi accecante. L'evoluzione è impressionante, la voce di Priscilla Roy è divenuta possente, autoritaria, sognante, tesa, inquietante, protagonista e, brano dopo brano, si snoda tra i richiami canori di vocalist strepitosi e diversi tra loro, come Bet Gibbons o Kim Gordon, oppure, per la sua estensione vocale Ann–Mari Edvardsen dei mitici The 3rd and the Mortals o Rachel Davies degli Esben and the Witch. Ad una gran voce va equiparata una solida e credibile musica, che faccia incetta di tutto il background di una band che è in attività da più di un decennio e che sperimenta da sempre con generi opposti tra loro, trip hop, post punk, elettronica, rock alternativo e jazz d'avanguardia che, uniti solo per attitudine vocale e non per stile musicale, alle atmosfere cupe degli Avatarium (quelle più acustiche) della magica Jennie–Ann Smith, formano l'attraente stato sonoro degli attuali Mona Kazu. Aggiungete un velo mistico nel ricordo della compianta Andrea Haugen (Aghast/Hagalaz' Runedance) e avrete un quadro completo su cui valutare un'opera splendida, che dovrebbe essere osannata da tutti i cultori di musica alternativa. Un disco maturo e adulto che proietta la band in un emisfero magico, surreale, un altro mondo sonoro, etereo, riflessivo, affascinante. Franck Lafay che si occupa della musica ed è l'altra parte del gruppo. Da sempre i Mona Kazu si presentano come duo, ma questa volta si sono avvalsi anche della collaborazione esterna del bravo batterista/percussionista, Règis Boulard. Per il resto, l'ottimo mastering di Mathieu Monnot (Eyemat), ha consolidato la formula sonora perfetta per questo mix di generi, districandosi alla perfezione, tra bassi profondi, suono cameristico, post rock, teatralità e avanguardia, forgiando la variegata anima sonora di un album dal cuore dark, che in ogni sua canzone lascia senza respiro l'ascoltatore. Che i Mona Kazu avessero ottime qualità era indubbio da tempo, ma questo nuovo lavoro supera tutte le aspettative. Difficile trovare la miglior canzone, forse l'oscurità di "Birds" o il riff alla Sonic Youth di "Porto Twins" con la sua evoluzione trip hop ed il fantastico intermezzo avantgarde jazz, il buio romantico e futurista di "Troubles" che nel suo progredire riporta alla mente la natura musicale classica, drammatica e teatrale de "La Tristesses de la Lune", il brano dei Celtic Frost. Il fatto è che questa coppia di musicisti è riuscita a creare un vero e proprio capolavoro, una scatola magica di suoni e stili rimescolati tra loro in maniera magistrale, senza rinunciare al taglio underground, esaltando e innalzando le proprie qualità alla massima potenza espressiva, dando vita ad un album imperdibile che considero, a tutti gli effetti, una delle migliori uscite del 2021. (Bob Stoner)

(Falls Avalanche Records/Urgence Disk/Atypeek Music - 2021)
Voto: 88

https://fallsavalancherecords.bandcamp.com/album/steel-your-nerves

domenica 30 gennaio 2022

Soundscapism Inc. - Afterglow of Ashes

#PER CHI AMA: Progressive/Post Rock
Tornano sulle pagine del Pozzo i Soundscapism Inc., band di Bruno A. che seguiamo ormai dai suoi esordi. Nuovo album edito sempre dalla Ethereal Sound Works intitolato 'Afterglow of Ashes' e solito tuffo nell'immaginario post rock dell'artista portoghese trapiantatosi a Berlino. Sempre un fottio i pezzi a disposizione, dodici per l'occasione, includendo anche una bonus track, la versione unplugged di "Kopfkino", registrata live nel 2018 e che vede il featuring di Usama Siddiq a voce e chitarra ritmica. Il disco apre con le accattivanti melodie di "Nosedive" e come sempre è la commistione tra post rock cinematico e dreamgaze a farla da padrone, con le vocals relegate a pure e semplici spoken words. Melodia e prog rock a braccetto cosi come piace a Bruno e a tutti i fan della band che vedono anche in questo disco la comparsa di un paio di guest star, Tobias Umbach al piano e organo in una manciata di pezzi e Manuel Costa come bassista dalla seconda alla decima traccia. Nel frattempo il disco prosegue in modo scorrevole la sua corsa, tra intime ed eleganti melodie strumentali ("Revolutions per Minute"), seducenti parti acustiche (ascoltatevi l'intro di "Bone Without a Dog") che con un quantitativo importante di synth, dipingono splendidi paesaggi campestri. E qui forse risiede il problema di questa release, non nello spennellare armonici panorami, ma nell'essere troppo ordinario, non ci sono slanci di originalità, non c'è punto in cui le mie previsioni siano smentite da qualcosa fuori dagli schemi. Mettiamo in chiaro che Bruno è un ottimo musicista, ha buon gusto per le melodie dal piglio malinconico ("Reflect Deflect Collect"), per le suggestioni rock progressive imbevute di elettronica ("Neon Smile", con quel suo incipit alla Muse di "Algorithm") o semplicemente richiamanti i bei tempi andati ("Eartshine", dove finalmente fa la sua comparsa la voce di Bruno), ma manca decisamente ancora qualcosa che sconquassi l'ascolto, catalizzi l'attenzione e renda un album discreto davvero una bomba. Alla fine quelli contenuti in 'Afterglow of Ashes' sono quasi tutti buoni pezzi (non ho realmente apprezzato le conclusive "Vicodin Wonderland" e "All Sad & Done", troppo fiacche per i miei gusti), con un vocalist al 100% però lasciatemi dire che avrebbero reso molto ma molto di più. (Francesco Scarci)

