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mercoledì 24 aprile 2019

Julie's Haircut - The Wildlife Variations

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Psych/Kraut-rock
Un motorik insistentemente cosmico (scuola krautrock, Faust, Neu!) che sfreccia supersonico attraverso scintillanti nebulose costituite da dietilamide di acido lisergico. "Dark Leopards of the Moon". Una bucolica ballata sydbarrettiana autodissolventesi, arricchita di elettronica analogica, come potrebbe escogitarla un Beck Campbell di ritorno da un concerto dei Notwist. "Johannes". Tinte notturne e incombenti (Tindersticks, Chris Isaak, Apollo 440), una specie di trip-hop inverno-solstiziale. "Bonfire". Un calypso automatico eppure evolutivo, un elementare giro di basso e percussioni, e poi altro ancora. Forse un matrimonio chimico di suoni. "The Marriage of Sun and the Moon". Le quattro composizioni dell'EP 'The Wildlife Variations' risultano ancora una volta ecletticamente aromatiche ma per questo non meno intriganti, in totale continuità con la rivoluzione psych-prog già intrapresa con 'After Dark, My Sweet" nel 2006 e ultimata nel 2009 col magniloquente 'Our Secret Ceremony'. A centro pure stavolta, in estrema sintesi. (Alberto Calorosi)

(Woodworm/Trovarobato - 2012)
Voto: 78

http://www.julieshaircut.com/

lunedì 18 febbraio 2019

Space Aliens From Outer Space - Nebulosity

#PER CHI AMA: Kraut Rock/Progressive
Un astrofisico statunitense nel 1961 formulò un’equazione per determinare il numero di civiltà extraterrestri presenti nella Via Lattea in grado di comunicare, poco più di un simpatico esercizio matematico che non tiene conto di una considerazione fondamentale: è molto difficile che degli alieni avvertano il bisogno di parlarci, a meno che non vogliano tentare la masochistica impresa di salvarci dall’autodistruzione. 

A Torino, vertice di geometrie esoteriche e infrastrutturali, l’improbabile si è trasformato in realtà quando dei missionari cosmici, gli Space Aliens From Outer Space, hanno deciso di atterrarvi per portare il loro“messaggio di luce” alla nostra triste umanità, un tentativo di primo contatto che giunge al suo quarto stadio con 'Nebulosity', album firmato dall’etichetta nostrana Escape From Today e dalla belga Cheap Satanism. 

Il progetto è un mix di rock psichedelico, progressive rock ed elettronica, a metà strada tra la synth-wave e le colonne sonore di John Carpenter, il tutto efficacemente accompagnato da un’estetica sci-fi che trasforma Paul Beauchamp (Almagest!, Blind Cave Salamander, Coypu), Daniele Pagliero (Lo Dev Alm, Frammenti, All Scars Orchestra), Francesco Mulassano e la nuova arrivata dietro le pelli, Maria Mallol Moya (Gianni Giublena Rosacroce, Lame, Natura Morta) in una vera e propria delegazione proveniente dalle stelle, pronta a sconvolgere gli arretrati terrestri con abiti argentati, attrezzature futuristiche ed un sound fuori dal comune. 

L’opera si configura come il racconto di un viaggio tra gli spazi siderali che ha inizio con le maestose melodie di sintetizzatore di “Asterism”, che si snodano tra percussioni lisergiche e il pervasivo uso del vocoder di Paul, da sempre marchio di fabbrica del gruppo. La navigazione si fa decisamente più turbolenta in “Trajectory”, brano appesantito da decisi colpi di batteria e caratterizzato dagli avvolgenti tappeti di tastiera che sembrano farsi largo tra asteroidi in collisione ed esplosioni di supernove, per poi stabilizzarsi con “Entanglement”, in cui le varie componenti elettroniche della band si inseguono lungo orbite fantascientifiche, richiamando Kraftwerk e Tangerine Dream, per poi ricompattarsi nella ritmica magnetica di “Propulsion”, durante la quale i nostri quattro esploratori sembrano voler aumentare la potenza dei motori per lanciarsi nella seconda parte dell’album. 

Con “Into The Nebula” affrontiamo un brusco cambio di rotta che ci porta attraverso territori meno idilliaci, ma ogni timore viene spazzato via quando Maria Mallol inizia a maltrattare piatti e pelli in un crescendo di dinamica, operazione che si ripete anche in “The Outer Realms”, brano estremamente ritmato e ricco di variazioni in cui la nuova batterista offre una grande prova. In “Particle Horizon” l’elettronica eterea ci lascia galleggiare come particelle neutre in precario equilibrio tra forze gravitazionali contrastanti, una sorta di quiete prima della tempesta sonora di “Starchaser”, brano ispirato all’omonimo film di animazione del 1985 e quasi stoner per potenza, perfetta colonna sonora della furiosa battaglia spaziale che si consuma tra le armate dell’ennesimo tiranno planetario e le infine vittoriose forze in lotta per la libertà. 

Gli Space Aliens From Outer Space rappresentano senza dubbio un’anomalia nel panorama musicale underground, forti di coordinate musicali inusuali e di una grande cura dei dettagli, tuttavia 'Nebulosity', se da un lato valorizza il percorso sperimentale della band, dall’altro si mostra più concreto e (paradossalmente) più umano, probabilmente grazie alla scelta di contenere la durata dei pezzi senza indugiare eccessivamente in esplorazioni sonore e all’aggiunta di una batterista in carne ed ossa, in grado di ricondurre le astrazioni elettroniche a strutture e ritmiche più definite. L’ascolto risulta pertanto piacevole per tutti i quarantacinque minuti di durata e l’unica pecca potrebbe essere nell’assenza di un vero e proprio fulcro, un pezzo in grado di catalizzare l’attenzione e magari anche di strizzare l’occhio a chi non è avvezzo a queste sonorità. 

Viene quindi da chiedersi se con questo album il messaggio di Paul e compagni sia un mero invito a contemplare l’immensità del cosmo e ad omaggiare gli artisti che da questa si sono lasciati affascinare, oppure un‘esortazione ad uscire dal nostro piccolo mondo ed esplorare nuove possibilità (musicali e non), cosa non facile in un contesto storico in cui coloro che mostrano curiosità e apertura al diverso sono visti con sospetto, proprio come “alieni provenienti da un altro spazio”. (Shadowsofthesun)

