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lunedì 4 novembre 2024

Urza / Calliophis - Dawn Of A Lifeless Age

#PER CHI AMA: Death/Funeral Doom
Ecco uno di quegli album semplici semplici da recensire: un bel concentrato di funeral death offerto da due band tedesche a me totalmente sconosciute, gli Urza e i Calliophis, che evidentemente, era un po' che non si facevano sentire. I nostri hanno cosi unito le forze per dar voce al loro disagio interiore e condensarlo in questo split intitolato 'Dawn of a Lifeless Age'. Due i pezzi a disposizione per ciascuna band, per circa 23 minuti a testa, fatti di sonorità apocalittico-asfissianti. Il disco si apre con i berlinesi Urza, che erano in silenzio dal 2019, quando uscì il loro debut album. Il quintetto teutonico ci propone due pezzi ben suonati ma forse troppo derivativi: se "Maunder Minimum" è il classico emblema del funeral doom, quello dotato di buone e melodiche linee di chitarra, profondità degli arrangiamenti, oscure ambientazione e vocals super growl, "Through Ages of Colossal Embitterment" si presenta invece inizialmente più abrasiva e votata ad un death doom dalle ritmiche più spinte e veementi, con parti che evocano un che dei primissimi Anathema di 'Serenades'. Dopo un paio di minuti però, il sound dei nostri torna a sprofondare in meandri depressivo-catacombali, di sicuro impatto emotivo, soprattutto alla luce di un utilizzo alternativo, e ben più convincente, delle vocals. Niente di nuovo sotto il sole comunque, anche se la qualità generale è piuttosto buona. È allora la volta dei Calliophis, band originaria della Sassonia, che ha peraltro già tre album all'attivo dal 2008 a oggi. Per loro, un ritorno dopo il convincente album del 2021, 'Liquid Darkness', e due nuovi pezzi, "Trepak" e "Endure Your Depression", che si muovono dalle parti di un death doom assai melodico ed emozionalmente toccante. Ottime melodie contraddistinguono infatti i due brani, unite ad eleganti parti atmosferiche e a una buonissima componente vocale. Se dovessi esprimere il mio personale gradimento tra le due band di oggi, orienterei la mia scelta decisamente verso i Calliophis, complici quelle sonorità soffuse ma penetranti, quelle linee melodiche di chitarra che dipingono strazianti paesaggi emotivi, e che avvicinano i nostri a certe eleganti produzioni scandinave del passato. Un bel modo per conoscere due band questo split album e indirizzarci alla scoperta delle loro discografie, se solo saranno in grado di toccare anche le vostre corde dell'anima. Le mie hanno vibrato, soprattutto in compagnia dei Calliophis e voi, chi preferite? (Francesco Scarci)

domenica 20 ottobre 2024

Rot Coven – Nightmares Devour the Waking World: Phase I + Phase II

#PER CHI AMA: Black/Drone/Ambient
L'universo musicale di questa band proveniente dalla Pennsylvania, è fatto di sensazioni cosmiche, costantemente avvolte da un alone sinistro, che disegnano un immenso spazio sonoro, decisamente oscuro e minaccioso, ampio e misterioso. La base di partenza è il noise e l'ambient dronico, sfregiati da lunghe e laceranti digressioni doom, death e black metal, in un infinito viaggio psicologico verso i meandri più oscuri della percezione umana. 'Nightmares Devour the Waking World: Phase I + Phase II' è un disco non di facile approccio e volutamente ostile al pubblico, che si rivela come un alternarsi di umori gelidi che generano suoni contorti, vortici capaci di introdurre chi ascolta, verso universi paralleli assai intriganti. L'amalgama sonora è in perfetta sincronia con un'ispirata vena compositiva, che in questo genere deve far da padrona o si rischia la caduta nell'inascoltabile o nel già sentito, e devo dire che in questa versione estesa dell'album (ricordo che la prima parte, Phase I, era uscita l'anno scorso), l'opera si compie a dovere, e per l'ascoltatore già iniziato a questo genere, la scoperta di questo disco (edito dall'Aesthetic Death), risulterà un'ottima sorpresa. Brani dagli intro apocalittici, colonne sonore noir che rasentano uno stile cinematografico in continua evoluzione, dove l'unico colore che emerge è il nero, ecco come si palesa il disco. La voce è inghiottita dal rumore, il distorto veglia su tutto e fa da padrone nel mood dell'intero lunghissimo lavoro (oltre 80 minuti), proiettando il suono verso lidi estremi di post metal di difficile collocazione ma con retaggi, per certi aspetti classici, che vengono ampliati, appunto, dall'uso di suoni strettamente lisergici e psichedelici, qui riadattati all'umore cupissimo della band. In tal contesto, non si può dimenticare il vistoso lato industrial dei Rot Coven, che è molto radicato nel DNA della band, cosa che, unita al maniacale piacere verso suoni distorti e riverberati, costituisce l'essenza del sound di quest'album. Paesaggi siderali costruiti per mettere a dura prova la resistenza psichica e una forte sensazione di disagio psicologico, sono le armi che vengono utilizzate nei solchi di questi brani apocalittici, accompagnati da un senso di caduta costante e tangibile. Non è di facile approccio, come detto in precedenza, ma questo disco, ascoltato nella totalità dei due album, è veramente un'esperienza da provare, ed è inutile smembrarlo per trovarne pregi o difetti tecnico-stilistici, poiché l'ideale è assimilarlo nella sua interezza, lasciandosi trasportare dalla sua fredda corrente. Buon viaggio nella parte più nascosta e oscura della vostra mente. (Bob Stoner)

giovedì 26 settembre 2024

Horthodox & Haiku Funeral – Serpentine Sorcery

#PER CHI AMA: Drone/Ambient
Quando due band del calibro dei francesi Haiku Funeral e dei russi Horthodox, uniscono le forze per dare alla luce un nuovo album insieme, il risultato non può che destare sorpresa e curiosità. Fondamentalmente, la musica espressa in questo album collaborativo è molto difficile da incanalare in un filone unico, anche se a grandi linee, potremmo identificarla come dark ambient drone, dalle tinte fosche e oscure. Se poi il concetto di base è dare un ambiente sonoro a testi di antiche canzoni bulgare, trovati in un libro del 1896, sul tema della stregoneria, serpenti, vampiri e ninfee dei boschi, come la Samodiva, tipica creatura fatata dei monti Balcani, il tutto prende un significato più ampio e interessante. In effetti, il disco si presenta a capitoli, con lunghe suite di synth, che oscillano tra gli 8 e i 12 minuti, tra tappeti di noise ambient, sibili e sussurri perennemente distorti, neri come la pece, con una voce narrante che gravita a metà strada tra un Sauron irato e uno stregone demoniaco che espone il proprio sermone diabolico. L'ago della bilancia viene spostato dall'ottima performance del sax di Alexander Timofeev, che in controtendenza all'intero sound di base, convoglia le atmosfere verso lidi più noir jazz, attenuandone la pesantezza e irrobustendo la complessità della proposta, rendendola più fluttuante e piacevole all'ascolto, tenuto conto che le due entità sonore sono note soprattutto per le loro opere ostiche e pietrificanti. A tutti gli effetti, l'ascolto di 'Serpentine Sorcery' potrebbe essere paragonabile a sfogliare un libro, dove il sound oscuro sostituisce il bianco delle pagine e il testo è inciso dal lamento gutturale della voce narrante. La deriva che scaturisce dalla nostra mente da queste letture, vengono poi trasportate dalle divagazioni del sax, che per assurdo, ha reminiscenze così impregnate di jazz sperimentale (ascoltate "The Mother and the Whore Bride"), che riesce in molti tratti, a far distrarre l'ascoltatore, fino a fargli dimenticare la tipologia di musica che sta ascoltando. Il ritmo è assuefatto al rumore: si mette leggermente in luce, tra disturbi distorti e interferenze, nella rumorosa title track con un'evoluzione noise devastante. Altrettanto, in bella ma pacata mostra, il ritmo si palesa anche su "The Hate Venom", mentre in "Vampyric Mantra" è per lo più usato come metronomo dal suono profondo. Alla stregua di un Necronomicon in mano a un ignaro primo lettore, l'ascolto di questo disco potrebbe arrecare parecchi fastidi e tormenti agli ascoltatori poco assidui a questo genere musicale. Al contrario, potrebbe configurarsi come uno scrigno nero incantato, tutto da scoprire. (Bob Stoner)
 
