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lunedì 25 aprile 2022

Remote - The Gift

#PER CHI AMA: Stoner/Doom
Sentivo la mancanza di un po' di doom, quello claustrofobico, un po' psichedelico e un po' acido, quasi quanto tutto quel regno vegetale dipinto nell'artwork del cd dei russi Remote. I tre musicisti, orignari della semisconosciuta città di Kaluga, ci accompagnano in 'The Gift' proponendoci un concentrato di doom, sludge, psych e death (quest'ultimo più che altro solo per il growling). Sei lunghe tracce di pura distorsione chitarristica, che dall'iniziale "Ouroboros" arrivano fino alla conclusiva, lunghissima (16 minuti) e sfiancante "Tseni", attraverso un viaggio complicato che vede i nostri muoversi tra ondivaghe ritmiche e quel carattere fuzz delle chitarre, mentre la voce tignosa di Eugene racconta di uso di droghe e alcol. Il lavoro si muove senza grossi tentennamenti lungo la title track, ma anche senza troppe trovate stilistiche che possano far gridare al miracolo. "Veisalgia" prosegue sullo stesso pattern evocando in modo randomico, i primi Electric Wizard e i primi Cathedral, gli Eyehategod e via dicendo. La traccia comunque mostra un interessante break atmosferico centrale che probabilmente la differenzia dalle altre canzoni, cosi come quel timido assolo conclusivo. "Prototrip", pur avendo un titolo cosi evocativo, non riflette quello che mi sarei aspettato di ascoltare, ossia un sound decisamente lisergico ma è forse il pezzo più stoner doom del lotto, e quello che vanta anche il miglior assolo del disco. Si prosegue con "Viy", un brano un po' più ostico in fatto di melodie cosi discordanti, però forse è quello che alla fine risulta anche il più riuscito e mi ha suscitato meno perplessità. (Francesco Scarci)

sabato 23 aprile 2022

Gong Wah - A Second

#PER CHI AMA: Psych/Post Punk/Indie
Li abbiamo apprezzati un anno e mezzo fa quando i nostri uscivano con il loro album omonimo. Tornano oggi i tedeschi Gong Wah, forti di un nuovo lavoro all'insegna di quelle sonorità kraut rock, elettronica e fuzzwave che avevamo avuto modo di apprezzare nel debut. 'A Second' segna il passo del secondo capitolo per la band di Colonia che vede ancora l'evocativa voce di Inga Nelke dominare il palco. E la proposta dei Gong Wah la si apprezza sin dall'opener, cosi gonfia, cosi melodica e trascinante. "Heartache Jean" corre che è un piacere e noi con la fantasia proviamo a starle dietro. "The Well" nel suo incedere pop rock ci porta nel mondo fatato dei Gong Wah, dove il basso magnetico di Giso Simon si unisce al fare seducente di Inga. Le percussioni darkeggianti di Nima Davari aprono "Consolation", una danza ipnotica che non potrà non coinvolgervi nel suo mood non troppo distante pure dallo shoegaze, in un brano che ha una progressione splendida e violenta, che la identificherà alla fine di questo viaggio, tra i miei brani preferiti del lotto. Sofferenza pura per la minimalista "Baby, Won't You Come Along", tiepida e inconsistente però nelle sue zaffate droniche. Più votata al post punk con venature elettroniche invece "Paint My Soul", ancora una volta coinvolgente nelle sue note quasi danzerecce, con la voce di Inga qui sopra gli scudi. E si arriva al momento del pezzo più lungo e strutturato del disco, "One Fine Day", otto minuti di commistioni sonore tra elettronica minimalistica, IDM, kraut rock e qualche ulteriore sfumatura che solo ripetuti ascolti potrebbero palesare. Ma questo è un altro pezzo favoloso di questo 'A Second', un disco in grado di celare ancora piccole perle tipo l'irruenta e sbarazzina "The Violet Room Track". Più ritmata invece "This Life", ed è in questo genere di brani che vedo più "normalità" nella proposta dei nostri, anche se, ancora una volta la voce suadente di Inga, ravviva un po' il tutto. In chiusura la ninna nanna affidata a "A Head Is Not A Home", una ballata che chiude questo stimolante e sperimentale lavoro dei Gong Wah. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 76

https://gongwah.bandcamp.com/album/a-second

lunedì 18 aprile 2022

Fooks Nihil - Tranquillity

#PER CHI AMA: Vintage Rock/Psichedelia
Recensiti dal buon Bob Stoner un paio di anni fa col disco di debutto omonimo, tornano in sella i teutonici Fooks Nihil e il loro sound iper vintage che ci porta a cavallo tra gli anni '60 e '70 con un sound che potrebbe fare da colonna sonora a "Sulle Strade della California" o "Le Strade di San Francisco", due telefilm di metà anni '70. Perchè questo pensiero? Ho immaginato una visione dronica della West Coast, delle sue strade e delle sue spiagge, e in sottofondo questi psichedelici brani che a partire dalla bluesy "Lovely Girl", cosi ammiccante i Buffalo Springfield, si muovono lungo gli undici brani di 'Tranquillity', evocando qua e là anche Crosby Stills & Nash e soprattutto i The Byrds, letteralmente proiettandoci indietro nel tempo di cinquant'anni. Quello dei Fooks Nihil non sembra assolutamente un album concepito oggi, ma sembra tuttavia una raccolta di inediti di alcune delle band sopraccitate. Se vi piacciono questo genere di sonorità, che chiamano in causa anche i Beatles ("Mangalitza") e gli Eagles ("C.A. Walking"), non potrete farvi mancare l'ascolto di questo lavoro decisamente old style. Il mio brano preferito? Non ho alcun dubbio, "Elain", con quel suo mood alla Bob Dylan e quell'assolo conclusivo da urlo. Menzione conclusiva per "Pictures of You", un brano dal rilassatissimo e forte "sabor latino" che incanta per quel suo scherzoso fare che mi ha evocato "Piranha" di Afric Simon. Si insomma, non propriamente un album da Pozzo dei Dannati, ma per una serata in allegria, 'Tranquillity' può andare alla grande. (Francesco Scarci)