(Escape From Today/Cheap Satanism - 2018)
Voto: 75

sabato 10 novembre 2018

Pavallion - Stratospheria

#PER CHI AMA: Psichedelia/Kraut Rock/Prog, Porcupine Tree
Psichedelia in tinta progressiva per questa giovane band tedesca al suo secondo album intitolato 'Stratospheria' che si riallaccia musicalmente al precedente buon lavoro del 2017. Il quartetto di Krefeld ha continuato il suo percorso sulla scia di un suono floydiano mischiato ad aperture e chiaroscuri alla Riverside e Porcupine Tree, con toni cupi e riflessivi che sfoderano atmosfere care a certe composizioni del miglior post rock dell'ultimo decennio. I Pavallion riescono a dare spessore alle loro composizioni con un'amalgama sonora sempre ben equilibrata, il canto è coinvolgente, leggero e astratto, le chitarre liquide che ricordano i mitici fraseggi malinconici di Robert Smith nei The Cure oppure le parte più melodiche e sognanti degli Isis se ci focalizziamo sul modo di utilizzo della sezione ritmica. Il nuovo album si presenta con l'iniziale "Waves", un brano dalla durata di circa dieci minuti che dona speranza grazie a quel suo incedere cristallino e alla sua diffusa sensazione di fluttuare nell'aria, una song dal taglio molto soft, ambientale e post rock, con aperture ariose e un buon cantato ed una coda finale esplosiva, in una situazione sonora dove i nostri giovani suonatori si muovono in perfetta sintonia. Anche nella lunghissima (24:37 minuti) e conclusiva terza song, "Stratospheria", che dà il titolo all'intero disco, la musica rimarca i canoni compositivi della band. Forse il brano è effettivamente molto lungo, impegnativo, pieno di divagazioni, il cantato è molto bello e intenso, in alcuni momenti la traccia prende le vie epiche e la forza degli ultimi Solstafir e da contraltare pone strutture chitarristiche, seppur rimodernate e rivisitate, col sapore vintage delle cavalcate dei migliori Big Country. Dentro questo brano c'è veramente molta roba. In realtà mi sono riservato di parlare per ultimo del brano centrale, "Monolith", di soli cinque minuti, perchè lo reputo un piccolo capolavoro, il suo passo lentissimo, la sua evoluzione, il senso di staticità, la sospensione provocata da questi accordi è fantastica e l'idea di unire il suono cristallino del prog con l'andamento lento e decadente di certo doom di classe, è stata proprio un'ottima scelta. Questa band ha tanto da dire e lo fa sempre con una buona dose di personalità. Possono vantarsi degnamente di appartenere alla categoria del Neo prog con la N maiuscola, con un disco da ascoltare più volte, che non è per tutti ma è da assaporare lentamente in tranquillità. Raccomandato l'ascolto. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2018)
Voto: 75

https://pavallion.bandcamp.com/album/stratospheria

lunedì 1 ottobre 2018

Blackberries - Disturbia

#PER CHI AMA: Kraut Rock/Psichedelia
Nel nuovo album dei tedeschi Blackberries, si manifesta una psichedelia leggera e profonda, roba d'altri tempi, scaturita e ispirata dall'esperienza fatta al leggendario Ice Cream Factory in Texas, dove i nostri hanno registrato anche il precedente, 'The Texas Tapes', una gradevole session di quattro brani. Riuscire a suonare ad Austin, ha emancipato il lato colorato ed estatico della band di Colonia, proprio come nella San Francisco di fine anni sessanta, offrendo un viaggio cosmico e intenso, verso ritmi, movenze, suoni e riverberi che resistono agli anni, con sperimentazioni intelligenti e geniali che in tempi odierni vengono spesso dimenticate dalle giovani generazioni, ignorate senza un perchè. In questo contesto, ci si può perdere tra echi di Low ai tempi dell'album 'C'Mon', l'arborescenza degli Opal, l'ipnosi ancestrale del krautrock alla Ash Ra Tempel, un velo di Tame Impala, il revival mancuniano dei primi anni novanta, Ian Brown ed i Charlatans appena nati, a volte ritmico e a suo modo anche etnico, come se ascoltassimo i Kula Shaker senza influenze indiane, il 'Sonic Flower Groove' dei primi Primal Scream, i Mercury Rev che suonano sotto il sole caldo del Texas, il lato romantico di un giovane Anton Newcombe. Un album allucinogeno, lontano dalle mode e carico di nostalgia per il passato più psichedelico ed impegnato, con messaggi e propositi, musica liquefatta, che nasconde una forte vena riflessiva, che cerca di dare una diversa visione per una possibile soluzione ai mali del mondo. Un disco che non cade mai nel plagio musicale, anzi, vive di una luminosità multicolore tutta da gustare, a suo modo perfettamente in linea con la corrente psichedelica dei tempi migliori e comunque originale, un'opera ben riuscita in questi scialbi tempi moderni che hanno dimenticato il vero significato mistico della parola psichedelia. Quindi niente stoner, doom o heavy psichedelico ma un mantra lisergico e sognante in pompa magna. Chiudete gli occhi e ascoltate 'Disturbia', lasciatevi trasportare da "High Moon", ballate al suono lunare di "Snow White Tiger" e trattenete il respiro in "Spinx I" e "II", volerete alti tra le nuvole, non avrete peso e vi sarete persi in un arcobaleno di colori inimmaginabile. Quaranta minuti di pura magia sonora. Liberate la mente ed esplorate il sogno che vi è più congeniale. (Bob Stoner)

(P&C Unique Records - 2018)
Voto: 75

https://blackberries.bandcamp.com/album/disturbia

sabato 21 luglio 2018

Love Machine - Times to Come

#PER CHI AMA: Psych/Krautrock 
Entrare nel mondo dei Love Machine è come fare un passo indietro di quasi mezzo secolo, guardare il loro look e la cover di copertina del nuovo album è tornare al tempo del "flower power", della "summer of love", della folk psichedelia acustica e di tutti quei colori fluorescenti che hanno fatto grande un'epoca musicale divenuta culto tra i '60 e i '70. Diciamo subito che la band di Düsseldorf è irresistibile, terribilmente perfetta, tremendamente a stelle e strisce, esagerata nel ricreare quelle atmosfere vintage, luminosa e abbagliante ma al contempo introversa e cupa, esattamente come un brano dei The Doors, dove rabbia, voglia di cambiamento e ribellione, uscivano da ogni nota in forma lisergica e allucinata. Capitanati da un vocalist spettacolare (Marcel Rösche) e da un sound spiazzante per il suo non essere contemporaneo, la compagine teutonica riesce a sembrare veramente una band di quell'epoca. Senza emulare o copiare i loro maestri, i Love Machine si ritagliano, in un settore quello del vintage rock, uno splendido spazio di originalità da far impallidire band come gli ottimi Church of the Cosmic Skull, con composizioni assolutamente inaspettate, mescolando rock, psichedelia, folk pastorale e il country di sopravvivenza alla Johnny Cash, unendo storie da crooner solitario alla Leonard Cohen, con un velato gusto musicale latino ed il magico spirito acido dei Jefferson Airplane, l'immancabile krautrock, un tocco hawaiano alla Elvis, quello più sperimentale, senza mai dimenticare il salmodiare del re lucertola che rende più sofisticato ed attraente l'intero 'Times to Come'. Alla loro terza prova discografica, i nostri risultano una band stratosferica, al di sopra della media, con una fantasia retrò davvero invidiabile per coerenza, stile ed un fascino incredibile nel sound e nella composizione, musica liquefatta altamente allucinogena. Un'erudizione sul genere pazzesca, un'indole oscura su note abbaglianti e luminose, aprire la mente pensando, musica stellare senza tempo, i Love Machine meritano veramente un altare a due passi dall'olimpo musicale, grazie ad un album formato da brani che sono gemme assolutamente luminose! Due i brani top, "Blue Eyes" e la velvettiana "Times to Come". Nostalgici ma geniali. (Bob Stoner)

