Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Drone. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Drone. Mostra tutti i post

giovedì 5 ottobre 2017

Sum Of R – Orga

#PER CHI AMA: Dark/Ambient/Elettronica
Disco dalle atmosfere plumbee e rarefatte, basato su suoni profondi e ancestrali, crepuscolare e oscuro, questo è il nuovo lavoro degli svizzeri Sum Of R. Veterani della scena ambient/dark europea, dopo quattro album dalla loro nascita (2008) i nostri si concentrano in un album per appassionati del genere e per ricercatori di musica emozionale sulla scia di Dead Can Dance e Coil, un ambient sperimentale, dilatato e carico di suggestioni evocative (vedi Alva Noto oppure alcuni lavori sul catalogo della Ultimae Records). Piccoli suoni sparsi ovunque che creano composizioni cerebrali cariche di tensione esistenziali. Musica ai confini tra elettronica, ambient e rumori nella distanza, perfetta colonna sonora per film cervellotici ambientati nell'oscurità dello spazio più profondo. C'è il classicismo di Brendan Perry e i piccoli rintocchi ritmici dal sapore etnico, quel senso d'attesa e di infinito che si sviluppa in tutti i brani, gli Art Zoyd in un momento di piena oscurità. Difficile dire quale sia il brano più importante, poiché il disco va assaporato nella sua veste di soundtrack spirituale, perfetta per una elevazione della propria anima. Composizioni di alta qualità in ambito dark, nel segno del noir alla Dale Cooper Quartet di 'Metamanoir' e persino un riferimento alla perversa psichedelia musicale del David Lynch nei suoi più oscuri lavori. I brani sono corredati poi da una splendida produzione, musica da ascoltare in perfetta solitudine o nelle notti più insonni, album per veri cultori che sapranno cogliere e apprezzare il suo valore. Da ascoltare immersi nelle tenebre! (Bob Stoner)

(Czar of Revelations - 2017)
Voto: 80

https://sumofr.bandcamp.com/

domenica 17 settembre 2017

Mekigah - Autexousious

#PER CHI AMA: Avantgarde/Drone/Black/Noise, Ulver
Mekigah atto quarto: tanti sono infatti gli album che il sottoscritto ha recensito per la band australiana qui nel Pozzo dei Dannati, band che seguo sin dal loro debutto del 2010, 'The Serpent's Kiss'. L'act di Melbourne, capitanato come sempre dal solo Vis Ortis, coadiuvato poi da tutta una serie di amici che da queste parti conosciamo bene (penso ad esempio a T.K. Bollinger) rilascia un nuovo lavoro, 'Autexousious', che prosegue nella sua evoluzione sonora verso lidi sconfinati. Li avevamo conosciuti come promotori di un sound dark gothic, li abbiamo apprezzati nella loro veste death doom, li abbiamo lasciati in territori drone con 'Litost' e da li ripartiamo per immergerci nelle nere tenebre di 'Autoexousious' e del suo suono apocalittico, putrescente e melmoso che per certi versi riprende proprio il penultimo album, affidandosi completamente a landscapes sonici disturbati, votati ad un dronico approccio angosciante, come quello che si respira ad esempio nella lunga ed inquietante title track, una marcia funebre aspra ed allucinata, contraddistinta dai vocalizzi insani del mastermind australiano. Si prosegue e si finisce catturati dai suoni deliranti di "Fooled Blood", non so se una vera song o piuttosto un interludio per la successiva "Zmatek". Una traccia sperimentale di scuola "ulveriana", complice una voce che evoca in un certo qual modo, quella di Garm, in un incedere epico e finalmente digeribile e coinvolgente (soprattutto a livello percussivo), in grado di rendere la proposta dei Mekigah un po' più abbordabile, almeno nella sua prima parte, prima che rigurgiti psicotici emergano dalla maledetta ed oscura musicalità di questo brano. Un altro intermezzo noise ed ecco "The Infinite Never", una non-canzone all'insegna di voci robotiche e dilatatissimi suoni ambient-ritual-cibernetici. Ci avete capito qualcosa? Io non molto, ma forse è il bello di questa band che ha ancora tempo di sparare le ultime cartucce con il trittico finale affidato alle litaniche e soffocanti melodie di "A Vast Abyss", un brano che incarna forse l'intera produzione dei Mekigah in un malinconico e caustico pezzo all'insegna di ambient black doom drone d'avanguardia. Con "Backpfeifengesicht" ci immergiamo in dieci minuti di minimalistici vaneggiamenti sonori che tra drone, black noise, oscuri anfratti ambient, avantgarde e musica elettronica, non fanno altro che proiettarci in uno spazio intergalattico assai distante. A chiudere il disco, il cui mastering è stato affidato a Greg Chandler degli Esoteric, ci pensa "Rejection Nostalgia", l'ultimo atto che mal cela la follia dilagante di Vis Ortis e dei suoi Mekigah. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2017)
Voto: 75

