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venerdì 29 maggio 2015

When Reasons Collapse - Dark Passengers

#PER CHI AMA: Deathcore, The Black Dahlia Murder
Uno dei trend del momento, o meglio, degli ultimi anni, sembra essere quello di “imbastardire” il death metal (più classico a volte, altre volte più techno death) con il metalcore di chiara matrice statunitense. Ne è un classico esempio questo lavoro intitolato 'Dark Passengers' del quintetto francese dei When Reasons Collapse. Mi trovo qui ad analizzare il debut album della band, che conta tra le fila anche la tostissima vocalist Cristina; sfido chiunque, ad un primo ascolto e senza sbirciare il booklet, a capire che il growl che ci viene sparato in faccia, è prodotto da una voce femminile. La formazione si completa con le classiche due chitarre, basso e batteria; faccio subito i miei complimenti a tutti i musicisti che sfoderano una prestazione pregna di tecnica ma allo stesso tempo capaci di creare passaggi dalla pesantezza immane. Il CD è composto da 11 tracce compresa un'intro strumentale in apertura, che mettono subito le cose in chiaro per quanto riguarda la proposta musicale offerta dal quintetto: musica veloce, senza troppi slanci melodici, che rispetta i canoni del metalcore classico, con intermezzi rallentati e davvero heavy, che invitano al più scatenato degli headbanging. Doppia cassa in abbondanza, chitarre accordate bassissime e linee di basso killer, il tutto condito da un pregevole gusto musicale, che evita di far cadere il prodotto nella tamarraggine assoluta; altri prodotti, fidatevi, non hanno questo meritevole pregio. Da sottolineare positivamente il lavoro di produzione del CD, che sparato a volumi “seri”, mostra il meglio di sé, senza distorsioni, con gli strumenti belli cristallini che evitano il tanto odiato effetto “pastone”. Di tutto rispetto anche il lavoro dell'artwork, con un bel libretto e i testi leggibili. Tirando le somme, un buon prodotto, che potrebbe tranquillamente essere pubblicato da una major, anche se personalmente ritengo il genere proposto un po' troppo saturo al momento, con conseguente difficoltà per i gruppi indipendenti di trovare il giusto spazio che meriterebbero (ma è anche per questo che esiste “Il Pozzo”). L'unico difetto che ho trovato lungo i ripetuti ascolti è quello dell'effetto “monolite”, ma nel senso peggiore del termine; 40 minuti non sono molti, ma rischiano di diventare eterni se le canzoni sono poco varie e il metronomo si sposta di alcuni bpm da una traccia all'altra. Una maggiore varietà nelle composizioni, sopratutto negli incipit delle canzoni, gioverebbe all'ascolto. Nonostante tutto, da segnalare assolutamente come tracce di rilievo: “No Time for Regrets”, “When Reasons Collapse”, “Come to Me” e “Bitterness and Grief”, che rendono bene l'idea della qualità proposta dal quintetto. Presenti su Facebook con una pagina ben curata, provate a scoprire questi ragazzi francesi: voi non ve ne pentirete di sicuro, qualche problemino potrebbero piuttosto averlo i vostri timpani. Potenti. (Claudio Catena)

(Self - 2015)
Voto: 75

domenica 1 febbraio 2015

Empyrean Throne - Demonseed

#PER CHI AMA: Black/Death Sinfonico, Behemoth, Dimmu Borgir
Con notevole ritardo, slegato questa volta dalla mia volontà, mi appresto a dare orecchio all'EP di debutto dei californiani Empyrean Throne, sestetto di Lake Forest, che ha catturato il mio interesse per l'epica grafica dell'artwork, per la label alle loro spalle (la Erthe & Axen, la stessa degli Xanthochroid) e per la proposta a cavallo tra black e death sinfonico. Inizio però la mia disquisizione di 'Demonseed' dalla quinta traccia, "A Crow's Feast", che ho avuto modo di passare all'interno del mio programma radio. Vi domanderete certo il perché di questa mia inusuale scelta, presto detto. Quando ho informato la band di aver passato la song in radio, la risposta è stata che la traccia non era sufficientemente pesante. Devo aver pensato di tutto su questi tre minuti abbondanti di musica, ma certo che non fosse estrema. Una ritmica ferocissima infatti, addolcita solo da una forte componente orchestrale, la rendono forse un po' più accessibile rispetto alle altre, ma basta sentire il deflagrante drumming di Dan “Danimals” Bruette per capire che certo questo non è pop rock. Facciamo quindi un salto indietro alla opening track, che apre con suoni di guerra, il cui titolo, "Death March", non è stato scelto per puro caso. E proprio come una marcetta bellicosa, i nostri si presentato con la loro proposta aggressiva, rutilante, ma sempre ammorbidita dal violoncello e dalle orchestrazioni bombastiche di Kakophonix, che confermano quanto già detto sopra, ossia rendere verosimilmente più ampio il pubblico che possa avvicinarsi a questo lavoro. La voce di Andrew Knudsen, graffiante nella sua veste scream e brutale in quella growl, si guadagna la scena, anche nella successiva title track dove, sempre posta in primo piano, dissemina tutto il proprio odio, su ritmiche mai troppo feroci a dire il vero, sebbene le tematiche anticristiane. Il cd è infatti un concept che parla della nascita di un anticristo, la distruzione che segue la sua venuta e la rinascita di un nuovo mondo. "Nothing but Vermin" è un pezzo decisamente death, che non disprezza peraltro tecnicismi più propri del techno deathcore e che vede come guest vocal tal Tyler Gorski (un altro ospite, il pianista Daniel Pappas, farà la sua comparsa in "Follow the Plaguelord"). "The Fascist Messiah" è una rasoiata di una manciata di minuti, mentre l'ultima song, la più lunga del lotto, da sfoggio dell'abilità del già citato Daniel al pianoforte, con un lungo e delizioso intro pianistico che fa da preambolo alla traccia più matura del dischetto. Belle le linee di chitarra, raffinata e pomposa la veste orchestrale, mentre le vocals si dimostrano davvero convincenti, con una prova corale che innalza notevolmente la qualità del disco. 'Demonseed' tuttavia, rivela ancora lacune in sede compositiva delineando anche una certa resistenza nello sperimentare da parte dei nostri. Gli Empyrean Throne comunque promettono bene, e l'invito è pertanto, quello di seguirli da vicino. (Francesco Scarci)

