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giovedì 24 agosto 2017

Hevein - Sound Over Matter

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Groove Thrash/Metalcore
La “Terra dei Mille Laghi”, da sempre è fucina di talenti infinita. 'Sound Over Matter' è stato il pass d’ingresso nel music business degli Hevein, act finlandese in giro dal 1992, ma che soltanto nel 2005 riuscì a sfornare il tanto sospirato album d’esordio, ma anche il solo prima dello split del 2012. C’è subito da dire che il tempo impiegato per uscire sul mercato, ha dato sicuramente i suoi effetti con un risultato abbastanza soddisfacente e di gradevole ascolto. Il sestetto scandinavo propina un sound ricco di piacevoli sfumature e sorprese. I dieci brani contenuti in 'Sound Over Matter' palesano prima di tutto un immancabile gusto per le melodie, ma anche la voglia di uscire dagli stereotipi e trasmettere tutta la loro passione per la musica... musica, che è un susseguirsi di emozioni, riffoni heavy che sfociano in territori thrash stile Bay Area, influenze derivanti dal crossover dei tedeschi Pyogenesis e da contaminazioni metalcore americane; e ancora, parti atmosferiche e l’accompagnamento di un violino, caratterizzano le ritmiche martellanti della band, con voci growl ma per lo più pulite, che si scatenano all’interno dell’album che risulta come uno spaccato di luci e ombre disseminato in un vortice di suggestive visioni autunnali. Gli Hevein sono dei bravi musicisti, capaci di spaziare dai suoni granitici tipici del thrash/metalcore a momenti più pacati e ragionati. Ascoltate “Only Human” e anche ai metallari più integerrimi si scioglierà il cuore. Come non citare poi l’ultima e immensa “Last Drop of Innocence”, dove i nostri sembrano trasformati in una nuova incarnazione dei Pink Floyd: le vibrazioni che trasmette questo brano sono veramente notevoli, con inevitabili e forti richiami anche ad 'Eternity' ed 'Alternative 4' degli Anathema. Ben prodotti da Mikko Karmila, gli Hevein si palesarono come un act dalle potenzialità enormi, peccato solo per il prematuro scioglimento. (Francesco Scarci)

(Spinefarm - 2005)
Voto: 75

http://www.hevein.com/

mercoledì 5 luglio 2017

A Total Wall - Delivery

#PER CHI AMA: Djent/Math, Meshuggah
Dopo tre EP all'attivo, era giusto che arrivasse anche il debutto sulla lunga distanza dei milanesi A Total Wall. È uscito cosi 'Delivery', lavoro che assegna l'ostico compito ai nostri di rispondere ai gods mondiali nell'ambito del djent, con quel suono caratterizzato dall'ampio uso delle poliritmie, per intenderci in stile Meshuggah e chitarre downtuned. Fatta una breve cronistoria di un genere che ha avuto la sua esplosione nel biennio 2010-2012 e che poi si è un po' ridimensionato, veniamo alla band di oggi, gli A Total Wall appunto, un muro totale come quello innalzato dalle chitarre a nove corde dell'axe man Umberto Chiroli. Per capirci ulteriormente su cosa aspettarsi sparato nei nostri timpani, immaginante il rifferama pesante e sincopato dei Meshuggah, contrappuntato da un dualismo vocale fra un growling schizofrenico e un pulito a tratti poco convincente. Le linee di chitarra della opener "Reproaching Methodologies" non solo risentono dell'influenza dei master svedesi, ma mi pare di scorgere anche palesi influenze math, in un sound decisamente nevrotico e claustrofobico. Attenzione a non aspettarvi una musicalità comparabile a quella dei Tesseract, molto più accessibili e melodici, gli A Total Wall in "Evolve" sapranno come farvi sbiellare il cervello con il loro rifferama contorto e nervoso, ma pur sempre carico di groove. Non male la sezione solistica anche se troppo ermetica e breve nei suoi lisergici stacchi visionari che ne rendono ostico l'approccio. I toni si fanno più scuri nella terza "Sudden", ma è prettamente una questione legata all'atmosfera che si respira durante il suo ascolto, curata dai synth di Davide Bertolini, anche se la ritmica qui è decisamente più controllata e i nostri cercano qualche effetto addizionale per cercare di non risultare troppo didattici nel loro assalto sonoro; utile a tal proposito un paio di break ambientali nel corso del brano. Il riffing magmatico, ossessivo e tipicamente meshugghiano torna in "Maintenance" che verrà ricordata dai posteri più che altro per la stonatura del vocalist nella sua versione pulita. Passo avanti e mi faccio investire dalla feroce "Lossy", che mantiene intatta l'architettura sonica dei nostri (attenzione ad abusarne eccessivamente), cercando di mitigarne la prolissità ritmica nuovamente con l'utilizzo dei synth, rallentamenti vari ed un break davvero indovinato a metà brano (questa si che è la strada giusta). Ottima sicuramente la performance dei singoli, per cui sottolineerei il lavoro al basso di Riccardo Maffioli. Nel frattempo si giunge a "The Right Question" e a delle ambientazioni nuovamente oscure e rarefatte che preludono ad una ripartenza schizoide cosi come era stato per la opening track. Il vocalist qui sperimenta un cantato cibernetico che i Cynic proposero nel lontano 1991 nel loro inarrivabile 'Focus'. La title track si muove su saliscendi ritmici, in un'alternanza tra repentini cambi di tempo e di voce, qui proposta in una nuova veste. Brillante il break jazzato che ci porta per qualche secondo (troppo poco) in un jazz club di New Orleans. Il disco si chiude con "Pure Brand", ultima traccia di un disco decisamente non facile da affrontare, a causa di una monoliticità di fondo di un genere non propriamente adatto a tutti i palati. Buon inizio comunque, ora è necessario trovare variazioni adeguate al tema, per non scadere nella riproposizione di quanto fatto dai maestri. (Francesco Scarci)

sabato 8 aprile 2017

Zerozonic - S/t

#PER CHI AMA: Thrash/Groove, Pantera, Machine Head, Konkhra
Con curiosità mi appresto ad ascoltare questo lavoro omonimo dei Zerozonic, band norvegese di Kristiansand, località “balneare” scandinava, una sorta di Rimini del Mare del Nord. La cover, invero un po’ banale, ben lascia intendere di cosa si andrà a trattare. Non appena il primo riff dell'opener track “It Never Dies” scatena le sue furie, capiamo subito che abbiamo sotto mano un prodotto altamente professionale. Chitarre taglienti, batteria aggressiva e digitale al punto giusto, insomma una registrazione a dir poco convincente e del tutto ben calibrata per accentuare il songwriting pesante e violento della band, che vanta peraltro tra le sue file di membri dei Blood Red Throne. Le coordinate stilistiche sulle quali la band norvegese si muove sono il classico groove – post thrash che tanto aveva scaldato i cuori dei metallers a metà anni '90. Anche nella seconda traccia infatti si susseguono ritmi cadenzati a sfuriate (sempre comunque bilanciate e razionali) come impazzava nell’era post 'Far Beyond Driven'. Avete presente “Weed out the Week” dei Konkhra? Ebbene questo lavoro dei Zerozonic non stenterei a collocarlo proprio sul filone di quell’album datato 1997. Il tempo sembra essersi in effetti fermato a 20 anni fa. Anche quando le tracce si fanno meno granitiche e assumono atmosfere cangianti ("Pushed Away"), il mood resta inesorabilmente nineties, tra Pantera, Machine Head ed epigoni vari. Nella power ballad “I Walk Away” i richiami al Phil Anselmo di “Cemetery Gates” appaiono più che evidenti. I nostri ce la mettono davvero tutta per regalarci preziosismi e tenere viva l’attenzione. Accurato ad esempio risulta il lavoro vocale, con growl e harsh in alternanza, clean vocals ben eseguite e comunque mai stucchevoli. La precedenza nella composizione sembra tuttavia attribuibile al gran lavoro chitarristico, riff al fulmicotone s'intersecano a preziosi assoli (demodè ma che emozioneranno i palati più nostalgici) e ad arpeggi da antologia del metal. La band appare protesa consapevolmente verso strutture talora progressive ("Instrumentalis") nelle quali si palesa tutta la preparazione tecnica del gruppo scandinavo. In sostanza dobbiamo riconoscere ai nostri il gran merito di aver confezionato un album davvero serio, competente e certosino. Nulla sembra lasciato al caso e on stage la band promette di essere coinvolgente e di sicuro apprezzabile. L’unico feedback di miglioramento che mi sentirei di poter dare è di cercare un po’ di uscire dal “bello calibrato” e di osare talvolta ad attingere al sublime, sporcarsi le mani con un po' di sana “ignoranza” o “follia”. Evitare cioè di essere bravi a tutti i costi per poter cosi uscire allo scoperto con tratti più artistici ed intimi. Per il resto l’album risulta nella sua totalità ineccepibile, gradevole e sicuramente consigliabile sia agli amanti del power-groove-thrash, sia a chi ama la tecnica e il songwriting elaborato. Se fosse uscito nel 1997 saremmo sicuramente qui ad osannarlo. (Zekimmortal)