mercoledì 6 aprile 2022

Taumel - Now We Stay Forever Lost in Space Together

#PER CHI AMA: Dark/Jazz
Il buon Bob si era divertito a recensire il debut album dei teutonici Taumel, sempre in bilico tra doom, dark e psych jazz. E cosi ero curioso anch'io di mettermi alla prova con la stravagante creatura di Jakob Diehl, lo "Sconosciuto" della serie Dark, che torna con la seconda parte del ciclo musicale chiamato 'TRAUM'. Questo secondo capitolo, dal breve titolo 'Now We Stay Forever Lost in Space Together', racchiude cinque nuove oscure e psichedeliche visioni del poliedrico artista tedesco. L'album si apre con "Now" che nei suoi suggestivi giochi di chitarra mi evoca immediatamente i Pink Floyd. Le analogie con la band inglese e tutto il seguito che si è portato dietro nel tempo, sono tangibili nei chiaroscuri del quartetto di Rheda Wiedenbrück, con sonorità che potrebbero essere accostabili anche alle colonne sonore prodotte dagli Ulver, quelle di 'Lyckantropen Themes' e 'Svidd Neger', tanto per capirci, anche se quanto composto dai Taumel suona decisamente più pensato ed articolato nella sua stravagante forma musicale. "We Stay", la seconda song, ha un piglio decisamente più improvvisato anche se la sua prima parte potrebbe essere usata come colonna sonora per il mio funerale. Dal terzo minuto in poi, le atmosfere si fanno più stralunate, e quanto messo in scena sembra più frutto di una jam session che altro, un incontro tra artisti jazz, kraut, doom, blues, psych e chi più ne ha più ne metta, visto che non sarà cosi semplice accostarsi a tali sonorità. E non importa che il tutto sia esclusivamente strumentale, i vari strumenti esplicano qui il ruolo di mille voci differenti. Con "Forever", l'atmosfera si fa ancora più noir: mi immagino uno di quei locali fumosi anni '60, con un sassofonista che suona minimaliste melodie di un altro tempo, mentre la gente attorno non si accorge di quell'omuncolo che in realtà è un artista fenomenale che ahimè nessuno comprende. E quel senso di vuoto che risiede nella sua anima si manifesta attraverso suoni glaciali e al contempo caldi, difficile da spiegare, ancor di più da capire. È con "Lost in Space" che si parte invece per galassie lontane, dove il propellente è rappresentato da strambe melodie aliene espletate da inaspettati strumenti musicali in mondi surreali che sembrano dipinti da Salvador Dalí, De Chirico o più recentemente da Willem den Broeder. Il disco chiude con "Together", l'ultima stravagante espressione musicale di 'Now We Stay Forever Lost in Space Together' (l'avevate notato vero che il titolo del disco non sono altro che i titoli dei brani?), in un viatico triste e deprimente di sonorità surrealistiche tra il suono di una tromba ed effetti vari che sanciscono la genialità di un ensemble quasi unico nel suo genere. (Francesco Scarci)

sabato 26 marzo 2022

La Fabbrica dell'Assoluto - 1984: l'Ultimo Uomo d'Europa

#PER CHI AMA: Prog Rock
Tralasciando un'intro recitata che ha l'impatto di un Pholas Dactylus appena assunto in banca e chiusa da una coda strumentale che suona grosso modo come tutti i vostri vinili progressive suonati contemporaneamente, '1984: l'Ultimo Uomo d'Europa' prosegue trainato da un tastierismo-colonia-di-slippermen ("O'Brien", "Chi Controlla il Passato Controlla il Futuro Chi Controlla il Presente Controlla il Passato") che conferisce tonalità vampire-horror alla maniera, per esempio, dei Goblin più cinematografici, dei Museo Rosenbach e possibilmente qualcuno dei nordici anninovanta (Par Lindh Project o forse certi Anglagard), chitarrismi hard gentle-primotullici (l'incipit di "Chi Controlla il Passato...", sempre lei o la chiusura di "Bipensiero") o garybaldi/biglietto-infernali ("L'Occhio del Teleschermo") alternati a rarefatti sperimentalismi kraut-psych (tutto il resto di "Bispensiero") appositamente retrodatati. Sopra le righe il power-singing di Claudio Cassio, collocabile tra il migliore Gianni Leone (Il Balletto di Bronzo) e la Giuni Russo meno nervosa, godibilissime certe esagerazioni ipertastierose alla E-L-P che popolano soprattutto "Processo di Omologazione", l'inevitabile (ma notevole) compendio dell'intero album. Del tutto fuori bersaglio, nell'opinabile opinione del sottoscritto, la scelta di mettere in scena un romanzo scostante e freddo come '1984', profondendo semplificazioni e sensazionalismi: “passo il tempo a pensare quanto vale una vita” et al.. Et molti al.. (Alberto Calorosi)

martedì 22 marzo 2022

Kryptograf – The Eldorado Spell

#PER CHI AMA: Stoner/Psichedelia
Bisogna ammettere che ascoltando il nuovo disco dei Kryptograf, si ha proprio l'impressione di tornare indietro nel tempo, perchè il vintage rock, imbevuto negli anni settanta di questi giovani musicisti indipendenti norvegesi, ha tutte le caratteristiche e la vitalità per rinverdire i suoni e gli eroi di un'epoca che mai sarà dimenticata dagli amanti del rock. Il quartetto di Bergen si destreggia egregiamente in un groviglio di spunti acidi, freschi, credibili e moderni, giocando con lo stoner, esaltandone i toni 70's e psichedelici, riuscendo nella difficile opera di presentare un lavoro che risulti contemporaneamente, derivativo, originale ed attuale. L'attualità la offre una più che valida produzione, che permette a tutti i suoni di entrare in circolo nel modo migliore. L'originalità invece la dona la loro visione personale dello stoner, assai ritmico e legato a suoni compressi, dilatati quel tanto che basta per dare quella giusta dinamica retrò, per cui non si ha mai la sensazione che la band si spinga veramente verso qualcosa di heavy anzi, prevale un mood quasi primordiale volto a rispolverare i fantasmi sonori dei Black Sabbath di 'Technical Ecstasy', senza spingere mai sui bassi, o senza imitare i Kyuss e gli Electric Wizard. Le chitarre suonano riff ricercati che in più circostanze ricordano le particolari atmosfere create dal mitico Martin Barre (Lucifer's Hand) e in generale, si trovano a proprio agio tra le coordinate più elaborate del suono (prendete ad esempio gli effetti usati per le voci) come fossero una restaurazione moderna di quel folgorante debutto che fu l'omonimo album di Captain Beyond del 1972. Nel comporre posso dire che i nostri sono dei virtuosi (ascoltate il brano "Aphodel") con un grande talento nel mescolare e rianimare quei suoni lontani nel tempo, e dotati di una forte personalità che li porta a proporre una canzone come"The Eldorado Spell" dove la batteria sembra uscita da una canzone dimenticata per decenni in un cassetto nella scrivania dei The Doors con quelle sue atmosfere acide, psichedeliche ma con risvolti al limite del progressivo. Quando la band calca la mano sulla vena stoner, come accade in "The Spiral", la magia di questo genere si riaccende ed sebbene preferisca la band in un contesto più progressivo e curato, la musica si apre a visioni allucinogene nello stile dei Frozen Planet...1969 o dei mai dimenticati Core di 'Revival', i Kal-El o le visioni acide dei Kadavar, gli Sheavy o gli Half Man. Per gustarvi la band e verificare con i vostri occhi ma soprattutto con le vostre orecchie le capacità di questo giovane quartetto, cercate su youtube la loro performance live "OrangeJams w/ Jam in the Van", avrete modo di apprezzare ancora di più la band ed il loro nuovo imperdibile album. (Bob Stoner)