(Erthe & Axen - 2013)
Voto: 65

martedì 13 gennaio 2015

Haddah - Through The Gates Of Evangelia

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Dark Tranquillity, Alligator
Inforcate le mie nuove cuffie Bose (un po' di pubblicità ogni tanto ci sta anche bene), mi metto all'ascolto degli Haddah, band lombarda, che dopo quasi 14 anni, un EP e un paio di promo, giunge finalmente a esordire anche sulla lunga distanza, grazie alla sempre più attiva Beyond Productions. 'Through The Gates Of Evangelia' si presenta subito come un album arrogante, non in senso negativo sia chiaro, ma in termini musicali si tratta di un selvaggio e arrembante esempio di death metal schizofrenico che si srotola lungo le nove scarnificanti tracce che arrivano a strizzare l'occhiolino anche al death/metalcore. Niente di nuovo musicalmente, se non belle sgaloppate, bei riffoni, un cantato che si divide tra il growling e lo screaming (ottima la porzione corale di "The War of Wars"), ritmiche sghembe di scuola Infernal Poetry, qualche sverniciata di stampo swedish, frequenti cambi di tempo e un sound comunque dotato di una buona carica di groove. Le tracce, tutte più o meno brevi (assestandosi sui 3.30 minuti), scivolano via che è un piacere, facendosi notare nella anthemica "Apostasy" o nella più Dark Tranquillity oriented (era 'The Mind's I') "Get Down All the Demons". In definitiva 'Through The Gates Of Evangelia' è un disco a cui non si può chiedere granchè, se non una mezz'ora di puro divertimento e devastazione. Rocciosi. (Francesco Scarci)

(Beyond Productions - 2014)
Voto: 65

mercoledì 12 novembre 2014

Make Me A Donut - Olson

#PER CHI AMA: Deathcore/Metalcore
Questo gruppo di cinque giovanissimi ragazzi provenienti dalla Svizzera, dal nome piuttosto originale (d'ora in poi MMAD), presentano questo dischetto accompagnato da un curatissimo booklet che mi fa capire fin da subito che i nostri vogliono far sul serio. Di difficile etichettatura, il genere proposto spazia dal classico metalcore alla Slipknot, a derive più pesanti con il deathcore così tanto in voga in questi ultimi anni, fino a elementi classici del progressive più segaiolo (ovviamente nel senso buono del termine). Sicuramente, quello che non manca ai ragazzotti elvetici, è la preparazione tecnica, mentre forse qualcosa da rivedere in fase di composizione ci sarebbe; perchè ascoltando il disco ho avuto la sensazione di ascoltare più o meno sempre lo stesso pezzo, fatto di chitarrone ultracompresse assai precise, basso slappato e ultra effettato, assoli da impeccabile axeman italoamericano (e quindi con conseguente poco feeling), doppia cassa a scandire e doppiare le plettrate delle sei corde, cose già sentite e risentite, per quello che mi riguarda, troppe volte. Per non parlare della voce, a metà strada tra un Tom Araya di trent'anni più giovane e un qualsiasi cantante death neanche troppo propenso al growl, ma piuttosto a quel semi scream-growl che mi ha sempre dato su i nervi. Per carità, gusti personali, ma sto cercando di essere il più obiettivo possibile per cercare di “salvare” un lavoro che ha delle potenzialità secondo me non espresse: “Haunting Seed” è un bel pezzo, così come “We Are Vendetta” e la mia preferita, “Psychic Crystallization”, è davvero valida, ma per quello che riguarda il resto non si supera mai la sufficienza risicata. Formalmente tutto inattaccabile, dalla produzione al lavoro grafico, in questo caso è il contenuto che difetta in qualcosa; non una debacle completa, ma neanche un lavoro che fa strappare i capelli. Peccato, il sapore dell'occasione persa rimane piuttosto persistente. (Claudio Catena)

(Tenacity Music - 2013)
Voto: 60

https://www.facebook.com/makemeadonut

sabato 8 novembre 2014

Conjonctive - Until the Whole World Dies...

