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domenica 3 ottobre 2010

Alley - The Weed


Oggigiorno suonare un genere non derivativo è impresa assai ardua, per non dire impossibile, cosi molto spesso ci troviamo di fronte a band che non fanno altro che copiare, clonare, imitare pedissequamente le gesta di grandi gruppi del presente o del recente passato. Per come la vedo io, non è cosi drammatico riprendere gli insegnamenti dei maestri se alla fine ciò che ne viene fuori, ha un proprio perché, delle proprie emozioni da trasmettere o comunque riesce nell’intento di non lasciarci indifferenti di fronte ad una proposta musicale. Faccio questa premessa semplicemente perché ho letto critiche feroci nei confronti di questo gruppo proveniente da uno sperduto paesino siberiano, Krasnoyarsk, in quanto la loro musica non farebbe altro che adottare il principio del “copia incolla” nei confronti dei ben più famosi gods svedesi, Opeth. Ebbene che dire? Non mi sembra proprio un delitto se quel che ne viene fuori alla fine è ascoltabile o addirittura piacevole, quindi non mi sento assolutamente di condannare la scelta del quartetto russo nell’aver rispettato in modo integerrimo gli insegnamenti degli inarrivabili maestri. Insomma l’avrete capito dunque: il sound proposto dagli Alley riprende palesemente la musica di Mikael Akerfeld e soci (periodo “Still Life” e “Black Water Park”) con tutti i loro tipici marchi di fabbrica: songs estremamente articolate e lunghe, l’alternanza tra frangenti acustici ad altri più estremi, stessa effettistica nelle linee di chitarra, l’alternanza tra clean vocals (molto simili a quelle del buon Mikael) e growling feroci. Non mi soffermo neppure nell’analisi track by track perché comunque il sound dei nostri è estremamente debitore agli originali. Certo che alla fine ciò che fa la differenza tra gli Alley e gli Opeth è la classe cristallina che contraddistingue i secondi, mentre per i primi rimane il pregio di aver cercato di raggiungere le vette inarrivabili dei mostri sacri e di aver provato ad esprimere il proprio io attraverso l’influenza che i loro artisti preferiti possono aver avuto sulla musica prodotta. “The Weed” è l’opera prima degli Alley, e sono certo che con il prossimo lavoro, il coriaceo act siberiano, sarà in grado si scrollarsi di dosso l’alone dei maestri svedesi alla ricerca di una propria precisa identità. Esordio comunque positivo per chi come me, ama il prog death. Un’ultima considerazione: ma se al posto di Alley, ci fosse stato scritto Opeth, sarebbe stato fatto tutto questo baccano? Coraggio! (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 65