lunedì 21 marzo 2022

Bjørn Riis - Everything to Everyone

#PER CHI AMA: Prog Rock, Porcupine Tree
Partiamo da un paio di assunti: sono un grande fan degli Anathema versione prog rock ed ho amato il precedente 'A Storm is Coming' del musicista norvegese (co-fondatore degli Airbag), quindi ammetto di aver aspettato con certa trepidazione l'uscita della nuova release del buon Bjørn Riis. Fatte queste dovute premesse, ecco apprestarmi ad infilare nel lettore questo 'Everything to Everyone', quinta release ufficiale per il polistrumentista scandinavo e sei nuovi pezzi a disposizione per saggiarne lo stato di forma. "Run" attacca in modo roboante, per poi assopirsi, dopo un paio di minuti di inattese sgroppate di rock duro, in atmosfere soffuse, delicate e malinconiche che pescano qua e là dai chitarrismi gilmouriani dei Pink Floyd. Non c'è voce nella traccia d'apertura, solo tanta atmosfera che avrà modo di evolvere in un sonico turbinio finale. La voce calda e magnetica di Bjørn arriva con la seconda "Lay Me Down", e quasi dodici minuti di carezze e melodie, in cui il frontman duetta con Mimmi Tamba, cantautrice norvegese, mentre le sonorità si muovono sempre nei pressi di un soffuso prog rock cinematico, fatto salvo in taluni frangenti (quelli che fatico un po' più a digerire) in cui Bjørn e i suoi ospiti (membri di Airbag, Wobbler, Caligonaut, Oak e molti altri), si lanciano in riffoni decisamente più robusti. Ma è l'aspetto più psichedelico del talentuoso chitarrista degli Airbag che prediligo, quello che chiude la seconda traccia attraverso una lunga deriva di pink floydiana memoria con un assolo davvero notevole. Ancora la voce di Bjørn in apertura di "The Siren", song dai forti tratti malinconici che mi ha evocato ahimè pesantemente "You and Me", tratto dal precedente lavoro. "Every Second Every Hour", un'altra maratona di oltre 13 minuti, ha un che degli Anathema nel suo incipit arpeggiato e nella voce quasi affranta del vocalist. La song scorre come un film in bianco e nero, tra passaggi di grande malinconia e variazioni nel cantato che conferiscono un po' più di incertezza al brano, anche nell'oscuro break centrale che sembra tagliare il pezzo in due differenti segmenti, di cui il secondo è quella più strumentale, con ampio spazio ceduto al virtuosismo chitarristico. Un beat elettronico, in compagnia di una chitarra arpeggiata, apre "Descending", una discesa spirituale negli abissi dell'anima dell'artista norvegese, deprivata però di ogni componente vocale. La voce di Bjørn in compagnia della bravissima Mimmi, torna nella title track che va a chiudere il disco (attenzione che nella versione digisleeve ci sono anche due bonus track), in quella sorta di duetto uomo-donna che contraddistingue ogni benedetto album degli Anathema. A differenza della band inglese poi qui, metteteci una grande perizia tecnica, ottimi assoli e tanta, tantissima passione che sottolinea ancora una volta la performance di Bjørn Riis e compagni. (Francesco Scarci)

sabato 12 marzo 2022

Juice Oh Yeah - S/t

#PER CHI AMA: Prog/Psych Rock
Con un moniker del genere, era quasi lecito aspettarsi una proposta all'insegna dello psych stoner rock. Ci pensano i Juice Oh Yeah a prenderci per mano e trascinarci nel loro visionario mondo di questo secondo disco omonimo che giunge a sette anni di distanza dalla precedente release. L'album consta di cinque song che esplodono con l'iniziale "Rels" in un riffing ipnotico con una dinamica intrigante e avvolgente, fatta anche di vocalizzi antemici e pulsanti linee di basso, con la chitarra che sembra guidare questa cavalcata in costante progressione sonica. "Dnaa" parte invece decisamente più soffusa, con una melodia che sembra provenire dall'estremo oriente. Il brano si presenta comunque assai variegato, con break atmosferici dove compare una misteriosa voce in sottofondo e accelerazioni stralunate che alterano, in modo positivo, l'incedere musicale. Se la durata dei precedenti pezzi oscillava fra i quattro e i sei minuti, con "Mane" si arriva a superare i 12, grazie a sonorità prese in prestito questa volta dalla tradizione medio-orientale. È lungo l'incipit che introduce il cuore di una song che ha più le movenze di una danza a lume di candela piuttosto che di un brano elettrificato, con tanto di vocals in grado di adattarsi a tali sonorità. Poco prima del quinto minuto, finalmente fanno la loro apparizione le chitarre elettriche, mentre il drummer si sbizzarisce in una fantasiosa percussione. Ma il ritmo del brano è costantemente altalenante, visto che al settimo minuto sembra che uno spettro funeral doom si impossessi del duo di musicisiti, originari di San Pietroburgo. Ma da qui alla fine le cose avranno modo di cambiare ancora, con quell'organo che sembra evocare The Doors e compagni. Arriva anche il momento di "Poleno" e sulle note strafatte dell'intro, ecco una vocina in falsetto a fare la propria comparsa, mentre il sound deve sempre compiere un paio di giri di lancette d'orologio, prima di decollare questa volta con un volo che ci porta direttamente in mondi distorti e psicotici. La conclusione del cd è affidata alle note di "Vnyz", un pezzo che non fa certo della scontatezza il suo verbo, semmai sembra più il frutto di una jam session tra artisti appartenenti a più scene musicali, dall'heavy metal al doom, passando dallo stoner e dal prog di scuola King Crimson (con tanto di tromba in primo piano a metà brano), il che sottolinea la stravagante originalità della proposta di questi Juice Oh Yeah. (Francesco Scarci)

