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giovedì 13 giugno 2019

Rature - Les Oublies d'Okpoland

#PER CHI AMA: Rap/Punk/Jazz, Massive Attack, Manes
Nel Pozzo dei Dannati si fa metal, che diavolo ne posso pertanto sapere io di rap/hip hop, manco mi piace, eppure c'è chi pensa che inviarci materiale di simili sonorità possa essere sempre un buon mezzo pubblicitario, il classico modo di dire "che se ne parli bene o male, l'importante che se ne parli". E cosi ecco trovarmi qui a parlare dei Rature, duo francese e del loro 'Les Oublies d'Okpoland', secondo atto della loro discografia. Diciamo subito che l'impressione che ho avuto all'ascolto di "Orgue", opening track dell'album (peraltro riproposta anche in versione remix con "Stone" alla fine dell'album), è stata più o meno la medesima di quando piazzai nel lettore cd 'Disguised Masters' degli Arcturus, con la sola differenza che qui si rappa e nel '99, in un disco estremamente sperimentale di una band già di per sé sperimentale, non lo si faceva. Poi ovviamente se sento uno dopo l'altro una serie di "yo", come accade in "Oldschool", non posso rimanere favorevolmente colpito, ripeto io ascolto metal e per quanto possa essere di vedute aperte, il rap non è certo il mio genere. Eppure quello dei Rature è un sound caldo che miscela in modo particolare hip hop, punk rock e free-jazz, insomma un bel pastrocchio. Non mi resta altro che farmi intrappolare allora e superare il mio blocco psicologico, facendomi avvinghiare dalle sinistre sonorità di "Poney" e da quel drumming elettronico accompagnato dalle litaniche vocals di arcturiana memoria. Sta a vedere che ci trovo anche godimento ad ascoltare questa musica, non lo escluderei aprioristicamente. È tempo di "Stone" e di un sound che mi evoca i miei trascorsi trip hop con Massive Attack (e gli album più sperimentali dei Manes) e diavolo mi ritrovo addirittura a scuotere la testa al ritmo strisciante dei Rature; questa sensazione tornerà anche in "Coma", dove ho ripensato a "Karmacoma" dei Massive. Che succede, la musica mi entra sotto la pelle, entra nelle vene e mi immergo completamente nel groviglio sonoro creato da questi due artisti. La successiva "Aeiou" non la amo particolarmente, forse troppo vincolata al rap e non proprio brillante a livello di testi, anche se poi quando parte il soundscape in background, ammetto di esserne particolarmente affascinato, vuoi perché riesco a trovare anche qualche similitudine con i CROWN. Il lavoro continua in questa direzione, abbinando alla trance sonica, una buona dose di sperimentazione che va ad ampliare ulteriormente i miei orizzonti musicali. Voi vi sentite pronti? (Francesco Scarci)