#PER CHI AMA: Deathcore
È con questo debut album che gli svizzeri Conjonctive giungono sul mercato, dopo aver fatto la classica gavetta tra live, EP e quant'altro, maturando la giusta esperienza che trasuda tra le note di 'Until the Whole World Dies'. Infatti, questo disco tutto sembra tranne che un album di debutto. Votati al deathcore più intransigente, si notano influenze thrashcore e perchè no, qua e là, anche elementi di symphonic black che riportano immediatamente alle sonorità create da gruppi quali Dimmu Borgir, Cradle of Filth e compagnia bella. Dico subito quello che secondo me è il tratto distintivo del gruppo: il simbiotico dualismo delle vocals, una maschile ed una femminile, che dal primo all'ultimo secondo ci presentano un growling che dire estremo è dir poco. Mai un secondo di pausa, mai una clean qua e là...sempre e solo growl; oddio, per quello che mi riguarda non esattamente una buona notizia, però gli stilemi del deathcore più conservatore vogliono questo, e qua vengono decisamente rispettati. Il dualismo tra i due profondi urlatori, femminile e maschile, però tende a rendere più interessante quanto qui proposto. La musica invece, mi ha fatto venire in mente questa immagine piuttosto esplicativa: una motosega che dilania tutto quello che incontra sul suo percorso, senza tentennamenti di sorta. Una distruzione totale, ossessiva, talvolta più frenetica ("The Rise Of The Black Moon" e la title track), altre volte più lenta e cupa ("Emily Rose" e "Victoria's Lake"), ma che giunge sempre allo stesso risultato: le ossa triturate. La violenza senza compromessi è il tratto distintivo di questo album, senza intervalli melodici e fronzoli, accompagnata però da una notevole perizia tecnica agli strumenti da parte dei ragazzoni elvetici. Nulla da eccepire anche per quello che riguarda la produzione, assolutamente di livello e talmente precisa da risultare tagliente come una lama pericolosissima. Album da ascoltare in blocco e riascoltare per gustare le sfumature più sottili; un buonissimo risultato, debut album assolutamente valido. (Claudio Catena)

(Tenacity Music - 2013)
Voto: 75

mercoledì 17 settembre 2014

Codex Alimentarius - The Hand of Apophis

#PER CHI AMA: Death melodico
Sono solo undici i minuti a disposizione dei Codex Alimentarius per farci assaporare la loro furia distruttiva e vi garantisco che bastano e avanzano per farsi una idea della band di Exeter. 'The Hand of Apophis', secondo EP dei nostri, si fa portavoce di un death abrasivo ma al contempo melodico e dalle venature a tratti sinfoniche, che certo saprà conquistare tutti gli amanti di sonorità estreme, me compreso. Dopo una breve intro, ecco esplodere "Trajectory" e il rutilante martellare del drummer Frank 'Bleeding' Dennis viene accompagnato da una sezione ritmica con i controfiocchi costituita da ben 3 chitarre e un basso che, ben bilanciati, vedono ergersi sopra le loro teste, il vocione apocalittico del bravo Ray. "Azimuth" è la seconda traccia, dallo vena deathcore, una song che riassume lungo i suoi quattro minuti e mezzo, lo spirito del 6-piece britannico: sonorità potentissime, ritmiche sincopate, rallentamenti magmatici, growling brutali, una buona dose di melodia e tanta tecnica. Risultato: eccellente. Gli arrangiamenti in questo disco non si sprecano di certo, tutto è curato nei minimi dettagli e "Impact" è l'ultima dimostrazione del dischetto anche se i minuti a disposizione rimangono solo tre. Ottimi riffoni che dettano un tempo quasi marziale controbilanciato da accelerazioni da urlo, il tutto enfatizzato poi da una produzione pura e cristallina. Ottimi laceranti assoli squarciano infine il brano in più punti, rivelando la natura orchestral brutal-melodica dei Codex Alimentarius. Bella scoperta, ma ora attendo un lavoro che confermi le qualità dei nostri anche sulla lunga distanza e ne faccia anche lievitare il voto conclusivo, tenuto logicamente più basso visti i soli 11 minuti messi a disposizione. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 70