(Addicted Label - 2020)
Voto: 75
 

martedì 8 marzo 2022

The Grand Astoria - From the Great Beyond

#PER CHI AMA: Stoner/Psichedelia
Da San Pietroburgo arriva un quintetto (ma in realtà si tratta di un grande collettivo di musicisti) che di strada ne ha fatta parecchia dalla loro fondazione, risalente ormai al lontano 2009. Si chiamano The Grand Astoria e propongono una mistura di hard rock psichedelico contaminato da influenze folk jazz. Il loro nuovo EP, 'From the Great Beyond', si apre con l'acustica folkish della title track che rappresenta il biglietto da visita dei nostri. A fronte di un incipit tranquillo, la song prende lentamente forma in una progressione crescente che ha quasi del sorprendente, tra cori un pochino ruffiani, accelerazioni ritmiche e strappi jazzistici. Non proprio il mio genere preferito, ma devo ammettere che l'ascolto mi ha intrigato non poco. "Wasteland" attacca in modo apparentemente più elettrico, con chitarra e una voce evocativa in primo piano. Con piglio ancestrale, segue a ruota una musicalità quasi da tribù indiana e poi ecco delle tastiere super psichedeliche che entrano nella testa e da lì faticheranno ad uscire. Con la lunghissima "Njanatiloka" (oltre 10 minuti), l'impressione è di aver a che fare con la controfigura dei Black Sabbath, sia a livello vocale per le reminiscenze "ozziane" del vocalist, che per un apparato ritmico bello compatto che all'altezza del quarto minuto, evolverà in lisergiche e deliranti divagazioni psych rock, con tanto di un fantastico assolo incorporato, sia di chitarra che di flauto. Poi si va verso un'anarchia musicale, quella tipica delle jam session con gli strumenti che viaggiano verso molteplici direzioni e suggestioni, e che non potranno non conquistarvi. Un altro riffone apre "Us Against the World" e qui mi sembra di cogliere delle influenze canore abbastanza graffianti, che mi portano invece ai Faith No More. Analogamente, la musica si presenta bella imprevedibile con schegge ritmiche che all'inizio di questo viaggio, dubitavo fortemente di riuscire ad ascoltare in questo album. E invece i nostri ruggiscono alla grande con riffing tirati e ammiccamenti psych. Gli stessi rff scompaiono nella successiva "Anyhow", un pezzo a cavallo tra il prog dei Jethro Tull, il folk, i The Doors, il jazz e pure il country (vista la presenza di un banjo nella struttura della song), in un melting pot, il cui risultato è davvero particolare. In chiusura i quasi due minuti roboanti della stoneriana e strumentale "Ten Years Anniversary Riff", che vibra tesa nell'aria come una stoccata di sciabola. Da ascoltare. (Francesco Scarci)

Sound of Smoke - Tales

#PER CHI AMA: Psych/Stoner
Ancora una volta mi piange il cuore nel sentire un buon lavoro che non mette in risalto tutte le sue reali possibilità, per un missaggio svolto in maniera poco incisiva, con poco mordente e non sempre efficace. Non è mia consuetudine criticare il difficile lavoro di chi sta dietro al suono di un disco, ma stavolta rimango allibito come una bella chitarra sia stata da più parti emarginata nel contesto musicale. Al suo secondo album (il primo aveva un suono già più hard!), i Sound of Smoke, esnemble originario di Friburgo, cercano una dimensione più fumosa e cupa, sfoderando un buon stile blues dal passo pesante e compatto. Hanno le carte in regola per suonare anche un ottimo rock dalle tinte vintage, anni '70 a tutto tondo, supportati dalla preziosa e splendida voce di Isabelle Bapté (che mi ricorda Emma Ruth Rundle in una veste più soul e più allucinogena), da una massiccia sezione ritmica e, come accennato in precedenza, da una chitarra bassa di volume, che a volte sarebbe bello sentire uscire dalle casse dello stereo, mentre la sua apparizione, è sempre inspiegabilmente tenuta in sordina. La band gira bene e mostra un buon feeling tra i musicisti e tralasciando qualche rischio di plagio (vedi "Witch Boogie" verso gli ZZ Top), si nota subito che la musica dei Sound of Smoke scorre che è un piacere. Il quartetto teutonico crea dalle ceneri degli inni di settantiana memoria, cimentandosi nella ricerca di originalità e riuscendoci in brani come "Indian Summer", dal fascino di scuola The Doors, cadenza ipnotica e ritmica profonda, cembalo, polvere, deserto e una gran prova vocale. In "Dreamin'" e "Devils Voice", i nostri potrebbero gareggiare con i Lucifer o Jess and the Ancient Ones, ma le chitarre sono miti e non sempre decollano, sopra una ritmica che suona trascinante come quella dei brani più orecchiabili degli ultimi the Jesus and the Mary Chain. In questi ultimi brani, effettivamente, le chitarre si prendono un po' più di spazio ed il sound risulta già più cosmico, e nella lunga suite finale, una canzone di oltre 10 minuti, si sente il potenziale stoner che in teoria dovrebbe accompagnare l'intero disco. Presumo che il tipo di equilibrio scelto tra i volumi degli strumenti sia stato voluto per aumentare l'effetto psichedelico del disco ma a mio modesto parere, devo dire che ha funzionato solo nelle parti più soft, rimanendo carente in quelle più heavy. Il disco ha una bella grafica di copertina e i Sound of Smoke hanno delle buone idee, anche se alle volte un po' abusate, la conclusiva "Human Salvation" mi ha molto colpito e la continuo ad immaginare con un pizzico di distorsione in più per deliziare le mie orecchie desertiche. Una band che ha del potenziale, una band che se focalizzerà al meglio la propria direzione sonora, potrà togliersi parecchie soddisfazioni in ambito psichedelico e vintage rock. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 73