(Aesthetic Death - 2024)
Voto: 70
 

mercoledì 11 settembre 2024

Vaina – Unio Mystica

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
Nell'ultima uscita dei Finlandesi Vaina, esiste una componente così magica, che difficilmente passerà inosservata agli ascoltatori, fin dal primo ascolto. Una magia oscura o forse meglio, come rimarcato dal significativo titolo, 'Unio Mystica', una magia misterica, criptica e intrigante. Quel tipo di legame misterioso, che nella teologia cristiana, lega l'uomo alla figura di Cristo e lo fa vivere in riflesso della sua essenza, nel bene e nel male. Un disco che affascina per suoni e varietà compositiva, per le sue atmosfere in chiaroscuro, che nasconde tra le righe dei testi, cantati in lingua madre e inglese, quel concetto che nella filosofia di Kirkegaard, rappresenta il binomio disperazione dell'uomo/ricerca religiosa, in pratica un lungo viaggio sonoro vissuto come una fuga mistica a perseguire la verità. Musicalmente, 'Unio Mystica', si presenta come un caleidoscopio di rimandi sonori, che spaziano tra diversi emisferi del metal estremo e non solo. Al suo interno troveremo spazio per l'avanguardia e l'esoteric metal, e strutturalmente potremmo ricollegarlo anche alle geometrie barocche di 'Gothic Kabbalah' dei Therion, ovviamente rivisto sotto la luce buia e sotterranea di una sperduta cattedrale gotica dispersa nella foresta. Il sentore oppressivo del capolavoro classico, i 'Carmina Burana', è sempre presente, con le sue atmosfere ampie e corali all'ombra delle candele, lo spettro de 'La Masquerade Infernale' degli Arcturus, è fonte d'ispirazione, con una teatralità viva ma meno plateale, più underground. Riecheggiano anche i Manes, quelli di 'Vilosophe', con in più schiaccianti aperture verso l'avantgarde black metal, ferreo e glaciale di stampo Angst Skvadron, e insieme, compiono il resto del richiesto miracolo. Certo i Vaina non sono una band sprovveduta e con l'avanguardia ci hanno sempre giocato. Tuttavia, stavolta ci hanno regalato il loro lavoro migliore, un gioiello sonoro tutto da gustare, dove trovare echi di doom jazz, con una tromba devastante, presente nell'articolata "Inverted", che sembra uscita da qualche cassetto dimenticato dei Mercury Rev che suonano un brano della Kilimanjaro Darkjazz Ensemble. Per luminosità e melodia, mostrano un lato progressivo eccelso, di una band in grado di fondere magistralmente correnti diverse in una traccia di poco meno sei minuti, senza perdere oscurità, profondità e amalgama nelle sue composizioni. "Incinerate" è un'icona toccante che spolvera vecchie teorie da classic metal, con un cantato esaltante in puro e astratto stile, ancora di scuola Manes/Arcturus, che ci accompagna verso un'altra chicca, stavolta nel verbo del folk rock progressivo, "Moribundus Sum", fiabesca e sognante nell'introduzione, come la calma prima della tempesta nel suo legarsi alla successiva "Golgatan Tähti". Questa è violenta e funambolica, dal piglio progressive folk metal, epico e dai mille colori, che va a sfociare in una composizione che rimanda ad alcune arie di 'Blossom of Mourning' dei Dark Reality, con quel suo gusto progressivo dai tratti classicheggianti ma tenebrosamente e totalmente metal. L'atmosfera globale ricorda l'austero, immaginario mondo monastico, visto da vie traverse e dal suo lato più introspettivo e oscuro. Infatti, sparse un po' ovunque, si presentano luci rubate alle scene di un film come 'Il Nome della Rosa', dotato comunque di una vena molto sinistra. Un rarefatto black metal avvolge molti momenti di questo disco, a renderlo oggetto di ascolto da approfondire a più riprese, per capirne la vera essenza. Una creatura artistica che vive di luce propria, difficile per questo racchiuderla in preconcetti musicali standardizzati. Alla fine possiamo dedurre però che, per quanto ostica possa sembrarci la sua struttura, dopo svariati ascolti, sarà impossibile non percepire l'attitudine originale di questo disco e di tutte le sorprese inaspettate nascoste al suo interno. Un album eclettico come poteva esserlo a suo tempo, il manifesto sonoro dei Solefald di 'In Harmonia Universal', suonato in chiave sotterranea, scarno e cupo. Un album che non vuole confini, che pone il suo aut-aut senza paura. Un ascolto che merita attenzione e che non vi lascerà l'amaro in bocca. (Bob Stoner)

(Aesthetic Death - 2024)
Voto: 80

https://vaina.bandcamp.com/album/unio-mystica-2

lunedì 9 settembre 2024

Mourning Dawn - The Foam of Despair

#PER CHI AMA: Black/Doom Sperimentale
Ecco un'altra band che qui nel Pozzo dei Dannati è ormai di casa: sto parlando dei francesi Mourning Dawn e del loro recente comeback discografico, sempre attraverso la Aesthetic Death. 'The Foam of Despair' è il loro sesto lavoro su lunga distanza e si configura come la classica miscela death doom, accompagnata da atmosfere black depressive che ricordano certe cose degli Shining. Questo è già evidente nell'opening track, "Tomber du Temps", che sembra ammiccare non poco ai colleghi svedesi guidati da Niklas Kvarforth. La forza di questo primo brano risiede nella cupezza delle sue chitarre, negli strali malinconici insiti nelle melodie e nel cantato disperato di Laurent "Pokemonslaughter", che si muove tra uno screaming comunque intelligibile e un approccio narrativo ansiogeno. Da sottolineare la componente solistica da urlo e la presenza dello strepitoso sax di Adrien Harmois nella coda del brano, a mettere la classica ciliegina sulla torta a un pezzo davvero evocativo, che nella chiusa evoca un che dei nostrani Dawn of a Dark Age. La seconda "Blue Pain" vede una nuova ospitata del disco: dietro al microfono si presenta infatti l'onnipresente Déhà (peraltro responsabile anche del mixing e mastering dell'album), in un pezzo che scalda gli animi ancor di più, per quei suoi rimandi inequivocabili ai Katatonia di 'Brave Murder Day'. E io godo. Non poco peraltro, visto l'ottimo lavoro melodico proposto e la performance vocale di uno dei miei cantanti preferiti, in ambito estremo. "Borrowed Skin" dura oltre 11 minuti e promette bene sin da quel morbido incipit affidato al parlato del frontman. Le atmosfere si mostrano plumbee, il giro di batteria quasi ipnotico, ed è qui che il terzetto di Parigi ci inchioda in un incedere straziante, con il vocalist che sprofonda in territori growl, mentre le chitarre assumono sembianze sghembe ma sempre sinistre, interrotte da un brevissimo break centrale, che troveranno modo poi di esibirsi in altri ottimi assoli. Notevole. Dopo tante cose abbordabili, ecco che "Apex" mostra il lato più scorbutico dell'ensemble transalpino, sebbene la song si muova su un mid-tempo claustrofobico e ostico da digerire, ma gli arrangiamenti in sottofondo sono egregi e inducono sicuramente a un ascolto curioso e attento. Ma l'attenzione verrà sicuramente catalizzata dalle atmosfere trip-hop della successiva "Suzerain" dove si palesa un altro ospite, A.K.: ancora un parlato in francese, echi dei CROWN che si esibiscono nelle chitarre pesanti dei nostri con la comparsa contestuale del cantato graffiante di Laurent. Che la traccia non sia comunque come tutte le altre è palese, avanzando nell'ascolto di un brano magnetico, intenso e psichedelico che, non so per quale motivo, ho trovato per certi versi accostabile a "Epitome XIV" dei Blut Aus Nord. Ultimi due pezzi a disposizione per la band per farci gridare al miracolo: si parte con il doom di "The Color of Waves", che incorpora un suggestivo intermezzo atmosferico, punto di partenza di un nuovo irrequieto e inquieto giro di chitarre. Si chiude con l'industrialoide "Midnight Sun" (traccia peraltro non disponibile nella versione vinilica) che con le sue sperimentazioni sonore, sancisce che in casa Mourning Dawn, qualcosa è davvero cambiato, e in meglio. (Francesco Scarci)