Raventale - Mortal Aspirations


Terzo lavoro per la one man band ucraina guidata da Astaroth e non posso iniziare con l’elogiare il lavoro fatto, profetizzando che “Mortal Aspirations” sarà decisamente il disco della consacrazione per il polistrumentista di Kiev. Ancora una volta l’est Europa (e la Solitude Production) si confermano un’ottima fonte (e distribuzione) di musica eccelsa, dopo quella che abbiamo già avuto modo di scoprire con Frailty o The Morningside, tanto per citare qualche altro gruppo di assoluto valore. E la musica contenuta in questa release, lascia spazio ad un sacco di considerazioni, che già dall’iniziale “The Fall of the Mortal Aspirations”, mette in luce le qualità indiscutibili dell’act di Kiev: un sound vario, drammatico, ispirato e ricco di sorprese caratterizzano infatti questo terzo lavoro dei Raventale. Partendo da basi blackish dal forte alone doomeggiante, il nostro eroe costruisce trame espressive, ricche di pathos, portatrici di profonde emozioni, grazie alla sua maledetta componente depressive. Le chitarre taglienti (talvolta serrate) rimangono forse l’unico punto di contatto col black metal visto che il più delle volte il riffing si presenta invece bello potente e pesante, quasi al limite del death; le vocals, prese le distanze dallo screaming tipico del genere, si presentano sofferenti e disperate. Ciò che mi stupisce maggiormente sono le orchestrazioni, in grado di conferire un tocco di epicità che non ha potuto esimermi dal ricordare i passaggi di alcuni pezzi dei Bathory più solenni o dei Burzum più ispirati. Cosi come pure è stata migliorata, rispetto al lavoro precedente, la componente atmosferica, che pullula enormemente in questa nuova fatica, grazie ad un intelligente lavoro alle tastiere e all’inserimento di raffinate aperture acustiche (basti ascoltare la disperata melodia e i soavi arpeggi di “Suicide as the Destined End” per intenderci).. “My Birds of Misfortune”, la traccia più selvaggia del cd, si contraddistingue invece per il suo muro sonoro bello compatto, dove le keys, ancora una volta, giocano un ruolo predominante, donando quel tocco di malinconia cosi come si ritrova nel sound degli svedesi Shining, mentre in altri frangenti ecco l’oscuro spettro di “Dance of December Souls” aleggiare nei pezzi. Dopo il brillante ritorno sulle scene dei Drudkh, sono felice che un’altra band, originariamente dedita al pagan black metal, si sia lanciata in nuove sperimentazioni, capaci di dare nuova linfa vitale a questo genere un po’ assopito. Pure intense emozioni! (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
voto: 80

The Morningside - Moving Crosscurrent of Time

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Katatonia
Una lunga spettrale intro apre il secondo lavoro dei moscoviti The Morningside, autori un paio d’anni fa di un interessantissimo lavoro di death doom atmosferico, “The Wind, the Trees and the Shadows of the Past”. Proprio partendo da tali sonorità decadenti, ma ancor di più dall’influsso proveniente dal mitico debut “Dance of December Souls” dei Katatonia, possiamo dedurre su quali coordinate si muove il quartetto russo. L’ensemble est europeo non tradisce assolutamente le mie aspettative, peraltro proponendo al pubblico un lussuoso digipack con un elegante booklet interno. A parte l’estetica, visto che comunque anche l’occhio vuole la sua parte, la musica poi è pura delizia per le mie orecchie e per chiunque abbia amato gli esordi dei già citati Katatonia o dei Paradise Lost. Proprio sulla base di quelle sonorità di primi anni ’90, cosi malinconiche, depressive e autolesioniste, la band sfoggia 5 pezzi (più intro e outro) di raffinata bellezza. Ad aprire ci pensa “Fourteen” e già sono le chitarre ritmiche a mettersi in mostra, spennellando qua e là tinte autunnali di un dolce tramonto di metà novembre. È immediatamente chiaro che il disco ha suggestive emozioni da trasmettere, visto il ruolo cardine che giocano i fantasiosi riffs del duo Sergey-Igor, nell’economia generale del disco: non si tratta infatti di selvagge cavalcate di furente death, bensì vellutati tocchi di pura semplice poesia, con intermezzi acustici e parti atmosferiche, capaci di colmare il dolore dei nostri cuori feriti. La terza “Autumn People” si apre come un qualsiasi pezzo estrapolato da “Shades of God” dei maestri Paradise Lost e come i maestri, anche i The Morningside dipingono desertiche lande ove non v’è traccia d’anima viva. Magnifiche l’emozioni che si sprigionano dalle note di questo disco, complici anche alcune parti ispirate agli statunitensi Agalloch, per quel loro uso di parti acustiche che donano un tocco di magia all’intero lavoro; cosi come eccellenti sono i riffs di chiara scuola “Brave Murder Day”, certamente in grado di trascinare “Moving Crosscurrent of Time” verso un successo più che meritato. Vorrei sottolineare infine che, nonostante questa mia continua citazione di band a cui i nostri si ispirano, la musica dei Morningside non è una pura e mera rilettura dei classici ma un’intensa personalizzazione di quelli che sono i dettami di un genere che, se si è in grado di suonare, può suscitare forti emozioni e i Morningside si confermano talentuosi nelle idee e abili nel’esecuzione; bravi! (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 80