giovedì 27 gennaio 2022

Maybeshewill - No Feeling is Final

#PER CHI AMA: Post Rock Cinematico
Stranamente, non c'è solo la Bird's Robe Records dietro alla release degli inglesi Maybeshewill, forse perchè sono inglesi, o forse perchè 'No Feeling is Final' è un nuovo album, fatto sta che qui si propone quel post rock strumentale che è tanto nelle corde della label australiana, qui in cooperazione con la The Robot Needs Home Collective, la Wax Bodega e la New Noise. Un pacchetto di etichette per supportare la nuova release di questa band originaria di Leicester che fa valere la propria classe già dall'opener "We've Arrived at the Burning Building", un condensato emozionale di post rock sofisticato, evocativo, malinconico e sinfonico, con quella sua brillante miscela di suoni rock combinati ad arte con strumenti ad arco. Una melodia che sembra provenire dall'estremo oriente è quella che apre "Zarah" e poi un riffing teso che mi ha evocato quasi i Dark Tranquillity più melodici. Un passaggio breve in effetti, spezzato poi dalle spoken words di una gentil donzella e da una melodia cinematica che ci accarezzerà per tutto l'ascolto di questo lavoro straordinario, uno dei migliori in ambito post rock dello scorso anno. Splendidi gli archi di "Complicity", struggente e catartica. Ancora meglio la tiepida melodia di "Invincible Summer", una colonna sonora atta a farci sognare ad occhi aperti, mentre in sottofondo il rock si miscela a progressioni di natura ambient. Il flusso musicale sembra comunque seguire un suo filo logico, quasi una successione di immagini di violenza, calma e devastazione, in cui incanalare la verve più o meno energetica della band, che in 'No Feeling is Final' vuole trasmettere un messaggio di solidarietà per il mondo che si sta avviando, non troppo lentamente, verso l'autodistruzione, un messaggio che nasce da una potente forma di frustrazione. I pezzi proseguono con grande disciplina e caratura tecnica: in "Refuturing" vede addirittura la comparsa di un sax, in un pezzo pazzesco, mentre "Green Unpleasant Land" ammicca ad un certo neo classic folk celtico con sofisticazioni elettroniche ed un roboante finale di chitarre che ergono un muro quasi invalicabile di suoni. Questo è l'acme del disco, da qui le acque sembrano calmarsi e fluire un po' più serenamente verso il timido finale pianistico di "Tomorrow". Nel mentre, mi raccomando non fatevi ingannare dal nefasto riffing che chiude "Even Tide", una vera bomba per un super disco. (Francesco Scarci)

(The Robot Needs Home Collective/Wax Bodega/New Noise/Bird's Robe Records - 2021)
Voto: 84