(Unique Records - 2018)
Voto: 80

lunedì 16 luglio 2018

Ulver - The Assassination of Julius Caesar

#PER CHI AMA: Electro/Experimental
Il concept prende lentamente la forma di un inno alla decadenza ("Southern Gothic", "So Falls the World"): una generica riflessione sulla necessità umana di superominismo ("Rolling Stone") e trascendenza ("1969"). Vivere immersi in una storia circolare, acronica e spietata: un universo dove la morte di Lady Diana e il rogo di Roma ad opera di Nerone ("Nemoralia") confluiscono in un'unica locuzione temporale, il 18 di luglio, o giù di lì. Dove l'attentato a Giovanni Paolo II non è altro che una transverberazione perpetrata dall'onnipotente medesimo ("Transverberation", appunto). L'ultimo, colloidale album degli Alphaville di Oslo suggerisce tinteggi episodicamente iconoclastici rispetto alla fluortodossia synthpop dei bei tempi. Per esempio nelle declinazioni slow-dance-fico-funk di "Rolling Stone", collocabile tra i Daft Punk che ritirano il Grammy e i Depeche Mode inizio-millennio-III che mangiano la pastasciutta, con una progressione finale che potrebbe riportarvi alla mente "On the Run", sì, quella dei Pink Floyd. O nell'oscurità renderizzata della conclusiva "Coming Home", una specie di "Pimpf" eseguita dai Nine Inch Nails nella formazione di "Downward Spiral". O infine nelle tinte atmos/kraut di "So Falls the World", o magari nel Belouis Some ginecomastico di "Transverberation". Una ricontestualzizazione del suono, pensateci, quasi dadaista, tipo fontana di Duchamp. Un dadismo rivolto al passato. Un dadaismo vintage. Uh, niente a che vedere con Duchamp, quindi. (Alberto Calorosi)

mercoledì 4 luglio 2018

Palmer Generator - Natura

#PER CHI AMA: Psych/Krautrock Strumentale
È già da un po' di tempo che vado affermando che la scena italica brulica nel sottobosco di band assai interessanti. Quest'oggi mi soffermerò sulla terza release firmata Palmer Generator, power trio a conduzione famigliare (trattasi infatti di padre, suo fratello e suo figlio) proveniente da Jesi che mi ha ammaliato non poco con quelle sue melodie ipnotiche, suadenti e talvolta esotiche, questo almeno nell'opening track. Quattro i movimenti inclusi in 'Natura' per 38 minuti di musica che riescono a combinare un psych rock di natura strumentale, liquido e dilatato che ci prende per mano e con i suoi suoni ridondanti, quasi dronici, ci trascina in un vortice sonico da cui sarà difficile uscirne integri mentalmente. Penso agli oltre 12 minuti della lisergica opener "Natura 1", una song che scombussola l'animo per la sua cupezza ma anche per quel suo loop che rischia di condurre alla follia, in un vuoto spinto che introduce ai suoni siderali di "Natura 2". Il sound di questo brano poteva tranquillamente fare da colonna sonora a film come 'Gravity' o 'Interstellar', grazie ad un suono guidato dall'assenza di gravità che ci accompagnerà nel nostro viaggio verso galassie lontane attraverso cunicoli spazio-temporali, quei cosiddetti wormhole che a fine brano accelereranno i C, ossia la velocità di propagazione dell'onda elettromagnetica. Pur essendo un album di grande fascino, 'Natura' non si presenta come un disco di facile assimilazione. Lo testimonia il terzo passaggio, "Natura 3" che ci proietta nuovamente nel vuoto cosmico a interagire con creature extraterrestri (in questo caso i suoni propagati sembrano quelli del film 'Contact') laddove la temperatura si avvicina allo 0 assoluto, ma che verso metà brano, vedono i nostri provare ad invertire rotta e non certo per l'effetto di una fionda gravitazionale, semplicemente perchè i tre musicisti hanno finalmente deciso di accendere i motori roboanti della loro astronave nel tentativo di far ritorno verso la Terra ("Natura 4"). Tutto si rivelerà ahimé vano. La song è l'ultima deriva post rock ambientale che ci condurrà con i suoi rumori e sensazioni inevitabilmente fino ai confini dell'Universo. (Francesco Scarci)

(Bloody Sound Fucktory/Brigadisco Records - 2018)
Voto: 75

https://palmergenerator.bandcamp.com/

lunedì 18 giugno 2018

Les Lekin - Died With Fear

#PER CHI AMA: Psych/Post Rock, Godspeed You! Black Emperor
Il secondo album dei Godspeed You! Black Emperor di Salisburgo si apre con una obnubilante galoppata interiore, assolutamente ed emozionalmente lisergica. Basso e batteria indistricabilmente avvinghiati, la chitarra come una sorta di delirante propaggine onirica. Ombre di nuvole meccaniche tratteggiano il profilo semantico dei suoni. Qualcosa a metà tra il Neil Young di 'Change Your Mind' e gli Ozric Tentacles di 'Erpland'. A passo uno. Rigorosamente a passo uno. Nel prosieguo, la riverberante "Inert" appare invece più post/something, tumultuosa ma dialetticamente centrifuga. Diametralmente opposta, seppure altrettanto post qualcosa, la successiva "Vast", sillogistica, persino circolare tanto nella melodia quanto nella dinamica sonora. L'epos si innalza, lentissimamente ma inesorabilmente, nella conclusiva "Morph", sonicamente desertica eppure volonterosamente tersa e nevrile, protesa verso la deliquescenza del (lunghetto, ammettiamalo) climax finale. Ascoltate questo disco, strafatti di peyote, mentre immaginate voi stessi che saltellate da un cactus all'altro tentando di sfuggire ad una fittissima pioggia di tarantole azzurrognole. (Alberto Calorosi)