(Self - 2017)
Voto: 70

mercoledì 5 aprile 2017

Genus Ordinis Dei - The Middle

#PER CHI AMA: Symph/Melo Death, Insomnium
Ho avuto modo di conoscere questa band poche settimane fa in occasione di un'intervista radiofonica. I Genus Ordinis Dei (G.O.D., sarà un caso?) sono una band di Crema assai determinata nel raggiungere l'obiettivo grosso. Partiti come tutte le band con la normale gavetta, i nostri hanno rilasciato un full length d'esordio ed un EP: è proprio con il primo album che i quattro lombardi hanno attirato su di sé le attenzioni dell'etichetta danese Mighty Music, che ha ristampato quel debutto, 'The Middle', che oggi andiamo ad analizzare. Premesso che stiamo parlando di musica uscita originariamente nel 2013 e che è stata concepita ancor prima, quello che appare chiaro fin dai primi minuti è che nelle nostre mani abbiamo un buon esempio di death metal, carico di groove e di melodie ammiccanti. Lo si capisce immediatamente con "The Fall", pezzo iper ritmato che mette in luce una tendenza a sfruttare ottime linee di tastiera che smorzano il growling demoniaco di Nick K (sicuramente da migliorare), cambi di tempo a più riprese e anche una certa vena malinconica in quei delicati tocchi di keys che evocano un che dei finlandesi Insomnium. Un bel giro di tastiere apre la terza "Word of God" in una traccia che sembra essere uscita da uno qualsiasi degli album degli Eternal Tears of Sorrow, anche se rispetto a quest'altra band finnica, l'act italico mantiene più preponderante la componente death metal in un rifferama compatto ed affilato, che fa largo uso di blast beat ma anche di devianze metalcore. Tuttavia le orchestrazioni lentamente guadagnano spazio, e vanno ad ammorbidire la prestanza ritmica dell'ensemble; un bell'assolo, tipicamente heavy metal, chiude una traccia onesta e piacevole. Dicevamo delle crescenti orchestrazioni: in "My Crusade" diventano quasi predominanti, sebbene gli strali chitarristici e quella voce che continua a non convincermi appieno. Apprezzabili comunque i cambi di tempo, che rendono la traccia assai varia, ove ancora una volta, si rivela notevole la sezione solistica. Un intermezzo sinfonico e si arriva a "Path to Salvation", altra song in cui si apprezza il connubio vincente tra riff graffianti, montagne di groove ed enormi quantitativi di tastiere sinfoniche. Non si può certo gridare al miracolo, non c'è proprio aria di novità nelle tracce di questo comunque onorevole album, anche se c'è sempre da tener presente il periodo in cui è stato scritto, perciò concedo l'attenuante di un lavoro concepito ormai un lustro fa. Ancora una manciata di tracce da ascoltare: l'epica "Cadence of War", che ripercorre (o forse anticipa) quanto fatto dagli Ex Deo con il loro tributo all'antica Roma, è una traccia che vede un cantato assai differente a metà brano e sfodera un largo break di tastiere nella coda conclusiva. "Ghostwolf" ha un suono bello potente e tirato, un mix tra Swedish sound, deathcore e death finlandese, in cui a lasciarmi però perplesso sono quei vocalizzi più urlati. Con "Battlefield Gardener" si picchia davvero pesante e sembra discostarsi da quanto suonato fin qui, in quanto le tastiere svolgono un ruolo ben più marginale, mentre le due asce affilano non poco le loro chitarre e si sfidano in una rincorsa che mischia feralità, tecnica, dinamica e ricerca melodica. Si giunge cosi alla conclusiva "Roots and Idols of Cement" e i G.O.D. hanno ancora modo di divertirsi con un riffing instabile e pesante, interrotto solo da quegli ottimi synth e orchestrazioni, vero valore aggiunto per quest'interessante band che ha sicuramente ampi margini di miglioramento, soprattutto dopo aver sostenuto un lungo tour europeo in compagnia dei Lacuna Coil. Per ora ci accontentiamo di questo 'The Middle' in attesa di ascoltare il nuovo lavoro, a quanto pare schedulato proprio per quest'anno. Se ne sentiranno delle belle. (Francesco Scarci)

(Mighty Music/Target - 2016)
Voto: 70

giovedì 9 marzo 2017

Evenline - In Tenebris

#PER CHI AMA: Alternative/Metalcore, Alter Bridge, A Perfect Circle, Papa Roach
Con questa release, uscita sotto l'egida della Dooweet Agency nel gennaio del 2017, i francesi Evenline confermano il loro stato di grazia compositiva. Dopo un ottimo precedente album ('Dear Morpheus'), recensito su queste stesse pagine, come album dai toni marcatamente post grunge, la band transalpina opta per un sound più raffinato e colto (ascoltatevi a tal proposito 'In the Arms of Morpheus', mini album acustico per capire l'evoluzione, l'apertura mentale e le potenzialità di questo gruppo). Pur mantenendo le forti radici nella musica di Seattle, il combo parigino riesce a fondere le sue composizioni con una forma più progressiva e d'atmosfera che tocca vertici di tutto rispetto. La musica, condotta dalla magistrale e dotata voce di Arnoud Gueziec (che canta sia in pulito che growl), è derivata da band di culto come Porcupine Tree ed A Perfect Circle pur mantenendo comunque intatta la propria originalità e freschezza. Passo dopo passo, i brani scivolano veloci, coinvolgenti e potenti tra manierismi del genere e vere e proprie chicche di tecnicismo progressivo: "Straitjacket", "Echoes of Silence" e la dirompente "Never There" con il loro sound spolverano inserti metalcore stimolanti ed energici, rievocando l'alternative metal delle ultime uscite degli In Flames, suonati a meraviglia da musicisti che sanno come farsi applaudire ed ascoltare, e che usano suoni duri in modo accessibile ed orecchiabile senza ammorbidire o commercializzare a dismisura la propria proposta. Neppure la cover di Jamiroquai (si avete letto bene) "Deeper Underground", fa cadere i nostri nel vortice della banalità in quanto, rivista nel loro stile, trova un suo perché nel corso del lungo album, non sfigurando affatto. Comunque preferisco le loro composizioni originali che risultano molto più intense, cariche e più personali ovviamente, come la supersonica "From the Ashes", e quel suo riffing iniziale "meshugghiano". Ottima la produzione con soluzioni moderne e accorgimenti degni di un album mainstream, con suoni azzeccatissimi ed un equilibrio perfetto dove poter assimilare e gustare ogni singolo suono e strumento. Dieci brani tutti da ascoltare ad alto volume senza respirare, carichi di intensità, d'atmosfera e interpretati con quella tensione mista ad un sofferto e arrabbiato romanticismo che da tempo non sentivo in un lavoro, forse paragonabile ai bei tempi dei Temple of the Dog. Una veste aggressiva e raffinata aggiunta a quello che potrebbe essere lo standard operativo degli Alter Bridge, citati dalla band tra le tante fonti d'ispirazione, un look alla Muse, una preparazione tecnica e una propensione al (prossimo) salto mainstream, sono attitudini che meritano di essere premiate. Questo album sono certo non vi deluderà! (Bob Stoner)