(Atypeek Music - 2019)
Voto: 74

https://business.facebook.com/AtypeekMusic/

mercoledì 12 giugno 2019

Ferriterium - Le Dernier Livre

#PER CHI AMA: Black, Windir, Satyricon
Oltre a Dies dei Malevolentia coinvolto nei Saturnus Terrorism, anche Raido, della stessa compagine, si è lanciato nel classico side-project, i Ferriterium. La band francese è però già al secondo album, ossia questo 'Le Dernier Livre', un lavoro diviso in sei lunghi capitoli. L'album chiama in causa come principale influenza i Windir, proponendo infatti già dall'opener epiche melodie di chitarra che accompagnano una ruvida matrice ritmica e le indemoniate vocals di quello che è in realtà il chitarrista dei Malevolentia. La musica è tiratissima in tutti i brani ma mantiene comunque quell'approccio evocato dalla musica classica, sviscerato peraltro dagli stessi Windir e dagli svedesi Dispatched. Se i primi due capitoli del cd guardano tendenzialmente ad un black algido ma atmosferico, "Chapitre 3" è più orientata al versante thrash black, pur esibendo un breve break strumentale ove poggiare le vocals invasate del frontman e ripartire poi di slancio con le classiche glaciali melodie intessute dalla sei corde e il serratissimo lavoro alla batteria di Bael. È tuttavia con il quarto capitolo del disco che si toccano gli apici sensoriali di questo lavoro. Una melodia estremamente malinconia scandita dal rifferama del chitarrista, affiancata da un drumming omicida aprono il pezzo, che in 90 secondi prova a cambiar ritmo, rallenta creando un po' di suspense, ma poi riparte col classico tremolo picking ed una serie di cambi di tempo da urlo, scanditi da splendide melodie e da una sezione solistica finalmente all'altezza, che eleggono il pezzo come il mio preferito del disco. Il pungente e ficcante tremolo picking apre anche "Chapitre 5" in quella che forse è invece la song più brutale del disco, là dove convergono le influenze dell'asse formato da Dissection, Satyricon e Mörk Gryning, anche se in realtà potrei citarvene mille altri, considerato che la song strizza poi l'occhiolino ad un certo black'n roll spaccaculi, soprattutto nell'ottimo assolo a metà brano. La carneficina termina con "Chapitre 6", l'ultimo episodio che mette ancora in mostra una certa abilità nella ricerca melodica messa poi a disposizione della durezza del combo transalpino, a scardinare i cuori gelidi dello stuolo di metallari e allo stesso tempo a testimoniare l'eccellente performance stilistica messa in atto da questi Ferriterium, una band assolutamente da non sottovalutare. (Francesco Scarci)

Marche Funèbre - Death Wish Woman

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Paradise Lost
In attesa di ascoltare il nuovo Lp dei belgi Marche Funèbre, la band ha pensato di regalare ai propri fan, nell'autunno 2018, un EP ('Death Wish Woman') di una mezz'oretta che tenesse calde le orecchie degli amanti del death doom del quintetto di Anversa in vista dell'inverno. E cosi, ecco tre nuove tracce più la cover "As I Die" dei Paradise Lost. E proprio ai primi vagiti di Nick Holmes e compagni, la band belga sembra rifarsi, anche se francamente siamo lontani dalla genialità dell'act britannico. "Broken Wings" è una stilettata death metal, solo leggermente sfiorata in qualche soluzione atmosferica, dalle reminiscenze doom che fanno parte del bagaglio dei nostri, mentre a livello solistico, i punti di contatto con il "Paradiso Perduto" si fanno più forti. Con la title track, il registro non sembra cambiare: ancora death secco e diretto ad inizio e fine canzone, mentre nel bel mezzo del brano fa la sua comparsa una voce pulita e una ritmica più adeguata ai canoni dell'ensemble, che ci riporta in mente i Candlemass più epici. "A Departing Guest" è un viaggio di quasi tredici minuti all'insegna di un doomish sound che questa volta evoca i My Dying Bride, ma la song è cosi lunga che nel suo malinconico svolgersi, si possono scorgere altre influenze, soprattutto nel dicotomico uso della voce, sia in pulito che growl e nella comparsa di atmosfere dal sapore quasi stoner che cozzano un pochino con le più intransigenti accelerazioni death. Non so, non mi convince granché, mi sembra un po' troppo eterogenea, anche quando le chitarre nel loro rifferama, celebrano nuovamente i primi Paradise Lost. E si arriva finalmente a "As I Die", visto che ero curioso di verificare come i Marche Funèbre avrebbero modificato il mitico brano dei PL: se nulla cambia da un punto di vista prettamente strumentale, è a livello di cantato che la song ne esce penalizzata, non tanto quando il vocalist dà libero sfogo al proprio growl, piuttosto quando usa il clean o continua a ripetere "As I Die", mah da rivedere. Alla fine mi sento di dire che 'Death Wish Woman' è un lavoro raccomandato solo per i fan del combo belga, per gli altri, il suggerimento è di ascoltarsi i precedenti full length dei nostri. (Francesco Scarci)