https://mybshwll.bandcamp.com/album/no-feeling-is-final

mercoledì 26 gennaio 2022

Echotide - Into the Half Light

#PER CHI AMA: Post Rock Cinematico
Arrivano da Brisbane (Australia) questi Echotide con un lavoro uscito originariamente nel 2017 e riproposto ad inizio di quest'anno dalla Bird's Robe Records. E con loro, trema la Terra. Soffonde l’energia. Dilaga il caos. Vibra nell’oscurità questo suono macellato dall’attesa ed improvviso nella spinta dalla propulsione ritmica. Cosi si apre l’iniziale "Into the Half Light" che ruggisce sbranando ed accarezzando senza posa. Brividi metallici e carezze ridondanti, ipnotizzano con quel sound votato ad un post rock emozionale. Cicuta e zucchero per volontari sinestesici. Incalza la voce silente del suono, afferra la gola quel suo gioco iperbolico. Non sarò io a raccontavi l’epilogo. Ogni racconto apre mente e sensorialità. Siete liberi. Lo dobbiamo essere. Abbiamo appena cominciato a percorrere l’ossimoro suadente del paradiso infernale quando si dipana "Another Road". La seconda traccia si presenta assai affine con l’esordio dell’album. Non ci separiamo dalle acque pericolose in cui Ulisse ha lottato con le sirene. Un sonoro assoluto, strumentale, elettrificato a dovere che non evolve, non cerca il funambolico, semplicemente lascia interpretare lungamente riflessioni e corde su cui camminare tra notte e buio. Cambia lo stato dell’anima istantaneamente con "Her Back to the Sun". Incalzante. Cinematica. Una colonna sonora che non delude. Semplicemente un ottimo prologo ad un film quotidiano da intenditori del genere dark ambient. Veniamo a "Cracks in the Wall of a Tempory Home". Musicale. Un tinnuolo che racconta improvvisazione meditativa a lungo sperata. Il pezzo poi si apre come un calice di vino aspettato e lento nell’ossigenarsi. Cambiamenti dinamici organolettici nell’accorpare sonorità. Sino a che le metafore smettono i propri disegni per accordare suoni graffianti, spasmodici, rimbombanti e delicati. Un multipolarismo in musica. Da "Illumina" traspaiono invece velature dagli accordi cementati, prossimità leggermente descritte da suoni satellitari, rivisitazioni di coscienza e deliri lenti includenti, riflessioni tra le parole della musica ed il silenzio delle parole. Mi interessa molto questa "New Beacons Cast to Old Horizons". Oscura. Invasiva. Vibrante. Intelleggibile. Una traccia in cui il panico si sente dal primo secondo. Un muoversi di intrecci in cui si può andare oltre l’oscurità per trovare la luce. Un climax scomposto e pregiato in cui perdersi senza bussola perché è la traccia stessa ad essere la stella polare. Il nostro viaggio termina, ma non finisce, con "No Soch Thing as Monster". Come ogni viaggio la nostalgia fa da sposa. Eppure il matrimonio con l’album è presente in ogni traccia. Vi lascio con parole lente, epidermiche, lentamente scolpite nella roccia dell’ascolto multisensoriale. Così come lo è stato questo album per me. (Silvia Comencini)

(Bird's Robe Records - 2017/2022)
Voto: 75

https://echotide.bandcamp.com/album/into-the-half-light

sabato 8 gennaio 2022

Sleepmakeswaves - Live at the Metro

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
Non amo particolarmente gli album dal vivo, figurarsi poi di un lavoro interamente strumentale. Tuttavia, riflettendoci bene sopra, quella live potrebbe essere la sede che meglio si adatta a proposte di questo tipo, per gustare in modo più diretto il feeling che la band vuole emanare direttamente ai suoi fan. E la band di oggi, gli australiani Sleepmakeswaves, non sono proprio gli ultimi sprovveduti, essendo tra le realtà più interessanti della scena post rock mondiale. 'Live at the Metro' poi cattura un concerto tenutosi a casa loro, a Sydney, al Metro Theatre nel 2015 e prova con la sola musica, a farci immaginare le vibrazioni, l'atmosfera e l'energia di quella che deve essere stata una magica notte. Nove i pezzi proposti dai nostri, che già un paio di volte abbiamo recensito su queste stesse pagine. Largo alla quindi musica di "In Limbs and Joints" ad aprire questo lavoro che rientra tra i dischi da riscoprire per l'etichetta Bird's Robe Records. L'interazione col pubblico aiuta immediatamente a calarsi nella dimensione live, il resto lo fa una musica cangiante che si muove tra il post rock intimista e malinconico dell'opening track, con i suoi riverberi chitarristici, le sue mutevoli percussioni e la successiva e deflagrante, almeno inizialmente, "Traced in Constellations". Poi spazio a frangenti shoegaze, progressive, chiaroscuri mai stucchevoli ma anzi di grande impatto emotivo, splendide melodie che ci accompagneranno fino alla conclusiva "A Gaze Blank and Pitiless as the Sun". In mezzo grandi pezzi, dai singoli "Great Northern" e "Something Like Avalanches" che quasi non meritano nemmeno menzione (eppure andatevi ad ascoltare il pianoforte introduttivo della prima con quei suoi ritmi quasi esotici), o il cinematico sound della robusta "How We Built the Ocean", un trip fatto di suoni catartici, post rock o semplicemente rock (mi sembra addirittura di scorgere un riffing che richiama gli U2 ad un certo punto), che alla fine esibiscono tutte le qualità, emotive e tecnico-strumentali, di un ensemble costituito da ottimi musicisti, che possono anche fare a meno di un vocalist per piacermi. E allora fidatevi del sottoscritto, ma soprattutto fidatevi degli Sleepmakeswaves e del loro sound vibrante ed eclettico che avrà ancora modo di stupirvi con l'imprevedibilità di "Perfect Detonator" o la forza di "Emergent". (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2015/2021)
Voto: 76