https://soundofsmoke.bandcamp.com/

giovedì 3 marzo 2022

Warpaint - Heads Up

#PER CHI AMA: Psych/Art Rock
Un'avveduta riproposizione degli acclamati languori sonici già sobillati nel lavoro precedente ma opportunamente (forse troppo/rtunamente) arricchiti di trame e substrati elettronici, vedi per esempio la kraut-bossa medialista di "Don't Wanna" o le distanze fatton-danzerecce di "So Good" o "Don't Let Go" e ancora la Bristol/izzazione diffusa un po' ovunque, ma soprattutto in apertura ("By Your Side" e "Whiteout"). Oppostamente, due elementi di continuità conducono l'ascoltatore nei paraggi del precedente, omonimo 'Warpaint': la progressiva riverberanza (leggi: sonnolenza) dei suoni e la (stra)ordinaria voce di Theresa Wayman, sempre (in)consapevolmente carica di sensualità ipnotica post-fattanza (in "Whiteout" soprattutto). Spregiudicatamente dream-poppy e save-a-prayeristico invece il singolo "New Song", soltanto apparentemente avulso dal contesto sonoro di quest'album dedito ad un psych art rock tutto al femminile. Un album che fareste bene ad ascoltare in cuffia mentre aspettate l'alba strafatti di mescalina, gambe penzoloni, seduti su un molo di legno proteso nell'Oceano Pacifico. (Alberto Calorosi)

(Rough Trade - 2016)
Voto: 68

https://www.facebook.com/warpaintwarpaint

lunedì 28 febbraio 2022

Cherry Five - Il Pozzo dei Giganti

#PER CHI AMA: Psych/Prog Rock
La suite che apre e domina il secondo album dei "nuovi" Cherry Five (del nucleo originario sopravvivono infatti soltanto i non-Goblin Tartarini e Bordini) recupera il pathos pianistico ma soprattutto la durata autocelebrativa di certe suite tardo E-L-P, in combinazione con passaggi aromaticamente psych e un inopinato chitarrismo rock-metal alla, uh, diciamo Brian May? Sul lato B, una seconda suite alifaticamente prog-pop che mescola la Premiata folkeria Marconi, i New Trolls melodici di "Signore, Io Sono Irish", Notre Dame de Paris, i Rush e un poltergeist dispettoso travestito da Rocky che saltella sulla tastiera di un pianoforte. La galoppante "Dentro la Cerchia Antica" rivela invece una spiccata devozione, specialmente da parte del cantante, nei confronti di 'Nuda' dei Garybaldi, ma con una chiusura crimson-perentoria. L'immobilismo protervo della politica, la guerra, la morte: un concept sui mali moderni come allegoria della Commedia dantesca, che a dire il vero sarebbe già abbastanza allegorica per i fatti suoi. Niente di assolutamente originale, beninteso, ma un po' meglio del qualunquismo sdegnoso del coevo 'L'Era della Menzogna' firmato Delirium. (Alberto Calorosi)

venerdì 25 febbraio 2022

Sólstafir - Ótta

#PER CHI AMA: Experimental Metal
La sottile linea adamantina che avvicina gli elementi Ragnarǫk del viking black metal islandese al post metal metereocratico con tinte nebbiolin-folk, non può non transitare attraverso i suoni nu-sludge-ambient dei Sólstafir e la voce geyser-grohl dello spudorato Aðalbjörn Tryggvason. Collocabile grosso modo a metà strada tra Lars Von Trier che ascolta in cuffia 'Alternative 4' degli Anathema e Michael Gira che sbraita la frase “Sigur rós 'sti maròn”, rompendo un banjo sulla zucca del casellante di Reggio Emilia, questo album nei fatti è affascinante almeno quanto l'immagine di un branco di lupi che sbrana il cantante degli Ulver durante una maestosa aurora boreale. Vi ho incuriosito, dite la verità. (Alberto Calorosi)

(Season of Mist - 2014)
Voto: 85

https://solstafir.bandcamp.com/album/tta

lunedì 21 febbraio 2022

Closure in Moscow – Pink Lemonade

#PER CHI AMA: Prog Rock/Psych/Alternative
L'etichetta australiana Bird's Robe Records, come abbiamo riferito di recente, si è presa l'incarico di ristampare la discografia dei Closure in Moscow e dopo i primi due ottimi lavori ci troviamo di fronte alla loro ultima opera di studio, uscita qualche anno fa, precisamente nel 2014. L'eclettica band australiana fa del suo bagaglio musicale un format esasperato, mescolando generi e sonorità a più non posso, dando vita ad un lavoro spettacolare e complicato allo stesso modo. Potrei dire che 'Pink Lemonade' sta ai Closure in Moscow come 'Sgt Pepper' s Lonely Hearts Club Band' sta ai The Beatles, ovvero, il massimo sforzo creativo dove una band possa cimentarsi nella sua carriera. Chiarisco subito che musicalmente i due album non sono accostabili per ovvie ragioni ma come attitudine si possono avvicinare, soprattutto nelle rispettive gesta compositive che di fatto puntavano a superare i confini della propria arte. Nel caso dei Closure in Moscow, il mescolare R&B, progressive rock, funk, hard rock, elettronica, blues e pop punk, in una veste che mi ricorda una sorta di musical d'altri tempi, ha dato i suoi buoni frutti, e la sua orecchiabilità va spesso e volentieri a braccetto con la complessità dei pezzi, costantemente baciati da una positività solare trascinante e musicalmente colta. Quindi, ricapitolando, tra una miriade di rimandi sonori, vi possiamo trovare paragoni con i Coheed and Cambria, ma anche con la teatralità progressiva di 'Suffocating the Bloom' degli Echolyn, l'alternative degli Incubus e perfino piccoli sbocchi creativi e progressivi alla 5UU'S, e poi blues, free jazz e free rock. L'insieme si svolge con una dinamica notevole vista la qualità dei musicisti in questione, con la voce impareggiabile di Christopher de Cinque che fa venire i brividi in "Mauerbauertraurigkeit" o nel duetto con Kitty Hart in "Neoprene Byzantine", un brano spettacolare di circa tre minuti e mezzo, impossibile da descrivere, ma che caratterizza l'intero disco, e che potrei provare a definire solo ricordando due brani lontanissimi tra loro. Un mix tra "It's Oh So Quiet", nella versione di Björk, e "Goliath" dei Mars volta, suonato con un mood seventies caldo ed esplosivo. Alla fine, 'Pink Lemonade' è un disco che sfiora la perfezione, anche se in un calderone così stipato di note, generi e suoni, è sempre difficile trovare il bandolo della matassa, il filo conduttore per capire un'opera del genere. Forse, il vero segreto per farsi catturare da questo album, è proprio quello di farsi trasportare e stupire dalle sue coordinate nascoste, apprezzare lo stile di questa band che ha osato il salto nel mainstream internazionale senza rinunciare alla propria essenza di band crossover a 360 gradi, musicisti, esploratori e manipolatori di universi musicali diametralmente opposti richiamati in maniera esemplare ed esaltante. Un disco complicato e delizioso, un disco da veri appassionati di musica libera. (Bob Stoner)