Helevorn - Forthcoming Displeasures

 
Formatisi nel lontano 1999, a Palma de Mallorca, gli Helevorn se ne escono con il loro secondo album (dopo il loro promo cd “Prelude”, uscito nell'inverno 2000 e il primo immaturo lavoro datato ormai 2005 “Fragments”), che li ha definitivamente consacrati come una delle “migliori band doom metal della Spagna” [a detta di alcune delle più famose riviste musicali]. Dopo un periodo di stop durato 5 anni, il sestetto spagnolo rilascia questa nuova release, per la sempre attenta etichetta russa BadMoodMan Music: sonorità doom/gothic, accompagnate anche da qualche exploit con pianoforte (degne di nota sono le tracce “Two Voices Surrounding” e “Revelations”), marcate atmosfere cupe e lugubri degne dei migliori Katatonia degli esordi (bisogna ammettere che la registrazione di quest'album in Svezia ai Fascination Street Recording Studios, sotto l’egida di Jens Bogren e Johan Ornborg, ha lasciato un'impronta indelebile sul sound: mentre il precedente “Fragments” ha visto la luce in Finlandia, negli Finnvox Studios), un growling ben riuscito, che ricorda molto gli Swallow The Sun, coi quali gli ispanici Helevorn hanno girato la Spagna e il Portogallo nel 2007, caratterizzano questo esaltante lavoro, che di originale avrà ben poco ma che comunque si lascia piacevolmente ascoltare. I riff di chitarra sono sempre ben presenti e andanti di pari passo con l'aggressività vocale di Josep Brunet, come a voler marcare profondamente la malinconia che i tempi passati accrescono, vero tema ricorrente di questo cd. In alcune parti Josep ci delizia anche con la sua voce pulita (“To Bleed Not to Suffer”, “Descent” o “Hopeless Truth” tanto per citarne alcune), sebbene il suo uso risulti abbastanza limitato. Registrato nel 2009, ma uscito agli inizi del 2010, "Forthcoming Displeasures" ha tutte le carte in regola per brillare di luce propria, grazie anche alla voglia di sperimentare sonorità che un poco si distaccano dal loro filone degli inizi: ragazzi, questo disco merita davvero di essere consumato a furia di sentirlo e risentirlo, perché un rapido e superficiale ascolto non gli rende affatto giustizia. Provare per credere! (Samantha Pigozzo) 

(BadMoodMan Music)
voto: 75

Kauan - Aava Tuulen Maa


“Contro il logorio della vita moderna!” Questa era la frase di un’indimenticata pubblicità di un amaro, a base di carciofo, ai tempi di “Carosello”. È anche quello che ho pensato dopo il primo ascolto. I Kauan (parola finlandese che dovrebbe significare “per molto tempo”) abbandonano il loro stile precedente e danno alla luce un disco completamente folk. Se questi due russi vogliono cambiare genere ogni volta, e in questa maniera, facciano pure. Anton Belov (chitarre, voce, tastiere) e Lubov Mushinkova (violino) forgiano un’atmosfera autunnale/surreale che si mantiene inalterata per tutto il cd. Quest’atmosfera, quest’anima calma, sognante, calda, con un che di bucolico e con una venatura malinconica, è il punto di forza di questo lavoro. Le emozioni che ne nascono infatti sono le vere protagoniste. Non aspettatevi di cadere nelle braccia di Morfeo per il ritmo lento che caratterizza l’intera release: il duo è in gamba e riesce a tenere svegli, basta provare a seguirli. Sia ben chiaro che non troverete nulla di rock (tanto meno di estremo), anche se, a voler guardare bene, l’unico lascito dalla “vita” precedente, si ritrova nella voce roca in alcuni punti. I suoni elettronici sono molto ben amalgamati alle chitarre, al violino e alle brevi parti cantate. Non aspettatevi grandi differenze di suoni o di composizione tra le tracce (forse “Föhn” è l’unica che si stacca per le parti in crescendo) tutte molto lunghe; non troverete neppure riffs aggressivi, tecnicismi o assoli. Ma va bene così. Sarebbero un peso per le canzoni, che già sono al limite dell’ipertrofia. Fronzoli che costringerebbero i pensieri e ruberebbero la scena alle emozioni. Da apprezzare anche il booklet e il package. Un disco non per tutti, ma state al loro gioco e vedrete che ne varrà la pena. Perdersi un po’ in un angolo sognante, nella frenesia quotidiana e farlo con classe, è una cosa che fa bene allo spirito. (Alberto Merlotti) 