lunedì 2 settembre 2024

Mekigah - To Hold Onto A Heartless Heart

#PER CHI AMA: Drone/Ambient/Experimental
Ho recensito tutti gli album degli australiani Mekigah, seguendo da vicino l'evoluzione sonora di Vis Ortis, partendo dagli esordi dark gothic di 'The Serpent's Kiss', attraversando la fase death doom, fino ad arrivare alle ultime derive dronico-avanguardistiche dell'ultimo uscito 'Autexousious'. Un percorso assai complesso quello del mastermind di Melbourne, che con questo 'To Hold Onto a Heartless Heart', taglia il traguardo del quinto album. Una miscela sonora quella contenuta nelle sei tracce di questa release, come sempre parecchio ostica da digerire, che si dipana dalle atmosfere sinistre della lunghissima song posta in apertura. "Collapsing Under" dura infatti oltre 14 minuti, costituiti da suoni complessi, infausti e disomogenei, che spaziano con una certa disinvoltura dal drone all'ambient, passando per suoni tribali, noise, funeral e quant'altro di sperimentale possiate immaginare, il tutto accompagnato da un cantato in screaming in sottofondo, che evoca riti sciamanici o litaniche possessioni. Come immaginavo, nulla di quanto ascolterete qui è di facile ascolto, nemmeno la seconda "Broken Rhythm Pressure", che sembra debuttare più teneramente rispetto all'opener, ma presto si immerge in sonorità orrorifiche, affidandosi a suoni stralunati, vocals ingarbugliate, atmosfere tra il rarefatto e il rumoristico, e consegnandoci di fatto, un altro brano assai malato e angosciante, che richiede una grande fermezza d'animo per essere affrontato e non rischiare la pazzia. Se poi siete degli audaci, beh, allora potrete continuare a vivere il delirio musicale servito dal factotum australiano, passando attraverso la sghemba e alienante "Away Drifting From", più easy-listening delle precedenti, ma non per questo, di meno complicato ascolto. Le atmosfere continuano a mantenere contorni agghiaccianti, complice lo stridolio vocale del frontman e un incedere apocalittico che permea il disco nella sua interezza. Un cantico sirenesco sembrerà ammaliarvi nella più breve "An Infinitesimal Difference", ma fate attenzione a lasciarvi sedurre da quei suoi quasi gentili suoni, che lasceranno ben presto il posto alla marziale glacialità della sua coda noisy che sfocerà nelle derive infernali di "It Hisses So", un brano che potrebbe mischiare l'approccio danzereccio degli Hocico con la depravazione sonora degli Aevangelist, ma rallentato e amplificato rispetto alla violenta furia della band finlandese. Chi avrà la forza di arrivare sino in fondo, troverà "Eyes Glazed Over", l'ultima strenua prova di sopravvivenza offerta da quest'album; già vi avverto che non sarà affatto semplice, data la natura ipnotica, stridente e dissonante del brano che potrebbe condurre definitivamente alla follia. Pensavo che l'effetto sorpresa si fosse esaurito, ma mi sbagliavo, il buon Vis Ortis ha ancora molto da offrire. (Francesco Scarci)

mercoledì 28 agosto 2024

Eventide - Waterline

#PER CHI AMA: Experimental Sounds
Gli Eventide sono una costola che si è staccata del gruppo francese degli Epitaphe, o come da loro stessa ammissione, un'evoluzione sonora verso altri lidi musicali, territori che con la band madre non potevano essere evidentemente raggiunti, visto il genere prog, doom, atmospheric black metal trattato. Qui siamo di fronte a una naturale svolta verso l'ambient, il drone, con aperture al dark/jazz e una palese attitudine compositiva che ama le lunghe distanze, come se i brani fossero piccole colonne sonore. Si toglie spazio al ritmo, le chitarre diventano eteree, lisergiche, in funzione della ricerca atmosferica, in un'esplorazione che si avvale anche dell'aspetto sperimentale del jazz, e del suono del sax, che si mette sempre in buona luce in contesti simili. I 15 minuti di "Eventide", si aprono con aria mistico/ipnotica di casa Brendan Perry, con un cantato ancestrale (che è peraltro l'unico presente nell'album), per diventare in seguito un omaggio alle soundtrack degli Ulver, e alle lunghe sperimentazioni e libere improvvisazioni d'insieme. Si muove come una lunga intro dal suono d'ambiente, misteriosa e intensa. Il brano successivo, la titletrack "Waterline", l'unica a esser stata registrata in studio (il resto è tutto live), spiazza un po' l'ascoltatore con il suo mood virato a certe forme, almeno nella sua prima parte, lounge/ambient/jazz (ma prendete con le pinze questa definizione), e un ingresso di batteria che ricorda alcune cose più orecchiabili, e a mio modesto parere discutibili, sempre degli ultimi Ulver. Un brano che non spinge in realtà così tanto verso la sperimentazione, e che non aggiunge molto al già sentito in questi ambienti, e che sembra altresì adagiato su standard usuali, anche se mostra una buona coda finale. L'arrivo di "Adrift", è la cosa più disattesa, per quello che fin qui la band di Grenoble ci aveva fatto sentire. Si tratta infatti di un pezzo breve, di circa due minuti e mezzo, che si sorregge su note pizzicate di piano e acquisisce, per certi aspetti ipnotici, atmosfere eteree di matrice celtica, create dall'arpa splendida di Alan Stivell, che lo renderanno alla fine magico e assai intrigante, simbolo di una piena e raggiunta maturità compositiva. L'opera si chiude con la lunghissima "Sphere", che parte tra rumori in sordina e un sax in sottofondo, che mi ricorda le cose fatte dai Londinesi Lowering (non gli omonimi newyorkesi) in una versione più noise e underground, affidati però a una veste più ansiogena, strumentale e minimale del Dale Cooper Quartet and the Dictaphones. In definitiva, 'Waterline' si configura come un bel disco, sicuramente di transizione, che apre a un nuovo futuro per questi musicisti, un evidente distacco totale dalle belle cose fatte in passato con gli Epitaphe. Un nuovo tassello che va ad ampliare ulteriormente il già prolifico roster del multi artistico collettivo Eptagon di Grenoble. (Bob Stoner)