sabato 9 agosto 2014

Fallujah – The Flesh Prevails

#PER CHI AMA: Death Progressive, Cynic
Dopo il cambio stilistico ravvisato con il precedente EP, il brillante 'Nomadic', si è creata una certa attesa per il nuovo album degli americani Fallujah, anche da parte del sottoscritto, che non aveva particolarmente amato gli esordi della band, ancora impastati da una buona dose metalcore. Invece sono curioso di ascoltare il nuovo 'The Flesh Prevails' che promette di portare una bella ventata d'aria fresca al genere. E la opening track, “Starlit Path”, mette subito i puntini sulle "i" offrendo sonorità dotate di classe e una buona dose di melodia, quasi del tutto inattesa. Notevole l'impatto dei nostri con una song che non rinuncia al roboante ardore del deathcore, alle sue ritmiche al fulmicotone, alle growling vocals di Alex Hofmann, ma che aggiunge articolati giri di chitarra, ariose linee melodiche e ne garantisce una notevole accessibilità. Il suono si fa ancor più articolato con la seconda “Carved From Stone” che affianca alla furia dei nostri break dal forte flavour progressivo in pieno stile Cynic. Pazzesco. La violenza dirompente esplicata da una ritmica schiacciasassi e da brutali vocals vengo mitigate da semplici delay di chitarra. Forse è con la successiva “The Night Reveals” che i nostri prendono ancor più le distanze con il passato, certo non a scapito della pesantezza dei suoni, che vengono meglio convogliati e arricchiti da arrangiamenti che rendono il sound dei Fallujah più pieno e completo. Con la title track, la musica dei Fallujah completano definitivamente la propria conversione con un sound di fatto più vicino ai Cynic, piuttosto che agli esordi burrascosi dell'ensemble californiano, e questo non può far altro che giovare alla nuova immagine dei nostri. Non conosco il perché di questa svolta, sinceramente me ne frego e anzi me ne compiaccio visto che ho trovato una nuova band che mi faccia vibrare con la propria musica ricca, complessa e cinematica. Non me ne vogliano i vecchi fan della band, ma io i Fallujah li preferisco cosi e quando in “Levitation” compare in sottofondo una voce femminile, non mi sconvolgo e confermo nel vedere i nostri come potenziali e degni eredi dei già citati Cynic. Ci vorrà ancora tempo, consapevolezza e il raggiungimento di una maturità consolidata, per arrivare là dove sono arrivati Paul Masvidal e soci, ma posso dire che quella imboccata dai Fallujah è una strada tortuosa, irta di ostacoli, ma sicuramente illuminante. Ben tornati ragazzi. (Francesco Scarci)

(Unique Leader Records - 2014)
Voto: 85

sabato 12 luglio 2014

Silence the Sky - Ancient

#PER CHI AMA: Hardcore, Metalcore, Djent 
Un po' di sano, crudo e ammiccante hardcore era da parecchio che non mi capitava tra le mani. Eccomi accontentato dai norvegesi Silence the Sky che con il loro 'Ancient' rompono gli schemi che vedono arrivare dalla Norvegia album prettamente black o death, proponendoci invece sonorità più alternative. Ci troviamo infatti di fronte a 15 tracce (forse troppe) che, partendo da una base estrema, vengono contaminate dal djent, dal metalcore e appunto dall'hardcore, senza tralasciare l'ambient e un pizzico di doom. A partire da "Atomos", non ci resta che farci investire dai riffoni quasi deathcore del quintetto nordico che ci scaraventa addosso una grandinata di riff distorti e ubriacanti che poco spazio concedono alle melodie, se non in quanto mai inattesi break centrali, in cui i vocalist si alternano tra l'acido/vetriolo all'emo, mentre le atmosfere piombano nella catarsi malinconica di riff melancolici. Tutto chiaro no? Va bene, provo a farmi capire meglio. "Ascendancy" è un pezzo di tre minuti e mezzo che attacca ringhiando sia a livello ritmico che vocale, con uno spazio risicatissimo concesso alla melodia; al minuto 1:30 ecco comparire le clean vocals di Magnus Granholt e le chitarre disegnano nell'etere splendide melodie. Si tratta di pochi attimi però perché i nostri tornano a ruggire, sebbene il flusso sonico si mantenga più vivace e ascoltabile. "Venomous" prosegue con il canovaccio già visto di furia-break-malinconia ma alla fine devo ammettere che il risultato che ne viene fuori non è affatto male. "Angel Rust" presenta una struttura invertita a quanto fin qui detto: l'inizio è malinconico e le ritmiche tendono piano piano ad ingrossarsi fino ad un break centrale che oserei dire al limite del doom, per poi proseguire tra schiamazzi nevrotici e delicati passaggi ambient. Il disco procede in questo modo mostrando il più delle volte i suoi muscoli senza dimenticare anche il suo lato più melodico e oscuro come proposto nella spettrale e piovosa parte centrale di "There is a Storm Coming" che aiuta certamente a non banalizzare i contenuti di 'Ancient'. Suoni cibernetici aprono "Nebula", la song più dinamica e che più si allontana dal resto del lotto. Qualche schitarrata potente e decido di soffermarmi su "The Dismemberment of Tellus", song intensa e dal forte, fortissimo impatto autunnale, complice l'egregio lavoro alle chitarre e alle brillanti vocals, con un duetto screamo/clean da brividi. Ultima citazione per la roboante "Jenova" in cui sembrano sovrapporsi 2 o 3 granitiche chitarre e l'ipnotica "Ion". 'Ancient' è pertanto servito, non vi serve sapere altro per far vostro questo concentrato pazzesco di musica carica di groove e melodie ruffiane. E bravi i Silence the Sky che testimoniano che oltre il black/death, in Norvegia c'è vita... (Francesco Scarci)