(Tonzonen Records - 2017)
Voto: 80

https://leslekin.bandcamp.com/album/died-with-fear

martedì 15 maggio 2018

Žen - Sunčani Ljudi

#PER CHI AMA: Kraut Rock/Math/Shoegaze/Indie Rock
La quarta uscita della band croata degli Žen, riafferma il valore intrinseco della musica proposta da questo ensamble sperimentale, tutto al femminile, devoto e dedito fin dagli esordi alla musica alternativa. Dal 2009, infatti le quattro croate si occupano di indie psichedelia, romantica ed oltreconfine, proponendola in varie forme audio-visive con messaggi umanitari non indifferenti (date un occhio ai loro video su Youtube). 'Sunčani Ljudi' è forse l'album più sognante e delicato della loro discografia, calcando a pieno la psichedelia di certi The Flaming Lips, senza rinunciare a qualche apertura math/post-rock da cui possiamo trarne la radice del loro suono, divagazioni shoegaze e il dream pop alla Cocteau Twins di 'Milk & Kisses'. Voci angeliche immacolate ed astratte, strutture sbilenche care al Rock in Opposition (una sorta di avant-prog/ndr) si mostrano in più di un'occasione, sonorità sempre al limite del post tutto, senza mai perdere il confine dell'orecchiabilità, della melodia e dell'estro allucinogeno più radicale. Il canto in lingua madre rende poi il tutto più interessante ed intrigante, dal bellissimo cantato a più voci alle atmosfere più epiche e malinconiche. Difficile stabilire quale sia il brano più caratteristico ma sono rimasto colpito dalla bellezza di "Četiri Tri Pet Dva", che ammalia con la sua atmosfera mistica, profondamente folk, frullata in un contesto ritmico contorto e colorato, veramente una traccia splendida. "Opet Gange" risuona come un miscuglio tra l'alternative rock e ancora il Rock in Opposition, mentre lo shoegaze alla Curve e gli indimenticabili My Bloody Valentine sono evocati in "Sonična Taktika", un ottimo brano lisergico, di forte impatto ma anche tra i più normali in fase compositiva di quest'album. Lo stile trasversale dei brani, mi spinge ad un paragone di tutto rispetto con le ragazze delle The Raincoats ed anche se qui non parliamo di post punk, l'attitudine e l'approccio alla musica appare il medesimo, per l'appunto, trasversale nei confronti dei vari generi musicali. 'Sunčani Ljudi' alla fine risulta come un lavoro altamente emotivo, carico di momenti ipnotici e sognanti, aperture post rock da manuale (leggi primi Mogwai) e un'originalità al di sopra della media. Oserei dire una fantastica e piacevolissima scoperta. Ultima menzione per "Lov Na Crne Tipke", una favola, che dal minuto 2:40 spolvera un'escursione cosmica degna del miglior Alan Parsons Project. Una gang di donne geniali di cui non ci si può non innamorare. Disco da avere! (Bob Stoner)

(Moonlee Records/Un Records/Vox Project - 2017)
Voto: 80

https://xzen.bandcamp.com/album/sun-ani-ljudi

domenica 25 febbraio 2018

Térébenthine - Visions

#PER CHI AMA: Post Rock, Mogway
Circolarmente ossessive come una sorta di malta sonora all'interno di una betoniera, le visioni oniriche dei francesi Acquaragia si concretizzano in un tumultuoso magma che scende inesorabile dalle pendici del suono inglobando suggestioni consolidate (Mogwai, Don Caballero), incapace per sua stessa natura di produrre alcunché, se non un'uniforme distesa di suono ribollente ("Au Nom du Paère" e "Poupée Charette"). Costituisce notabile eccezione il saliscendi psych raccontato in "Mer Noire" esordiente da desertiche sensazioni early-floydiana per svilupparsi (egregiamente) nei tre stati della materia: prima liquido, poi solido e infine gassoso, cui fa da contrappeso la furia sublimante solido/ gas/solido espressa più avanti nella robusta "Goutte d'Eau". Analogamente, in "Un Jour Encore", la materia pulsa orizzontalmente, aggredita dal diluente, in un'interminabile successione di ipotetiche rarefazioni e condensazioni sonore. L'omaggio a Jackson Martinez, attaccante tra gli altri, di Porto e Atletico Madrid, ammiccherebbe ai Mogwai di 'Zidane, un Portrait du XXIe Siècle'? Un album complessivamente materico, proprio come si conviene per il genere a cui si riferisce, più digressivo che aggressivo e, in verità, affatto eccellente per ispirazione o per produzione. (Alberto Calorosi)

(Atypeek Music/Poutrage Records - 2017)
Voto: 65

https://terebenthine.bandcamp.com/album/visions

sabato 10 febbraio 2018

Def&Kate - I'mperfect

#PER CHI AMA: Kraut Rock/Avantgarde
Quando c'è di mezzo Bob Stoner, non si può mai stare tranquilli su quello che salterà fuori da una delle sue produzioni. Dopo i progetti Cardiac, Agatha, De La Croix e Shelly Webster Trio, ecco la nuova creatura partorita dallo storico scribacchino del Pozzo dei Dannati, i Def&Kate. 'I'mperfect' è un lavoro di cinque deliranti pezzi, una release quasi completamente strumentale (direi interamente se escludiamo le poche parole proferite all'inizio di alcuni brani e nel finale della song di chiusura) che già dalla opening track, "Illusion Est", lascia intravedere spiragli di follia del buon Bob, che con questo nuovo progetto, si muove tra ritmiche a cavallo tra stoner e pura psichedelia settantiana, miscelate con divagazioni elettro-avanguardistiche care alla scuola kraut-rock. Oltre all'ipnotico sound delle tastiere, che non fungono decisamente da riempitivo, ma anzi assurgono al più rilevante ruolo di star, vorrei sottolineare lo straordinario lavoro in sottofondo di un basso che propaga vibrazioni tonanti, sostenute da riff a tratti ubriacanti, e fughe lisergiche nella migliore tradizione "doorsiana", come accade ad esempio in "Virgo Without Mother", song davvero intrigante, soprattutto nel suo finale che coniuga l'ambient allo space rock. Chissà di quale pericolosa sostanza si saranno fatti i nostri per concepire le note sperimentali della lunga "Memento Mori", undici stralunati minuti tra chitarristici strali ipnotici, break atmosferici e saliscendi ritmici più vicini all'effetto provocato dalle spaventose montagne russe dalle quali, oltre al rilascio di una elevatissima dose di adrenalina, è lecito aspettarsi anche una copiosa vomitata. L'ascolto della terza song, unita ai suoi continui cambi di tempo, umore e suggestioni varie, provoca interferenze cerebrali che rischiano di nuocere le persone deboli di cuore. Fortunatamente "Omniscience" è più classica nel suo incedere prog rock anche se la band veronese si diletta in alcune schermaglie ritmiche nella seconda metà del brano, a tratti decisamente tirato e selvaggio. A sigillare il disco, arrivano i quasi 12 folgorati minuti di "Frakture & Victims", un'altra canzone che prosegue sulla linea noise rock sperimentale sin qui tracciata dai Def&Kate, che tra l'abuso di funghi allucinogeni e drink a base di mescal, hanno pensato bene di rilasciare questo concentrato di folle musica sciamanica. Impavidi. (Francesco Scarci)