https://mekigah.bandcamp.com/album/autexousious

giovedì 7 settembre 2017

Fleurety - Inquietum

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Fleurety è un demone dell'oscurità, luogotenente di Belzebù, esperto di veleni ed erbe allucinatorie che appare nel Grande Grimorio scritto a quanto pare oltre 500 anni fa. Un nome, Fleurety, che a me rimane scolpito nella memoria per essere un gruppo autore di un album pazzesco di black psichedelico, che quasi gli valse l'appellativo di Pink Floyd del black metal. Sto parlando di 'Min Tid Skal Komme' che uscì nel 1995. Dopo quel disco nel 2000, un interessante album di musica d'avanguardia e poi un silenzio perdurato quasi dieci anni, a cui seguì una sfilza di EP, quasi a dirci che il duo norvegese è ancora vivo e vegeto. Ora tutti quei dischetti sono stati raccolti sotto lo stesso tetto, 'Inquietum' appunto, a prepararci ad una nuova uscita della band prevista per fine ottobre. Intanto proviamo ad analizzare questa compilation, confezionata egregiamente dalla Aesthetic Death, in un digipack giallo fosforescente. L'album si apre con "Descent Into Darkness", song che risale addirittura al primo demo della band, datato 1993 e qui rimasterizzata insieme alla strumentale "Choirs" e ad "Absence", originariamente incluse in 'Ingentes Atque Decorii Vexilliferi Apokalypsis'. La prima traccia si manifesta come una forma assai primitiva di quel 'Min Tid Skal Komme' di cui scrivevo poc'anzi, ossia un black metal psicotico e disturbato che offre chitarre ronzanti, annichilenti vocals malate e derive droniche che saranno più palesi nella breve "Choirs", fino a giungere all'infernale "Absence", in un black thrash caustico ed inconcludente che vede i nostri, solo nell'ultimo minuto, lanciarsi in un'avanguardista fuga psicotropa. Si arriva a "Summon the Beats" e "Animal of the City", le due song del 7" 'Evoco Bestia' e mi sembra di aver a che fare con un'altra band: abbandonati i perversi screaming del vocalist, ecco apparire una gentil donzella, Ayna B. Johansen, che offre le sue doti canore su di un sound arrembante, ovattato quanto mai delirante che sembra essere una B-side estratta dal secondo 'Department of Apocalyptic Affairs'. La seconda traccia è invece puro black metal, rozzo e malato, che soltanto negli ultimi 60 secondi lascia trapelare un che di epico ed indomito. Il terzo capitolo della saga include i due brani inclusi in 'Et Spiritus Meus Semper Sub Sanguinantibus Stellis Habitabit': "Degenerate Machine" è caratterizzato da uno strano mix a livello vocale con dei rigurgiti stralunati in stile Solefald uniti ad un qualcosa al limite dell'improponibile traslati in un sound dozzinale quanto mai ferale, ma ricco anche di riferimenti prog che preservano un'aura di misticismo sull'intero lavoro. La seconda "It's When You're Cold" è sperimentazione black noise parecchio difficile da digerire, se non dopo aver ingerito o fatto uso di una dose di sostanze decisamente proibite che inducono poi un lungo sonno lisergico. Il quarto e ultimo capitolo è affidato all'ultimissimo EP, 'Fragmenta Cuinsvis Aetatis Contemporaneae', uscito a inizio di quest'anno e che include "Consensus" e "Carnal Nations", due tracce che probabilmente fotografano l'attuale stato di forma del duo originario di Ytre Enebakk. Una prima traccia che affida la propria ritmica ad un black schizofrenico su cui poggiano strani effetti sonori e onde modulatorie disturbanti generate dai synth deviati di Svein Egil Hatlevik (la sua esperienza nei Dødheimsgard deve essere pur servita); la seconda song invece sembra essere la canzone più normale del cd, peraltro la più legata a quel primo grande album di questi folli musicisti norvegesi. 'Inquietum' è una raccolta davvero di difficile ascolto, consigliata ai soli fan della band, considerato che qui si raggiungono vette di estremismo davvero complicate da concepire. Per pochi intimi. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2017)
Voto: 65

https://www.facebook.com/thetruefleurety

mercoledì 7 giugno 2017

Nitritono - Panta Rei

#PER CHI AMA: Drone/Noise Rock, Valerian Swing, Zu
Dietro questo nome criptico si nasconde un giovane duo di Cuneo che dopo aver accordato la chitarra nella tonalità più bassa possibile, si è dato l'obiettivo di creare un sound oscuro e potente. Tra le band da cui prendono ispirazione ci sono ZU, Melvins, Fantomas che hanno permesso ai Nitritono di forgiare il loro noise/rock ruvido, introspettivo e vacillante. Quindi chitarra/voce/batteria uniti per dar sfogo al proprio io esistenziale, dove il contesto suburbano ci ipnotizza con il frastuono industriale e il veleno sociale scorre a fiumi sotto i nostri piedi. Nel 2013 hanno dato vita al primo EP e dopo parecchia gavetta, suonando con svariate band italiane e non, quest'anno si sono chiusi in studio con Enrico Baraldi (bassista degli Ornaments e sound engineering in ascesa) per registrare questo 'Panta Rei'. Otto brani potenti, carichi di tensione ed energia che navigano ai livelli più profondi dell'animo tormentato per poi esplodere con un incedere devastante e purificatore. "La Morte di Dio" apre con un incipit quasi in stile The Cure, dove la chitarra pulita e batteria vacillano lenti e malinconici, mentre si fa insistente l'arrivo delle distorsioni. Queste, pur rimanendo sulla stessa ritmica lenta e minimalista, sgomitano a colpi di plettro sfruttando le basse frequenze per sviscerare l'io profondo e far risalire a galla sensazioni ormai dimenticate. Poi il tutto si distende, elevandosi ad un livello onirico, senza materia né tempo, ma il sollievo dura poco perché le tenebre ci agguantano di nuovo e ci ricordano che tutto è duplice, non esiste il bene senza il male, la luce senza il buio. Il brano che condensa al meglio la produzione artistica dei Nitritono è "L'Atarassia del Giorno Dopo", dove il dualismo post rock/noise trova il suo culmine in distorsioni solide e profonde intervallate da arpeggi puliti accompagnati da pattern ritmici trascinanti. La lentezza al limite del doom e i suoni eterei contribuiscono a creare una risonanza cosmica, tale da far vibrare il nostro corpo all'unisono con l'anima per poi spezzare il legame e permetterci di trascendere. La parte finale aumenta di intensità e la tensione diventa talmente insostenibile che la mente fugge per trovare sollievo, rifugiandosi quindi tra le spire di "Zen-it", dodici minuti di terapia spirituale che iniziano con una lunga sezione drone/noise. La perfetta colonna sonora di un film horror in bianco e nero, senza i dialoghi che sarebbero superflui e allontanerebbero la nostra attenzioni dalle immagini e i suoni, che grazie alla chitarra deformata dagli effetti, sembrano un'entità che si trascina a fatica sotto un cielo plumbeo e pesante. L'oppressione, gli stacchi, la ripetitività giocano un ruolo determinante in questo 'Panta Rei', dove il suono è sempre impeccabile, viscerale e potente, con momenti caratterizzati da una calma palpabile che rende ancor più distruttive le esplosioni sonore che si susseguono. Sembra quasi di prendere i Valerian Swing dopo averli rallentati, pur mantenendo intatto il loro smalto. Da ascoltare tutto d'un fiato. Consigliato. (Michele Montanari)