(Bird's Robe Records - 2014/2022)
Voto: 84

https://closureinmoscow.bandcamp.com/album/pink-lemonade

sabato 12 febbraio 2022

Megalith Levitation - Void Psalms

#PER CHI AMA: Psych/Stoner/Doom
Dall'oblask russo di Chelyabinsk ecco tornare il trio dei Megalith Levitation, band che avevo recensito su queste pagine nel 2020, in occasione del loro split in compagnia dei Dekonstruktor. Il trio formato da KKV, PAN e SAA propone un nuovo lavoro all'insegna di uno stoner doom psichedelico che già poco mi aveva fatto impazzire in occasione dello split album e che ho l'impressione non mi entusiasmerà più di tanto anche in questo caso. 'Void Psalms' contiene quattro lunghe tracce che ammiccano nuovamente ai Black Sabbath o ai primissimi Cathedral, cosi come pure ai nostrani Ufomammut e agli Sleep, certo con una minor dose di classe. Il disco si apre con "Phantasmagoric Journey" ed un sound che fa della pesantezza e della litanica componente vocale i suoi punti cardine. Metteteci poi anche una durata smisurata dei pezzi ("Temple of Silence/Pillars of Creation" dura poco meno di 20 minuti), che portano inevitabilmente alla noia, e capirete il perchè della mia freddezza nei confronti di questo lavoro. Non trovo infatti spunti di grande originalità nel cd, anche se sicuramente è da registrare un passo in avanti rispetto allo split che avevo trovato ben più monolitico del qui presente. Ci provano con qualche variazione al tema per evitare di farmi sbadigliare eccessivamente di fronte alla lentezza, a tratti snervante, della loro proposta. Anche "Datura Revelations/Lysergic Phantoms" si muove su questi stessi binari con un riff che rimarrà tale per tutti i suoi quasi 13 minuti, mentre l'aura che avvolge il brano, è quella sulfurea dei gironi più profondi dell'Inferno. La voce, pur palesandosi nelle sue due componenti, salmodiante e scream, non raggiunge picchi di eccellenza, seppur possa fungere come classico timoniere nel nostro viaggio infernale. Il pezzo suona comunque abbastanza scontato fino a quando un break di basso e chitarra finiscono con l'ipnotizzare l'ascoltatore e una nuova voce, ben più ammalliante, sembra collocarsi in sottofondo. Forse sta qui l'apice del disco perchè la già citata maratona musicale di "Temple of Silence/Pillars of Creation", metterà a dura prova il nostro ascolto con quel suo doom di sleepiana memoria, asfissiante e per lunghi tratti troppo simile a se stesso, almeno fino a quando, arrivati al dodicesimo minuto, i nostri si divertono ancora a giocare con quel duetto di basso magnetico e chitarra solista che sembrano far finalmente svoltare il pezzo, però prima che fatica. In chiusura "Last Vision", non fosse per la brillante performance al sax del guest Anton Maximov, sarebbe un pezzo davvero ostico da digerire, complice una ritmica mostruosamente lenta e ossessiva che metterà a dura prova i vostri sensi ancora una volta. Il ritorno dei Megalith Levitation è alla fine un lavoro per certi versi interessante, sebbene si dilunghi in estenuanti giri ritmici di cui avrei fatto volentieri a meno. (Francesco Scarci)

domenica 9 gennaio 2022

Kosmodome - Kosmodome

#PER CHI AMA: Psych/Prog Rock
Il giovane duo dei fratelli Sandvik si mette in mostra con questo interessante primo album dal titolo omonimo e dai toni caldi e curati. Un'attitudine space rock nella grafica di copertina, nel moniker e nell'atmosfera generale del disco, che abbonda di effetti cosmici, aiutati dai vari rhodes, organo, piano e mellotron, suonati dal bravo Jonas Saersten, unico ospite nel progetto. Il sound dei Kosmodome è sofisticato e riconduce, come affermato nelle note della pagina bandcamp, alle sonorità prog rock degli anni '60, a cui aggiugerei anche primi anni '70, rinnovati alla maniera degli Anekdoten, anche se meno cupi e più solari. Ottimo l'impatto strumentale, dove Sturle Sandvik suona chitarra, basso e canta, mentre il fratello Severin siede dietro ai tamburi. Entrambi si comportano assai bene sfoderando ottime prestazioni, sia in fase esecutiva che compositiva, arricchendo e colorando tutti i brani in maniera intelligente. Questi nipotini degli osannati Camel di inizio carriera, hanno imparato perfettamente come esprimersi in ambito rock, acquisendo una formula sonora navigata, vintage e classica, ridisegnata degnamente con verve attuale e accorgimenti moderni di scuola post rock e space rock, sia nel canto che nella scelta delle sonorità. "Deadbeat" né è un manifesto con una coda in stile folk etnico che fa un certo effetto scenico. Tra i brani si manifestano esplosioni in stile stoner come in "Waver I" e "Waver II", ma il parallelo con i Mastodon rivendicato dalla band, mi sembra eccessivo. In effetti, il suono caldo ed elaborato è di buona fattura ma non raggiunge mai la potenza del combo americano. Comunque, la vena prog nello stile dei Kosmodome prevale sempre, anche quando schiacciano sul pedale dell'acceleratore, ecco perchè li avvicinerei più ai mitici Anekdoten e agli allucinati Oh Sees come attitudine, mentre se parliamo di stoner li avvicinerei piuttosto agli Apollo 80 o ai precursori olandesi Beaver. I paragoni lasciano il tempo che trovano e devo ammettere che il disco è assai bello, piacevole, ricercato e si consuma tutto d'un fiato, cosa che permette all'ascoltatore di entrare in un'atmosfera astratta e cosmica intrigante, capitanata peraltro da una voce pulita e sicura che a volte inspiegabilmente mi ricorda certa new wave psichedelica degli anni '80. Ascoltate il brano "The 1%" e godetevi l'estasi, oppure "Retrograde" per farvi sovrastare da un' ottima psichedelia progressiva. Gran bella prova per questo giovane duo norvegese di Bergen, che fa parter del rooster di una splendida etichetta discografica, la Karisma & Dark Essence Records. Album da non perdere! (Bob Stoner)