(Negative Vibe Records - 2014) 
Voto: 75 

domenica 27 aprile 2014

Desolace - Hopebringer

#PER CHI AMA: Deathcore/Djent/Techno Death
Fin dalle prime note di questo 'Hopebringer', vengo scombussolato da una vastità non indifferente di suoni: è "Fear Me" a convogliarmi splendide orchestrazioni (sembrano addirittura i Dimmu Borgir) che si intrecciano con riffs di matrice deathcore intrisi di tecnicismi techno death, un cantato metalcore, break ambient e arrangiamenti da favola, il tutto poi avvolto da quel mood tipico del djent. "Cloudhunter", la seconda traccia, oltra ad offrire un sound pieno, pesante e cristallino, invoglia ad alzare notevolmente il volume, facendo scorrere quei riff ipnotici, elucubranti e deliranti tra i solchi del nostro cervello, mandandoci in crash neuronale. Se ascoltate la musica dei Desolace con le cuffie poi, preparatevi ad andare in grossa confusione (una sorta di hangover), in quanto la moltitudine di suoni arriverà un po' da tutte le parti, riempiendo quasi immediatamente la capacità di apprendimento della vostra mente. Splendido l'attacco di "Inner Circle", fatto di pazzeschi giri di roboanti chitarra, eccellenti arrangiamenti, sovrapposizioni vocali e godibili melodie. Un rabbioso grido apre "Chances", tipica song deathcore, che vanta delle linee di chitarra minacciose su cui ben presto si staglierà una componente solistica tagliente; un brevissimo break e poi un riffing poliritmico dall'effetto ubriacante satureranno le vostre orecchie. Ottime le growling vocals di Kriss Jacobs, mostruosa la performance alla batteria di Danny Joe P. Hofmann, da applausi la triade formata da Marco Bayati, Michel Krause e Maurice Lucas, rispettivamente i due chitarristi e il bassista del combo germanico, che con il loro modo di suonare, rendono ancor più piacevole il mio ascolto. La title track irrompe nel mio impianto hi-fi con il granitico drumming di Danny, sorretto egregiamente dal duo di asce (che quasi impercettibilmente, sembrano rifarsi anche ad uno swedish death) e dalle vocals al vetriolo di Kriss, che ogni tanto si concede anche la possibilità di un cantato pulito, simil disperato. La seconda metà dell'EP ripropone le 5 song in versione completamente strumentale: esperimento interessante in quanto consente di apprezzare ulteriormente il lavoro di questi abili musicisti di Karlsruhe, godendo di suoni, di per sé assai articolati, in modo pulito. Vorrei sottolineare poi un'ultima importantissima cosa per questa entusiasmante band germanica che vorrei proporre un po' a chiunque, anche solo per la loro nobile iniziativa di devolvere parte dell'incasso dell'EP al centro tumori pediatrico della loro città, Karlsruhe appunto. Stimolanti, creativi e molto intelligenti! (Francesco Scarci)

martedì 26 novembre 2013

We All Have Day Jobs - Inflict/Enantiodromia

#PER CHI AMA: Deathcore
Era tempo immane che non recensivo materiale deathcore, ma questi americani del New Jersey (non certo dei pivellini visti i due full lenght già all'attivo), mi hanno in qualche modo colpito e quindi ho pensato personalmente di dargli una chance, in modo da farli conoscere anche ai lettori del Pozzo. EP di cinque pezzi più una inusuale intro pianistica, cosa assai strana per il genere. Niente paura però, stiamo parlando di una release che con la sua prima vera traccia, “It Began with a Spore”, inizia a picchiare duro. L'impatto è bello tosto anche se sinceramente mi aspettavo qualcosa di più devastante: i nostri prediligono la strada dello stordimento da cambio di tempo e sovrapposizione di suoni, piuttosto che la classica furia fine a se stessa. Il rifferama di Kyle Neeley è ipnotico, il rullare del drumming tumultuoso, le vocals di Max Lichtman si alternano tra lo screaming e il growling. “Seeping From Parted Jaws” attacca lenta con un bellissimo giro di chitarra, per poi scatenarsi con una tonnellata di riff ubriacanti e ritmi che sanno di mathcore. Eccellente la prova dietro alle pelli di Paul Christiansen, che detta i tempi, qui serratissimi. Poco spazio trovano le melodie, e sinceramente avrei puntato maggiormente su questo elemento. “Unto the Pariah” è un pezzo mid-tempo che si mette in luce per il finale affidato al pianoforte. “The Automaton” è una traccia dal gran tiro con un notevole solo e un bel lavoro al basso da parte di Nik Schafer. A chiudere ci pensa “All My Woes, Combined”, la song più completa e varia del lotto e decisamente la mia preferita: granitica, ma melodica, con piacevoli effetti affidati alla chitarra e un'aurea plumbea nel suo finale. 'Inflict/Enantiodromia' un ottimo punto da cui ripartire per il futuro! (Francesco Scarci)