venerdì 16 febbraio 2024

Esoteric - Epistemological Despondency

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Funeral Doom
Sono passati 30 anni, ben tre decadi dall'uscita di questo memorabile lavoro che risponde al nome di 'Epistemological Despondency', atto primo dei britannici Esoteric. Era peraltro sempre la Aesthetic Death a far uscire una release che torna oggi in digipack, edizione limitata e rimasterizzata, un evento che celebra la storica uscita di un doppio cd che probabilmente ha fatto la storia in ambito funeral doom e, al contempo, inaugura la Vynil Series dell'etichetta inglese. E allora che dire di nuovo di un disco che già il fatto che duri ben 88 minuti per sei brani, rappresenta già il manifesto programmatico della band originaria di Birmingham. Ah Birmingham, quante ne hai viste, dai Judas Priest ai Napalm Death, passando per i Black Sabbath, fino ad arrivare agli Esoteric appunto. Esoteric che con questo lavoro pongono una pietra miliare di un genere, cosi come avevano fatto i loro illustri concittadini. E allora, se ancora non conoscete questo ambizioso e mastodontico album, non potete far altro che lasciarvi avvinghiare dalla morsa mortifera dell'allora sestetto (dotato di tre chitarristi) guidato da Greg Chandler. Vi accompagnerà già dall'introduttiva "Bereft" (20 minuti!!) in un viaggio nel profondo della vostra psiche, tra chitarre ultra ribassate, atmosfere super psichedeliche condite da voci che rimbalzano come l'eco contro le pareti, mentre le chitarre producono caleidoscopici e camaleontici riff. La musica vi entrerà cosi dentro, arrivando a toccarvi direttamente le budella, estraniandovi dal mondo che vi circonda. Vi renderete presto conto che questo sarà uno dei tanti effetti psicotropi in grado di generare questo disco, visto che la successiva "Only Hate (Baresark)" potrebbe sembrarvi semmai un tributo ai Napalm Death di 'Scum', visti i soli due minuti e 40 a disposizione, affidati a ritmiche incendiarie grind e vocalizzi animaleschi. Esperimento stravagante che serve forse a spezzare la monoliticità dell'opener prima di affidarvi ai 19 asfissianti minuti di "The Noise of Depression", una song che si affida nuovamente ad atmosfere iper dilatate, almeno per i primi cinque minuti, per poi sfociare in territori che potrebbero evocare un altro (capo)lavoro uscito un anno prima, 'Transcendence into the Peripheral' dei Disembowelment per poi sprofondare nuovamente in lugubri e pachidermiche atmosfere funeral. "Lamented Despondency" apre il secondo terzetto di brani con suoni peculiari in sottofondo, ma quando attaccano le cavernose vocals di Greg, vi renderete ben presto conto di essere stati catapultati in un altro incubo a occhi aperti. "Eradification (of Thorns)" suona più ruvida, forse perchè sembra mostrare un retaggio ancorato al death doom dei My Dying Bride degli esordi, con qualche ammiccatina anche ai Cathedral di 'Forest of Equilibrium', anche se le demoniache vocals del frontman sembrano distanziarci un po' dai due colossi inglesi. Chiusura affidata ai 26 minuti (si avete letto bene) di "Awaiting My Death", una maratona vera e propria, una song che da sola avrebbe potuto costituire un disco a sé stante, una traccia ancor più liquida delle precedenti tra partiture arpeggiate, un'effettistica ricercata, echi e riverberi ancor più forti, derivanti dalla psichedelia dei famigerati anni '70, che fanno forse ricadere la band nel funeral forse solo per le growling vocals. Non temete perchè l'ossessività del doom farà breccia nelle vostre anime ormai straziate anche nel resto della song, che vanta peraltro un fantastico assolo che chiude un super pezzone per un disco quasi unico nel suo genere, che merita di stare nella collezione di tutti gli appassionati di queste sonorità. (Francesco Scarci) 
 

domenica 11 febbraio 2024

Suffer Yourself - Axis of Tortures

#PER CHI AMA: Funeral/Doom
Quel che si suol dire un facile album da recensire... Si perchè qhuello degli svedesi (ma in realtà originari di Kiev) Suffer YourSelf, è un'angosciante proposta di un'ora tonda tonda di funeral death doom. 'Axis of Torture', quarta opera del quartetto, è un disco di quattro pezzi più intro e outro, quindi potrete immaginare come quella da affrontare sia in realtà una staffetta di quasi 15 minuti per ognuno dei pezzi inclusi, fatta di suoni soffocanti, annichilenti la mente e l'anima grazie a sonorità che, già dall'iniziale "Axis Insanity", ci stritolano nella morsa di un plumbeo funeral doom che vede alternarsi a violente schitarrate death, mentre la voce cavernosa del frontman, affronta altrettanto leggere tematiche legate alla sofferenza, al dolore e alla disperazione. Lo ribadisco, un disco facile facile, anche nell'ascolto. Ovviamente, continuo a essere ironico, però i Suffer Yourself (un nome, un programma) ci mostrano come oggi sia ancora possibile proporre funeral doom, senza scadere nel problema del "già ascoltato". Questo perchè i nostri sono abili costruttori di ossessive partiture al limite della tensione emotiva, a cui accostare quelle accelerazioni death che strizzano l'occhiolino indistintamente a Incantation o Disembowelment, mentre tutto il disco potrebbe rievocare i fasti funerei dei primissimi My Dying Bride. La differenza con questi ultimi sta però in una maggiore classe dei nostri che si declina in più raffinate partiture atmosferiche e in una maggiore cura dei suoni. La prima traccia (anzi la seconda per diritto di cronaca) quindi supera di sicuro la prova, lasciando il campo poi ai 17 minuti di "Axis Despair", che risulta essere ancor più asfissiante nel suo monolitico incedere che si dipana attraverso un incipit che sembra stringerci al collo, generando pensieri negativi e mortiferi, con quelle stridule chitarre in sottofondo, raddoppiate da un altro strato di suoni che non possono far altro che produrre incubi a livello subconscio. E pian piano, i nostri aumentano i giri del motore, mentre le voci si fanno più demoniache, il suono ancor più mastodontico tra un rifferama compatto e profondo, e una serie di assoli alla sei corde, a rendere il tutto più convincente e accattivante. Ma i Suffer Yourself non sono certo dei pivelli e la loro esperienza maturata attraverso 13 anni di vita e quattro album, nonchè il mastering di Greg Chandler (Esoteric, Lychgate), li consacra a essere una valida alternativa ai mostri sacri del genere, e penso a Evoken o My Shameful. E arriviamo ai dieci minuti e mezzo di "Axis Pain", che sembrano quasi una passeggiata rispetto alle due precedenti mostruose tracce, complice anche una maggior ricercatezza sonora, almeno nelle linee iniziali della song, prima di perdersi nei labirinti psicotici di un death metal poco affabile, direi sghembo e malato, che si saprà alternare a porzioni atmosferiche e melodiche per un risultato di sicuro valore. "Axis Time" si apre con il cantico del soprano Kateryna Osmuk che, non solo è responsabile delle backing vocals growl del disco e della batteria, ma ci delizia per alcuni secondi con la sua magnifica e raffinata ugola. Poi il canovaccio non muta poi di molto nel resto della traccia, se non per proporre qualche parte di tastiera più spettrale, cosi come stralunate linee di chitarra o eleganti arpeggi che confermano l'ottimo lavoro dei nostri. Ora spetta a voi armarvi di santa pazienza e affrontare questa indolente discesa verso gli abissi dei Suffer Yourself. (Francesco Scarci)