https://sleepmakeswaves.bandcamp.com/album/live-at-the-metro

lunedì 3 gennaio 2022

Tangled Thoughts of Leaving - Deaden the Fields

#PER CHI AMA: Experimental/Avantgarde/Prog
Siamo nel 2022 e io sono ancora qui con una tonnellata di dischi della Bird's Robe Records sulla scrivania. Non sono ancora riuscito a smaltire il carico di vecchie release riproposte dalla label australiana. Oggi è il turno dei Tangled Thoughts of Leaving e di 'Deaden the Fields', album d'esordio uscito nel 2011 e ristampato nel 2021 in occasione del più volte celebrato, compleanno dell'etichetta di Sydney. Tuttavia i Tangled Thoughts of Leaving li conosciamo già avendoli, peraltro proprio il sottoscritto, recensiti in occasione della terza release 'No Tether' e quella loro esplorazione del post metal, venato di sonorità doom/jazz e progressive, il tutto proposto rigorosamente in forma strumentale. Diamo comunque un ascolto attento anche agli esordi del quartetto di Perth che apre il disco con l'ambiziosa e ubriacante "Landmarks" che vi stupirà con i suoi 17 minuti di saliscendi emozionali tra puro avanguardismo sonoro, post rock e progressive che cedono a derive jazzistiche, forti peraltro di una perizia tecnica di altissimo livello e grande gusto. Lasciatevi ipnotizzare quindi dal pianoforte delirante della band, dalle trombe e da qualunque altra trovata inclusa in questi lunghi minuti introduttivi. Il resto del disco credo non necessiti di ulteriori specifiche, perchè quello che avevo sentito e apprezzato in 'No Tether', trova sostanzialmente riscontro anche alle origini di una band dotata di grande creatività ed enorme personalità che si concretizzano nelle psichedeliche e ubriacanti note di "Throw Us to the Wind" dove nulla è lasciato al caso, sebbene la sensazione forte sia quella di una grande jam session tra musicisti di grande calibro. Il risultato ancora una volte è di grande spessore, nonostante l'assenza di un cantore che piloti al meglio l'ascolto. Ma qui sono convinto non sia strettamente necessario, tanta la qualità e la quantità dei suoni che convergono verso un punto univoco nell'Universo dei Tangled. Il gioco di luci e ombre prosegue anche nella più breve e riflessiva "...And Sever Us From the Present", dove è ancora il pianoforte a guidare il flusso musical-emozionale dei nostri. "Deep Rivers Run Quiet" ha un incipit ancora delicato che va via via gonfiandosi attraverso il dualismo tra un meraviglioso e malinconico piano ed un più marcato riffing di chitarra che attraverso passaggi di pink floydiana memoria, ci condurrà alla successiva title track, che riassume in poco più di sei minuti l'architettura pensante dei Tangled Thoughts of Leaving, attraverso onirici e fascinosi paesaggi sonori. La chiusura del disco è affidata poi alla lunga (altri 14 minuti) e sperimentale (tra elettronica, ambient, prog e noise) "They Found My Skull in the Nest of a Bird", che fuga ogni dubbio sulla genialità di questi mostruosi musicisti australiani che dal 2011 ad oggi, hanno rilasciato solo piccoli gioielli musicali, che dovrete a tutti i costi, fare vostri. Portentosi. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2011/2021)
Voto: 78