(Gwenedmusic - 2018)
Voto: 75

sabato 25 novembre 2017

Void Generator - Prodromi

#PER CHI AMA: Psych/Stoner/Krautrock
I prodromi sono delle avvisaglie, dei fenomeni che costituiscono un segno premonitore; mi piace come parola e la trovo azzeccatissima per essere il titolo della quarta fatica dei Void Generator, band nostrana che conferma il buon stato di forma della scena psych-stoner italica e che verosimilmente preannuncia la crescita esponenziale di un movimento musicale sempre più in fermento nel nostro paese. Il disco include quattro song monumentali, di cui solo la prima non sfiora il quarto d'ora, ma si assesta su un più umano sette minuti di durata, il cui sound anticipa il carattere quasi da jam session di questo 'Prodromi'. La song in apertura, "40 Kiloparsecs", mostra immediatamente il carattere cosmico psichedelico del disco, con suoni che sembrano provenire dallo spazio profondo e una musica che potrebbe essere l'ideale colonna sonora per un viaggio intergalattico, con i suoi riverberi, i rumori e le voci rarefatte in sottofondo, ove pulsano anche un basso propulsivo e un drumming serrato, pronti a fiondarci nell'iperspazio. Cosi si entra in quello spazio avente un numero di dimensioni geometriche superiore a tre, perdendo i sensi in "Sleeping Waves", un brano che ci culla nella spedizione interstellare attraverso un wormhole che ci porta in quadranti diversi della nostra Galassia a saggiare suoni e colori di mondi alieni e sconosciuti, che fatichiamo probabilmente a comprendere, ma che evocano vibrazioni, sentori, pulsazioni, elucubrazioni, sperimentazioni che in passato sulla Terra, hanno appartenuto a band come Pink Floyd o alle improvvisazioni cosmico-minimaliste dei Tangerine Dream. Difficile spiegarvi come il disco dei Void Generator riesca ad evolvere nelle successive song, se non sono ben chiare nella vostra mente le origini di un genere, etichettato semplicisticamente come space-krautrock. Dovete aprire le vostre menti, prepararvi ad un incontro con suoni non convenzionali, perché raggiunto l'altro capo della Galassia, sarà impossibile far ritorno sulla Terra, a meno che non si entri in un tesseract, ove modificare il tempo e lo spazio per tornare a ritroso attraverso il tunnel spaziale, sperimentando la ridondanza di suoni che martellano il cervello e ci spingono fino all'ultimo baluardo da superare prima del collasso definitivo all'interno del buco nero generato dal suono dei Void Generator. Tutto più chiaro ora? Se non lo fosse, cosi come credo, sappiate che le elucubrazioni di questa recensione, sono il frutto dell'ascolto ad elevato volume di questo lisergico disco; provare per credere. (Francesco Scarci)

(Phonosphera Records - 2017)
Voto: 85

giovedì 28 settembre 2017

Owun - 2.5

#PER CHI AMA: Kraut Rock/Cold Wave/Noise
Percepirete ovunque sconquassamenti noise, marcatamente industriali, ammiccanti a certa avant-garde krautofila anninovanta-e-persino-oltre ("Araignée", ma pure le white-noise roboanze di "Frost", la noiosa luccicanza extraterrestre della conclusive "Raison") sovente collimati da una impellente ricerca del climax (il motorik di "I.A.", in apertura, lieviterà fino ad auto-dissolversi in un prevedibile deliquio noise, fate attenzione agli occhi) di chiara ispirazione post-rock-anni-inizio-duemila-e-persino-prima, alla Mogwai, giusto per intenderci (sentite l'intrigante, sebbene un filino dilungante, "Tom Tombe"). Le reminescenze '80s si conglomerano imprescindibilmente e inevitabilmente attorno ai primi Sonic youth ("All of Us"), ai King Crimson più Discipline-ati (il corpus di "Foul"), o ancora la wave ("Orange") barra no-wave ("Post", di nuovo "Foul", ma solo nell'industrioso finale, ossessivo e circolare). Un album egualitario e magnetostatico, intrigante, cerebrale eppure analogamente viscerale. Ascoltatelo attentamente, sorseggiando un gustoso cocktail balneare a base di di psilocibina e idrolitina. (Alberto Calorosi)

sabato 29 luglio 2017

Thalos - Event Horizon

#PER CHI AMA: Post Rock strumentale, Mogway
Curiosa fusione tra post-rock strumentale, gusto tedesco per l’elettronica ed esperienza visiva (c’è un videomaker fisso nella squadra, che trasforma in esperienze visive la musica), in questo debutto dei veneziani Thalos. 'Event Horizon' è un lavoro compatto, completamente coerente dal primo all’ultimo minuto. Nove tracce mature ed emotive, costruite sostanzialmente sul continuo gioco melodico tra chitarra e synth — sotto il quale s'incastrano basso e batteria, precisi e costanti —, che si inseguono, si sostengono e si rispondono in continuazione. Le coordinate sono quelle del post-rock colorato di elettronica: niente di nuovo, quindi, anche se i Thalos sanno gestire il tutto con un gusto etereo, impalpabile — mancano i forte/piano tipici, per dire, di certi Mogwai. Meglio: le accelerazioni e i cambi di dinamica ci sono, ma sono pacati, educati, eleganti. Nessuna sorpresa, nessun sobbalzo, nessuna emozione improvvisa. 'Event Horizon' scorre languido, alternando con equilibrio e dolcezza episodi più ritmici ("Berlin", "Progress", "Union") a momenti più onirici ("Quantum", "Limbo"), prediligendo in generale l’atmosfera alla novità, il bel suono al volume, l’intimità al trasporto. Il rischio, purtroppo, è che questo disco passi senza lasciare traccia: delicato e sommesso, non sembra richiedere un ascolto troppo concentrato. Finirà, purtroppo, a suonare in sottofondo mentre fate qualcos’altro. (Stefano Torregrossa)