martedì 20 giugno 2023

Megalith Levitation - Obscure Fire

#PER CHI AMA: Stoner/Doom
Li avevo già recensiti un paio di volte e non mi avevano mai convinto. Chissà se questo nuovo ‘Obscure Fire’, nuova fatica dei russi Megalith Levitation, saprà questa volta colpirmi in positivo. Detto che il precedente split in compagnia dei Dekonstruktor non mi aveva fatto impazzire, questo nuovo lavoro, che consta di cinque tracce, prosegue su quella linea sottile tra stoner e doom, caratterizzato da un rifferama pesante, da atmosfere oscure e da una combinazione di voci litaniche e melodie dotate di una certa intensità. Quel liturgico cerimoniale che appariva nei precedenti album, si palesa anche nell’introduttiva title track, una lunga traccia surreale, psichedelica, sulla scia di mostri sacri quali Sleep e primi Cathedral. Il tutto giocato ovviamente su dilatazioni soniche, delay chitarristici, tonnellate di fuzz e la riproduzione fedele degli insegnamenti dei maestri Black Sabbath, questa volta con un esito più che convincente. Chiaro, la band non sta inventando nulla di nuovo, considerato poi che il disco è permeato da dettami che coprono cinquant’anni di musica e più. Le distorsive aperture di chitarra, la solidità della ritmica e il salmodiante cantato del frontman, iniziano a rappresentare il vero marchio di fabbrica dell’ensemble originario dei monti Urali, che mi colpisce favorevolmente con la seconda “Of Silence”, un pezzo che per quanto, ribadisco, non sia manifesto di originalità, mostra quel carisma che forse era mancato in precedenza ai nostri, attraverso oltre dieci minuti di suoni che scomodano anche paragoni con i My Dying Bride in più di una linea di chitarra, tanto da rendermi dubbioso sul fatto che se la band non decolla, forse il problema debba essere ricercato in una componente vocale forse fin troppo monolitica. Perchè poi per il resto, il terzetto sembra migliorare ulteriormente con il successivo trittico di pezzi che, dall’interlocutoria e funerea “Descending”, sino alla conclusiva, claustrofobica e quasi estenuante (per la sua ridondanza di fondo) “Of Eternal Doom”, passando dalle incursioni stoner-space rock di “Into the Dephts”, riescono in un sol boccone, a sciogliere i miei ultimi residui dubbi. Il terzetto russo è tornato e questa volta con un album più convincente che mai, pronto a sublimare in un multistratificato approccio psichedel-catartico. (Francesco Scarci)

martedì 23 maggio 2023

Mesmur - Chthonic

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Il funeral è già un genere piuttosto complicato da digerire. Se a suoni catacombali e voci cavernose aggiungiamo poi delle dissonanze abbastanza allucinate, potrete immaginare come l'approccio a simili sonorità possa risultare alquanto ostico. È il caso del nuovo album dei Mesmur, una realtà internazionale (U.S., Italia e Australia) che conosciamo assai bene qui sulle pagine del Pozzo, che torna con il quarto capitolo della loro discografia, 'Chthonic'. Il lavoro dura 48 minuti e consta di sole cinque tracce. Se considerate che il preludio e la coda fanno sette minuti, sarà facile intuire quanto possano durare le altre tre, circa 41 minuti di suoni estenuanti, di cui la sola "Passage", ne occupa 19. Quello che subito balza all'orecchio, è una proposta che si conferma abbastanza ancorata al passato, con un death doom che ammicca palesemente agli esordi dei My Dying Bride e dei primissimi Anathema, ma anche ai mostri sacri del funeral, quali Esoteric e Skepticism. Quello che mi spiace tuttavia constatare è una certa staticità a livello di suoni, che non preludono a nulla fuori dall'ordinario almeno nelle due tracce "Refraction" e "Petroglyph", forse eccessivamente ortodosse nel loro approcco al genere; e per questo intendo le classiche chitarre abissali, le atmosfere lente, lugubri, asfissianti e claustrofobiche, con i tipici vocalizzi growl di Chris G a condire il tutto. Quello che regala un tocco di fascino all'album rimangono però le partiture tastieristiche a cura di Jeremy L che, insieme a qualche breve galoppata black, ne movimentano l'ascolto, conferendo quel pizzico di dinamicità ad un disco che forse alla lunga rischierebbe di annoiare. E la già citata "Passage", con la sua durata davvero al limite dello sfibrante, giunge in supporto regalandoci fraseggi atmosferici che alterano il ritmo fin troppo cadenzato di 'Chthonic'. Per il resto, vorrei dirvi di andarvi a leggere le mie precedenti recensioni alla, il canovaccio musicale infatti di quest'album lo troverete piuttosto simile ai vecchi lavori, inclusa la presenza di viola e violoncello, qui a cura di Brianne Vieira, senza dimenticare poi gli organoni sublimi di Kostas Panagiotou (Pantheist, Landskap). Per il futuro mi aspetto però qualcosa di più, che sappia catalizzare maggiormente la mia attenzione. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2023)
Voto: 70

https://mesmur.bandcamp.com/album/chthonic

giovedì 16 marzo 2023

Grava - Weight of a God

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal
Torna l’Aesthetic Death con un’altra delle sue uscite ad effetto. Questa volta l’etichetta britannica è andata a scovare i Grava in Danimarca, un terzetto originario di Copenaghen formatosi nell’anno del lockdown da Covid. Complice verosimilmente quello stato di angoscia generato dall’essere chiusi nelle proprie abitazioni, deve aver portato i tre musicisti a partorire questo angosciante esempio di blackened sludge/post-metal sperimentale di stampo americano (Neurosis docet). Sette i pezzi che sciorinano i nostri per cercare di convincerci della bontà della loro proposta. Si inizia con le fluttuanti melodie di "Waves" che mettono in mostra le peculiarità della band ossia un ipnotico rifferama sludge, vocals che si dimenano tra l'urlato e il growl e un'aura malinconica di scuola Amenra/Cult of Luna che aleggia per questo e i successivi pezzi. Dopo appena tre minuti è il tempo di "Bender" e le atmosfere si fanno ancor più cupe con un muro di chitarre e voci caustiche davvero da incubo, spezzate da frangenti di chitarra più melodici sul finale di un brano che supera di poco i tre minuti e mezzo. Strana la scelta di avere pezzi cosi brevi per un genere spesso contraddistinto invece da lunghe durate. Ma anche le successive "Crusher", "Alight", "Cauldron" e "Appian Way" (quest'ultima stralunata song si colloca addirittura sotto i tre minuti) continuano con questo trend, non solo legato al minutaggio ma anche ad una proposta musicale che si mantiene fedele ai dettami di uno stile che trova qui delle scappatoie in cambi vocali, per la presenza di brevi assoli che accompagnano le dissonanti linee di chitarra. Solo la conclusiva "The Pyre" si discosta non solo in termini di durata dal lotto delle restanti, con oltre otto minuti che condensano quanto ascoltato sin qui ma musicalmente perpetrano, con più break atmosferici, un sound più tormentato per molti più giri d'orologio. Insomma, quello dei Grava è un album complesso e non cosi facile da avvicinare, però potrebbe comunque regalarvi spunti interessanti in un ambito che inizia a scarseggiare per freschezza di idee. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death – 2022)
Voto: 70