The Vasto - In Darkness

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore
A partire dal nome, i The Vasto non le mandano di certo a dire, la furia distruttiva ed il gusto per la rabbia più pura e feroce sono infatti le caratteristiche principali del loro punk-core viscerale e questo 'In Darkness' segna il punto di definizione della loro identità artistica. Interessante la commistione tra assalti al vetriolo e momenti più calmi come l’inizio di "Fractures", come le onde del mare che prima di infrangersi sugli scogli formano una risacca che porta il fondale alla luce del sole. Non si pensi a qualcosa di post oppure troppo emozionale, la rabbia e l’intensità impregnano pesantemente ogni nota, ogni intro, ogni passaggio. Sì, la risacca funziona come metafora ma solo per mostrare un fondale marcio, pieno di plastica e detriti della civiltà umana, non c’è niente di idilliaco o di poetico, solo un rigurgito di nausea verso tutto e tutti, che non si ferma davanti a nulla. "Fractures" è forse il mio pezzo preferito del disco grazia alla varietà di ritmiche usate e alla sua potenza espressiva, si passa dalla classica ferocia punk ad una coda a ritmo dimezzato propria di generi distanti dalla radice core della band, a riprova del fatto che i The Vasto non sono solo rabbia cieca ma lucida creatività e consapevolezza artistica. "Constellation" con i suoi riff granitici e gli arpeggi dissonanti potrebbe sembrare a tratti una canzone dei Cult Of Luna o dei Deathspell Omega, senza mai perdere di vista il quel tocco personale che i The Vasto sanno conferire ad ogni loro brano. Chiude il disco un’adrenalinica "Crocodile Tears" dove la radice punk si fa ancor più evidente sempre accompagnata da ruggenti stacchi di distorsioni fino al rallentamento e alla conclusione finale di 'In Darkness'. Sicuramente un disco che soddisferà il palato degli appassionati del genere ma che sarà in grado di dare spunti originali ed inaspettati a chiunque lo ascolti. Se cercate qualcosa di arrabbiato e ruvido, ma che al contempo sia in grado di spaziare dal proprio genere di provenienza, qualcosa di personale insomma, di squisitamente unico e compiuto nella sua concezione, allora mi sento di consigliarvi vivamente questo ultimo disco dei The Vasto, sono sicuro non ne resterete delusi.(Matteo Baldi)