lunedì 24 luglio 2017

Ecnephias - The Sad Wonder Of The Sun

#PER CHI AMA: Gothic Rock
È ufficiale, la trasmutazione degli Ecnephias è ormai completata. 'The Sad Wonder Of The Sun' è il sesto album della band lucana e ci dice che ormai le distanze dalla scena ellenica sono ormai prese. Mancan e soci propongono oggi un gothic rock tinto di atmosfere horror che con il sound estremo degli esordi che strizzava l'occhiolino ai Rotting Christ, condivide solo i pochi vocalizzi growl del frontman. Nove le tracce a disposizione per i nostri per convincerci della bontà della loro nuova proposta musicale, che si apre con "Gitana", una song che immediatamente mi ha rievocato le atmosfere di "Mephisto" dei Moonspell, anche se quello degli Ecnephias è un sound decisamente più morbido di quello contenuto in 'Irreligious', sostenuto poi da una performance vocale completamente in pulito e da un blando flusso sonico che s'irrobustisce solo negli ultimi 30 secondi. Quello stesso flusso prosegue nella sinistra "Povo de Santo", un pezzo un po' meno compassato rispetto all'opener, e che vede dietro al microfono come guest star, Raffaella La Janara Cangero (che comparirà anche in "Quimbanda") ad affiancarsi al growling sempre riconoscibile di Mancan, in una song stracolma di groove, dalla melodia fischiettabile e caratterizzata da un ottimo coro. Suoni dal forte sapore ottantiano contraddistinguono invece la flebile ritmica di "Sad Summer Night", song spettrale nella sua componente tastieristica, che vede il vocalist lucano manifestarsi nella sua doppia veste pulita-growl mentre a livello strumentale, il quintetto potentino regala un preziosissimo break di chitarra ed un assolo che sprigiona eleganza allo stato puro. Un riffone che sembra invece provenire da un qualche disco thrash degli anni '80, apre in modo inatteso "The Lamp", ma le keys ne smorzano immediatamente l'irruenza in una song lineare, melodica, piacevole ma forse un po' troppo scolastica. Sembra invece di trasferirsi in una qualche spiaggia caraibica con "Nouvelle Orleans", complice una inedita musicalità reggae tutta da scoprire, che ci mostra la band nostrana sotto una nuova luce, e con la voce del buon vecchio Mancan che emana un calore simile a quello che l'effetto di un paio di cicchetti di whiskey o meglio ancora di rhum potrebbero avere sulle corde vocali. Bel risultato devo ammetterlo, anche se sia ben chiaro, "scurdámmoce 'o ppassat" degli Ecnephias visto che oggi sono una realtà completamente diversa da quella dei loro esordi black death e in continua evoluzione rispetto anche alle ultime uscite. Le atmosfere horror tornano sovrane in "A Stranger", una traccia squisitamente spettrale nel suo incedere severo. Sembrano richiami a The Cure e Fields of the Nephilim quelli che sento in "Quimbanda", la song più dinamica del disco (soprattutto nel finale movimentato tra elettronica e heavy classico), che ripropone la vocalist dei La Janara al microfono e che finalmente vede Mancan tornare a cantare, in alcuni tratti, anche in italiano (che francamente  prediligo), cosi come nella successiva "Maldiluna", in uno strano connubio tra elettronica, suoni mediterranei, rock, dark e techno music che mi disorienta non poco. A chiudere questo eclettico 'The Sad Wonder Of The Sun' ci pensa "You", ultima dimostrazione di quanti e quali rischi si siano presi gli Ecnephias in quest'ultima loro fatica, proponendo un mix tra Paradise Lost e Type o Negative riletti in chiave pop rock, con il supporto di ottimi arrangiamenti. Che altro dire se non constatare la progressione di una band che non si è mai arresa di fronte alle avversità, che ha costantemente cercato di evolvere il proprio sound anche rischiando non poco di andare contro ai vecchi fan. Solo per questo valgono il mio rispetto, poi a parlare per loro c'è anche la storia. Alla fine però 'The Sad Wonder Of The Sun' lo si può amare o detestare, questo non toglie l'egregio lavoro fatto dai cinque musicisti italici, che quatti quatti potrebbero rischiare addirittura di divenire i leader di un nuovo movimento gotico mondiale. (Francesco Scarci)

lunedì 10 aprile 2017

Things Falling Apart - Blind Hammer, I Miss You Like Nails

#PER CHI AMA: Post Rock strumentale, Amon Düül II, Can, Mogwai
Adoro la gente strana, e i Things Falling Apart fanno senz’altro parte della categoria. Per i dischi precedenti (dal 2012 si contano quattro full, un EP e un disco con live e outtakes) hanno sempre adottato la stessa regola: registrare l’80% del lavoro in una giornata singola, e chiudere i dettagli restanti il giorno seguente. Un’operazione che premiava l’improvvisazione, la capacità tecnica, l’invenzione, il gesto spontaneo e istantaneo, più che il calcolo al tavolino. Per questo 'Blind Hammer I Miss You Like Nails' invece, la band dell'Illinois ha completamente rovesciato il proprio processo: le registrazioni del disco sono iniziate nel 2012 con un piccolo quattro tracce. Il materiale è rimasto lì per quasi un anno, per essere ripreso solo nell’estate del 2014 e processato digitalmente. Un nuovo pezzo è arrivato nel 2015, e gli altri a ruota nel 2016, registrati tra studi professionali, vecchi registratori analogici e computer. Il tutto è stato alla fine mixato solo a fine 2016: quattro anni di lavoro per un singolo disco — roba da pazzi. Non vi basta? Beh, considerate allora che in 'Blind Hammer...' ci sono la bellezza di dodici musicisti che si alternano tra chitarre elettriche, organi wurlitzer, synth, lap-steel guitar, loop station digitali, sassofoni e violini. Una vera e propria orchestra post-rock, capace di generare un viaggio strumentale lungo un’ora, sempre in bilico tra un kraut-rock oscuro e ossessivo (“Holchi the Earless”) e la desolante ampiezza dello spazio più distante (“From Urschleim”). Psichedelici nello stile e nei suoni — analogici, settantiani, ruvidi quanto basta — ma contemporanei nel songwriting (sempre libero da vincoli di stile, concentrato più sui suoni, gli strumenti, le emozioni), i Things Falling Apart non hanno paura di annoiare nemmeno quando confezionano un gioiellino di oltre 25 minuti come “The Hawkline Monster”, dove delay e tremoli si inseguono sopra un tappeto di piatti e string analogici, che si contrae e si espande in continuazione. Vi sfido ad ascoltarlo senza farvi trasportare in una session deviata dei migliori Can, tra droghe allucinogene e improvvisazioni circolari. (Stefano Torregrossa)