martedì 30 maggio 2017

OSS - Primo

#PER CHI AMA: Industrial/Drone/Noise
Una bustina in plastica contenente un foglio, questo leggermente più spesso del normale, macchiato, seccato e dall'aspetto usurato. Ecco il primo approccio con 'Primo', lavoro degli OSS, duo industriale proveniente dall'alto Veneto. Un canto alpino: "Era una notte che pioveva", sono i secondi iniziali di "Solda'", traccia d'apertura di quest'opera prima. Subito la base ritmica evidenzia l'utilizzo della drum machine, con il suo incedere marziale, mentre un synth ad onde quadre, fa da tappeto a vitree voci. Questo stile viene mantenuto in "Mazariol", titolo che si rifà al leggendario folletto che si aggira nella marca trevigiana, un brano che vede l'inserimento di un basso distorto ed insieme ad un'evoluzione ritmica della drum machine, conferisce un altalenante senso di moto dalle tendenze tribali. Un misterioso piano introduce "Anguana", una traccia con andamento circolare, proprio come le ceste di vimini che queste ninfe mitologiche facevano riempire vanamente di acqua coloro che si attardavano fuori casa la sera. Il movimento crescente, a cui si somma un synth accompagnato da una voce, narra l'incontro con questa fata dell'acqua, mentre altri pattern di drum machine e synth si aggiungono alla base e arricchiscono progressivamente il suono. "Biasio" è la song che più si avvicina al noise. Il theremin dei primi minuti infonde un senso spettrale, un lamento leggero che si trasforma sempre più in una spirale d'agonia che porta a suoni ridondanti e volumi crescenti fino alla completa saturazione, prima di cadere nuovamente a picco verso la fine. Il disco mostra l'attitudine tipica dei primi approcci post-industrial e power electronics, con suoni onesti, minimali e scarni. Il range dinamico è la vera potenza del disco che vede innalzarsi crescenti picchi sonori nel corso delle composizioni. Un esordio sicuramente di buone prospettive per questo progetto anche se l'EP dura solamente 25 minuti, ma sono certo (ed auspico) che in futuro il problema sia invece quello di contenere il minutaggio. (Kent)

lunedì 27 marzo 2017

Adamennon - Le Nove Ombre del Caos

#PER CHI AMA: Colonne Sonore/Psichedelia, Goblin
Abito a Como ormai da parecchi anni ed ignoravo completamente l'esistenza di questa band, gli Adamennon. Non certo gli ultimi arrivati poi, visto che il "titolare" della band (trattasi di una quasi one man band) è in giro dal 2006 e in questi undici anni ha fatto uscire parecchi lavori, split e quant'altro, frutto di collaborazioni con vari artisti. Eccomi quindi fare la conoscenza con Mr. Adamennon e con il nuovo album 'Le Nove Ombre del Caos', Colonna Sonora Originale di un ipotetico film mai girato. Il titolo, per quanto mi riguarda, ma lo sarà anche la tastiera introduttiva, è un manifesto programmatico dell'artista lariano, un inno ai Goblin, un tributo a Dario Argento e a tutta la filmografia horror italiana degli anni '70. Avrete pertanto intuito che ci troviamo di fronte a malsane atmosfere ambient, paurose come i film dell'allucinato Dario, quelli però più a sfondo psicologico direi, come 'L'Uccello dalle Piume di Cristallo' o 'Il Gatto a Nove Code', per cui c'è anche una simbologia ricorrente nel numero nove con l'album di quest'oggi. E allora immergetevi insieme a me nelle terrificanti ambientazioni di "Un Sospiro nel Profondo Nero", dove il richiamo alla band di Claudio Simonetti è davvero importante. Con la successiva "Il Felino dallo Sguardo che Arde", le orchestrazioni da chiesa si fanno più forti e si accompagnano a voci corali e recitative, mentre la musica viene guidata dall'angosciante incedere di un magniloquente organo. Delicati tocchi di un nostalgico pianoforte aprono "Il Museo delle Anime Perse", una traccia che subisce un'evoluzione quasi inattesa: la song infatti, pur mantenendo intatto il suo pattern tastieristico, dà maggior spazio alla batteria e soprattutto ad uno screaming tipicamente black. Tra il grottesco e il faceto, ecco arrivare "La Giostra del Folle", un carillon maledetto che però suona molto simile ad una traccia contenuta nell'ultimo album dei Thee Maldoror Kollective, ormai datato 2014. Molto più convincente e soprattutto assai più roboante, "Dalle Fauci al Ventre della Bestia Nera", grazie ad un sound grosso, corposo, avvolgente, drammatico, malinconico, ipnotico e lisergico, in quella che forse è la canzone che più mi ha coinvolto dell'intero album. Il lato B del cd (è riportato cosi sul digipack) apre con la litanica "Incontro e Scontro con la Paura", una song che induce fenomeni paranoici a livello cerebrale, forse a causa di una certa ridondanza sonora, a cui si aggiungono voci pulite in background che si mischiano ad urla disumane. Si scivola lentamente verso la fine del disco con un'altra song dal flusso un po' ubriacante, "La Sconfitta al Pozzo di Sangue", fatta di suoni sbilenchi e urla dannate in sottofondo. L'ultimo atto, tralasciando la pianistica "La Caduta nel Perpetuo Oblio", è affidata alla lunghissima e sacrale "Il Risveglio Nella Morte Universale/Le Nove Ombre del Caos", cantata in latino e italiano, in una sorta di celebrazione ritualistica davvero suggestiva e solenne, affidata quasi interamente ai tastieroni del mastermind comasco e alle vocals del compagno di ventura Maximilian Bloch, responsabile dei synth, del pianoforte e delle voci corali del disco. La seconda parte del brano raccoglie poi influenze ed interferenze drone per un finale delirante, una degna conclusione di un disco sperimentale da godere spaventati, nella penombra della propria casa. (Francesco Scarci)