https://gravadanois.bandcamp.com/album/weight-of-a-god

giovedì 9 marzo 2023

Cave Dweller - Invocations

#PER CHI AMA: Noise/Ambient/Dark
Il nuovo album di Cave Dweller, ovvero Adam R. Bryant, ex membro della band post black metal americana Pando, è stato concepito come una lunga colonna sonora, con l'idea stessa di emanare una visione simbolica del rapporto che lega l'uomo alla spiritualità della natura. Un concetto profondamente radicato tra le note della musica di questo uomo delle caverne, che si fa notare fin dal significato del moniker scelto dall'autore stesso. Le danze si aprono con una voce che recita sopra una rarefatta base, acustico ambientale ("An Invitation"), morbida ed eterea per proseguire nella oscura parvenza di "To Accept the Shadow", che ricorda le trame delle musiche più cerebrali dei Virgin Prunes (vedi la splendida raccolta 'Over the Rainbow'), con un piano nostalgico e amaro a condurre le musica, per poi finire a deragliare su di un finale dark/ambient, con la presenza ritmica di una percussione metallica, che sonda i terreni dei lavori, tutti da scoprire, del progetto mistico/ambient russo, Enoia. Da qui, si viene traghettati in modo naturale, verso la splendida "Bird Song". Questo brano era già presente nel precedente ottimo EP, 'Between Worlds', ed è una traccia che vanta un cantato fragile, drammatico ed epico, con una chitarra solitaria dall'animo grigio e un'evoluzione in stile folk black, che fa riscoprire tutta la forza artistica di questo atipico menestrello del Massachusetts. L'arte di Cave Dweller è sotterranea, rurale fino al midollo, criptica, sperimentale e la si apprezza solo se si colgono i dettagli di registrazioni fatte con smartphone, rumori, fruscii e suoni non convenzionali, particolari sparsi un po' ovunque con genialità e la consapevolezza di creare qualcosa di profondamente evocativo. Un'opera di 44 minuti che evolve le sperimentazioni dell'autore in vari ambiti, folk apocalittico, ambient, alternative country, neofolk, senza prendere a prestito niente da nessuno, per un viaggio personale e originale. Suoni d'ambiente, uccelli in sottofondo, gabbiani, noise, oppure una tiepida batteria di matrice jazz, per rendere più accessibile la ballata noir, minimalista, "Entelechy". Un sound tribale e oscuro, con conseguente esplosione black industriale, nello stile della sua precedente band, dona con vigore, una facciata ipnotica e cosmica al lungo brano intitolato "Mirror". Ma la differenza in chiave di bellezza estrema, la troviamo nella canzone conclusiva intitolata "Solastalgia", dove il solo campione di voce simil lirica/sciamanica, che persiste in sottofondo di tutta la traccia, fa onore all'arte di questo musicista unico e impareggiabile nella sua esplicita arte sonora isolazionista, fredda, rumorista e lo-fi, contornata da psichedelia cosmica ed un cristallino folk, con uno spirito etnico proveniente da qualche sistema solare sconosciuto, che rievoca un vero e proprio risveglio interiore. Un album in veste concettuale, che rispecchia un po' la forma del gioiello sonoro quale fu, 'The Inspiration of William Blake' di Jah Wobble, ovviamente da accostare solo come intuizione compositiva, non come stile musicale, visto che i due artisti sono agli antipodi stilistici, ma convergono entrambi per una libertà d'espressione molto proficua. 'Invocations' è stato creato e mixato dallo stesso Bryant in un arco di tempo piuttosto lungo, tra il 2018 e il 2021, e si presenta come un resoconto del suo percorso sonoro, quindi da considerarsi come una specie di diario di bordo delle sperimentazioni che hanno dato vita al primo splendido album del 2019 (sotto il titolo 'Walter Goodman – or the Empty Cabin in the Woods') e l'EP sopracitato del 2021. Una musica intimista tutta da scoprire ed apprezzare, per cui consiglio di ascoltare prima questa raccolta introduttiva, per poi passare in ordine temporale, alle altre due ottime opere di questo valido autore. (Bob Stoner)

mercoledì 7 dicembre 2022

Estrangement - Disfigurementality

#PER CHI AMA: Experimental Death Doom
Ci hanno messo ben otto anni gli australiani Estrangement a far uscire il loro album di debutto su lunga distanza dopo un demo e uno split album usciti rispettivamente nel 2013 e 2014. Lo stravagante quartetto di Sydney capitanato da JS, esce quindi con questo 'Disfigurementality', un concentrato di stralunato death doom che esordisce con "Destitution Stench", una breve intro che ci prepara all'originale forma musicale espressa dalla successiva "Detritivore". Citavo il death doom, ma potremmo aggiungere anche il funeral in alcune linee pesantissime di chitarra (e nelle durate estenuanti dei brani) o ancora nelle profondissime growling vocals, ma quello che colpisce nella proposta dei nostri è l'inserimento di alcune partiture neoclassiche, ma anche jazzy o addirittura scorribande black come accade nella seconda parte del brano. Tutto questo oltre a regalare una grande dinamicità al disco, prospetta grandi speranze per un genere che ultimamente avevo avvertito come spento o con ben poco da dire. E invece la band australiana si gioca molteplici carte di improvvisazione che rendono anche le successive tracce molto più palatabili. Passando da un breve intermezzo acustico, si arriva a "The Light Unshown", una song che sembra votata a quel mood struggente di My Dying Bride o dei primissimi Paradise Lost e non posso far altro che applaudire, per quanto il sound possa risultare obsoleto. Ma l'uso di contrabbasso, flauto e violino, che già avevo apprezzato in "Detritivore", cosi come un favoloso break acustico dal sapore spagnoleggiante, corredato poi da una cascata di note di chitarra e atmosfere epiche e struggenti, regalano una proposta che in termini di freschezza, sembra non aver uguali. Dopo un iniziale cerimoniale esoterico, prende piede "Fire Voice", con una sorta di assolo di flauto a cui fa seguito un'altra chitarra flamencata a testimoniare, se ancora ce ne fosse bisogno, l'originalità dei nostri. "Clusters" è puro caos sonoro che trova comunque il suo perchè in un lavoro unico e complicato come questo. " Womb of Worlds" è un altro tassello di follia di questi quattro musicisti tra sonorità doomish catacombali e altre derive psicotiche, con un violino nel finale a rimembrare i fantastici esordi dei My Dying Bride. "Asleep in the Vineyard" è un altro interludio atmosferico che ci conduce a quello che è il brano più lungo del lotto, i tredici soffocanti minuti della schizoide "Doppelganger", la summa di tutto il male, la genialità, la malinconia e la follia di questi Estrangement. Bel debutto, complimenti! (Francesco Scarci)