https://ttol.bandcamp.com/album/deaden-the-fields

domenica 2 gennaio 2022

Orsak:Oslo - Skimmer / Vemod

#PER CHI AMA: Post/Kraut Rock
'Skimmer' e 'Vemod' sono due EP usciti rispettivamente in formato digitale a giugno 2020 e a dicembre 2021. La label tedesca Kapitän Platte ha pensato bene di prendere i due dischetti e schiaffarli su supporto fisico (vinile e cd) e darceli in pasto. Noi eravamo rimasti al loro album omonimo nel 2019 e quindi aspettavamo con un certo interesse una nuova uscita del quartetto norvegese-svedese, dato il positivissimo feedback sul precedente lavoro. Eccoci dunque accontentati con sei pezzi che propongono il classico sound post rock strumentale della band scandinava, sempre e comunque a cavallo con certa psichedelia e il kraut rock. A differenza del mio buon vecchio collega però, che osannava in un certo senso il sound dei nostri, io in tutta franchezza, non mi sento di dire che la proposta dei quattro musicisti sia cosi imprescindibile. Di album di questo genere, per quanto questo sia davvero ben suonato, ne sento e recensisco a bizzeffe, basti pensare a tutta la produzione Bird's Robe Records. Gli Orsak:Oslo alla fine non inventano nulla di nuovo, ci prendono per mano con il loro sound riflessivo ("Passage"), rilassante ("Skimmer"), estremamente atmosferico tra l'acustico e il graffiante ("Cloudburst"), l'ipnotico ("Vemod"), il pulsante ("Mod America", tra l'altro il mio brano preferito) e ancora quella proposta a metà strada tra post punk e post rock, guidato sempre da un'ispiratissima chitarra che per tutto il disco si prende la scena. 'Skimmer / Vemod' alla fine ci consegna una mezz'ora abbondante di suoni piacevoli, ma che non mi sento cosi propenso a rubare con gli occhi. (Francesco Scarci)

mercoledì 15 dicembre 2021

Ikitan - Darvaza y Brinicle

#PER CHI AMA: Post Metal/Heavy Strumentale
Gli Ikitan sono un power trio originario di Genova, dedito ad un heavy post-metal strumentale. Usciti giusto un anno fa con un EP, 'Twenty Twenty', contenente un unico monolitico brano di poco più di 20 minuti, i nostri tornano con una tape contenente due nuovi brani dai titoli quanto meno insoliti. "Darvaza" e "Brinicle" rappresentano infatti due stranezze del nostro mondo: il primo è un cratere di gas naturale collassato in una caverna nella località di Darvaza, in Turkmenistan, detta anche Porta dell'Inferno. Il secondo rappresenta invece un fenomeno che avviene nelle profondità degli oceani antartici dove, dall'incontro tra una massa d'acqua salata molto fredda con dell'acqua più calda sotto la superficie dei ghiacci, si forma una sorta di raggio ghiacciato sottomarino. Due fenomeni cosi stravaganti necessiterebbero di musica altrettanto stravagante, cosa che di fatto quella degli Ikitan purtroppo non è. I due pezzi si muovono infatti nei pressi di un post metal/rock non troppo originale. Le chitarre sono solide e robuste, la melodia sicuramente gradevole, ma il terzetto non inventa nulla di trascendentale anche laddove compaiono rallentamenti di tooliana memoria nel primo dei due pezzi, che si muove in un saliscendi emozionale sicuramente intrigante. La seconda song inizia più in sordina, con un bel giro di basso e chitarra, che evolve in un brano dal sapore quasi progressive, ma che comunque mantiene intatto quello spirito veemente e guardingo tipico dei nostri, soprattutto nella ispirata coda finale. Due pezzi sono però un po' poco per giudicare appieno le qualità di una band su cui non ho nulla da eccepire da un punto di vista tecnico. Tuttavia, preferisco tenermi bassino con il voto, giusto per non portarvi a fare voli pindarci sui contenuti dei due nuovi brani, peraltro rilasciati in cassetta. Ora mi aspetto qualcosa di più lungo e strutturato da parte degli Ikitan, per poter meglio assaporare la proposta della band italica. (Francesco Scarci)

lunedì 6 dicembre 2021

Hope Drone - Husk

#PER CHI AMA: Post Black/Sludge
Dopo un silenzio durato poco più di due anni, tornano gli australiani Hope Drone con un EP nuovo di zecca, uscito esclusivamente in formato digitale, che peccato. 'Husk' serve però a tastare il polso del quartetto di Brisbane, dopo quest'ultimo periodo alquanto complicato. Quattro i pezzi a disposizione dei nostri per saggiarne lo stato di forma e devo ammettere che l'incipit affidato a "Inexorable" fuga immediatamente ogni dubbio sul fatto che i nostri siano pimpanti più che mai con il loro classico vortice sonoro che ingloba nelle proprie note post black e post rock, il tutto immerso in uno strato melmoso, quello dello sludge ovviamente. E il risultato è davvero avvincente con suoni grossi, violenti, melodici, catartici e appassionanti nel loro incedere veemente. La successiva title track parte su di una base percussiva ipnotica, a cui pian piano si aggiungeranno gli altri strumenti, per ultima la voce, in un crescendo sonoro ed emozionale da brividi, quasi fossimo sull'orlo del precipizio, con la testa che gira a causa delle vertigini, e la musica è rappresentata da un ritmo marziale pronto a deflagrare in qualsiasi momento, ma comunque fin qui a rendere tesa e surreale un'atmosfera che rimarrà tuttavia tale per tutti i suoi sette minuti e mezzo di durata. Devastante invece "Existere", quasi a volersi rifare della mancata devastazione nel secondo brano. E i nostri ci riescono alla grande con un blast beat furente interrotto qua e là da break atmosferici o da rallentamenti al cardiopalmo, il tutto cosi intriso di malinconia che mi fa disperare nell'anima. Chiusura invece affidata alla lunga "Dwell", oltre 10 minuti di sonorità che ammiccano inequivocabilmente a post metal e sludge, con una spaventosa parte centrale apice di un black metal roboante ed evocativo, prima di un dronico e spettrale finale che ci conferma quanto gli Hope Drone siano realmente in palla. Notevoli. (Francesco Scarci)