venerdì 3 marzo 2017

John, the Void - II

#PER CHI AMA: Post-Metal, Cult Of Luna, Amen Ra
Sono cresciuti. Questa è la prima cosa che mi passa per la mente dopo i primi minuti di 'II', il nuovo lavoro dei bad boys di Pordenone, John, the Void. Dalla regia però mi dicono che tecnicamente è il loro primo full-length, sinceramente non ricordo se il loro primo lavoro l'avevo vagliato come un EP, ma se non ricordo male le tempistiche erano piuttosto prolisse (mai quanto questo, s'intende). Si nota subito che i brani sono più strutturati, più pensati e completi rispetto all'impressione avuta dall'ascolto del precedente self-titled. E il suono è sicuramente più ricercato e calibrato per far emergere sensazioni e scenari durante il suo ascolto. Quello che mi balena in mente è: degrado provinciale notturno, ruggine e vetri rotti. "John Void" è ossessione, ripetitività, inadeguatezza alla vita. Opener lunga, lacerante e schietta nel dire chi si è, cosa si vuole, perché non si è e perché non si vuole. La successiva "Enter" (traccia che a mio parere sintetizza nei suoi oltre 14 minuti, tutto l'album e la proposta del gruppo), dato il titolo e i suoi primi minuti, sembra voler dire che la song precedente era solo un avvertimento e ora comincia il vero viaggio promosso dai John, the Void. La voce è tagliente, incontrastabile, grama nell'incidere tra le cupe bordate chitarristiche, le quali creano polverosi vortici sonori, mentre i ritmi monolitici trascinano inevitabilmente nell'abisso creato dal sestetto friulano. Queste prime tracce che segnano la prima metà del disco sono d'impatto, enormi, violente, fanno muovere (al giusto ritmo) la testa nei momenti aggressivi e svuotarla nelle parentesi più dilatate. Si apre quindi la sezione oserei dire più "soft", con l'eterea "Obscurae Terrae", la quale segna una cortina dal sapore droneggiante a metà del disco. La seguente "Neon Forest" anche se movimentata da caustiche accelerazioni, corrode la prospettiva claustrofobica con delicati inserti melodici, mentre l'ultima "Season" culla fino alla conclusione di questo viaggio con pacata dolcezza. Le tracce si amalgamano perfettamente l'una all'altra, tanto che è facile lasciarsi trasportare e non rendersi conto che il disco è già ricominciato. In conclusione, 'II' è un lavoro che corrisponde ai canoni compositivi del post-metal ma con una propria personalità evidenziata dagli inserti elettronici molto più marcati rispetto al disco precedente e dall'atmosfera qui fredda e oppressiva. Atmosfera che vale tutto l'ascolto dell'opera. (Kent)

(Drown Within Records/Dullest Records/Dingleberry Records - 2016)
Voto: 70

https://johnthevoid.bandcamp.com/album/ii

domenica 22 gennaio 2017

James Murray - Eyes to the Height

#PER CHI AMA: Ambient, Minimal, Soundtrack
Nella musica di James Murray ci si può perdere con leggerezza, con quel sentore settembrino appena fresco ed intenso, immergersi in colori autunnali, liberi di sfoderare un'emotività multicolore, contenuta ed accesa, alla ricerca di una forma d'essere che sia pura come l'acqua più cristallina. È di queste cose che si ricopre il nuovo album dell'artista inglese, piccoli battiti di musica elettronica rubati alle pulsazioni del cuore, un suono caldo, avvolgente e profondo, rarefatto, come se la musica di Daniel Lanois virasse sicura verso i lidi della migliore elettronica minimale, passando per dovere tra Mùm, le magie di Eno, shoegaze vari e certe cose ambient di Robert Rich e Tangerine Dream. In "Holloways" (brano stupendo) troviamo un musicista in forma fantastica che trasuda classe e stile da vendere, in orbita tra galassie ambient, ritmi lievi, bassi profondi e foreste sacre, che lo uniscono di fatto al concetto di suoni per una natura incontaminata. Si continua con il sogno diviso a metà tra meraviglia e oscuri presagi di "What Can be Done", tra drone e leggerissimi innesti ritmici, un mantra sonico affascinante ed avvolgente come una fitta nebbia mattutina in aperta campagna. La peculiarità e la cura maniacale per un sound perfetto, si mette in mostra in tutta la durata del disco e la ricerca di un suono che possiamo definire tridimensionale, è centrata in pieno. Composizioni quelle di James, che ammaliano e pongono l'ascoltatore di fronte ad un'esperienza sonora atta alla rigenerazione sensoriale, rispolverando downtempo e cariche emotive in voga ai tempi della migliore new age music ed al trip hop più lisergico e misterioso. Una colonna sonora dell'anima senza fissa collocazione nel tempo e nei generi. Una decina di brani che potevano essere, in veste elettronica e strumentale, la colonna sonora di una nuova opera di Wenders, con in prima fila un pezzo sopra le righe come "Ghostwalking", che reputo un vero e proprio gioiellino. Splendida compilation in perfetta linea qualitativa con le produzioni d'alta classe dell'etichetta d'oltralpe Ultimae Records, anche se, per certi aspetti, in questo bel disco, si nota una controtendenza che lo diversifica dai lavori dei compagni di scuderia (se si pensa al mitico viaggiatore spaziale Martin Nonstatic) che optano per un sound più tecnologico, futurista e moderno. Un contrasto ricercato ed originale, che si fa notare mostrando volutamente un suono più umano, sognante e parecchio analogico, per certi aspetti, più legato ad un effetto vintage e retrò dell'elettronica. L'ascolto di quest'ultima fatica del compositore britannico, uscita sul finire del 2016 per la sempre più rosea etichetta francese, è indubbiamente un'esperienza che merita di essere fatta, una full immersion rigenerante e inebriante, in definitiva un ottimo lavoro. (Bob Stoner)