(Overdub Recordings - 2018)
Voto: 78

https://thevasto.bandcamp.com/

lunedì 10 giugno 2019

Satori Junk - The Golden Dwarf

#PER CHI AMA: Doom/Stoner, Electric Wizard, primi Black Sabbath, Cathedral
Uscito originariamente nel 2017, ristampato nel 2018 e finalmente recensito nel 2019, compare sulle pagine del Pozzo dei Dannati, la recensione di 'The Golden Dwarf', opera seconda dei milanesi Satori Junk. Un disco di sette tracce (di cui l'ultima è la cover dei The Doors "Light My Fire") che confermano quanto già precedentemente apprezzato nel debut album dei nostri. La proposta del quartetto italico ci porta dalle parti di uno stoner blues rock doom di stampo settantiano che ammicca per forza di cose, agli Electric Wizard, ma che prova in un qualche modo ad offrire anche una propria originalità, frutto della cospicua personalità in seno alla band, intuibile peraltro già dalla coloratissima cover del disco. Quindi non stupitevi, ascoltando "All Gods Die" di rimanere impressionati di fronte alla bravura dei quattro sapienti musicisti lombardi nello sciorinare un muro di chitarre ultra stratificato. Non sono certo degli sprovveduti e la musica imbastita ne è certamente testimone, soprattutto nella fumosa "Cosmic Prison", in cui si scomodano facilissimi paragoni con i primi Black Sabbath, vera fonte d'ispirazione dei nostri, in compagnia di Cathedral ma anche dei Baroness, due realtà che già comunque traevano ispirazione dai maestri di sempre. La componente synth-effettistica impreziosisce di molto la proposta dei Satori Junk, e li avvicina per certi versi agli psych stoner veronesi Kayleth. Per ciò che concerne i vocalizzi poi, siamo dalle parti di una voce pulita, un po' effettata ma certamente convincente. Andiamo avanti nell'ascolto e per godere del roboante rifferama della brevissima, si fa per dire, “Blood Red Shine”: oltre cinque minuti, un lampo se confrontata con la successiva "Death Dog", dove sono invece più di quindici giri di lancette a dettare legge, in una melmosa sezione ritmica formata da basso e chitarra, due primizie, soprattutto la sei corde e le sue mirabolanti aperture solistiche, da applausi. La voce invece rimane un po' più nelle retrovie, concedendo maggior spazio all'apporto strumentale dei nostri, in cui a mettersi in evidenza c'è ancora un ispiratissimo synth. Tra lugubri rallentamenti, parti robuste più ritmate ed altre decisamente più atmosferiche, un finale ambientale, i quindici minuti sembrano scivolare anche abbastanza velocemente andandosi a collegare direttamente con la song che dà il titolo all'album per un altro sfiancante giro di dieci minuti secchi, in una traccia dal chiaro sapore sabbattiano, quello del primissimo Ozzy per intenderci. L'incedere è dapprima lentissimo, affidato alla voce del frontman, alle keys e ad un drumming ossessivo, poi ecco a subentrare chitarra e basso, in un pezzo ammorbante, ansiogeno e orrorifico. E passiamo alla cover dei The Doors, ultimo atto del cd: che dire, se non che sia praticamente irriconoscibile. Nemmeno nell'introduttivo giro di chitarra si riesce a riconoscere la famosissima melodia di Jim Morrison e soci; direi che l'unico punto di contatto con l'originale rimane il chorus centrale, visto che la voce di Luke Von Fuzz non ricorda nemmeno vagamente quella del suo ben più famoso collega e la parte solistica prende una piega tutta sua con i nostri a dar vita ad una versione funeral stoner di una delle canzoni più famose della storia del rock. Esperimento comunque riuscito e che ancora una volta, sottolinea la spiccata personalità del quartetto milanese. Con qualche correttivo, auspico che il terzo album sia molto meno derivativo di questo 'The Golden Dwarf' dando modo ai Satori Junk di essere ben più originali. (Francesco Scarci)