(Firebox/BadMoodMan Music)
Voto: 80

Fairyland - Score to a New Beginning


Ricevo questo album da recensire. La copertina, con una nave sullo stile vichingo e cavalieri in armatura con la spada sfoderata, mi fa subito pensare ad una delle tante band scandinave, magari female fronted, piene di canzoni un po' mielose e speranzose... Invece scopro che la band è al maschile, è italo-francese (ci sono un paio di elementi italiani, per la precisione il bassista Fabio D'Amore e il cantante Marco Sandron, entrambi di Pordenone o zone limitrofe) e assomiglia in modo pauroso sia ai Dragonforce che ai Rhapsody; oltre a suoni sinfonici sono anche presenti parti strumentali che ricordano molto le atmosfere di Danny Elfman: ne è un esempio la prima traccia, che ricorda ampiamente il villaggio di “Nightmare Before Christmas”. “Across the Endless Sea” fa un ampio uso di synth e batteria, mettendo in secondo piano le chitarre e avvalendosi di cori stile orchestra. Il ritmo spazia dal pacato al power, sostenuto anche da assoli di nota modulata (ovvero la tastiera che fa le veci della chitarra) e voce con finali acuti. “Assault on the Shore” si caratterizza di tastiera per il 70%, con la voce che alterna un quasi growl agli acuti che tanto riescono, mentre tutto il ritmo segue perfettamente le orme dei Dragonforce: tutto il brano è incentrato sulla fine del viaggio, un viaggio in barca che ricorda gli attracchi vichinghi alle terre inesplorate ed aride. “Master of the Waves”, più orchestrale delle prime due, rimembra le epiche avventure per mare, verso una destinazione sconosciuta, in balia delle onde e delle speranze: qui il cantante si avvale dell'aiuto vocale femminile di Elisa Martin, female vocalist che in questo album fa solo delle comparse. Accanto alla sua voce, Philippe Giordana decide di tralasciare gli acuti e preoccuparsi di tenere un tono più basso e roco, con un buon risultato. “A Soldier's Letter”, malinconica come non mai, presenta un testo che verte sul difficile addio alla persona amata, soprattutto quando si è distanti e non vi è alcun modo per rivedersi. Tutto il brano riprende il ritmo di “Across the Endless Sea”, riportando di nuovo l'apporto vocale di Elisa Martin e i cori che accompagnano gli acuti, fino a sfumare verso la chiusura. “Godsent”, con violini ed altri elementi orchestrali ed in puro stile Therion, ci ricorda la nostra effimera esistenza verso la grandiosità ed eternità degli Dei, impersonati da una voce grave e profonda. Ascoltando “At the Gates of the Morken”, mi vengono in mente le scure montagne di Mordor, mentre la guerra in fine menzionata nel testo, mi ricorda tanto le vicissitudini di Frodo e Gollum contro l'armata di Sauron (probabilmente si saranno ispirati a questa saga per stendere il testo). “Rise of the Giants”, strumentale, fa un largo uso delle note messe in successione in modo tale da far immaginare qualcosa di grandioso, di immenso, di epico: insomma, l'apertura di un film fantasy con mondi in un'altra dimensione e altri costumi. “Score to a New Beginning”, la penultima traccia, ha un mood più ottimista pieno di speranza come si evince dal testo: persino i cori sono più enfatici ed entusiasti, trasportati dal testo e dall'immagine che crea. Tra attracchi a lande desolate, viaggi per mare verso l'infinito e oltre, tra lacrime e tristezza e nuove speranze, si arriva così all'ultima traccia, “End Credits”, ancora una volta song al femminile, che chiude in dolcezza l'album e per decantare la nuova vita ricreata nelle lande desolate: un bel happy ending e tanti saluti. In sé l'album non è affatto male, anzi: per gli appassionati di questo filone, direi che un ascolto lo merita. Il timbro di Giordana non mi convince granché, forse perché sono più abituata ad ascoltare i Sonata Arctica o i Dragonforce, ma ripeto, un ascolto (e anche più di uno) l’album se lo merita. (Samantha Pigozzo)