lunedì 27 febbraio 2017

Assent - We Are The New Black

#PER CHI AMA: Death/Metalcore/Nu Metal
Continua l'ondata di band provenienti dalla Francia, tant'è che si potrebbe parlare quasi di una vera e propria "New Wave of French Heavy Metal". Gli ultimi, cronologicamente parlando, che hanno bussato alla porta del Pozzo dei Dannati sono i parigini Assent, un duo arrivato al debutto a dicembre 2016 con questo 'We Are the New Black'. Il genere proposto dai nostri, lungo le sei tracce di questo EP, è una mistura di death e metalcore, tinto però di sonorità prog e nu metal, in un pout pourri che potrebbe inglobare anche gothic, punk e molto altro. Non sempre però convogliare decine di generi musicali in un album può risultare vincente. Qui le cose, dopo la solita intro strumentale, divengono già assai complicate col pastone affidato alla title track, dove in un inizio da ninna nanna, ecco collidere subito screaming vocals con voci pulite. Sghembe linee di chitarra melodica di natura progressive avanzano in un pezzo che soffre di una certa carenza di fluidità, sebbene si percepisca che ci siano buone idee di base, ma semplicemente mal assemblate. Proviamo ad andare oltre per provare a capire di più degli Assent: l'inizio di "Reaching Out" suona in stile Pantera, un cantato in screaming rappato converge successivamente il sound della band verso lidi nu metal che non mi fanno troppo sorridere, anche se l'utilizzo quasi tribale della batteria, devia la mia attenzione a livello dei singoli strumenti, perdendo per un attimo l'attenzione dal flusso sonoro che persiste nel balbettare. "A Part of Me" risente ancora di influssi americani in stile nu e metalcore, sebbene provi a percorrere territori alternativi che finiscono ahimè per creare sonorità a tratti confusionarie, che faticano a rimanere impresse nella testa. Un bel piano apre "Remain in Darkness", poi un cantato in growl prende possesso della scena e finalmente i nostri mi sembrano per la prima volta convincenti nel loro incedere da gothic metal opera, anche se la ripetuta alternanza vocale, non agevola l'esito conclusivo, ancora carente in fatto di fluidità. È forse con la conclusiva "Insomnia" che il duo riesce a strappare una sufficienza risicatissima, merito di una song più lineare, orecchiabile e carica di groove. Gli Assent non mi hanno convinto granché, conto di capirci qualcosa di più con la prossima release. (Francesco Scarci)

sabato 18 febbraio 2017

Hypocras - Implosive

#PER CHI AMA: Death/Folk
Dopo aver recensito tonnellate di band provenienti da Basilea, finalmente scopriamo che qualcosa si muove anche nel canton Ginevra. Ecco da dove arrivano gli Hypocras, band esistente addirittura dal 2005, ma che in 12 anni ha rilasciato solo un full length e due EP, tra cui quest'ultimo 'Implosive'. Il sound del quintetto elvetico più che implosivo direi che è a dir poco esplosivo, già grazie all'opener "Implosive Absolution", una traccia thrashettona che nei suoi primi secondi lascia comunque intravedere le potenzialità del combo ginevrino e anche le sue peculiarità. Ecco palesarsi infatti il delicato suono di un flauto che prova a muoversi tra le maglie di un minaccioso death che fa delle ritmiche galoppanti il proprio punto di forza. La song non tarda però ad imboccare un percorso che miscela un death melodico col folk. "At the Edge" prosegue su questo binario con tre minuti di growling vocals, riff sincopati e la soave melodia del flauto ancora a guidare, in modo quasi più preponderante, gli altri strumenti. Notevole l'assolo a metà brano, di matrice classica. "A Song for Them" è una cover estratta dall'album del 2010 'Ichi Ten Dai (Eat Shit and Die)' dei progressive svizzeri Djizoes, qui riletta dagli Hypocras con la loro stessa ricetta affidata a ritmiche pesanti, dinamiche e ricche di groove, con ovviamente l'apporto dell'onnipresente flauto, in una traccia dal dinamitardo finale. Con l'ultima "At The Edge (Fucked Up Ibiza Vikings Remix by BAK XIII)" si scivola in una manciata di deliranti minuti di follia con la riproposizione della seconda song rivista in chiave industrial, stile Rammstein, mantenendo comunque il supporto del flauto, qui più in secondo piano, perché surclassato da un contesto disco dance. Lavoro pregevole questo 'Implosive', che fungerà speriamo da antipasto per un nuovo lp nel 2017. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 70

martedì 20 settembre 2016

Fallen Eight - Rise & Grow

#PER CHI AMA: Metalcore/Nu metal/Alternative, Disturbed
I Fallen Eight vengono da Parigi e non propongono metal estremo. Questa è già una novità per chi come me, è abituato a frequentare band black o death d'oltralpe. Il quintetto, al debut con questo 'Rise & Grow', propone un heavy metal contaminato assai potente, in un 6-track ben confezionato e (self)prodotto. "Reborn", "Come From the Sky", "Final Shot", "Breath of the Ages", "Light" e l'ultima "Worst Nightmare", scorrono via veloci, miscelando un ruffiano metalcore con una forma più moderna di Nu metal, che assai spesso tende ad indurre un feroce headbanging, come se nel vostro stereo stesse ancora scorrendo un pezzo dei Pantera del 1992 o un qualcosa di più alternative in stile Disturbed. Ecco l'effetto Fallen Eight, proporre song dirette, vocals incazzate, ma quasi mai in versione growl e chorus catchy. Un plauso va poi alla sezione ritmica grazie ad un riffing metallico, ben calibrato che incorpora al suo interno sia la cattiveria del heavy metal più intransigente anni '80 che di sonorità decisamente più mainstream, stile Linkin Park o Avenged Sevenfold. Per quanto non sia un un fan del genere, un ascolto disinteressato a 'Rise & Grow', lo concederei anche. (Francesco Scarci)