(Endless Winter - 2018)
Voto: 74

https://satorijunk.bandcamp.com/

Laetitia in Holocaust - Fauci tra Fauci

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Blut Aus Nord, Janvs
Era la fine del 2011 quando recensii 'Rotten Light' su queste stesse pagine ed intervistai i Laetitia in Holocaust negli allora studi di Radio Popolare Verona. Da allora un lungo silenzio, che mi ha portato più volte a pensare che il misterioso duo di Modena, si fosse sciolto. Poi ecco che spunta il coniglio bianco dal cilindro del mago e come il classico fulmine a ciel sereno, i nostri tornano con un lavoro nuovo di zecca, 'Fauci tra Fauci', fuori per la Third I Rex, che ha avuto il grande merito di credere in questi due ottimi musicisti. Diciamo subito che il sound dei nostri non è cambiato poi di molto rispetto a quel disco che tanto mi aveva impressionato, sebbene siano trascorsi quasi otto anni. I due misantropi N. e S., continuano nella loro proposizione di un black scevro di ogni riferimento e contaminazione, come se il tempo si fosse fermato a quel lontano 2011 e che nessuno abbia nel frattempo partorito idee vicine a quelle schizoidi della compagine emiliana. E quindi ecco che gli sperimentalismi ritmici dei nostri tornano a frastornarci nell'opener "Diva Fortuna", grazie a quel riffing che io trovo inimitabile, forsennato, straniante, sul quale poi poggia il cantato grattato di S.. "Through the Eyes of Argo" ha un attacco più punk oriented, anche se poi la traccia si muove lungo le coordinante di un black che rievoca per certi versi Janvs e Spite Extreme Wing, e dove sottolineerei l'ottimo lavoro di basso di N. in sottofondo, mantenendo comunque intatta l'originalità, da sempre marchio di fabbrica del duo modenese. "In Cruelty and Joy" è una song più vicina a quanto fatto dai nostri in passato con il classico rincorrersi delle chitarre tra improvvisi cambi di tempo, ritmiche convulse e ammorbanti, che crescono dentro come un virus mortale. La cosa che mi stupisce dopo tutto questo tempo è l'osservare che la band, pur non brillando per un largo sfoggio di melodie, ha la capacità di convogliare nelle proprie ritmiche, un fluido immaginifico che ha il potere di attrarre e sedurre coloro che si mettono all'ascolto della musica dei Laetitia in Holocaust. E quindi nel caos primigenio della terza traccia, io abbandono i miei sensi e mi lascio annegare in una furia iconoclasta avanguardista sperimental-esticazzi mi verrebbe da aggiungere. Questo perché i due sovversivi musicisti fanno ancora una volta quel diavolo che gli pare, sbattendosene di canoni e stilemi vari del genere e sbattendoci in faccia un suono privo di ogni tipo di rigidità strutturale. Figurarsi poi quando mi ritrovo ad ascoltare il pianoforte di "Exile" (opera di Dark Shaman) con le clean vocals a supporto, che cosa posso pensare? Che siano dei fottuti geni o che ci stiano prendendo tutti per il culo, fatto sta che i Laetitia se ne fottono di quello che posso pensare io o chiunque altro e vanno dritti per la loro strada fino a "The Elders Know". Un brano questo, in cui i chiaroscuri si fondono con la distorsione delle chitarre, con il suono che rimane sempre in bilico tra vertiginose e scoscese accelerazioni e frangenti più introspettivi, che confondono le idee non poco, cosa che accade anche durante l'ascolto della successiva "The Foot That Submits", ove emergono le influenze alla Ved Buens Ende. Mi soffermerei invece sulla lunga ed epica "Gods of the Swarm", nove minuti e mezzo di accelerazioni indemoniate guidate dalle demoniache vocals e dalle chitarre tanto semplici quanto efficaci, elaborate dal duo italico, frammentate da angoscianti rallentamenti che regalano ampio spazio strumentale al graditissimo comeback discografico dei Laetitia in Holocaust. Speriamo ora non dover aspettare un altro paio di lustri per sentir parlare di questi due stralunati musicisti. (Francesco Scarci)

Camilla Sparksss – Brutal

#PER CHI AMA: Indie/Elettronica/Darkwave/Post Punk
Due splendide foto di Camilla Sparksss sovrastano in copertina, la sua immagine delicata e introversa esplode tra i colori grigi dell'artwork divisa tra il glam dei 60's e la divina bellezza di una Nico del terzo millennio. La sua immagine rispecchia la musica, introversa, trasversale, delicata, ruvida, ruffiana, come se la Siouxie di 'Peek a Book' entrasse nelle note di una Tying Tiffany in vena di emulare Zola Jesus, che a sua volta vorrebbe presentarsi in una veste indie elettronica molto cool e accattivante. All'interno del disco la nostra visual artist e musicista svizzero/canadese, già parte del duo Peter Kernel, esplora innumerevoli paesaggi sonori, dando linfa vitale al mondo dell'elettronica più variegata, tra electro-post-punk, indie e dance alternativa, in un mondo pieno di colori e attitudine punk soprattutto nel canto. La voce di Camilla ha mille sfaccettature, si passa dall'ammaliante e suadente sussurro, alla prestazione vigorosa, al delay gotico degli anni ottanta fino al rap underground. Il villaggio sintetico è servito poiché l'ispirazione compositiva è vicina al synth pop e alla new wave di Chris & Cosey, con un gusto pop destabilizzante, apparendo al pubblico con una veste istrionica e ribelle di grande classe. Il tocco sperimentale appare in tutte le tracce senza mai esagerare, ma fornendo ai brani il giusto tocco astratto, ideale per stimolare l'ascoltatore e non annoiarlo mai, poi in alcune tracce, l'aurea "lynchiana" ed una leggera dose di dark wave fanno il resto, ovvero, rendere l'album appetibile fino all'ultima nota emessa. Del resto la qualità e l'esperienza della Sparksss è indiscutibile dopo un numero così consistente di uscite. Quando in "Messing With You" ci si inoltra in un miscuglio sonoro tra trance elettronica e la magia degli Opal, il gioco è fatto e ci si perde in un vortice di emozioni irresistibile. Le stonature della conclusiva "Sorry" sono un vero capolavoro, tra richiami bui della prima Florence and the Machine e il genio dei Cocteau Twins, un brano di neanche tre minuti in cui potremmo perderci e volare in un'altra dimensione, una vera e propria gemma. Un disco che ci permette di sognare liberandoci da confini sonori, sogni colorati di grigio, pieni di carattere e istinto anticonformista. Un album originale e composto in maniera esemplare. Lavoro notevole! (Bob Stoner)