domenica 7 luglio 2013

Boreworm - The Black Path

#PER CHI AMA: Brutal Death Progressive, Djent, Born of Osiris, Meshuggah
Spaventoso l'impatto che ho avuto con l'EP di debutto degli statunitensi Boreworm. Un 4-track di furioso e melodico brutal death metal che apre le danze con la title track e mi consegna una delle pochissime band, in territorio estremo, che sia stata in grado di conquistarmi fin dal primo minuto d'ascolto. Chitarre polifoniche, inserite in una matrice cosi ingarbugliata di cambi di tempo e velenosissimi stop'n go; una tessitura ritmica granitica, costellata di cosi tanti e interessanti intrecci strumentali da necessitare più e più ascolti. Ne sono innamorato e per me, amare questa forma di death brutale assai futuristica, è cosa assai rara. Con "Xenophagia" ritorno all'esclamazione che apre questa recensione: spaventosa! Suoni cupi e feroci, sorretti da atmosfere horror, suoni bombastici che possono richiamare il djent, il deathcore o il techno death. Meshuggah, Cynic, Born of Osiris e tutti gli altri messaggeri del sound progressivo in territori brutali, rappresentano le influenze riscontrabili nel corso di questo dinamitardo EP di debutto di questo splendido ensemble made in USA, che già fin d'ora eleggerò tra i debutti di assoluto valore doi questo 2013. Non vorrei pompare ulteriormente la band, è la musica a parlare egregiamente per loro: il death fuso con lo sci-fi, le opprimenti atmosfere di "The Black Path", l'esagerato tasso tecnico plaesato anche nella dinamica e travolgente "Hive Conduit", mi mandano al settimo cielo. Il growling cavernoso, il quantitativo infinito di melodia, mischiato alla cattiveria e al matematico (soprattutto in "Clandestine") sound dei Boreworm, completano un lavoro che non posso far altro che elogiare e consigliare a tutti gli amanti di sonorità estreme e non solo. Esagerati! (Francesco Scarci)

lunedì 11 marzo 2013

Hybrid Circle - Before History

#PER CHI AMA: Prog Metalcore, Textures, Fear Factory
Che strazio. È molto semplice sintetizzare quest'ultima opera degli abruzzesi Hybrid Circle: un concept album ispirato ad un libro scritto da loro, con musica influenzata dal peggio dei Fear Factory e dei Meshuggah. Già dall'intro di ben 2:46 secondi in parlato, mi viene voglia di cambiare disco. Il growl monocorde (essendo anche un tantino più alto degli strumenti lo rende quasi insopportabile) affiancato a chitarre ultracompresse che girano intorno a dei banalissimi groove midtempo, regnano incontrastati sul disco, annichilendo la mia infinita pazienza da ascoltatore. Tutto ciò è incorniciato da un'ambiente sci-fi e fantascientifico riconducibile ai testi ed ai synth, che freddi e chirurgici come i ritmi, ogni tanto saltano fuori ravvivando le composizioni. La parti in cantato pulito sono molto gradevoli e mi riportano ai Textures, peccato solo che vengano usate in rare occasioni come in "Overture 209" dove vengono anche facilmente dimenticate dopo l’ossessivo ripetersi del riffing, l'unico attimo di rianimazione si ha nella parte centrale del disco con "Wisdom Popular" e "Onset", le sole tracce leggermente migliori delle altre. Un disco che non s'ha da fare, se non per tecnica ed esecuzione. (Kent)