venerdì 22 aprile 2016

E.N.D. - Demonic8

#PER CHI AMA: Thrash Metal, Machine Head, Testament
I croati E.N.D., formatisi nel lontano 1996, ha pensato bene di riesumare, registrando nuovamente, una decina di demo che hanno accompagnato la band nel primo periodo d'attività tra il 1997 e il 2005. La raccolta, uscita per la Geenger Records sul finire del 2015, mostra il trio in ottima forma stilistica, con un'energia micidiale per un'esecuzione da manuale con cui la band intende confermare la propria visione musicale: dieci brani di granitico thrash metal per una quarantina di minuti dedicati alla devastazione totale. Gli ingredienti sono i tipici del genere: aggressività, chitarre ruvide, voce urticante, doppia cassa da delirio, ritmiche serrate e compatte. Ottima la performance in 'Human Aggression' dove il Thrash con la T maiuscola, emerge per eccellenza mentre "In Spite of Emptiness" mostra un suono più complicato e irrequieto, introverso e sperimentale, tanto da richiamare anche solo in parte, il suono dei mitici Meshuggah. In altri brani si sentono le influenze degli anni '90, tra Machine Head, Sepultura e altri grandi che hanno fatto storia come Testament o Carcass , rivisitati però con il suono moderno di band come Misery Index o Lamb of God. A tratti il sound del terzetto di Zadar sfoga la propria ira verso sonorità veramente taglienti, composizioni al vetriolo che si spingono al limite dello sperimentale, sporcate da un istinto industrial, come nella splendida "Raped Souls", violenta, sinistra, robotica e micidiale. Un album questo 'Demonic8', che ci permette di scoprire un'ottima band, che ha sempre creato buona musica tenendo alto il proprio lato più personale e genuino, anche in quei tempi dorati dove suonando Thrash metal, era facile cadere nelle trame del plagio o della band fotocopia. Una carrellata di brani veloci e fruibili, suonati assai bene, con grande energia e sapiente conoscenza del genere, interpretati da veri e propri cultori, nonchè veterani protagonisti della scena Thrash. Per gli amanti di questo filone estremo 'Demonic8' potrebbe rappresentare una retrospettiva davvero appetitosa. Buon appetito dunque e senza fare complimenti, spaccatevi le budella e pure le orecchie! (Bob Stoner)

(Geenger Records - 2015)
Voto: 75

http://endband.net/album/demonic8-2015

sabato 9 aprile 2016

Sleepers’ Guilt - Kilesa

#PER CHI AMA: Groove Death, Soilwork, Dark Tranquillity, Megadeth
Iniziano col botto i lussemburghesi Sleeper's Guilt, che dopo un paio di EP, vanno a debuttare sulla lunga distanza nientedimeno che con un doppio album, 'Kilesa'. L'ambizioso lavoro conta dieci tracce nella sua prima parte e tre lunghi brani per trenta minuti nella seconda, il tutto sotto l'egida di André Alvinzi e Tony Lindgren, ai rinomati Fascination Street Studios in Svezia (Katatonia, Opeth, In Flames tanto per citarne qualcuno). La cosa che mi ha stupito immediatamente, dando uno sguardo al digipack, è il supporto ricevuto dal Ministero della Cultura lussemburghese per la realizzazione del cd, avanguardia pura! Iniziando ad ascoltare il disco, quello che si apprezza maggiormente, oltre alla pulizia (inevitabile) dei suoni, è il quantitativo esagerato di groove che risiede nel disco, che lo rendono decisamente accessibile, pur collocandosi nell'ambito di un death metal di scuola Soilwork. Qui però le ritmiche sono meno esasperate rispetto ai più famosi colleghi svedesi e buona parte del lavoro viene lasciato al cesello artistico delle due asce che contribuiscono nel forgiare splendide linee melodiche, elaborati orpelli chitarristici, resi ancor più interessanti dagli ottimi arrangiamenti orchestrali che contraddistinguono l'intero platter. Cosi è assai facile avvicinarsi alla opener "Sense of an Ending" (dove compaiono nelle sue linee melodiche anche un violino e un violoncello) o alla successiva "Two Words", dove tonnellate di granitici riffs vengono prodotti e confezionati a dovere, per essere dati in pasto ad una fetta assai ampia di pubblico. Il risultato è del sano e grondante groove (in stile Scar Symmetry) che riempie ogni singolo spazio del disco, soprattutto a livello solistico. Quando c'è da spingere il piede sull'acceleratore, il quintetto di Dippach non si fa certo pregare ("Scars of War"), con i risultati che si confermano sempre eccellenti, merito di una già acquisita maturità artistica, di un certo gusto compositivo e di una buona maestria strumentale. Gli Sleepers’ Guilt sanno mostrare anche il loro lato più gentile ("Angel Eyes") con una intro che sa quasi di ballad, prima di esplodere in una tonante fase ritmica in cui, oltre alle graffianti chitarre del duo formato da Chris T. Ian e Manu De Lorenzi (sembra esserci anche un po' di Italia nei nostri), è l'ottimo growl di Patrick Schaul ad emergere; da urlo poi l'assolo conclusivo. Se "I Am Reality" ha modo di strizzare l'occhiolino anche al djent dei Tesseract, con "The Mission" (e pure in "Dying Alive") i nostri si rilanciano nel costruire muri ritmici che compaiono peraltro anche nel nuovissimo disco dei Megadeth, il che dovrebbero indurre anche gli amanti di sonorità thrash e heavy progressive ad avvicinarsi a questo lavoro. Lo dicevo all'inizio, 'Kilesa' è un album che può aprirsi ad un pubblico ben più vasto di quello death metal, il tempo mi darà ragione, ne sono certo. Nel frattempo, le song si alternano con fortuna nel mio lettore: "Teardrop Bullets" ha un approccio assai catchy in un'altra semiballad che strizza l'occhiolino ai Dark Tranquillity di 'Projector'; "Supernova" continua a citare i gods svedesi del Gotheborg sound, mentre l'ultima strumentale "Not For Words", funge da chitarristico outro al disco. Menzione a parte per il secondo disco, contenente i tre lunghi brani che si muovono da "Kleshas" song presa in prestito a livello ritmico da uno degli album centrali della discografia dei Sepultura ('Chaos AD' o 'Roots') che però evolve dinamicamente verso ritmiche serrate alternate a frangenti etnici, il che si discosta dalla proposta contenuta nel primo dischetto. Tutta da decifrare poi la seconda parte del pezzo, con un assolo hard rock che spiazza non poco e un finale affidato a female vocals, per una songs indecifrabile stilisticamente quanto mai interessante a 360°. "Akusala-Mula", il secondo brano, è un altro concentrato di sonorità death grooveggianti che potrei ricondurre ad altre mille band (in ordine sparso, Meshuggah, Megadeth, Tristania), cosi come a nessuna e in cui a prestar la propria voce c'è un'altra gentil donzella (da rivederne però la prova). A chiudere il disco ecco il folk acustico di "Vipassana" che nella sua imprevedibile evoluzione, avrà modo di solcare i sentieri del death offrendo anche tiratissime ritmiche dal vago sapore black. Tanta carne al fuoco con i 13 brani totali di questa release che sicuramente non avranno modo di annoiarvi, ma anzi sapranno catturare i vostri sensi cosi come hanno fatto col sottoscritto). Bravi! (Francesco Scarci) 