venerdì 20 gennaio 2017

Queen Elephantine – Kala

#PER CHI AMA: Psych/Stoner
La cosa che non si può negare a questa ottima band, ora stabilitasi a Providence in US ma in passato residente ad Hong Kong, è la capacità di sconfinare facilmente e in maniera sofisticata e contorta tra lo stoner, la psichedelia, l'avanguardia ed il post rock. Con queste premesse, il disco in questione, uscito nel 2016, sembra non stimolare un granchè. Potrebbe rientrare in un calderone inflazionato di nomi, senza risultare in nessun modo una novità e la vostra potrebbe essere una considerazione esatta, ma per fortuna, vi dovrete ricredere in fretta. Vi dovrete ricredere perchè, ascoltando il nuovo album dei Queen Elephantine, con un titolo ispirato alla divinità orientale Kala, scoprirete che esiste ancora chi riesce a sfornare ottima musica, comunicativa ed originale, pur rimescolando vecchie carte da gioco. Prendete il pathos degli OM ed il loro misticismo, unitelo ai deliri compositivi dei June of 44 di 'Four Great Points', create un parallelo compositivo con il sound astratto, avanguardistico e cacofonico del geniale 'Deceit' dei This Heat, la spinta alternativa e desertica dei Fatso Jetson, il passo lento e pesante degli Earth, il doom sonico e rumoroso dei Fister di 'Bronsonic' e qualche scorribanda in territori kraut/psych rock e avrete l'esatta equazione che vi dà una vaga idea di cosa si nasconda nella quinta uscita ufficiale di questa particolarissima band. L'album è pane per i soli palati più fini, dato che va in contrasto con ogni canone di stoner rock da cassetta, pertanto ci si deve avvicinare a cuor sereno e mente libera da preconcetti di genere. Fatevi trafiggere dall'iniziale "Quartered", memore di un suono grunge dilaniato e rallentato a dismisura; amate il paranoico, folle e infinito grand canyon di "Quartz", lasciatevi poi cadere nel psicotico, sabbioso, noise/blues di "Ox", e fatevi rapire dal sentore etnico delle percussioni di "Onyx" (brano splendido!) ed il suo anarchico composto sonoro, acido e contorto, oppure, perdertevi nel vortice scuro di "Deep Blue", in gloria agli Ulan Bator post ogni cosa. Per finire inoltratevi nel vuoto cosmico dei dieci e più minuti di "Throne of the Void in the Hundred Petal Lotus", il doom visto con gli occhi degli Slint. Tante cose, tanti suoni e concetti hanno costruito questo album pieno di ambizione e meritevole di tanto rispetto, un collettivo di intelligenti musicisti pronti ad accendere ancora una volta, la fiamma dell' heavy psichedelico, rivisto e ridisegnato con nuovi colori e forme. Un album di confine che non convincerà tutti ma coloro che lo apprezzeranno, lo ameranno alla follia, come il sottoscritto. Il santo graal dello stoner rock è nascosto in questo album! Non fatevelo scappare! (Bob Stoner)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 85

https://queenelephantine.bandcamp.com/album/kala

lunedì 16 gennaio 2017

Cosmic Jester - Millennium Mushroom

#PER CHI AMA: Blues Rock/Jazz/Psichedelia
I Cosmic Jester sono una band nata nel 2015 e questo è il loro debutto discografico, nonostante sembrino in tutto e per tutto usciti dalla California acida degli anni '60. Di stanza a Berlino, i nostri sono in effetti un duo composto da Lucifer Sam, chitarrista e polistrumentista originario delle coste del Mar Baltico, e Roboo, batterista statunitense di impostazione jazz. La musica racchiusa in quest’elegante confezione cartonata fatta a mano, declina per poco più di settanta minuti un concentrato di rock blues rilassato e jazzy, che sembra trarre ispirazione tanto dalla San Francisco dei Jefferson Airplane, quanto dal kraut rock più acido e meno rigoroso degli Ash Ra Tempel. Il disco ha la capacità di calare immediatamente l’ascoltatore in una dimensione pacificata e positiva, con quell’ibrido tra Crazy Horse e Quicksilver Messenger Service che è “Muddy Waters”, acida ed elettrica opening track, al contempo pacata e riflessiva. Lo stesso mood, un po’ più jazzato, viene mantenuto in “Skin” e nella strumentale “Noise From Beyond the Sea”, mentre l’album assume forme sempre più dilatata ed elettroacustiche, che non disdegnano alcune incursioni nel folk indiano (“Millennial Mushroom” e “The Psyfolk Experience Jam”) o nella psichedelia weird inglese tra Syd Barrett e Robyn Hitchcock (“Joker in the Paper Cup”), passando per il quasi prog di “Polarity”, fino ad un nuovo irrobustimento delle trame nella parte finale, con la lunga “The Wake”. Il caleidoscopio sonora allestito dai Cosmic Jester impressiona per varietà e sicurezza con la quale i due si muovono tra stili e una strumentazione ricca e variegata, e promette molte ore di ascolto piacevole e fruttuoso, soprattutto se si è avvezzi alle coordinate di riferimento. Unico neo, a mio avviso, una certa frustrazione provata per via di un missaggio non sempre perfetto, che rende alcune parti di chitarra quasi inudibili. (Mauro Catena)

giovedì 6 ottobre 2016

Radar Men From the Moon - Subversive II: Splendor of the Wicked

#PER CHI AMA: Psych Rock, Kraut Rock, Amon Düül II, Gond, Can
Questo non è un disco, è un’esperienza musicale. Gli olandesi Radar Men From The Moon (che definiscono il loro genere ‘psych-house’) confezionano un lavoro splendido, sospeso tra kraut-rock, psichedelia ed elettronica strumentale. Ipnotico, ossessivo, straordinariamente ritmico pur nella sua capacità di costruire mondi lontani. Un disco che, sparato a tutto volume in cuffia, vi farà dimenticare dove siete, che giorno sia e persino come vi chiamate. L’opening “You Filled The House With Merciless Sand” è esattamente l’inizio che ti aspetti: una lunga introduzione di synth che respirano fuori dal tempo, fino all’improvvisa apertura electro-rock dal sapore vagamente retrò – sembrano i Can che suonano con la strumentazione dei Depeche Mode. Basso e batteria guidano incessantemente il passo anche in “Splendor Of The Wicked”, dove i RMFTM dimostrano di non disdegnare una pesante post-produzione dei suoni. Gli oltre 11 minuti della traccia fanno girare la testa annebbiando i sensi tra bassi distorti, batterie oscure, synth dissonanti e la fortissima sensazione di ascoltare un disco dub digerito dagli Amon Düül II. “Masked Disobedience” viaggia veloce, retta da un arpeggio di synth indovinatissimo su cui basso, chitarra e batteria riempiono ogni battuta disponibile. È qui che ci si accorge che i RMFTM non si limitano a ripetere riff e pattern, ma aggiungono variabili ad ogni battuta: un colpo di charleston in più, una nota di passaggio, un accento più vigoroso. Straordinari. L’andamento apparentemente marziale di “Rapture” è la scusa per costruire una canzone assai più poetica, con lunghe code di strings e morbidi synth dallo spazio. Chiude “Translucent Concrete”, con la sua ritmica decostruita e scomposta – persino industrial nei suoni meccanici e potenti – che nasconde atmosfere rarefatte sullo sfondo e prosegue mesmerizzante fino all’esplosione finale. Questo 'Subversive II' (che arriva, ovviamente, dopo un 'Subversive I' del 2015 e 'Decadence' dello scorso aprile) è un disco maturo, difficile, ipnotico: una perla nell’universo talvolta sempre uguale a se stesso della musica di oggi. È il tentativo di smontare e rimontare la concezione di un gruppo e della musica stessa, rimuovendo l’idea di una forma canzone preconfezionata, e pescando a piene mani da un passato (quello del kraut-rock, della psichedelia suonata) che ha ancora moltissimo da offrire – per poi ripresentarlo, rinnovato e contemporaneo. (Stefano Torregrossa)