giovedì 25 novembre 2021

Hazards of Swimming Naked - Our Lines are Down

#PER CHI AMA: Post Rock
Siamo ormai agli sgoccioli con le ristampe dell'australiana Bird's Robe Records a festeggiare il proprio compleanno. La scelta di quest'oggi ricade sugli Hazards of Swimming Naked, band strumentale di Brisbane che abbiamo avuto già modo di conoscere nel 2018, in occasione dell'uscita del loro secondo 'Take Great Joy'. L'album di oggi, 'Our Lines are Down', va molto più indietro nel tempo, riportandoci al 2009, quando appunto uscì questo debut album. Pur essendo più vecchio di 'Take Great Joy' di ben nove anni, questa release mi sembra decisamente migliore, miscelando robusti suoni post rock (e l'iniziale "Requiem" conferma questa mia affermazione) di scuola Mono con sonorità più cinematiche, delicate e sensuali che ammiccano ai Godspeed You! Black Emperor. In questo caso, è la lunga e vellutata "I'm a Friend of Edward J Stevens" a corroborare la mia tesi con una proposta onirica, votata completamente al post rock tra delay, riverberi e lunghe fughe melodiche, dove tutto è al posto giusto, e a mancare è al solito, una bella voce che faccia da Cicerone al nostro ascolto. L'intero lavoro si muove lungo queste coordinate anche nei successivi pezzi, dove evidenzierei l'inquietudine che si respira in "Sparks Fly", che prova a infilare nel loro flusso musicale anche un che di math rock. Se "Sveta Pače" è più un interludio ambient tra due brani che vede però la partecipazione di Berndt Vandervelt e Karin Gislasdottir, ho trovato "...And a Whole Assortment of Uppers and Downers" molto più godibile nelle sue lisergiche trovate strumentali e anche più varia, forse per la presenza di una voce parlata a spezzare la monoliticità dei suoni. Ideare dischi privi di un vocalist non è infatti cosa semplice e rischiare di annoiarsi è una delle possibilità più facili in cui incorrere. Il quintetto australiano è però abile nel saper tenere la barra sempre alta, con una prova maiuscola ed elegante. Ovviamente non sempre ci si riesce, e forse la noiosetta "Dreams Don't Come True, That's Why We Dream" ne è la prova concreta. Tuttavia i nostri ci provano in tutti i modi a catturare l'attenzione, addirittura nella scelta dei titoli dei brani: "Don't Cry for Me, Dario Argento" mi tiene infatti incollato allo stereo semplicemente perchè curioso di cogliere se c'è un qualche tributo al nostro visionario regista dell'horror e volendo, lo si può immaginare in una ricerca di sonorità un po' più orrorifiche e inquietanti. Gli Hazards of Swimming Naked alla fine non inventano niente di nuovo e non aggiungono nulla al genere, ma da ottimi strumentisti quali sono, fanno di tutto per tenerci incollati ai loro pezzi, quasi siano vogliano compiere una magia all'interno del loro flusso musicale che però mai si avvererà. Le ultime due citazioni del disco vanno alla più roboante "Aabar Dakhe Habe", un pezzo molto solido che sembra prendere le distanze dagli altri e l'intimista "Kip Keino", una sorta di cortometraggio in bianco e nero, tributo all'ex mezzofondista e siepista keniota Kipchoge Keino. Insomma, 'Our Lines are Down' è un lavoro che merita di trovare un posto nello scaffale di ogni amante del post rock. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2009/2021)
Voto: 75

https://hazardsofswimmingnaked.com.au/album/our-lines-are-down

lunedì 22 novembre 2021

Clayhands - Is this Yes?