martedì 28 giugno 2022

Epitaphe - II

#PER CHI AMA: Death/Doom
Li avevo recensiti nel 2019 in occasione del loro primo atto. Tornano oggi i francesi Epitaphe con il secondo capitolo della loro discografia, intitolato semplicemente 'II', ed altri cinque pezzi che coniugano quel death doom corrosivo degli esordi con divagazioni funeral e aperture decisamente più melodiche. Si parte dall'introspettiva e strumentale intro "Sycomore" e si capisce che già qualcosa è cambiato in seno al quartetto di Claix. E infatti quando irrompono le ritmiche dissonanti della seconda "Celestial" e quell'intrigante ricerca sonora, ecco che capisco di avere fra le mani un piccolo gioiellino. Si perchè i 19 minuti del brano si muovono tra partiture death, altre decisamente più brutali e ampi frangenti acustici, il tutto corredato peraltro da voci sia in formato growl che pulito (forse la novità più ecclatante di questa seconda release). Poi la song, in tutta la sua infinita durata, vive di sussulti death devastanti (citavo i Morbid Angel nella precedente recensione e non posso che confermare) di nuovo interrotti da rallentamenti più claustrofobici, escalation black e nuove bordate death, prima del più tranquillo finale arpeggiato. "Melancholia" e altri 19 minuti davanti, introdotti da una furibonda ritmica techno death che trovo davvero spiazzante. L'avevo appreso già da 'I' che i nostri non sono davvero quello che sembrano, lo confermo in questo nuovo lavoro, che si palesa nuovamente ostico da esser digerito ma si arricchisce per lo meno di arrangiamenti death progressive e break acustici che in più di un'occasione mi hanno evocato gli Opeth dei primi album. Colpiscono le eteree clean vocals, i momenti più ambient, le derive post rock e per questo non possono che esserci grandi applausi. Ora, poi dopo tutto questo ben di dio, essere preso a cinghiate da altre raffiche death, si potrebbe rivelare esperienza sempre più destabilizzante e per questo stimolante. "Insignificant" apre con un arpeggio di opethiana memoria, con tanto di crescendo incluso che per oltre tre minuti (dei quasi 19 complessivi), ci prepareranno all'incombente sassaiola death che mi aspetto da lì a poco. In realtà, i giri del motore rimangono per un po' a basso regime, ma le emozioni non mancano, non temete. La band ha infatti modo di esibire un bridge melodico, un intercalare doomish, per poi lentamente spingere sull'acceleratore con una natura percussiva alquanto originale che prenderà il sopravvento nella seconda parte del brano e che troverà ancora modo di proporre qualche rallentamente decisamente più bilanciato prima di un finale davvero significativo. Altro pezzo strumentale a chiusura del disco che mostra le progressioni musicali dei quattro francesi e tutte le potenzialità che la band potrà sviluppare nelle prossime uscite. Se potessi migliorare qualcosa, smusserei del tutto gli isterismi estremi del sound dei nostri per una ricerca più progressiva del suono perfetto. Per ora bene cosi, ma ho aspettative parecchio elevate per il futuro degli Epitaphe. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2022)
Voto: 76

https://epitaphe.bandcamp.com/album/ii

lunedì 6 giugno 2022

The Slumbering - Looking for Sorrow Within Ones Fear

#PER CHI AMA: Noise/Experimental
Quello degli statunitensi The Slumbering è un lavoro originariamente uscito in digitale a febbraio 2021 e riproposto in versione fisica nel 2022 dalla Aesthetic Death. L'etichetta inglese prosegue la sua opera di folle ricerca musicale, proponendo questo 'Looking for Sorrow Within Ones Fear', un disco per cui mi chiedo realmente se ne valesse la pena di essere stampato in cd. Credo che nell'underground musicale ci siano infatti un milione di band molto più sensate e interessanti dei nostri, forse la stessa band in cui cantavo penosamente nel 1996, sarebbe stata ben più gradevole. Fatto sta, che le sette tracce contenute in questo album sono semplice e puro rumore di sottofondo peraltro in bassa qualità (a dir poco fastidiosa l'opener "Daddy Doesn't Love You Right?"), accompagnato da vocalizzi distorti, indecifrabili e a dir poco insensati. Non parliamo poi di "Journey to the Cyclops Cantia" o della burrascosa "You Can't Make it Better...", forse nemmeno il nostro Bob Stoner riuscirebbe ad ascoltare questo impervio noise che ha il solo effetto di disgregare quei pochi neuroni che vi rimarranno nel cervello al termine dell'ascolto di questo disco, davvero complicato da avvicinare. Non so se l'obiettivo della band (e dell'etichetta stessa) fosse il medesimo di Oscar Wilde nel suo 'Dorian Gray', ossia "Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli", c'è da dire che il disco rimane un lavoro per pochissimissimi che non hanno paura di mettersi in gioco. Io francamente preferisco fare dell'altro piuttosto che ascoltare una proposta simile. (Francesco Scarci)

lunedì 16 maggio 2022

Vaina - ✥ FUTUE TE IPSUM ✥ Angel With Many Faces

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Il buon Stu Gregg, mastermind della Aesthetic Death, prosegue con la ricerca di band "particolari" da inserire nel proprio roster. Dopo Goatpsalm e Horthodox recensiti dal sottoscritto, non del tutto felicemente qualche mese addietro, ecco un'altra stramba (giusto per non cadere in aggettivi più disdicevoli) creatura per l'etichetta inglese. Si tratta dei finlandesi Vaina, una band che fa del "non sense" musicale (giusto per citare anche il titolo di un loro vecchio brano) la propria filosofia musicale. Dopo 'Purity' del 2019, un EP ('Futue Te Ipsus' incluso in questo stesso disco) ecco la nuova proposta della one-man band guidata dallo stralunato Santhir the Archmage, uno che a quanto pare, si è svalvolato il cervello durante il suo primo e unico concerto live, decidendo fondamentalmente di non dare più alcun riferimento stilistico alla propria proposta. Pertanto '✥ FUTUE TE IPSUM ✥ Angel With Many Faces' segue queste regole, decidendo di partire con "Oppenheimer Moment", una song tra l'ambient e il drone, su cui possiamo tranquillamente sorvolare. Con "I1" le cose si fanno più strane ma al contempo interessanti: si tratta infatti di un pezzo black acido, originale, ritualistico, con una base melodica affidata ai synth davvero evocativa, sommersa poi da vocals urlate ed altre declamate. La pseudo normalità dura però solo tre minuti degli otto abbondanti complessivi della song, visto che poi l'artista finnico imbocca una strada tra l'esoterico, il dungeon synth, l'ambient e per finire una bella dose da cavallo di sperimentazione sonora (con suoni sghembi di scuola Blut Aus Nord) che sembra nascere da un'improvvisazione estemporanea. "HCN" ha le sembianze dell'intermezzo orrorifico, consegnata quasi esclusivamente a synth e tastiere. La tappa successiva è affidata a "Yksikuisuus", un pezzo che cresce musicalmente su basi tastieristiche oggettivamente suonate male, ma comunque dotate di un'aura cosi mistica che sembra addirittura coinvolgermi. Non vorrei cascarci come l'ultimo dei pivelli, ma l'egocentrico musicista finlandese suona quel diavolo che gli pare, passando da delicati momenti di depressive rock/dark/post punk contrappuntato da una rutilante (quanto imbarazzante) drum machine che, inserita in questo contesto, trova comunque il suo filo logico, soprattutto in un epico e maestoso finale symph black. Questo per dire alla fine che Santhir the Archmage è davvero penoso a suonare, eppure tutto quell'entropico marasma sonoro che prova a coniugare in queste tracce, trova stranamente il mio consenso. Se dovessi trovare un termine di paragone con una band, citerei i nostrani Hanormale, con la sola differenza che quest'ultimi hanno fior fiore di musicisti. Il delirio musicale prosegue attraverso l'EBM di "About:Blank" (ecco la classica buccia di banana su cui scivolare) e il black avanguardistico di "Raping Yer Liliith" (assai meglio). "πυραμίς" ha un incipit stile 'Blade Runner' che perdura per qualche minuto prima di lasciare il posto ad una proposta indefinibile tra derive ambient burzumiane, deliri alla Abruptum e rimandi agli esordi malati dei Velvet Cacoon, ecco non propriamente una passeggiata da affrontare visti anche i quasi undici minuti di durata del brano. Esoterismo rap per "--. .-. . . -.", un'altra song davvero particolare che forse era meglio omettere per non toccare la sensibilità degli adepti dei Vaina. "Todestrieb" è un altro intermezzo noise che ci introduce alla conclusiva "Minä + Se", gli ultimi undici deliranti minuti di questo estenuante lavoro (un'ora secca). La song saprà inglobarvi ancora nel mondo disturbato e visionario di Santhir con suoni tra elettronica, black, drone, ambient, liturgico, sperimentale, horror, dark e tanta tanta follia suonata alla cazzo di cane ma sancita da un bell'urlaccio finale volto a Satana. Non ho ben capito se Santhir ci faccia o ci sia, fatto sta che questo lavoro meriterà altri ascolti attenti da parte del sottoscritto. (Francesco Scarci)