Voto: 85

Arriva questa volta da Eindhoven la proposta che non ti aspetti, dalla band dal nome atipico e dalla copertina alquanto psichedelica. Signori, questi sono i Radar Men From the Moon (RMFTM) e 'Subversive II: Splendor of the Wicked' dovrebbe essere addirittura il quinto lavoro dal 2011 a oggi, mica male per questi ipnotici ragazzi olandesi, che devono aver scritto questo disco sotto strani influssi psicotropi. Il lavoro, che fa parte di una trilogia di suoni mossi ad esplorare, destrutturare e capovolgere il processo creativo, consta di cinque brani dalle durate importanti, che apre con l'ambient di "You Filled The House With Merciless Sand". Dopo un approccio, forse un po' troppo prolisso di synth, il quartetto tulipano attacca con un rifferama compatto che fa della ripetitività delle sue ritmiche il punto focale del proprio sound, in quell'incedere tipico del kraut-rock che ha portato a coniare il termine "motorik" per descrivere i tempi in 4/4 utilizzati. E la ridondanza di suoni è la caratteristica di fondo su cui poggiano i RMFTM come rettificato anche nella seconda "Splendor of the Wicked". L'effetto ottenuto? Potete immaginarlo voi stessi, angosciante; sembra quasi essersi calati un qualche trip e camminare in una disco con fastidiose luci stroboscopiche, a volumi disumani in mezzo ad una calca di gente, e in tutto questo macello non capirci davvero un cazzo. Delirante, non c'è che dire, le influenze IDM, EBM, minimal, si fanno sentire e conducono pericolosamente ad effetti indesiderati per la psiche, per cui dovrebbe essere messo un warning bello grosso sulla copertina del disco perché la proposta di questi folli, rischia di nuocere seriamente alla salute mentale. Ubriacato da questa serie di suoni che hanno perso del tutto la loro vena rock per far posto a quella elettronica, riesco ad arrivare incredibilmente all'ascolto della terza disturbante "Masked Disobedience", che mostra quasi un approccio post punk iniziale prima di orientarsi a nuove fughe lisergiche annienta neuroni. Ripetitivi fino alla morte, per lo meno in questo caso la band si limita a soli sei minuti di suoni ubriacanti; cercate di non ascoltarli in auto, se foste astemi, rischiereste di farvi trovare positivi dalla polizia al controllo del vostro tasso alcolemico. "Rapture" ci dà forse il colpo di grazia con un sound tribale, sciamanico, che ci conduce al centro della pista e ci lancia in un ballo in pura trance ipnotica, crivellati dai colpi penetranti di questi quattro criminali. Industrial, campionamenti vari, noise vanno a fondersi nell'ultima "Translucent Concrete", l'ultima tappa danzereccia di un pauroso viaggio, da cui sarà difficile fare ritorno. Pericolosi. (Francesco Scarci)

lunedì 19 settembre 2016

417.3 - 34

#PER CHI AMA: Post Rock Sperimentale, Mono
Rostov sul Don è la più grande città della Russia meridionale che apre le Porte del Caucaso al territorio sovietico, nonché patria storica dei cosacchi e per il sottoscritto, da oggi, anche la città che ha dato i natali a questi 417.3. Non so esattamente a cosa si riferisca questo numero, una ricerca su internet mi ha condotto a qualche protocollo HACCP, che non credo faccia esattamente riferimento al moniker della band; ho pensato anche di interpretare questa misteriosa cifra come una data, 3 luglio 1941, un giorno in cui Joseph Stalin fece un discorso radiofonico all'Unione Sovietica per invitare il popolo a sollevarsi contro l'invasore o ancora potrebbe riferirsi al giorno della battaglia di Białystok–Minsk, dove i tedeschi ebbero la meglio sulle truppe sovietiche, 417.3 rimane per me un mistero. Il quintetto russo nasce nel 2005 e in dieci anni hanno prodotto un paio di album, di cui questo '34' è l'ultimo da poco uscito. Le influenze dell'ensemble pescano a piene mani nel post rock di gente quali Explosion in the Sky o Mono, ma nelle corde dei cinque ragazzi scorrono anche fiumi di math e prog rock. Quel che conta però è che i cinque brani (i cui titoli fanno riferimento ad altri codici per una numerologia a me sconosciuta) mi convincono pienamente per la loro maturità di fondo e la consapevolezza di saper catturare l'attenzione di un ascoltatore esigente come il sottoscritto, che fatica in assenza di un vocalist. Servono pertanto un crescendo di suoni, splendide melodie ed atmosfere vellutate nei dieci minuti di "15", la traccia d'apertura, per scaldare gli animi di quei diffidenti. Quello che più mi colpisce della proposta strumentale del quintetto, è l'utilizzo che fanno delle percussioni, vero punto catalizzatore del flusso musicale dei 417.3. Queste deliziano il mio palato con sommo piacere, accompagnandosi a tocchi forse un po' ruffiani ma azzeccatissimi, delle 6-corde e a quel senso di malinconia che è diffuso un po' in tutto il disco, un'emozione che fa chiudere gli occhi e ondeggiare il capo sulle note dei nostri. Ed è solo la prima song, quasi dieci minuti di fulgide emozioni. "92" parte ancora una volta piano, delicata come una dolce carezza sul viso, capace di accelerare solo in un paio di frangenti. È poi il momento di "581", una song più stralunata, che vede il supporto degli Henry Teil, una band locale sperimentale, formata peraltro da membri dei 417.3 stessi e dai Retina, combo dedito ad un sound elettronico downtempo e che fa dell'improvvisazione il suo credo. Questo si riflette inevitabilmente nell'incedere ambient/noise della traccia, a cui aggiungerei anche industrial e IDM, che arricchiscono ulteriormente la proposta della band di Rostov che sul finale, trova il modo di restituire l'originale verve rock ad una traccia che aveva intrapreso strane derive sperimentali. Con "501" (che faccia riferimento ai Levis?), i nostri tornano apparentemente sulla "retta" via, con un sound inizialmente post rock, sfruttando il canonico uso di ripetizioni di versi di note e consueti improvvisi cambi di tempo, anche se la vena noisy/minimal/ambient sembra diventare preponderante per gran parte degli oltre dieci minuti del pezzo. Il disco si chiude con "52", che cita ulteriori influenze kraut rock per l'act russo, in un flusso dinamico che portano alla creazione di trame e desolati paesaggi sonori che si fondono con il resto della strumentazione. I nostri ci metteranno anche del tempo a produrre i loro album, c'è da dire che il risultato finale è davvero meritevole. (Francesco Scarci)

(Towner Records/Unlock Yourself Records - 2016)
Voto: 80

https://4173.bandcamp.com/