(Build2Kill Records)
Voto: 55

http://www.hybridcircle.org/

martedì 18 settembre 2012

Novel of Sin - Sound of Existence

#PER CHI AMA: Deathcore, As I Lay Dying, Neaera
Il Kjeragbolten: un antico molare norvegese, un cariato dente di roccia che sta per cadere. Incastonato tra le mandibolari Kjerag Mountains, è sospeso sull'orlo dell'abisso a circa mille metri di quota sopra il nulla. Lì mi trovo, in piedi, in una posizione dall'infinita energia potenziale e, indomito, guardo giù, di sotto. Avverto la scarica adrenalinica impossessarsi famelica del mio corpo ma mantengo il controllo. Mi giro, come niente fosse e sorrido alla gente che si trova a poca distanza me e da quel "molare". Su vicine "gengive" di roccia, la gente, mi osserva, impaurita o ammirata. Nessuno mi dice niente ma leggo, nelle loro menti, la pazzia che ognuno di loro mi attribuisce. Fuori resto serio ma dentro... dentro già me la rido. Tutti si mantengono a debita distanza. Estraggo con nonchalance, da quello che ho camuffato come un semplice zaino Invicta, i miei auricolari ed il mio paracadute. È vietatissimo il base jumping da quel punto ma me ne frego, ormai ci sono ed indietro non ci torno. Già sono preda dei psichedelici vocalizzi di "728(16)102" breve preludio a "Voices, Prayers and Remembrances", prima vera track di questa release: "Sound of Existence" dei ravennati Novel of Sin. Pochi secondi ed una testata da 20.000 chilotoni deflagra nelle mie sinapsi: plettrate non lente ma comunque poco veloci e dalla potenza incisiva. La distorsione è tale che ho difficoltà a trattenermi dal pogare. La melodia, contagiosa, mi vedrebbe scatenato nell'headbanging più sfrenato ma no, devo restare serio. Il lancio è una specie di rito. Il mio rito. Torno allora indietro di pochi passi accompagnato dalle octopiche note di "Alone Through the Tides". Pause ad effetto intercalate tra i breakdown che ne rallentano il ritmo, un voluttuoso accoppiamento con i ripetitivi accordi di chitarra, una batteria martellante e l'alternanza tra scream e growl, danno vita ad una particolare, viscerale, amalgama che vede, quale ingrediente segreto al posto del mercurio, l'intercalare di crash e splash. Dietro di me, intanto, poco più in là, l'invitante precipizio mi seduce, mi sussurra, quasi avverto la voce di Trilly, fata dell'aria dell'Isola Che Non C'è: io però, sono un Peter Pan particolare, un Peter Pan sul quale la polvere di stelle non ha effetto alcuno e che non ha bambini sperduti da salvare. I piedi ce li ho ben saldi a terra. Adesso. Ululanti spire di vento, mi corteggiano, lambiscono, attirano. Poco sotto, l’abisso, semi offuscato dall'umida nebbia crepuscolare, m'invita al più dolce dei tuffi. Un salto da mille metri ad accarezzare, quasi con mano, un affilatissimo profilo di roccia spinti anche dalle incontrollabili, repentine, brusche, raffiche di vento. Eolo non è dalla mia, quel giorno. Lanciarmi da lì. Che bella idea m'è venuta. Mi giro infatti di scatto e, soggiogato dalle tonanti rullate di "A Key For Nowhere" corro deciso e mi getto nel vuoto. A braccia aperte. A volo d'angelo. Una capriola in avanti e poi giù di testa, in picchiata, braccia tese lungo i fianchi. Non la vedo più, la gente, ma me la immagino terrorizzata farsi sempre più piccola lassù, sopra di me. Il vero spettacolo, che dura pochi istanti, è lì, nell'aria. Osservo il suolo approssimarsi sempre più. Comincio a distinguerne bene i particolari. Non ho ancora aperto il paracadute: lo faccio adesso, sulle melodie di "Fragile" che questa release ripropone anche in chiusura in una versione remixata dai Demon Kids. Tocco dolcemente il suolo facendomi cullare da "Extinguish". Ad estinguermi, poco dopo, ci pensano infatti gli sbirri: giù di sotto non era il suolo ad attendermi: c'erano lì loro ad aspettarmi, per farmi una multa, non da 20.000 chilotoni sull'Atollo di Bikini ma da 4.000 Euro nel mio portafogli. (Rudi Remelli)

(Kreative Klan)
Voto: 70

giovedì 9 agosto 2012

Maroon - The Cold Heart of the Sun

#PER CHI AMA: Death/Metalcore
Un inizio al limite del grind apre questo capitolo dei teutonici Maroon, fautori di un metalcore, per una volta suonato come si deve. La solita premessa va fatta: i Maroon non inventano nulla di nuovo, ma ci mettono le palle e tante buone idee in questo concentrato furibondo di death metal (di scuola svedese) miscelato all’hardcore. Si parte alla grandissima con “(Reach) The Sun”, canzone diretta, violenta con una bellissima melodia di fondo e con un assolo che pesca a piene mani dalla musica classica. Il quintetto tedesco prosegue nel farci a brandelli anche con “Only the Sleeper Left the World”, ma sempre con grande intelligenza, quasi da farmi gridare al miracolo per l’ottimo lavoro, in un ambito che ha ben poco di interessante da regalare. Ragazzi, che bomba questo “The Cold Heart of the Sun”: ogni brano è una sorpresa, nonostante nelle sue note siano raccolti gli stilemi classici del genere. Chitarre arroganti si alternano attraverso cambi di tempo da urlo a mid tempos assai ragionati, sfuriate selvagge ci aggrediscono in modo serrato, growling vocals assassine sbraitano tutta la frustrazione del combo di Nordhausen; breakdown, tanta melodia e assoli vertiginosi, completano un album che si può definire sicuramente vincente. Se siete amanti di sonorità death/metalcore nord europee, non contaminate dalla cultura americana, questo disco farà sicuramente al caso vostro. Godetevelo a tutto volume! (Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 75 
 