(Self - 2016)
Voto: 75

mercoledì 16 marzo 2016

Kopper8 - Addiction

#FOR FANS OF: Thrash/Groove Metal, Pantera, Lamb of God
The debut effort from these French groove/thrashers offers up a rather enjoyable-on-paper approach that doesn’t really translate as well as it should onto the record, making for a disappointing if still slightly appealing effort. What works here is the generally groove-based approach to thrashing riff-work, leaving this with tight, crunchy riffing and explosive energetic rhythms that make for a rather engaging time here alongside the pounding drumming thrown into the mix. With the groove riff-work adding an extra bit of intensity to the proceedings, there’s some rather enjoyable times here but one which does come with some minor problems. The biggest issue here is the fact that almost all of the music here is arranged similarly, being a fast and aggressive opener and then settling into a mid-tempo charge almost verbatim throughout the rest of the song, and this does manage to leave the impression that if the opening riff isn’t appealing the song itself won’t be. It’s a pretty unappealing process, especially when several of the songs aren’t that good or feature endless rambling segments that tend to slow the music down to a crawl with their endless sprawling rhythms taking a lot of the energy out of the tracks. Still, this one does end up being enjoyable enough otherwise to come off rather nicely. Intro ‘Beast’ features a sampled snarling animal to lead into the tight grooves and raging riff-work alongside plenty of pounding drumming charging along at rather frantic grooves chugging along with fiery energy through the final half for a fun, engaging opener. The title track uses a swirling bass-line to slowly grow into a crushing series of oppressive grooves offering plenty of toughened rhythms thrashing along to the striking solo section that carries on through the charging finale for a highly enjoyable highlight effort. ‘La Haine’ uses tight swirling riffing and strong crushing rhythms bringing along plenty of tight patterns and charging atmospheres to the steady mid-tempo paces leading throughout the steady grooves of the final half makes for a fine if slightly unimportant effort. ‘HateGod’ features a strong swirling bass-line and steady plodding rhythms that allow the simple grooves plenty of swirling rhythms that follow along the one-note pace with light melodic clanging leading into the sprawling finale for an overall unimpressive effort. ‘Evanglie’ takes tight, raging grooves and plenty of chugging riffing through plenty of raging tempos weaving throughout swirling riff-work as the sprawling melodic segments turning back into blistering thumping grooves for the final half in yet another strong highlight effort. ‘Patrie’ blasts through tight drum-work and chugging grooves raging along through the up-tempo paces leading into the steady paces leading the blasting patterns alongside the charging groove riffing through the thumping dynamics of the finale for a strong and overall enjoyable track. ‘Born to Die’ uses blistering razor-wire riffing and pounding drumming through a tight, up-tempo groove that settles into a thumping mid-tempo pace with the charging riff-work keeping the strong rhythms in place for the fiery final half that makes for another enjoyable offering. ‘L'Elogie de la folie’ features light guitars soon turning into sprawling, plodding paces and rather light rhythm work that ends the album-proper on a decidedly disappointing note. Lastly, bonus tracks appear in the 2015 remixes of ‘Amnesia’ and ‘Requiem’ sound like energetic and respectful versions of the originals without really adding anything really unique to them beyond the updated, crunchy sound to fit in with the rest of the tracks and makes them entirely serviceable if completely unneeded. While there’s enough to like it’s still got some problems overall here. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 70

mercoledì 4 novembre 2015

Sergeant Thunderhoof - Ride of the Hoof

#PER CHI AMA: Stoner/Space Rock, Monster Magnet
Eccolo, finalmente. Dopo l’abbondante antipasto rappresentato nel 2014 dal super EP 'Zigurat', i Sergeant Thunderhoof danno alle stampe il loro primo album. Se 'Zigurat' li aveva posti all'attenzione per le loro non comuni capacità di scrittura in un ambito, quello stoner, che spesso è preda di una perpetua riproposizione di cliché frusti e idee di terza mano, 'Ride of the Hoof' centra in pieno l’obiettivo di confermare le qualità della band e si pone come importante pietra di paragone per la scena negli anni a venire. Rispetto all'esordio, sembra esserci qui una maggiore apertura verso una prospettiva di evoluzione, laddove invece 'Zigurat' pareva piú ancorato a riferimenti classici. Sono molto interessanti il suono delle chitarre e l’uso della voce, che riescono a coniugare alla perfezione modernità e un certo gusto classico. Quello che maggiormente colpisce, nel suono dei quattro ragazzoni del Somerset, è che sembra fatto di una materia allo stesso tempo pesante e leggerissima, in grado di penetrare fino al centro della terra così come repentinamente schizzare nello spazio a distanze siderali. E questa dualità riesce a rendere l’ascolto sempre interessante, vivo e fresco. L’album si snoda lungo sei brani mediamente lunghi, per un totale di una cinquantina di minuti davvero densi. Dall'apertura, affidata a “Time Stood Still”, si nota subito la grande abilità a livello di songwriting e una ricerca sonora in grado di coniugare sprazzi post a classicità stoner doom. Si prosegue senza cedimenti con l’incedere pachidermico di “Planet Hoof” e i riff trascinanti in stile '70s di “Reptilian Woman”, fino a “Enter the Zigurat”, song dalle forti componenti psych e la monumentale “Goat Mushroom”, 13 minuti di stordimenti doom, improvvise accelerazioni ipercinetiche e immani cavalcate stoner psichedeliche. La chiusura di 'Ride of the Hoof' è affidata a quella “Staff of Souls” che rivela un lato totalmente inedito e affascinante della band inglese, fatto di delicati arpeggi dal sapore post-rock e un cantato sognante, il tutto lasciato sospeso in un modo davvero magico. Maniera eccellente per chiudere un album carico di decibel e distorsioni che vi faranno friggere le orecchie, ma che ha anche un altro effetto collaterale: creano dipendenza. In ambito stoner, i Sergeant Thunderhoof si confermano tra le migliori uscite dell’anno. Senza dubbio. (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 80

giovedì 15 ottobre 2015

Every Hour Kills - S/t

#PER CHI AMA: Modern Metal, In Flames, Scar Symmetry, Soilwork
Sentivo un po' la mancanza di suoni carichi di groove e ammiccanti al massimo. Sono stato presto accontentato dai canadesi Every Hour Kills e il loro EP omonimo nuovo di zecca. Cinque le tracce, le stesse riproposte in chiave strumentale e una versione demo sempre strumentale di "Cloudlifter", un pezzo che a dire il vero non ho ben capito dove stia nella discografia della band di Calgary. I nostri attaccano con l'elettronica massiva di "Chosen", che accompagna una ritmica imponente a cui si aggiungerà presto anche la voce di Jerrod Maxwell Lyster, in un mix tra Tesseract e Soilwork. La musica? Beh riflette fondamentalmente la proposta di queste due band (con una certa predilezione per la seconda), il classico modern metal che sembra andar tanto di moda nell'ultimo periodo, a cui aggiungerei anche un tocco di Scar Symmetry e In Flames, senza trascurare una lieve spruzzata di metalcore. Vi ritroverete pertanto allietati da un riffing sincopato, gioviali chorus, stop'n go e tastiere super melodiche. Il dado è tratto. "Deliver Us" riparte dal programming irrefrenabile di Sacha Laskow e da una linea melodica piuttosto malinconica che si riflette anche nel modo di cantare di Jerrod che nel breve break centrale, trova modo di scatenarsi anche in una versione più urlata. L'eccesso di elettronica però rischia un po' di offuscare la performance solistica, in quanto Sacha sembra davvero saperci fare con la sua sei corde. Il limite in effetti di questo EP sembra essere racchiuso proprio dall'esasperante utilizzo delle keys che andrebbero ridotte per dar modo anche a Brent Stutsky di palesare il suo valido apporto al basso, mentre non si può non notare la fantasiosa tecnica di Robert Shawcross dietro le pelli, anche se talvolta risulta celata dagli ubriacanti sfarfallii elettronici. "Saviours" è una traccia più delicata, almeno all'inizio, anche se poi il tiro aumenta e la song diviene più convincente anche per la sua continua altalenanza ritmica. Niente male. Il sound ruffiano di "One Reason" e il suo coro quasi pop rock le valgono la palma di song più moscia delle cinque. Fortunatamente irrompe la dinamica "Almost Human", che nel suo riffing portante sembra un pezzo di una decina di anni fa dei nostrani Edenshade, estratto dal bellissimo 'Ceramic Placebo for a Faint Heart'. Pezzo assai convincente e anche il mio preferito che di certo bilancia la performance meno brillante della quarta traccia. Seguono i cinque brani riproposti in chiave strumentale e quello che posso affermare è che, in assenza di una voce che ammorbidisca a più riprese il sound degli Every Hour Kills, musicalmente il quartetto canadese è davvero notevole, spaccando non poco e la vicinanza con Soilwork e anche Fear Factory, perché no, si fa davvero sentire. Bravi, preparati e non da sottovalutare. Dimenticavo l'ultima traccia, la più djent oriented: trattasi ancora di una demo senza cantato, quindi meglio soprassedere. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 70