(On the Camper Records - 2019)
Voto: 75

https://camillasparksss.bandcamp.com/album/brutal

Automb - Esoterica

#PER CHI AMA: Black/Death, Behemoth, Obtained Enslavement
Da Pittsburgh Pennsylvania, ecco a voi gli Automb, progetto black/death che vede tra le sue fila il batterista dell'album 'K' dei Morbid Angel, Scott Fuller, Serge Streltsov (ex Necrophagia) alle chitarre e tal Danielle Evans, gentil donzella (si fa per dire) per voce, basso e tastiere. Il quadro è cosi completato, ora vi serve solo capire la proposta del trio statunitense in questo primo Lp dal titolo 'Esoterica'. Dicevamo di un black death che punta più sulla veemenza delle proprie ritmiche che su un approccio melodico, e la devastante "Horned God" sembra poterlo confermare con una ritmica massiccia, serrata, un muro di cemento armato contro il quale andarci a sbattere. Eppure in questo grandinare di riff, sento una certa vena melodica di sottofondo, sorretta poi dal vociare grugnolesco della brava Danielle, che propina un growl energico, feroce ma soprattutto convincente, che permette qualche accostamento a quella Angela Gossow che sbraitava qualche tempo fa per gli Arch Enemy. Nel frattempo il suono degli Automb viaggia compatto anche con le successive "Summoning the Storm" o "Mourned", sebbene in quest'ultima, per gentil concessione, i nostri ci regalino il primo momento per prendere fiato con un breve break strumentale. Niente paura, nulla di particolarmente atmosferico, vedevo già molti di voi storcere il naso. La band riprende a macinare e viaggiare su ritmi infuocati, con un solo unico obiettivo: la distruzione dei nostri timpani. Tuttavia ascoltando più attentamente le chitarre di questa song mi viene da fare un paragone col suono delle chitarre dei gods irlandesi Primordial, anche se poi qui siamo distanti anni luce dalla proposta pagana del buon Alan Nemtheanga e soci. In questo 'Esoterica', l'avrete capito, non c'è troppo spazio per le melodie o le atmosfere, impegnati i nostri come sono nella loro opera distruttiva. Eppure anche in "Call of Hekate" riecheggia in un qualche modo, una rivisitazione sicuramente più primitiva dei Primordial a cui aggiungerei però un altro nome della scena norvegese che ahimè è scomparsa dopo un meraviglioso lavoro. Sto parlando degli Obtained Enslavement e del loro 'The Shepherd and the Hounds of Hell' che qui, in talune porzioni di disco, sembra riemergere, mostrando il lato più black oriented degli Automb. Un album per certi versi che vede nelle devastanti e annichilenti "Blood Moon" e "Into Nothingness" altri due momenti interessanti del disco. Sicuramente non siamo di fronte a nulla di originale, eppure quest'opera prima può rappresentare un buon punto di partenza per questo trio americano, da tenere sotto traccia assolutamente. (Francesco Scarci) 