lunedì 23 luglio 2012

Agruss - Morok

#PER CHI AMA: Post Black, Death, Crust, Behemoth, Dissection
Cheffigata. Vorrei liquidare così la recensione di questo "Morok" degli ucraini Agruss. Sono veramente senza parole dopo l'ascolto di questo lavoro. Felicemente sconvolto dalla loro opera mi metto a cercare le parole giuste per descriverla al meglio per poter trasmettervi quello che ho provato io all'ascolto delle prime note di questo trionfo della morte. Non è tanto la musica a far da padrone a quest'opera ma le atmosfere che essa produce. Beh comincio presentandoveli con informazioni reperite dalla rete, dato che le uniche parole del packaging sono solo la tracklist sul retro della confezione. Gli Agruss si formano nel 2009 a Rivne, e "Morok" è il primo disco di una trilogia riguardante la "vita" dopo il disastro di Cernobyl. Difatti l'opera è stata rilasciata durante il 26° anniversario della disgrazia sovietica. L'attitudine della band è orientata verso il crust, quindi due cantanti (uno specializzato in growl ed uno in scream), improvvisi cambi che portano a ritmi forsennati ed atmosfere malsane. Dai tag avrete già capito che ha qualcosa di speciale questa musica. Ma bisogna davvero ascoltare per riuscire a capire veramente ciò che vorrei raccontarvi. L'opera si apre con "Damnation", preludio colmo di un oscuro shoegaze, accompagnato da apocalittici cori che vanno a sfociare in una malvagità senza precedenti. Il primo impatto è un black/death imponente dal ritmo pestato, ma all'entrata del rullo giunge il black metal più totale, con lo screaming lacerante che poco dopo si alterna ad un growl gutturale, accompagnato da veloci fraseggi chitarristici. Con il blast beat si raggiunge l'apice della violenza di questo primo scorcio di dolore, stoppato da un breakdown che mi trasporta in un attimo di calma shoegaze per poi rifiondarmi di nuovo nella più totale brutalità crust. La traccia, alquanto prolissa e sconvolgente come introduzione di quest'opera ci lascia, scemando con un sottofondo costituito da un ribollio inquietante che apre la seguente "Morok". La title track si presenta dalle tinte lugubri per poi trasformarsi in un death metal tecnico e corposo che in alcune occasioni si maschera di depressive. La parte centrale del disco presenta più compattezza compositiva con "Punishment for All", "Fire, the Savior From Plague" e "Ashes of the Future". Tracce capaci di concentrare al massimo il tecnicismo death, i gelidi riff del black e la devastazione del crust. "When the Angels Fall" sinceramente non m'ha preso subito come le altre, la ritengo la traccia più core per via dei vari breakdown e della prevalenza del growl, tuttavia ognitanto scopre delle parentesi con notabili sfuriate crust e tremolo picking black. Ora inizia la triade di "Under the Snow". Tracce che racchiudono la parte più shoegaze, depressive ed ambient della band, con episodi che a tratti raggiungono anche un funeral doom, in primis la parte III. Non viene però accantonata la vena più malefica del combo ucraino che puntualmente riprende il predominio sulle composizioni. Gli Agruss hanno saputo fondere vari generi ed ambientazioni assai ostiche, difatti ricordano i gruppi più disparati all'ascolto: breakdown in stile Molotov Solution, passaggi alla Nile, muri sonori tipici dei Nagflar o Behemoth, rabbia rifacenti ai Iskra e Martyrdod, insieme ai riff più freddi e malefici di Craft e Ancient. Ma i gruppi che più mi sovvengono come elemento portante di tutto sono i Dissection per come riescono ad amalgamare il black più grezzo alla potenza del death e i Black Kronstadt per la struttura musicale (ad esempio le classiche intro narrate o le malsane atmosfere) e lo spaziare dalle parti più tranquille al crust più cieco e devastante. Beh, che dire, sono stato veramente sorpreso fin troppo positivamente da questo debut album. Anche se non amante delle sonorità brutal death, mi son trovato davanti ad un prodotto veramente ben congeniato che merita l'appoggio di tutti gli amanti delle sonorità estreme. (Kent)

(Code 666)
Voto: 85
 

domenica 6 maggio 2012

On Broken Wings - It’s All a Long Goodbye

#PER CHI AMA: Deathcore/Metalcore/Swedish Death, Converge
Cosa esce questa volta dal sempre più affollato calderone del death-metalcore “made in USA”? Oggi è il turno degli On Broken Wings di Boston, il cui “It’s All a Long Goodbye” rappresenta il loro secondo lavoro, fuori per una sottoetichetta della Century Media, la Alveran Records. Come per "Some of Us May Never See the World", debut cd del 2003, il quintetto americano propone l’ormai classico hardcore dalle sbiadite tinte swedish death metal. I trademarks sono alla fine sempre quelli: riffoni death/metalcore dai molti cambi di tempo, che alternano con sapienza, momenti speed ad altri molto rallentati ad altri breaks melodici, harsh vocals contrapposte a chorus con voci pulite... sì insomma, niente di più scontato nel panorama musicale americano. Il sound del combo del Massachussets potrebbe essere tranquillamente avvicinabile a quello dei Converge, anche se leggermente più melodico. Le canzoni come sempre si assomigliano un po’ tutte, quindi non riesco ad indicare quelle che più mi hanno colpito. C’è ben poco da aggiungere ad un album che non presenta alcun spunto vincente se non una più che discreta produzione. Oramai, il rischio maggiore per questo genere è che, giunto alla sua saturazione, privi di interesse i fan in giro per il mondo, sarebbe davvero un peccato... Per concludere, gli On Broken Wings si sono rivelati noiosi e anonimi, speriamo che il loro sia proprio “un lungo addio”... (Francesco Scarci)

(Alveran Records)
Voto: 50