domenica 15 maggio 2022

Barús - Fanges

#PER CHI AMA: Prog Death/Sludge
Ricordo di aver positivamente recensito i Barús in occasione del loro EP omonimo nel 2016, bollandoli come una versione più violenta dei Meshuggah. La band che ritrovo oggi mostra un rinnovato spirito che probabilmente è passato attraverso il claustrofobico esordio su lunga distanza rappresentato da 'Drowned' e che arriva oggi a questo nuovo e particolare EP di due pezzi intitolato 'Fanges', che mi restituisce, come dicevo, una band assai diversa rispetto al passato. Si perchè la title track che apre il disco, nei suoi 19 minuti, mostra un piglio decisamente compassato (in alcuni frangenti addirittura ambient) per quasi nove giri d'orologio, con un incedere ipnotico che trova sfogo in un post death metal a tratti sghembo e questo rappresenta un po' il punto di forza del quartetto originario di Grenoble. Le vocals si muovono poi tra equilibrismi death e altri più puliti, mentre le melodie oscillano tra ammiccamenti ai The Oceans e ingarbugliamenti catramosi che evocano Ulcerate e gli stessi Meshuggah d'inizio recensione. Il brano si arresta un paio di minuti prima dell'epilogo, lasciando spazio ad una parte acustica di cui francamente non ho ben capito la funzione, ma andiamo avanti e facciamoci investire da "Châssis De Chair", un pezzo decisamente più old style, essendosi affidato a sonorità più death oriented. Ma i nostri oggi amano contaminare il proprio sound con suoni più atmosferici, sludgy, riflessivi, storti e distorti, senza tralasciare il fattore imprevedibilità, tutte caratteristiche che eruttano nel corso del quarto d'ora affidato alla seconda song. I riffoni, di scuola polifonica, rimbombano nelle nostre casse con un'intensità ed una violenza davvero poco rassicuranti. I riff si confermano, anche nei momenti più ragionati, tortuosi dall'inizio alla fine della bagarre e vanno ad accompagnare le oscure growling vocals di Mr K. Insomma tanta carne al fuoco per sole due song a disposizione credo possa essere presagio di grandi cambiamenti in casa Barús. Staremo a sentire cosa ci riserva il futuro con maggiore curiosità. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2021)
Voto: 75

https://barus.bandcamp.com/album/fanges-ep

sabato 12 febbraio 2022

Megalith Levitation - Void Psalms

#PER CHI AMA: Psych/Stoner/Doom
Dall'oblask russo di Chelyabinsk ecco tornare il trio dei Megalith Levitation, band che avevo recensito su queste pagine nel 2020, in occasione del loro split in compagnia dei Dekonstruktor. Il trio formato da KKV, PAN e SAA propone un nuovo lavoro all'insegna di uno stoner doom psichedelico che già poco mi aveva fatto impazzire in occasione dello split album e che ho l'impressione non mi entusiasmerà più di tanto anche in questo caso. 'Void Psalms' contiene quattro lunghe tracce che ammiccano nuovamente ai Black Sabbath o ai primissimi Cathedral, cosi come pure ai nostrani Ufomammut e agli Sleep, certo con una minor dose di classe. Il disco si apre con "Phantasmagoric Journey" ed un sound che fa della pesantezza e della litanica componente vocale i suoi punti cardine. Metteteci poi anche una durata smisurata dei pezzi ("Temple of Silence/Pillars of Creation" dura poco meno di 20 minuti), che portano inevitabilmente alla noia, e capirete il perchè della mia freddezza nei confronti di questo lavoro. Non trovo infatti spunti di grande originalità nel cd, anche se sicuramente è da registrare un passo in avanti rispetto allo split che avevo trovato ben più monolitico del qui presente. Ci provano con qualche variazione al tema per evitare di farmi sbadigliare eccessivamente di fronte alla lentezza, a tratti snervante, della loro proposta. Anche "Datura Revelations/Lysergic Phantoms" si muove su questi stessi binari con un riff che rimarrà tale per tutti i suoi quasi 13 minuti, mentre l'aura che avvolge il brano, è quella sulfurea dei gironi più profondi dell'Inferno. La voce, pur palesandosi nelle sue due componenti, salmodiante e scream, non raggiunge picchi di eccellenza, seppur possa fungere come classico timoniere nel nostro viaggio infernale. Il pezzo suona comunque abbastanza scontato fino a quando un break di basso e chitarra finiscono con l'ipnotizzare l'ascoltatore e una nuova voce, ben più ammalliante, sembra collocarsi in sottofondo. Forse sta qui l'apice del disco perchè la già citata maratona musicale di "Temple of Silence/Pillars of Creation", metterà a dura prova il nostro ascolto con quel suo doom di sleepiana memoria, asfissiante e per lunghi tratti troppo simile a se stesso, almeno fino a quando, arrivati al dodicesimo minuto, i nostri si divertono ancora a giocare con quel duetto di basso magnetico e chitarra solista che sembrano far finalmente svoltare il pezzo, però prima che fatica. In chiusura "Last Vision", non fosse per la brillante performance al sax del guest Anton Maximov, sarebbe un pezzo davvero ostico da digerire, complice una ritmica mostruosamente lenta e ossessiva che metterà a dura prova i vostri sensi ancora una volta. Il ritorno dei Megalith Levitation è alla fine un lavoro per certi versi interessante, sebbene si dilunghi in estenuanti giri ritmici di cui avrei fatto volentieri a meno. (Francesco Scarci)

domenica 6 febbraio 2022

Goatpsalm/Horthodox - Ash

#PER CHI AMA: Ambient/Noise
Che simpatica accoppiata quella formata dai russi Horthodox e Goatpsalm, due realtà underground riunite in una specie (in realtà suonano insieme su tutti i pezzi anzichè dividersi il disco) di split album intitolato 'Ash' e registrato tra il 2019 e il 2021 in molteplici luoghi. Complice il Covid, infatti i nostri si sono adeguati a registrare in momenti e località differenti. Ne escono questi sette brani che si aprono con "The Last Days", un'accozzaglia di rumori sinistri da castello infestato. Sembrano infatti i classici suoni di catene quelli che si sentono in sottofondo, cosi come quello delle assi di legno in assestamento quelli che li accompagnano. Il tutto prosegue incomprensibilmente per otto minuti quando finalmente affiora una chitarra acustica a farmi capire che forse riuscirò a scrivere anche di musica in questa recensione, ma in realtà sarà solo ambient/noise quello che scorgeremo da qui in avanti. Dopo i primi 13 snervanti minuti, ce ne attendono altri 10.30 con l'acustica irrequieta di "Fragile Walls of Salvation", inquietante quanto basta per rappresentare l'ideale colonna sonora da film thriller. Quel che a quanto pare è più interessante sottolineare di questo disco sperimentale è la tematica che dovrebbe affrontare, almeno visivamente (non essendoci traccia di voci), ossia lo scisma della Chiesa russa risalente al XVII secolo quando si separò in Chiesa ortodossa ufficiale e movimento dei Vecchi Credenti. Detto della mia perplessità di fronte ad un progetto di questo tipo, data la sua scarsa musicalità e fruibilità, vi segnalerei "When God Went Silent" per la sua dronica vena folk e "A House With No Windows" dove vedo ancora un barlume di speranza nel sentire musica strumentale attraverso le casse del mio stereo. Poi gran spazio ancora a rumori ("Night over Onega"), porzioni dark ambient ("Horned Shades of His Servants") ed inquietudini varie ("Ash") per un disco raccomandato solo ad una striminzita frangia di ascoltatori (che potrebbe includere anche il nostro Bob Stoner). Gli altri se ne tengano ben a distanza. (Francesco Scarci)