domenica 23 agosto 2015

Expenzer - Kill the Conductor

#FOR FANS OF: Groove/Thrash Metal, Pantera, 4Arm
After a near two-decade career as Metalcore outfit Pigskin, the Swiss group reformed into thrashers Expenzer and offer up the first release under the new moniker, ‘Kill the Conductor,’ which almost begs the question why bother to change the name based on the similarities of the different bands? They do tend to play pretty similar material, groove-based Metalcore with Thrash tempos and riffing, though the band here on this version is clearly more of a truer mix between straight Groove and Thrash here without the Metalcore influences here with the band’s insistence on the violent chugging of Groove taking center stage here and then playing them in more Thrash-based patterns. This style never really offers the chance to really showcase anything in terms of variety or experimentation in terms of the music offered, though, so the album can seem to blend together at times with the charging grooves and blistering rhythms being way too same-sounding after the first couple of tracks or so. Intro ‘Bitter End’ offers a great starting point here with incessant chugging grooves, swirling thrash rhythms and dynamic drumming offering up plenty of power and vicious rhythms that all make for a fine, vicious start here. The title track features more straightforward grooves and vicious riff-work pounding throughout the rapid-fire razor-wire rhythm work that manages to fall just short of the greatness of the opening track, while both ‘Dying T-Rex’ and ‘Pelvic Fin’ going back to the original track of vicious rhythms, pounding grooves and dynamic riffing that move it along at a great pace with its razor-wire riffing keeping this one moving along nicely. ‘Play for the Deaf’ offers one of the most vicious opening grooves on the album and continues on throughout here piling on one impressive riff after another that easily makes this the album’s highlight piece while displaying slight traces of experimentation and technical prowess that’s not usually seen in Groove Metal. The banal ‘Amorphous Flowing Ice’ feels like any number of other tracks on here with the simple riffing and vicious grooves offering largely plodding mid-tempo rhythms that flow by without anything of value despite one of the few brief solo leads in the album, ‘Erase It’ offers a streamlined, simplistic take on their already simplified material and comes off nicely because of that, and ‘Unicron’ blasts through some vicious riffing and pounding drumming that makes for a rather enjoyable effort overall mixing the groove as solidly as it does here with the electronics and industrial touches. ‘Light Speed Heart Beat’ is yet another solid Groove-filled thrasher with plenty of violent energy and a decidedly pitched second half that has a few nice twists and turns, while the epic ‘Silence of the Amps’ brings forth a twangy series of guitar-work that leads into extended, drawn-out series of solid groove-filled thrash riffs with the return of the razor-wire leads furthering the running time here as it plods along in a strangely mid-tempo break for the most part. Lastly, the cover of The Haunted’s ‘Chasm’ serves well enough at maintaining a vicious energy and aggression inherent in the original and really could’ve been an original effort created here which is a fine farewell here. It’s main problem though is just the fact that it’s way too familiar to everything else in here. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 75

sabato 20 giugno 2015

Vola - Inmazes

#PER CHI AMA: Modern Metal, Meshuggah, Raunchy, Devin Townsend
Se anche nel metal ci fosse il cosiddetto disco dell’estate, i danesi Vola si candiderebbero sicuramente per la vittoria finale. ‘Inmazes’ è un disco incredibile, a cui non manca praticamente nulla, dalla traccia furiosa alla ballad, passando per la semi-ballad e un’altra bella manciata di song stracariche di Groove (per non parlare poi della notevole cover). Collocare stilisticamente il quintetto di Copenaghen non è nemmeno poi un così grande sforzo: immaginate infatti i Meshuggah che suonano Nu Metal, strizzando l’occhiolino a Devin Townsend. Tutto chiaro no? Immergiamoci allora nel sound roboante dei Vola, che aprono le danze con “The Same War” e le sue chitarrone granitiche di matrice “meshugghiana”, con le vocals pulite, qualche urletto “korniano” e una porzione corale davvero notevole. In questi frangenti, le tastiere surclassano la possanza delle 6 corde, passando attraverso una lineare fluidità melodica carica di suoni assai accattivanti. “Stray the Skies” è un altro imperdibile pezzo da potenziale top ten del metal: chitarre sincopate stoppate solamente da un altro magnifico coro e splendidi break di synth, da non perdere assolutamente. “Starburn” ha un inizio che si muove tra il fluido space rock e le tipiche partiture djent dei Born of Osiris. Asger Mygind inizia poi a cantare con la sua notevole timbrica pulita e il ritmo si fa molto più tiepido, anche se qualche growl fa capolino qua e le chitarre, nel loro articolato incedere, mostrano una delicata vena malinconica. “Owls” è una traccia un pochino più schizofrenica a livello ritmico: certo che quando Asger canta, tutto si ferma e viene catalizzato sulle sue caratteristiche corde vocali, che in talune circostanze, riescono addirittura ad evocare i Depeche Mode degli anni ’80! Ma “Owls” è una semi-ballad che vi farà venire la pelle d’oca solo ascoltandone la sua mite linea melodica, dotata com’è di una certa inclinazione onirica che la rende la mia song preferita insieme alla opening track e alla già citata "Stray the Skies". Con “Your Mind is a Helpless Dreamer” si torna ai crushing riff di scuola svedese su cui si instillano le tastiere di Martin Werner e successivamente le vocals di Asger, che in questa song arriva anche a ruggire ferocemente. Il ritmo comunque è sempre oscillante e la musica dei Vola si muova tra fasi brutali di poliritmia tonante, sublimi sprazzi di metal moderno ed intermezzi elettronici (quasi nintendocore!). “Emily” (la ballad che mancava) potrebbe stare bene su ‘Mezzanine’ dei Massive Attack cosi come su ‘Dummy’ dei Portishead o in uno qualsiasi dei dischi degli Archive, per la sua sognante veste elettronica. “Gutter Moon” unisce ancora in modo superbo l’elettronica al metal, grazie alla sempre più convincente performance vocale dei nostri che si candidano con questo album a sfidare i grandi del metal, e piazzarsi nella mia personale top ten del 2015. “A Stare Without Eyes” evidenzia ancora una volta la dicotomica faccia dei nostri, abili a muoversi musicalmente in un inedito ibrido Korn-Meshuggah. Il richiamo ai gods svedesi si fa più preponderante nell’incipit di “Feed the Creatures”, anche se da lì a breve, i Vola intraprenderanno la propria personale strada a cavallo tra elettronica e rock progressive, nell’ennesima cavalcata ricca di groove che annovera tra le influenze dei nostri anche i loro conterranei Raunchy. A chiudere ‘Inmazes’, l’ipnotica e malinconica title track che arriva a citare anche i The Contortionist, il tutto a certificare l’assoluto valore di questo combo danese, da tenere sotto traccia fino alla fine dei vostri giorni. (Francesco Scarci) 
 