venerdì 16 dicembre 2016

Dopemachine - S/t

#PER CHI AMA: Post Metal/Drone/Math Rock
Un'odissea... Quasi sei mesi ci sono voluti infatti a quest'album per giungere tra le mie mani; credo abbia percorso migliaia e migliaia di km in giro per l'Europa, un po' come fece Ulisse per ritornare alla sua amata Itaca, ma tant'è che ne è valsa la pena. Sto parlando dei russi Dopemachine, originari di San Pietroburgo e quando penso a quella magnifica città, confido sempre di ritrovare nelle band originarie di quella zona, la genialità degli ahimè scomparsi Follow the White Rabbit. Non siamo certi a livelli di follia e menti superiori di quell'incredibile realtà sparita ahimè troppo presto, ma i Dopemachine la sanno lunga e nella loro proposta, coniugano con sapienza e una certa raffinatezza, sonorità densissime che si rifanno a post metal, sludge, drone, math, post-rock, doom, noise e psych in un crogiolo di stili che si condensano amabilmente nei due pezzi semi-strumentali a loro disposizione (per oltre 40 minuti di musica). "Dope" apre (chiuderà ovviamente "Machine") con sonorità circolari che vanno via via ingrossandosi a livello di fragore delle chitarre, le cui linee, perennemente instabili, acquisiscono strane forme, liquide, massicce e compatte, e infine gassose, materializzandosi quindi nei diversi stati della materia, con delle urla in background che rendono il tutto ancora più precario ed allucinato, riflettendosi in un'alternanza stilistica pregna di significati. Nelle sue circonvoluzioni, il sound dei quattro musici russi assume sembianze eteree, sognanti o addirittura paranoiche, asfissianti ed ossessive, che vengono assorbite anche dalla seconda traccia. "Machine" si infila fin da subito in reconditi luoghi misteriosi e da li si districa in contorte e convulse sonorità droniche che per oltre sei minuti ci mantengono ipnotizzati. Poi è nuovamente quella mutevolezza a prendere il sopravvento ed ecco la psichedelia ad emergere dal suono desolato e malinconico delle chitarre su cui si stagliano, per una manciata di minuti, anche dei flebili ed incomprensibili vocalizzi in background, in un sound in costante ma effimero equilibrio con se stesso, che trova modo di accelerare pericolosamente in uno schizoide finale. Due tracce avvincenti, sicuramente non facili da digerire, ma di dotate di grande fascino. (Francesco Scarci)

mercoledì 16 novembre 2016

Demikhov - Experimental Transplantation of Vital Organs

#PER CHI AMA: Noise/Drone/Experimental
Demikhov Vladimir fu un chirurgo russo del '900, pioniere delle trapiantologia, infatti viene ricordato per i suoi innumerevoli esperimenti, tra cui il trapianto della testa di un pastore tedesco morto in un incidente prima di essere sottoposto alla stessa procedura per il cuore. Demikhov è anche il moniker di una band di Desenzano (Brescia), per l'esattezza un trio formato da basso/chitarra/batteria dediti a "musica brutta fatta di fuzz e martello" (come dichiarato dai nostri). Lunga la lista delle label che hanno prodotto/supportato la fatica del terzetto lombardo (le prolifere Dio Drone e Cave Canem D.I.Y. tra gli altri), contenuta in un bel digipak dalla grafica vintage. Il disco contiene otto brani che navigano nelle acque del noise/post hardcore/sludge non cantato, un mix di malessere sia a livello di suoni che di arrangiamenti. L'obiettivo del trio bresciano è di colpire, infastidire e lasciare il segno in questo panorama musicale che offre infiniti prodotti musicali per tutti i gusti. Nonostante il progetto sia strumentale, l'impatto sonoro sconvolge e attira l'ascoltatore negli oscuri meandri della mente, tra pazzia e genialità, dove spesso il confine è talmente sottile che è impossibile discernerlo. "Accumulating Failures Magnifies Your Heads’ Collection" ha un incipit vigoroso con una batteria scalciante e feedback di chitarra che ricordano il format dei Bachi da Pietra, una devastazione totale, che emerge proprio da una scelta oculata in fase di registrazione. Dimenticate quindi le finezze dell'era digitale, e fatevi violentare da quel sound grezzo e cattivo che vi riporterà indietro nel tempo di almeno una decade. Mentre basso e batteria continuano su questa linea pulsante, la chitarra lascia gli accordi e si impegna in riff arpeggiati dal suono etereo e lugubre. L'atmosfera diventa meno opprimente grazie al lungo break centrale al limite del drone, poi il crescendo ci prepara al terrore angosciante che esplode e ci conduce fino alla fine del brano ma con qualche neurone in meno. Quasi nove minuti di terapia a base di elettroshock. "My Mind Master Mystic Mademoiselle" inizia con fievoli rintocchi seguiti da un muro di distorsione in puro stile Sunn O))) che ci fa sprofondare nel grembo della lentezza per buona metà del brano. Ad un certo punto il batterista e il bassista vengono colti da un raptus per cui iniziano a martellare in maniera ossessiva, portandoci alla classica esplosione di noise e perdizione, una sorta di Hate & Merda senza voce. Un buon album questo 'Experimental Transplantation of Vital Organs', fatto di suoni giusti e da un concept ben studiato. La scelta della via strumentale funziona e i Demikhov si aggiungono all'ampio stuolo di band che perseguono il genere. A questo punto vincerà chi riuscirà a reinventarsi, staccandosi dagli schemi con soluzioni diverse, anche non convenzionali. Mi immagino già sperimentazioni con strumenti a fiato, archi, voci femminili, elettronica anni '80, sarà necessario solo trovare il coraggio di provare e non temere di uscire dal coro. (Michele Montanari)

(Dio Drone / Toten Schwan / Vollmer Industries / Brigante Records and Productions / Koe Records / Cave Canem D.I.Y. / I Dischi del Minollo - 2016)
Voto: 75