#PER CHI AMA: Cinematic Post Rock
Dove c'è Barilla c'è casa, citava un famoso spot televisivo di parecchi anni fa. Parafrasando quel jingle, mi viene da dire che dove c'è Bird's Robe Records, c'è post rock. Quindi, per gli amanti di queste sonorità, eccovi servito il nuovo lavoro degli australiani Clayhands, combo originario di Sydney che è uscito all'inizio di novembre con questo 'Is this Yes?', ambizioso album di cinematico post rock, come da flyer informativo annesso al cd. Partendo da un caleidoscopico artwork di copertina che, per colori e forme richiama i King Crimson, i nostri proseguono in modo altrettanto coerente con un sound assai delicato che potrebbe inglobare al suo interno sfumature progressive, jazz, ambient, improvvisazione pura, musica da colonna sonora e tanto tanto altro, il tutto suonato in modo a dir poco celestiale. Questo almeno quanto percepito dalle colorate note dell'opener "Godolphin" e confermato poi dai tocchi malinconici ma cangianti della successiva "Orchid", dove sottolinerei l'ottima performance di ogni singolo musicista e il gran gusto per le melodie. "Murking" si muove in territori ancor più alternativi, vuoi per un sound molto più ricercato, vuoi per l'utilizzo di strumenti a fiato, non proprio consoni al genere, ma il brano alla fine, nelle sue strambe circonvoluzioni, si lascia ascoltare piacevolmente. Ben più sfocate le immagini prodotte inizialmente da "The Boy Left", prima che la song trovi una sua direzione un po' più definita ma comunque fuori dai soliti schemi post rock, con melodie a tratti dissonanti ma che comunque in questo contesto, donano grande originalità al tutto. Peccato solo manchi una voce a far da Cicerone a questa produzione, perchè con un cantante dalla calda ugola suadente o evocativa, credo che quest'album avrebbe meritato un risultato ancor più esaltante. E allora lasciatevi andare, fatevi avvolgere dalle melodie eteree dei Clayhands, dalla loro impressionante e incessante voglia di stupire con suoni che tra le proprie influenze inglobano ancora Pink Floyd, Shels, i già citati King Crimson, gli Yes e molti altri a dare garanzia di una qualità compositiva davvero eccelsa. È chiaro che 'Is this Yes?' non sia un lavoro cosi semplice da digerire, complice un'architettura sonora ben strutturata e pezzi anche dalla durata notevole: "Polars" supera gli otto minuti mentre la conclusiva "Playgrounds" sfiora i 15, proponendo in questo frangente temporale quanto di meglio i nostri hanno offerto sin qui. Chitarre liquide, incorporee che prendono lentamente forma e si lanciano in sofisticate e magnetiche fughe strumentali da lasciare a bocca aperta. Spettacolari, non c' altro da dire. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2021)
Voto: 80

https://birdsrobe.bandcamp.com/album/is-this-yes

lunedì 1 novembre 2021

Seims - Four

#PER CHI AMA: Post/Math Rock
Era il 2020 quando raccontavamo nel Pozzo di '3 + 3.1', proposta alquanto originale, a cavallo tra post e math rock, a cura degli australiani Seims. Oggi il quartetto di Sydney ritorna con un nuovo capitolo intitolato 'Four' (continuando la storia con la numerologia nei suoi titoli). Dieci nuovi brani che aprono con i tocchi fiabeschi di "The Mountain's Lullaby", song che funge da intro per la successiva "The Pursuit of Intermediate Happiness", in cui a fare la comparsa è una deliziosa sezione di archi (violoncello e violino) ed un crescendo che mantiene un'analogia strumentale nei suoi suoni, in un filo conduttore che sembra voler narrare una storia. Una storia che tuttavia non trova una continuità stilistica con la successiva "Showdown Without a Victim", che cambiando registro, mostra una visione psichedelica dei nostri sorretta comunque da una roboante sezione ritmica dove ci sembra di immaginare un soggetto in fuga da un intricato dedalo di suoni, con un'alternanza ritmica che comunque riconduce sempre all'iniziale emozione generata. Da un punto di vista strumentale, il brano restituisce una serenità emotiva che stempera l'incalzante emozionalità del brano. "Shouting at a Brick Wall" crea invece un senso di attesa con quel suo iniziale giro di chitarra, che non tarda comunque ad arrivare, esplodendo infatti in una ritmica dall'elegante sapore punk math rock, in una proposta musicale che spinge al continuo movimento (grazie anche ad un splendido assolo di violino) fino al suo improvviso ed inatteso arresto. L'inizio ipnotico "Stranded. Isolated" potrebbe tranquillamente collocarsi nella colonna sonora di 'Blade Runner' grazie ai suoi synth che cederanno presto il passo ad un avanzare cibernetico che trova un punto di svolta a metà brano, laddove troviamo un cambio quasi radicale della proposta iniziale. Il brano però non sembra filare nel modo corretto e alla fine dell'ascolto, il risultato sembrerà quasi inconcludente, non catturando completamente l'attenzione dell'ascoltatore, forse per un eccesso di stili e cambi di registro. "Elegance Over Confidence" ha un esordio decisamente più convincente, evocando un che degli Archive, in uno stralunato climax ascendente sottolineato da un'esplosiva prova della batteria (qui molto jazzy) e da una melodia guidata da nevrotici giri di chitarra in grado di tenere costante quel senso galvanizzante innescato. Ancora un muro di synth per "Biting Tongues", l'unica song insieme a "The Mountain's Scream", dove fa la comparsa la voce (tuttavia un po' sottotono) di Simeon Bartholomew accanto ad un riverberato ed esplosivo giro di chitarre. Intro cinematografico per "Nuance Lost in Translation", dai tratti un po' burberi nella parte iniziale prima di sfociare in un sound dai lineamenti orchestrali e orientaleggianti davvero entusiasmanti. "Understatement" è un pezzo arpeggiato che sembra fungere da ponte per la conclusiva "The Mountain's Scream". Dopo un inizio marziale, la traccia evolve grazie ad un tremolo picking sorretto da uno stravagante apporto corale, in una caleidoscopica alternanza di stili ed emozioni che chiudono degnamente questo quarto capitolo targato Seims. (Francesco Scarci/Ilaria de Ruggiero)