(Self - 2015)
Voto: 90

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giovedì 18 giugno 2015

Deer Blood - Devolution

#FOR FANS OF Thrash Groove, Overkill
Heralding in the debut full-length from this self-described 'groove/thrash metal' band is one minute of clean, bluesy guitar licks. Unexpected, but certainly appropriate for the atmosphere this album is about to set in stone. Looking for exploratory, progressive thrash a la Heathen? Nope. Looking for speed-obsessed toxic thrash metal in the vein of Nuclear Assault or Carnivore? Sorry! What the listener is treated to here is a modern version of the oft-maligned mid-90s groove/thrash hybrid. Familiar with Overkill's 1993 opus "I Hear Black"? Well Deer Blood's 'Devolution' bears a strong similarity. For the most part, this bodes well and the album can really rollick along! However, there are a few bumps along the road... The first obstacle standing between this album and 100% enjoyability is the production job. 'Devolution' isn't raw in the pleasing, early-80s Megadeth kind of way. Its mix is just incredibly uneven. The drums are far too tinny and quiet, the guitar possesses too much treble, the bass is non-existent, and Alexandre Bourret's unimpressive voice is FAR too loud! Alright, so thrash metal vocals aren't supposed to be up to Fabio Lione standard, but there are many points where a pseudo-tough narration simply won't do. Either employ some attitude-filled barks like Tom Araya, or back off and let the riffs take charge. The riffs are where the band really shine. Not only are they memorable, but some of them are truly unique and are formed using scales and keys not often found within this sub-genre. The opening riff to "Trapped Inside" is notable for this characteristic. Sure, there's a lot of blues-scale raping, but they're played with so much gusto and enthusiasm that songs like the title-track become an absolute triumph. As well as proving his credentials as a competent riff-crafter, guitarist Julien Doucin isn't afraid to simplify when necessary, in order to enhance the rhythmic power (see the 1:57 mark in "Born Strong, Live Young, Die Hard, Born Again"). As a whole, the album is structured interestingly, with two lengthy thrash epics bookending the endeavour. These two tracks ("Bushmaster" and "Scared to the Bone"respectively) unfortunately don't shine anywhere near as much as the rest. The band's songwriting talent proves itself when the tracks are more structurally compact and concise. The occasional gang-shouts are indeed welcome, and remind me even more of Overkill's mid-90s phase. Whilst the artwork and imagery is nothing to celebrate, the band name is admittedly brilliant - and I hope they continue under this moniker. In a nutshell, what we have here is a pleasing fusion of Sanctity and mid-90s Overkill. As a whole, the vocals let down an otherwise fascinating, enjoyable and headbang-able first release. I look forward to a slightly bigger budget in the future - allowing for a cleaner production quality, more structural concision, and a vocalist who doesn't sound like an angry 14-year-old who lost his favourite Star Wars poster. (Larry Best)

(Self - 2015)
Score: 65

sabato 21 febbraio 2015

Diversion End - Building a Maze

#PER CHI AMA: Groove Metal, Scar Symmetry, Soilwork
Come più volte ho scritto, è un vero peccato che alcuni album passino inosservati alla massa semplicemente perchè non c'è un'adeguata promozione sui giornali o in giro per il web. Credo che ormai dovremo farci il callo e andare in cerca, surfando in internet nei giusti canali, di titoli underground che un qualcosa di interessante da dire ce l'hanno pure. La mia corsia preferenziale è ovviamente bandcamp che oggi mi porta alla scoperta dei Diversion End, band finlandese dedita a sonorità moderne, grondanti di groove. E il terzetto formato da Simi, Liffe e Tupe si diverte sin dall'opening track con song che citano Soilwork, Scar Symmetry e Raunchy (tanto per fare qualche nome), calibrando poi la propria proposta con un limitato pizzico di originalità. Chiaro, nulla di mai sentito, ma comunque di sicuro interesse. La title track mostra la robustezza dei nostri in sede ritmica, ma anche il dualismo canoro growl/clean di Simi e l'utilizzo copioso ed esuberante di synth e tastiere che hanno modo di garantire suoni tanto piacevoli quanto ruffiani. E "As the Light Drowns Again" non può che esser da meno con le sue meravigliose linee melodiche, che non faranno certo gridare al miracolo, ma che comunque avranno modo di tenervi compagnia mentre percorrete con la vostra auto strade deserte, fischiettando la melodia accattivante dei Diversion End. "For My Shadows" è la terza traccia di questo mini EP, che si configura come la song più malinconica delle cinque contenute in 'Building a Maze'. Il che ci sta anche, per spezzare quel ritmo forse un po' troppo "happy" delle prime due tracce, dall'impatto easy listening. Non è infatti difficile ascoltare questo terzetto della prolifica scena di Oulu, che torna a spaccare con "Reverie", brano che offre il riffing preciso dei due axemen che va a plasmarmi benissimo con le percussioni chirurgiche di Tuomi in un sound ammiccante e piacione. La conclusiva "King of Illusions" chiude il dischetto, sciorinando un'ultima seducente ritmica cyber death. I Diversion End alla fine, pur rimanendo ancorati ad un genere che ha già detto molto, si lasciano comunque facilmente ascoltare. Per il futuro tuttavia, consiglierei una maggiore ricerca di originalità, diamine siete finlandesi e avete la genialità insita nel vostro DNA. Bravi ragazzi, ma ora serve un po' più di coraggio. (Francesco Scarci)

lunedì 19 gennaio 2015

Holotropic - Permeate

#FOR FANS OF: Progressive/Groove Metal, Meshuggah, Animals as Leaders
From the seemingly endless fertile grounds of Slovakia, this progressive-minded piece tends to wholly envelop the progressive side of their sound with a dense, multifaceted album that really has more going for it than it seems. Heavily influenced by both the Djent and Technical Death Metal realms while adding plenty of experimental marks, Middle-Eastern harmonics and just plain schizophrenic leanings, this collision of extremity results in some extremely off-the-wall arrangements here with the mixture at times never really sounding all that cogent to heavy metal styles yet that experimentation is the bands’ greatest strength here at being able to somehow mix all these different styles together into what does amount to a cohesive sound at times. This is really more of a songwriting tour-de-force than it is a performance record since this one does wonderfully show how to effectively change from all these different styles at once, though naturally the ability to effectively go there is what makes this work as well. Some of the songs are overall hit-or-miss, but the ability to keep this interesting and not descend into mindless meandering is a definite strongpoint. Intro ‘Judge’ opens with clanking folklore instrumentation before settling on ravenous riffing, dynamic rhythm changes and dynamic drumming that really sets the stage for the bands’ explosive attack to come. Likewise, ‘Scintillate’ again works the Middle-Eastern vibes into the fray before using the bands’ dexterous drumming and sweeping riff-work to create a finely-honed and dynamic attack that just seems lacking in urgency throughout here. The wacked-out ‘Rupture’ features jazzy lounge-music to open into djenty rhythms with plenty of chugging patterns, pounding drum-work and irregular riff-work to make for a veritable sweeping style that continually keeps shifting around into such different patterns that there’s a lot to like about how well this one integrates all the parts into a solid whole. The instrumental ‘Wysinati’ provides different echoes with moody guitar-trinkling and jazzy drumming while the buzzing bass-lines offer up their most full-on Djent-inspired release here, though if intended for a breather it’s certainly placed rather oddly this early into the track order. ‘Traveller’ offers dynamic Middle-Eastern rhythms against groove-filled drums-blasts, swirling chug rhythms and continues the Arabian influences throughout the different rhythms and arrangements that still remain rooted in their Djent-inspired background, effectively making this the album’s central highlight and greatest showcase of their overall styles. ‘Tantrums’ comes off like generic Meshuggah-inspired Djent/chugging with technical patterns and pounding drumming swirling throughout, much like ‘Filters’ though the former is a tad livelier than the latter and is a better effort due to that. The short instrumental ‘Hunch’ is another short breather with folklore-ish riffs and droning atmospheres which sets up the album’s massive epic, ‘Integral’ which is another outstanding piece of progressive-minded work by managing to incorporate clean vocals into their extreme sound as the deep chugging patterns, heavy Djent-influenced arrangements and long-winded arrangements sweep and soar through twisting, long-winded rhythms here that shift and turn into various dynamic patterns and keeps the bands’ penchant for challenging arrangements intact. This makes for an exciting conclusion that should help them expand and grow in the scene for years to come with this kind of innovation and extremity mixed effectively together. (Don Anelli)