https://demikhov.bandcamp.com/

mercoledì 7 settembre 2016

Moloch – Verwüstung

# PER CHI AMA: Black/Ambient/Dark, Abigor, Beherit
Il black metal offre in termini stilistici numerosi spunti creativi a discapito della sua fama di musica chiusa, statica e ripetitiva e Moloch ne è un buon esempio. Il connubio di arte estrema, espressa a suon di ambient, dark e black metal di carattere teutonico, emotivo, drammatico, ricco di venature strazianti ed interpretazioni vocali lancinanti inclini a seviziare la voce di un'anima perduta, devota alla solitudine, al nichilismo totale nei confronti di un mondo in caduta libera, genera sempre un certo effetto a sorpresa. La one man band ucraina ha sfornato una miriade di creazioni e collaborazioni anche importanti dalla sua fondazione (2004) ad oggi e l'album in questione datato 2014, e distribuito dalla Metallic Media, spinge ulteriormente la fase creativa della band verso un suono ancor più rigido, glaciale, ferreo e di confine. Tramutando il malessere esistenziale in conflitto contro il mondo insano in cui si è destinati a sopravvivere, Moloch (Sergiy Fjordsson aiutato alla batteria dal prestigioso Gionata Potenti, già al lavoro con numerose band tra cui Blut Aus Nord e Deathrow), esaspera ed esalta il tipico sound black in forma compatta e nevrotica, esuberante nei sui ritmi serrati e sinistri, carichi di disperazione e dall'umore macabro. Riff taglienti e gravidi di ossessione, calati in atmosfere cupe e malate. Le composizioni sono frastagliate, oserei dire primordiali, anche nella produzione, a volte grezze e rudi, sempre pronte a rimarcare la linea continuativa che le legano con il passato e le origini di questo genere musicale estremo. All'interno dei brani troveremo aperture decadenti e buie, ritmiche martellanti di batteria ad incalzare un cantato tetro e teatrale, instancabile nella sua ricerca della perfetta melodia del dolore. Il suono non evoca particolari virtuosismi ma è costante la presenza di una certa maestria nello stendere composizioni sotterranee, dall'odore acre e dal sentore paludoso e di perdizione. Una collaudata e singolare tecnica compositiva, selvaggia e radicale, cosparsa e disseminata nell'intero album che lo rende omogeneo ed ipnotico, qualità che brano dopo brano diventerà sempre più presente e notevole. In perfetta comunione tra loro, troviamo musica e artwork di copertina, con un lavoro grafico criptico e raggelante, sostenuto anche da una colossale durata del cd di quasi ottanta minuti. Lontano dalle luci della ribalta e legato nel sangue da una corrente espressiva sotterranea e violenta, Moloch incalza con la sua opera l'arte di band ai margini come Centuries of Deception, Abigor, Inquisition e Beherith, con un sound difficile da assimilare e descrivere, ma per chi saprà captarne la profondità d'intenti si aprirà un vaso di Pandora che può condurre nei meandri più bui della nostra esistenza. Aperto da un intro ambient nero come la pece ("Todestille"), il disco esplode nel suo interno con tutta la sua perversa spigolosità, senza dare tregua per tutta la sua durata, depressivo e riflessivo in totale opposizione al concetto di mainstream. "Du Bist Nichts in Dieser Sterbenden Welt ", condotta da un intro di basso distorto, offre la prima tregua dopo sei brani devastanti per approdare alla titletrack, "Verwüstung" che, con tutta la sua rarefatta onnipotenza, mostra una lunga coda rivolta ad un'ecatombe del genere umano, la sua scomparsa osannata a suon di drone music, dark, ambient e sfuggenti tocchi di piano e rumori silenziosi, bui, in assenza totale di ritmo per ben undici minuti. La chiusura è affidata inaspettatamente ad una traccia nascosta ("A Symphony" by Chopin) con la sua prima ventina di minuti passata nel totale silenzio sonoro per poi aprirsi ad una sinfonia classica orchestrale, presumo un omaggio all'autore (perdonate la mia lacuna in ambito classico). Un album definitivo, l'oscurità in piena regola. Disco da avere. (Bob Stoner)

(Human to Dust/Metallic Media - 2014)
Voto: 85

https://molochukr.bandcamp.com/album/verw-stung-2

martedì 21 giugno 2016

Nekhen – Entering the Gate of the Western Horizon

#PER CHI AMA: Doom/Drone/Dark Sperimentale
Sarà l'oscurità e l'aura mistica che circonda questa one man band italiana nata nel 2014, senza dichiarata dimora all'interno dei patri confini e capitanata dal polistrumentista Seth Peribsen, che rende spettrale ed appetibile questo primo ispiratissimo e sperimentale lavoro, uscito nel 2015 autoprodotto. Il tema trattato è l'antico Egitto, per l'esattezza il 'Trattato della Camera Nascosta', un libro connesso alla sepoltura trovato nella tomba del sovrano Menkheperra Thutmose. La band spiega sul proprio bandcamp l'esposto sonico in questo modo: l'album è inteso come un unico brano diviso in 12 tracce, composto seguendo la struttura del trattato stesso, come rappresentato nella tomba, raccontando il viaggio notturno del Dio Sole Ra nell'Amduat, ossia "Ciò che è nel mondo sotterraneo, nell'aldilà". La copertina, che rigorosamente richiama temi egizi e geroglifici, è ben curata graficamente mentre le dodici tracce, tutte di breve durata, sono legate dal filo unico conduttore di rendere l'ascolto un unico intenso viaggio nei misteri di un mondo sommerso e misterioso, espresso tramite una musica carica di evidenti aperture cinematiche e postrock, caratterizzate da sonorità doom influenzate da Electric Wizard, Ramesses, in parte dai Nibiru, dai Goatpsalm e dai Cathedral del brano "Halo of Fire", ovviamente senza il cantato, visto il concept strumentale proposto, il tutto corredato poi da un'alta concentrazione di suoni sperimentali e soluzioni musicali vicine anche allo sludge e all'ambient, con l'utilizzo di una strumentazione e percussioni di carattere folk etnico, ideali per ricreare il giusto pathos, dal sapore antico e dalla forte propensione mistica e sciamanica. Difficile trovare un brano sopra gli altri perchè l'album va apprezzato in toto ed ascoltato a volume alto o ancora meglio isolati da un paio di cuffie, in clausura e concentrazione, per assaporarne il vero valore. Anche se di non facile comprensione, dopo alcuni ascolti ripetuti, il concept diviene catartico ed ammaliante grazie ai suoi chiaroscuri e ad una macabra acidità sonica che colpisce, complice il retaggio degli immancabili Black Sabbath, i padri assoluti del genere doom. Il suono pesante delle distorsioni si incrocia sovente alle percussioni tribali ed etniche mediorientali, formando un'unica, infinita marcia funebre, un'iniziazione, un rituale pronto a farci scoprire segreti inimmaginabili. Questa fatica mastodontica di trenta minuti appena, deve essere valorizzata ed ascoltata perchè dischi del genere non escono tutti i giorni. Considerate poi l'autoproduzione che corrisponde ad una qualità impeccabile corredata da un'ottima produzione, 'Entering the Gate of the Western Horizon' dovrebbe trovarsi in cima alla lista dei desideri di ascolto di tutti gli amanti della sperimentazione in campo doom, drone e folk metal. Un' opera prima davvero notevole per questa promettente one man band italiana. (Bob Stoner)