(Napalm Records)
voto: 70

Achernar - Spectral Universe

#PER CHI AMA: Black/Death
Immaginate la liscia superficie di un lago assolutamente priva di qualsivoglia increspatura. Ora osservate al suo centro quella nitida, ferma e perfetta falce di luna: crescente, abbagliante. Qualcun altro con voi la sta guardando: la vedete, là, sulla sponda, quella figura incappucciata e oscura? Pronuncia arcane parole. Ecco d’improvviso innalzarsi verso il cielo una violenta e fluorescente colonna d’acqua proprio là dove un attimo prima vi si specchiava la luna. L’acqua ricade impetuosa e repentina, si plasma a formare la creatura. Ascoltatela parlare, emette un growl profondo, catarroso. Quale magico filtro ti sei trangugiato Okram? Bravo davvero. Se mi concentro odo or ora persino il profondo e ritmico pulsare del suo cuore: ottimo lavoro con quella cassa Reshaim. Ecco come “vedo” o meglio “avverto” “Sky’s Suicide”, prima track dell’album. Spero, con queste mie parole, che l’abbiate vista anche voi: che spettacolo. E se vi dicessi che questo era solo l’inizio? Si era solo l’inizio, l’estasi procede cavalcando le note di “The Sign of the Moon”. Una luna che un segno lo lascia davvero. Ancora una volta è la voce che voglio premiare, anzi: le voci, ne distinguo infatti due. E cosa dire della magia di “Into the Depth”: ma quale profondità??? Il fondo lasciatelo toccare agli altri, voi volate lassù, sempre più in alto, voglio vedervi un giorno dare una bella grattatina all’Empireo. Davvero bravo Reshain in “Morning Star”: la scelta di soluzioni relativamente semplici premia un pezzo che sicuramente molti altri non avrebbero esitato a violentare con talvolta inutili estremismi tecnici. Non vi ho ancora parlato di Misa e Antonio, chitarra e basso di questa quaternaria costellazione. Cosa dire: molto buona la mai esagerata distorsione che sempre si sposa con tutti gli altri strumenti senza coprirli. Le plettrate proprio bene quelle corde. Se usassi l’aggettivo estremo per definire questa release, più di qualcuno potrebbe non essere d’accordo al riguardo: sotto sotto non lo sono nemmeno io con me stesso, diciamo che nella scala Mohs lo collocherei al sesto grado, quello dell’ortoclasio. Ne sono certo: la vostra lucente stella del mattino continuerà a brillare lassù in alto, in alto Achernar. Washington sarebbe di certo fiero di voi e del vostro “geomantico” “Spectral Universe”. Pochi capiranno il profondo significato di queste mie ultime, criptiche parole, ma sinceramente non importa… (Rudi Remelli)