(Self - 2014)
Score: 85

mercoledì 12 novembre 2014

Jackknife Seizure - Time Of The Trilobites

#PER CHI AMA: Groove Metal, Soundgarden
I Jackknife Seizure sono un interessante quartetto di Londra attivo dal 2010, salito agli onori dei metallari grazie alla vincita dell'ultimo “London Metal 2 The Masses” e uno show live al “Bloodstock Festival” la scorsa estate. Questo 'Time Of The Trilobites' è il loro debutto: quattro brani registrati perfettamente – la qualità audio è davvero straordinaria, per essere un EP – che pescano il meglio dalla scena rock-metal degli anni ’90 (Soundgarden soprattutto, sia nella struttura delle canzoni che negli arrangiamenti, e qualcosa dei primissimi Pantera di 'Cowboys from Hell') per tritarli in un metal sbarazzino di ispirazione decisamente più moderna. Evidenti gli echi agli Alice In Chains nel primo minuto di “Wanker (Means You’re a Cunt)”; c’è anche qualcosa degli ultimi Mastodon (ma non certo nei suoni: qui è tutto limpido e definito) nell’incedere dispari di “Mechanical Mosquito”. Il riffing è tagliente e preciso, accompagnato da una sezione ritmica mai eccessiva – non aspettatevi fraseggi brutali e blastbeat al fulmicotone: i Jackknife Seizure prediligono la melodia alla durezza, e gli interventi metal sono misuratissimi (qualche cavalcata di doppia cassa; un paio di accelerazioni interessanti; e più in generale suoni, distorsioni ed equalizzazioni). Su tutto questo, la voce pulita e potente di Gerry, costruisce melodie ben fatte di chiara ispirazione cornelliana. Un EP ottimamente prodotto, che dura una manciata di minuti (solo 25) e scorre via liscio come l’olio. Vale l’ascolto se siete nostalgici del bel rock-metal di una ventina di anni fa e se non siete abituati a brutalità death o ai suoni sporchi dello sludge. Sarà interessante ascoltare i Jackknife Seizure alla prova ufficiale del primo full-lenght. (Stefano Torregrossa)

mercoledì 15 ottobre 2014

Godhunter - City of Dust

#FOR FANS OF: Doom/Sludge
This work is highly political, reminiscent of the American protest folk music of the 1960s, such as Bob Dylan and Country Joe and the Fish. The subject matter of "City of Dust" focuses not on general social issues, but rather sharply on issues in the state of Arizona (primarily Tucson), which leads to the conclusion that this is where these guys are from--otherwise, why would they care, unless of course these issues they write about are things which have affected them profoundly and directly? My major complaint with most records in this genre is that they usually omit lyric sheets, leaving it up for the listener to try to and decode the message. I was most impressed in that not only did Godhunter include lyric sheets, but they've provided footnotes as well, that clearly point to the circumstances of inspiration for each piece, and what it's about. Collectively, the footnotes alone add up to a half a page just by themselves. This is a very politically and ecologically aware piece, which to my experience, is not very common subject matter for metal. As I alluded to in my opening, this kind of informed protest has traditionally been the realm of folk music. The included footnotes include several books the listener is recommend to read, to help develop a better understanding of the issues the songs on this release address. Here are the recommendations: "War is a Force That Gives Us Meaning" - CHRIS HEDGES; "Rats in the Walls" - HP LOVECRAFT (short story--also the title of the second song here); "Cadillac Desert" - MARC REISNER; "Hope Dies Last" - STUDS TERKEL; "Blood Orchid" - CHARLES BOWDEN; and "La Calle" - LYDIA R. OTERO. I can see why metal would provide a more emphatic form of protest than acoustic folk. Subtlety this days tends to get lost in the noise of all the TV soundbites and the 24/7/365 news cycle that we’re all immersed in today, that didn't exist in the 1960s. Information traveled a lot slower then, so people responded pretty well to, and actually understood wry sarcasm in music. Less so these days: besides, metal has always been the best musical medium for expressing frustration and anger at things, and this guys have got that going in spades. No posing here: No Venom-like pseudo-glam fake Satanism is used here for the sake of getting publicity. These guys are REAL: they are sincere and committed to their message, and deathly serious about what they have to say. Now enough on the inspiration and on to the music itself (and there's a lot more to be found in the references on the lyric sheets. Make sure that you have them in hand when listening to this). Godhunter gives us a doomy sludge sound worthy of 'Black Sabbath's Volume 4' with a bit of 'Down II' tossed in, a sprinkling of Sleep, and a vocal style which is a cross between that of the lead vocalist of Texas Hippie Coalition and Phil Anselmo. There are 8 tracks on "City of Dust" (subtitled "A Conversation Between Hope and Despair"): (1) "Despite All"; (2) "Rats in the Walls"; (3) "Brushfires"; (4) "Snake Oil Dealers"; (5) "Shooting Down the Sun"; (6) "Palace of Thorn" (yes, that's not a typo - it says "Thorn"--singular--sans "s"--on the lyric sheet); (7) "City of Dust" (the title track), and closing with (8) "Plague Widow". This is real shit these guys are writing about: no dragons, no knights, no cosmic catastrophes, but real-life, close to home issues that this band really cares about. And these are things that they want their listeners to care about, as well. A couple of the songs include spoken introductions. The album opens (in "Despite All") with an excerpt from a speech given by Chris Hedges under foreboding synth swells (see the reference to his book in the recommended reading list cited earlier in this review): "We live now in a nation where doctors destroy health; lawyers destroy justice; universities destroy knowledge; government destroys freedom; press destroys information; religion destroys morals, and our banks destroy the economy." Track 3, "Brushfires" starts with a speech on civil disobedience Howard Zinn gave in 1971 against the Vietnam War: "Learn to disobey. So you police and you FBI, if you want to arrest people who are violating the law, then you shouldn't be here--you should be in Washington! You should go there immediately: and arrest the President and his advisors, on the charge of disturbing the peace of the world." Of note, the pace changes with the fifth track, "Shooting Down the Sun", which is a dark, deeply emotive and soulful acoustic piece with great raw, melodic vocals. It’s very similar in feeling to Black Sabbath's "Planet Caravan" or "Changes", yet imagine Joe Cocker as a metal vocalist in place of Ozzy Osbourne. In short, if you like a mix of doom and groove metal, these guys will pull you right in, and not let you go. But after you’ve given it a few spins just absorbing the feel and the vibe, sit down with the lyric sheet, and explore the deeper meaning of the songs on "City of Dust.” You'll be glad you did. This is true "Metal with Meaning"--and that's not necessarily a bad thing, at least once in a while. (Bob Szekely)

(The Compound/Battleground Records - 2014)
Score: 90