domenica 19 giugno 2016

Keeper - The Space Between Your Teeth

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Due song per i Californiani Keeper per dimostrarci di che pasta sono fatti vi sembrano poche? Niente paura perché i due brani in questione, durano rispettivamente 17 e 16 minuti scarsi. Più che sufficienti per delineare il profilo fangoso del duo statunitense, in questo EP uscito nel 2015 e intitolato curiosamente 'The Space Between Your Teeth'. "The King" è sludge doom allo stato puro: un riffing lento ma incendiario, che dal primo all'ultimo minuto mantiene intatte le proprie fattezze, muovendosi minaccioso attraverso atmosfere venate di pura tenebra e screaming vocals demoniache che rappresentano l'unico punto di contatto dei nostri col black metal. Poi è solo la distorsione delle chitarre a dominare, in uno slow tempo dai contorni asfissianti ma emotivamente intensi (merito anche di una produzione spettacolare), che per certi versi mi hanno ricordato la proposta dei francesi Crown, qui ancor più cupa e decadente. Non c'è stacco tra la prima traccia e "The Fool", se non un brevissimo attenuarsi a livello ritmico, uno sprazzo di noise/drone, come ideale ponte di congiungimento tra le due song. Poi, solo il marziale incedere del duo americano, a tracciare scenari desolati da fine del mondo e a creare un inevitabile disagio interiore, che va via via crescendo nel corso dell'ascolto della traccia. L'esito conclusivo è assai soddisfacente, se solo ci fosse un maggiore dinamismo a livello delle linee di chitarra, rischieremo di trovarci tra le mani una band dalle potenzialità enormi. (Francesco Scarci)

Sepvlcrvm – Vox In Rama

#PER CHI AMA: Drone/Ambient
I Sepvlcrvm, progetto anticonformista e ultraterreno, ci regalano 'Vox in Rama', album sacrale meditativo e trascendente. Un altro gioiello di casa Agronauta, che ho avuto il piacere di contemplare all’Argonauta Fest di quest’anno. Premetto che l’ascolto su disco e davanti ad uno stage sono due esperienze totalmente differenti per qualsiasi act, ma per i Sepvlcrvm il salto è ancora più grande. Dal vivo l’atmosfera è come se fosse in grado di fermare il tempo, ma non al momento presente, bensì in un momento non meglio specificato del medioevo oscuro ove gli animi delle persone erano tormentati dalla violenza, dalla fame e dalla sofferenza. 'Vox in Rama' appare come un’espiazione di colpa, una via crucis che purifica lo spirito ed eleva la coscienza. La classificazione del genere ci porta sotto l’ala del drone ritual/ambient, se vogliamo identificare progetti simili possiamo citare i Sunn O))) ma mi permetterei di andare indietro nel tempo fino a Brian Eno e ai King Crimsom anche se non finirebbe qui, visti gli echi di musicalità dimenticate da secoli: canti sacri, formule magiche e suoni ancestrali. La band si esibisce utilizzando svariati strumenti che vanno dai moderni sintetizzatori, looper e chitarre elettriche fino ai sonagli, ai flauti indiani e ai tamburi sciamanici. La commistione di nuovo e antico colloca i Sepvlcrvm fuori dal tracciato del drone moderno sconfinando nel sacro e meditativo ed in più, lasciando una volta per tutte i lidi della forma canzone, arriviamo ad una fruizione musicale inversa dal classico concerto rock. Qui l’ascoltatore non assiste a dei brani o a delle soluzioni musicali orecchiabili, ma è costretto a ricercare dentro se stesso il senso di quanto accade sul palco, come se la canzone si formasse direttamente nella mente dello spettatore, bypassando la percezione del senso letterale delle parole e del senso musicale delle note. Tutto è un unico flusso di energia che si evolve lentamente; ascoltare 'Vox in Rama' è come ammirare il tempo atmosferico che muta e si trasforma, rimanendo immobili in un limbo di coscienza cosmico. Ma ora premiamo play. Rumore, sonagli, la sillaba sacra intonata con fermezza: sembra una processione di monaci custodi di un segreto inaccessibile che, con il loro fardello, vagano senza sosta e senza destinazione. D’un tratto una radura sonica di qualche secondo e poi il tuffo nella prima mastodontica parte dell’opera. Si passa da voci provenienti dalle profondità abissali al suono dell’industria moderna. Difficile parlare di struttura quanto di melodia, ma ad ascoltare con attenzione, vi accorgerete quanto ogni elemento è curato e come ogni passaggio porti ad un ambiente complementare al precedente. La seconda parte, se mai fosse possibile, appare ancor più criptica della prima. I suoni si fanno più aggressivi e ruvidi, una jungla notturna di frequenze, in continua sospensione. Circa a metà della traccia, le voci ancestrali dei monaci escono di nuovo allo scoperto e si fanno più presenti ma solamente per sprofondare in un deserto artico dal quale emergono le prime voci umane, che sembra un accorato dialogo preso da un vecchio film in bianco e nero. Un ultimo assalto sonico ci riporta nella roboante tenebra propria dei Sepvlcrvm, ma lentamente anche questa sfumerà per approdare ad un finale deliziato da una voce femminile. La ragazza è quella del fim in bianco e nero, parla di sogni, religione e morte e ci lascia ancora un volta sospesi nel vuoto. L’ascolto del cd è un’esperienza forte, permette a chiunque si lasci completamente trasportare dalle onde sonore, di viaggiare nel profondo della propria anima e delle proprie paure. 'Vox in Rama' è un memento mori, è un monito che ricorda di vivere non nella paura ma nella consapevolezza della morte, come se il domani non esistesse. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 85