(Satanath Records/Final Gate Records - 2018)
Voto: 68

https://satanath.bandcamp.com/album/sat202-automb-esoterica-2018

Sofy Major - Total Dump

#PER CHI AMA: Noise-core/Stoner Rock, Unsane, Melvins, Sonic Youth
Il percorso dei Sofy Major è incentrato su suoni ruvidi e riff pesanti: da 'Permission To Engage' (2010) a 'Waste' (2015), passando per il convincente 'Idolize' (2013), la loro formula non ha visto grosse novità e la band francese si è mantenuta imperterrita sulla rotta tracciata dai loro idoli Unsane. I tre lavori risultano così ugualmente energici e non mancano qua e là spunti interessanti, troppo poco tuttavia per farsi notare in un ambiente ormai inflazionato come quello a cavallo tra noise, sludge e stoner. A quattro anni dall’ultima uscita, dopo un periodo dedicato all’attività live (il contesto migliore per poter apprezzare il power-trio di Clermont Ferrant), ecco 'Total Dump', il cui titolo richiama in modo evidente (così come il precedente 'Waste') il suono sporco e pesantemente distorto dei Sofy Major e non fa che sottolineare l’irriverenza e l’ironia che caratterizzano l’approccio della band. Già dal primo, ascolto ci si accorge che i parallelismi con gli Unsane non mancano neppure questa volta e non solo a livello di stile musicale: è Dave Curran, iconico bassista della band newyorkese, a impostare il mix dell’album in modo ben riconoscibile, ossia con basso bulldozer sparato in faccia all’ascoltatore, la chitarrona contenuta con un filo di prudenza a riempire di colori lo sfondo, l’asciuttissimo rullante della batteria a cadenzare il ritmo delle canzoni. Se brani come la title track e “Giant Car Crash” non sono che l’ennesimo graffiante tributo alla scena noisee hardcore della East Coast, bisogna ammettere che in 'Total Dump' le influenze sembrano più variegate e meglio amalgamate rispetto al passato, con risultati apprezzabilissimi come “Franky Butthole” e “Tumor O Rama”, pezzi ibridi ottenuti dall’incrocio tra l’acidità dello stoner alla Fu Manchu e lo sludge a tinte psichedeliche che possiamo rintracciare in Torche e Baroness. Anche il songwriting appare più ragionato e grazie a questa inedita maggiore cura dei dettagli, la band si cimenta in confronti eccellenti, con i Sonic Youth nell’esperienza malinconicamente allucinata di “Cream It” e con i Melvins nello sludge tossico che caratterizza “Kerosene”. Lo sforzo dei Sofy Major di essere meno intransigenti nella proposta, dando spazio ad un ricco campionario di sfumature e aprendo a sonorità meno arcigne del classico noise-core, premia senza dubbio 'Total Dump' , che risulta così molto più dinamico e cattura l’attenzione dall’inizio alla fine. I suoni, massicci e sbeccati come da tradizione nineties, ci sfilano accanto come una mandria di pachidermi senza però travolgerci, cosa importante per un disco che voglia aprire le porte anche a nuove platee di ascoltatori. C’è da dire che forse la pecca sta proprio qui, nel giusto mix tra la cafonaggine e la ricerca di soluzioni più garbate: i ceffoni ci sono, ma non fanno poi così male, d’altra parte è facile avvertire molto citazionismo e ancora poca personalità nelle composizioni melodiche alternative. Per quanto ben congegnato e piacevole, 'Total Dump' è ancora lontano dall’essere un album in grado di lasciare una traccia indelebile, tuttavia gli amanti delle distorsioni sguaiate non se lo devono assolutamente fare sfuggire. (Shadowsofthesun)

(Atypeek Music/Solar Flare/Deadlight/Antena Krzyku/Corpse Flower - 2019)
Voto: 69

https://sofymajor.bandcamp.com/album/total-dump