(Art As Catharsis/Bird's Robe Records - 2021)
Voto: 75

https://store.seims.net/album/four

domenica 31 ottobre 2021

Solkyri - No House

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
Già recensiti su queste stesse pagine con il loro ultimo 'Mount Pleasant', riscopriamo attraverso la Bird's Robe Records, quello che fu il debut EP degli australiani Solkyri. 'No House' uscì infatti nel febbraio 2011 e l'etichetta australiana, per celebrarne i 10 anni di vita, ripropone quest'uscita in collaborazione con la Dunk Records in un vinile da 180g. Il dischetto consta di sei tracce con le danze che si aprono con le note soffuse di "Zee Germans", un pezzo in cui a mettersi in evidenza è una malinconica tromba che porta però ad un crescendo inconcludente del brano. Si passa quindi a "Court-A", dotata di una melodia che potrebbe costituire più un blando sottofondo musicale. Le atmosfere si presentano sognanti per l'assolo di un flauto che guida l'ascolto per buona parte del brano e che lentamente va a crescere di portata ritmica e in misura direttamente proporzionale anche di interesse, fino a creare una bolla caotica, disinnescata dalla tenue presenza di pianoforte e flauto che vanno a chiudere il pezzo. Con "This Can't Wait" si parte meglio con suoni più accattivanti e un crescendo più rapido rispetto alla traccia precedente. Lo stile si mantiene comunque morbido nei pressi di un arioso post-rock, tuttavia manca sempre qualcosa, indovinate un po' voi? Eh già, una voce avrebbe enfatizzato l'aspetto emozionale dell'ascolto, anche nei momenti più aggressivi del brano. Un nostalgico pianoforte apre "Strangers", a cui si accompagna l'onnipresente (e spesso fastidioso) flauto e anche degli archi che conferiscono una cinematicità all'intero lunghissimo pezzo, ma di contro anche una certa monoliticità che rende pertanto statico l'ascolto. I dieci minuti del pezzo rischiano alla fine di tediare, visto che la proposta del quartetto di Sydney fatica a prendere il volo almeno fino al settimo minuto, quando con una ritmica più movimentata (e pure intricata), rompe finalmente gli indugi di quella quasi esasperante staticità iniziale del brano. Arriviamo nel frattempo a "Young Man, You Will Die of this Company", una song che potrebbe evocare gli *Shels di 'Plains of the Purple Buffalo', che sembra preparatoria ad un qualcosa che in realtà non arriverà mai. Con la conclusiva "Slowly, We Take Steps (Astronauts)", si torna a percorrere la strada della malinconia con un sound cinematico quasi volto a richiamare le soavi note del Maestro Morricone, in un ultimo atto che chiude quest'opera prima, forse ancora un po' acerba, degli australiani Solkyri. (Francesco Scarci/Ilaria de Ruggiero)

(Bird's Robe Records/Dunk Records! - 2011/2021)
Voto: 63

https://solkyri.bandcamp.com/album/no-house