(Self)
Voto: 75

NeverNight - NeverNight


“There is a time to fight, there is a time to rest, but no one will sleep tonight”
Loro vi hanno avvertito, continuate l’ascolto e vi dimostreranno di mantenere la parola data. E rimarrete sorpresi dal modo in cui riescono a farlo. Gli italiani NeverNight nascono nel 2001 a Montebelluna (TV) da un'idea di Dimitri Salomon (bassista) ed Eric Panazzolo (chitarrista della band fino al 2003). La prima formazione della band registra il demo autoprodotto “Voices from Hell” che raccoglie i migliori pezzi della band. Un cambio dei componenti porta ad una nuova formazione e ad un’evoluzione stilistica che sfocia nell'estate del 2008 con l’entrata in studio di incisione. Nasce il full lenght dal titolo “NeverNight”, nel 2009 i nostri firmano con la "Steelheart Records" che fa uscire l'album nel 2010 ed eccolo tra le mie mani e nelle mie orecchie. Citando un politico contemporaneo “strabuzzo le orecchie!”. Temevo in un prodotto stratosferico per tecnica, ma sempre uguale: timore infondato. Si parte con l’evocativa e oscura “Intro”, da cui è tratta la citazione sopra, che mi ricorda vagamente alcune sonorità anni ’80. Ma il primo vero assaggio della bravura di questi ragazzi è “NeverNight”. Qui ci fanno sentire cosa sono in grado di fare e che cosa hanno davvero in serbo per noi: velocità, tecnica, potenza, versatilità vocale, intensità con un certo riguardo alla melodia. Devo farvi una confidenza, mi sono sentito un po’ orfano di questo tipo di musica ultimamente, sentire questa ottima e coinvolgente produzione italiana mi rende particolarmente felice. Imparata la lezione dei primi “Four Horsemen”, i nostri, la applicano con bravura da vendere e si muovono tra sonorità ora tiratissime, ora più melodiche in una maniera da lasciarmi sbalordito. Devastante l’impatto ritmico di tutto il cd. Andrea Cini (che ha recentemente abbandonato il combo) alla batteria è davvero fenomenale, supportato da un Dimitri Salomon al basso a livelli similmente alieni. I riffoni di chitarra, gli assoli, gli arpeggi di Andrea Collusso sono ottimi, perfetti nell’esecuzione e non banali. Un menzione alla voce del cantante Stefano Bellon, che si dimostra notevolmente duttile passando con una naturalezza invidiabile dal melodico, al growl (vedi “Nevernight), al gridato epic (“The Reaper”) sapendo essere particolarmente sofferta in una traccia come “Prayer”. Tutte queste caratteristiche si fondono in una di quelle rare alchimie dove il tutto è più della somma delle parti. Un disco che mi ha affascinato per la varietà delle track, alcune tipicamente thrash, altre metal, con slanci verso l’epic (“The Reaper”), con cavalcate furiose come “Night of Death” e ballad toccanti come in “Fly”. Quest’ultima, divisa in due parti, emoziona per la melodia raffinata, ricercata e impreziosita dalle tastiere, posta a metà del lavoro, creando una pausa calma ideale per esaltare ancora di più le altre parti molto tirate. Molto ben curati il packaging e l’artwork. Il booklet con tutti i testi delle canzoni è sempre una gioia per i miei occhi. I NeverNight dimostrano di essere a livelli molto alti, per esecuzione, per creatività e per capacità di scrivere canzoni, anche piuttosto lunghe, senza ripetersi. Non nascondo il mio piacere nell’aver ascoltato questa loro fatica: coinvolgente, potente, dalle molte sfaccettature, capace di colpirmi con (quasi) ogni canzone e per nulla scontata. Merce rara al giorno d’oggi. Veramente di buon auspicio questo full lenght. Attendo da loro nuove emozioni! (Alberto Merlotti)

(Steelheart Records)
voto: 75