(Karisma & Dark Essence Records - 2021)
Voto: 78

https://kosmodome.bandcamp.com/album/kosmodome

sabato 8 gennaio 2022

The Spacelords - Unknown Species

#PER CHI AMA: Psych Rock Strumentale
Devono averlo per vizio i tedeschi The Spacelords di pubblicare tre brani per volta. L'avevano fatto in occasione di quello 'Spaceflowers' che ricordo aver recensito durante il primo lockdown, lo rifanno oggi con questo nuovo capitolo intitolato 'Unknown Species'. Tre brani dicevo che si aprono con le psichedeliche melodie di "F.K.B.D.F" (chissà poi per cosa sta quest'acronimo), un pezzo nemmeno cosi lungo ("solo" otto minuti) che in tutta franchezza, non sento nemmeno cosi originale e catalizzante. Si rimane in territori strumentali votati ad un psych rock magnetico, a tratti lisergico, ma che in questa traccia d'apertura, non mi rapisce sguardo e mente. Ci riprovano con la successiva song, la title track, che ci trastullerà per poco meno di un quarto d'ora: partenza tiepida in cui a calamitare l'attenzione c'è un bel basso di pink floydiana memoria in sottofondo, mentre una chitarra dal sapore kraut rock, danza in prima fila come una ballerina indiana. L'effetto è sicuramente di grande impatto emotivo, un viaggio a luci spente in cui è sufficiente chiudere gli occhi e immaginare, un viaggio, un paesaggio, una persona, una scena, quello che volete, quello che la musica vi induce sotto pelle, fino a penetrarvi nel torrente circolatorio e da lì raggiungere il cervello come una sostanza psicotropa pronta ad alienare i vostri sensi, quasi quanto i colori sgargianti che contraddistinguono la cover artwork del disco. E iniziato questo trip mentale, non vi è nemmeno permesso scendere dal treno, che prosegue dritto con la terza e ultima "Time Tunnel" che vi porterà al mare nelle sue note iniziale. Si perchè i suoni che si sentono nei primi secondi, quando la chitarra acustica apre il pezzo, sono quelli delle onde del mare che sfiora la battigia. Ma l'immaginazione corre lontano, a falò sulla spiaggia, spinelli scambiati, pensieri sfuocati e tanta leggerezza, come giusto ci servirebbe in questi giorni di schizofrenia. Il sound monta piano tra echi orientaleggianti e fughe tra psichedelia, hard rock e stoner, ma intanto sale, sale ingrossandosi e crescendo di intensità attraverso ciclici e roboanti giri di chitarra in una sorta di infinita scala a chiocciola dove non riuscire a raggiungere la cima, tanto meno poi a scendere. Non so se realmente se sono riuscito a spiegarvi che diavolo ho sentito durante l'ascolto di questo disco, rileggendomi non ci ho capito granchè nemmeno io, ma queste sono le immagini un po' sbiadite che si sono autogenerate nella mia mente mentre il sound cosmico degli Spacelords mi assorbiva tra le sue spire. E le vostre, quali sono state? Godetevi 'Unknown Species' e fatemi sapere. (Francesco Scarci)

domenica 2 gennaio 2022

Prehistoric Pigs - The Fourth Moon

#PER CHI AMA: Stoner Rock Strumentale
Go Down Records sempre attivissima, quest'oggi con i friulani Prehistoric Pigs e il loro concentrato di psych stoner doom. Di fronte a queste premesse, di certo non mi sarei aspettato una proposta interamente strumentale, insomma il pericolo di annoiarsi potrebbe celarsi dietro l'angolo, ma il trio deve aver evidentemente ponderato il rischio. Purtroppo per loro non avevano valutato il fatto che 'The Fourth Moon', quarta uscita per la band, cadesse tra le grinfie del recensore sbagliato, quello che non ama particolarmente i dischi senza una voce a guidarne l'ascolto. E allora vediamo se i nostri sapranno soppiantare questa carenza con altre armi efficaci. Che dire, il disco si apre con il roboante rifferama di "C35", puro stoner distorto quanto basta, che ad un certo punto cederà il passo ad atmosfere doomish su cui vanno ad incastonarsi schegge impazzite di chitarra, utilissime quanto l'ossigeno per un individuo la cui ipossiemia inizia a farsi sentire. L'heavy stoner del terzetto prosegue con il suo classico canovaccio nella successiva "Old Rats", e la mancanza di una voce in grado di modificare la monoliticità del suono diviene più evidente. Fortunatamente, i tre musicisti ci piazzano un orrorifico break atmosferico in cui, accanto a chitarre dal sapore noise, in sottofondo si percepisce anche un ipnotico giro di basso, prima di una sporca ridondanza ritmica che chiude il brano. Gradirei un urlaccio, devo ammetterlo, messo qua e là, giusto per farmi sentire un pizzico di umanità in più nel susseguirsi delle tracce. E invece la traccia si chiude con un poderoso riffing e si riapre con una porzione ritmica che sembrerebbe la medesima della precedente, proprio perchè manca un vocalist a fornire una differenziazione musicale con la sua timbrica vocale. E cosi sono alla terza "Crototon", ma potrei benissimo essere già alla conclusiva (decisamente più esplosiva) "Meteor 700", che manco me ne sono accorto. Mi spiace, perchè i nostri non sono degli sprovveduti a livello strumentale anzi, i deliziosi giochetti di chitarra a servizio della gagliarda ritmica, dimostrano una certa perizia tecnica eppure, arrivato alla title track decido di prendermi una pausa, un po' tediato dalla fin troppo lineare proposta musicale dei Prehistoric Pigs. Come mi aspettavo, i nostri non sono riusciti a toccarmi l'anima, nonostante i continui tentativi di cambi di tempo, la veemente proposta musicale, che non trovo tuttavia adeguatamente supportata a 360°. Per chi ama lo stoner strumentale, qui troverà pane per i suoi denti, per gli altri, non mi sento in tutta onestà di suggerire un album forse troppo settoriale. (Francesco Scarci)

Orsak:Oslo - Skimmer / Vemod

#PER CHI AMA: Post/Kraut Rock
'Skimmer' e 'Vemod' sono due EP usciti rispettivamente in formato digitale a giugno 2020 e a dicembre 2021. La label tedesca Kapitän Platte ha pensato bene di prendere i due dischetti e schiaffarli su supporto fisico (vinile e cd) e darceli in pasto. Noi eravamo rimasti al loro album omonimo nel 2019 e quindi aspettavamo con un certo interesse una nuova uscita del quartetto norvegese-svedese, dato il positivissimo feedback sul precedente lavoro. Eccoci dunque accontentati con sei pezzi che propongono il classico sound post rock strumentale della band scandinava, sempre e comunque a cavallo con certa psichedelia e il kraut rock. A differenza del mio buon vecchio collega però, che osannava in un certo senso il sound dei nostri, io in tutta franchezza, non mi sento di dire che la proposta dei quattro musicisti sia cosi imprescindibile. Di album di questo genere, per quanto questo sia davvero ben suonato, ne sento e recensisco a bizzeffe, basti pensare a tutta la produzione Bird's Robe Records. Gli Orsak:Oslo alla fine non inventano nulla di nuovo, ci prendono per mano con il loro sound riflessivo ("Passage"), rilassante ("Skimmer"), estremamente atmosferico tra l'acustico e il graffiante ("Cloudburst"), l'ipnotico ("Vemod"), il pulsante ("Mod America", tra l'altro il mio brano preferito) e ancora quella proposta a metà strada tra post punk e post rock, guidato sempre da un'ispiratissima chitarra che per tutto il disco si prende la scena. 'Skimmer / Vemod' alla fine ci consegna una mezz'ora abbondante di suoni piacevoli, ma che non mi sento cosi propenso a rubare con gli occhi. (Francesco Scarci)

martedì 14 dicembre 2021

Closure in Moscow - The Penance and the Patience

#PER CHI AMA: Prog Rock
L'etichetta australiana Bird's Robe Records, si prende la licenza di riportare sul mercato mondiale un assoluto capolavoro, uscito per la prima volta nel lontano 2008, opera dei Closure in Moscow, band originaria di Melbourne, un progetto musicale che più volte fu premiato in patria per meriti artistici (ricordo che il loro ultimo album risale al 2012). La label di Sidney, con una copia cartonata dall'artwork magnifico, completa di note informative e libretto interno, rimette in circolo questo gioiellino intitolato 'The Penance and the Patience', che altro non è, che il primo lavoro di studio dell'act australiano. Difficile dare un' identità alla musica dell'album, vista la quantità di spunti e richiami musicali contenuti in questa opera. Possiamo però dire che al primo ascolto ci si rende conto che il quintetto s'intrufola naturalmente e assai bene, tra le movenze stilistiche in voga tra band del calibro di Coheed and Cambria, (con cui hanno anche suonato live), The Mars Volta e i vari progetti di Omar Rodríguez-López, risultando a tutti gli effetti discendenti accreditati di quel modo di intendere il progressive rock che fece emergere lo stile incontrastato degli Yes tra la fine dei '60 e l'inizio dei '70. Una linea invisibile li unisce alle band citate per qualità e virtuosismo tecnico espresso attraverso composizioni che non conoscono limiti, che tendono ad unire la maestosità di certo classic rock dei seventies, il gusto e la complessità di alcuni brani ricercati del passato in bilico tra powerflower e prog rock, l'impatto del punk alternativo alla At the Drive In e Pedro the Lion, con una velata vena da musical nello stile dei the Dear Hunter connesso con l'estrosità dei Leprous di 'Malina'. 'The Penance and the Patience' diventa cosi un album dirompente fin dalle prime note dell'iniziale "We Want Guarantees, Not Hunger Pains", che mostra subito un impatto duro ma controllato e una splendida forma moderna, di intelligent rock, pieno di cose pregevoli, pensate da ottimi musicisti, cercate ed apprezzate anche dagli ascoltatori più esigenti. I Coheed and Cambria sono sempre dietro l'angolo, come i The Mars Volta del resto, ma i Closure in Moscow riescono a mantenere una propria personalità che li contraddistinguerà anche nelle release successive, con ulteriori sbocchi verso lidi più pop, aggiungendo anche qualche gingillo elettronico qua e là, senza perdere mai di vista la loro sanguigna vena da progsters incalliti, con il gusto per l'AOR e l'hard rock dei mostri sacri di un tempo. Cos'altro dire, "Dulcinea" apre il cuore di tutti i rockers con la sua potente ariosità, "Breathing Underwater" è una sperimentale carica di dinamite e "Ofelia... Ofelia" con quel suo piano sullo sfondo e la sua indole cosi triste, sinfonica e psichedelica, è a dir poco adorabile. Certamente siamo di fronte ad un disco di tutto rispetto e di ottima produzione, stilisticamente impeccabile, tecnicamente virtuoso e sorprendentemente aperto a qualsiasi tipo di ascoltatore, pur trattandosi di un vero e proprio disco prog rock di moderna fattura. Un album da ascoltare per credere, un disco da non perdere, visto che la Bird's Robe ci offre questa seconda chance di metterlo tra gli scaffali delle nostre raccolte migliori. L'ascolto è assolutamente consigliato per riscoprire la sua grande bellezza artistica. (Bob Stoner)