sabato 4 giugno 2016

124C41+ - Mörs/Ërde

#PER CHI AMA: Post Rock/Blackgaze/Ambient
I CentoventiquattroCquarantunoPiù (124C41+) non sono una band come tutte le altre: lo si evince da un moniker che chiama in causa lo scrittore di fantascienza Hugo Gernsback e il suo 'Ralph 124C 41+', un omofono della frase inglese "one to foresee for one". Lo si capisce ancor di più dalle loro uscite discografiche, ridotte all'osso per contenuti. Dopo l'EP omonimo e minimalista dello scorso anno, ecco tornare la band di Terni con un nuovo EP di due pezzi e soli sei minuti di musica. 'Mörs/Ërde' è un'altra uscita all'insegna di un ambient/post rock catartico, ma potrei allargare lo spettro musicale dei nostri al noise, drone, shoegaze e mille altre sfaccettature. Impressiona tutto ciò perché "Mörs" è solo un pezzo di due minuti scarsi, fatto di sonorità intense, cupe e drammatiche in cui, sui tocchi di un malinconico pianoforte, appare il cantato in screaming (in italiano) di Eugenio e Marco dei Die Abete, sorretto da una ritmica distorta ma intimista. Angosciante il testo... "Il diavolo è nelle grida di chi vuol vederci rientrare a casa. Svelto, s'è fatta sera. D'ora in poi avremo per sempre dodic'anni e sugli specchi d'acqua torva imprimeremo i nostri volti. Svelto. S'è fatta sera". Nichilismo totale invece per la successiva "Ërde", che supera i quattro minuti, ma con un tensione emotiva che dilania a dir poco l'animo: la song, completamente strumentale, cresce piano di intensità in un'atmosfera che definirei quella plumbea londinese di novembre. Suggestioni, pensieri e riflessioni si avvicendano rapide nella mia testa rimescolate come un cocktail nello shaker, fino a quando la batteria rimane l'unico strumento pensante a dettare gli ultimi battiti del mio cuore. Poi, solo silenzio e buio infinito. (Francesco Scarci) 

(DreaminGorilla Records/Stay Home Records - 2016)
Voto: 75

domenica 1 maggio 2016

Aes Dana feat. Miktek – Far & Off

#PER CHI AMA: Trance/Ambient
Vincent Villuis e Michalis Alkaterinis, in arte Aes Dana & Miktek, hanno confezionato in questo inizio di 2016, e via Ultimae Records quest'ottimo album, ispirato ed evoluto, sia sotto l'aspetto compositivo che a livello emozionale. Ho apprezzato molto lo spesso booklet interno, costellato di belle foto, dentro al quale troviamo una lunga prefazione all'album, dove Vincent scrive “... rimuovere me stesso dalla turbolenza in corso e puramente svanire...” riferendosi alla vita frenetica e alla sua dannosità, alla volontà di fuga che esiste in ognuno di noi, una emozione/sensazione che spesso, per molteplici motivi, dobbiamo sopprimere, abbandonare, rifiutare e alla fine finiamo per soccombere alla frenesia del tempo moderno. Detto questo, le premesse sono ottime per un ascolto intenso, liberatorio, frutto di un lungo periodo di isolamento e ricerca a contatto della natura, con elementi naturali, come si può ben notare dalle foto. Il sound è ultra moderno, figlio della trance più sofisticata, astratta e riflessiva, completata da ritmiche frastagliate, nude, un drum'n bass scarnificato, minimale, criptico. Una forma cinematica che trasporta, un confine labile tra malinconia, tristezza, realizzazione e orgoglio, la fatica di vedersi liberi, umani in un mondo (forse non più) umano. Questo è ciò che trasmette nel suo insieme 'Far & Off', un disco animato da composizioni nuove e brani usciti anche in vinile come "Cut", traccia fantastica che rievoca atmosfere care a David Lynch, sospesa tra realtà irreale e fuga da brivido attraverso il sogno, e che insieme ad "Alkaline", "The Unexpected Hours", forma una cortina fumogena contro la forza annientatrice di questa vita moderna, contro l'annullamento dei nostri reali desideri più intimi. Trance dal taglio gelido, dub destrutturato, elettronica minimal, peculiare ambient music super tecnologica (la versione digitale su bandcamp è disponibile a 24bits), shoegaze cristallino ed effimero, rumore bianco, drone music, un pizzico di Alva Noto e Fennesz. Il brano "Small Thing Matter" sembra un outtake di 'Quique' (1993) dei Seefeel risuonato con tecniche hi-fi di ultima generazione per un ascolto inebriante, rigenerante. Un lavoro notevole di grande sforzo compositivo, sentito e appassionato, coinvolgente che trasferisce notevole intensità al suo ascolto. Un inchino agli autori, lo meritano davvero! (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2016)
Voto: 90

https://ultimae.bandcamp.com/album/far-off-2

sabato 9 aprile 2016

Cult of Occult - Five Degrees of Insanity

#PER CHI AMA: Funeral Doom, primi Cathedral
Quando si dice "non è certo una passeggiata" mi vengono in mente le asperità che ho affrontato nell'ascoltare questo tormentato disco dei francesi Cult of Occult. 'Five Degrees of Insanity' è il terzo album dell'act transalpino, che in cinque brani raggiunge la considerevole durata di 70 minuti poco più. La band di Lione ha da offrirci il proprio malsano sound fatto di sonorità sludge doom a dir poco claustrofobiche, che hanno scomodato dalla mia memoria storica, i Cathedral di 'Forest of Equilibrium'. Già proprio dall'iniziale e delirante "Alcoholic", lo spettro sinistro di Lee Dorrian e soci dell'album d'esordio, è rievocato in un disco dal difficile approccio, ma che ha nelle sue corde, aspetti sicuramente intriganti e pregni di contenuti. L'incedere è mortifero e ipnotico, debitore sicuramente di act quali Black Sabbath e Saint Vitus, ma qui riletti in chiave ancor più asfissiante e apocalittica che si spingono quasi al limite del funeral. La durata poi del brano, quasi 15 minuti, non aiuta di certo un ascolto easy listening, in quanto è richiesta una totale immersione sonora nella criptica dimensione dei Cult of Occult e un ascolto, per ovvi motivi, attento, per non lasciarsi sfuggire sfumature e molteplici altri dettagli qui contenuti. Quando in cuffia ti senti montare poi il riffing marziale di "Nihilistic", puoi solo sentire i polsi tremare e farti sopraffare dalla pericolosità di atmosfere raggelanti e vocals demoniache. In realtà il brano non acquisisce mai velocità o pesantezza, continua lungo i suoi 12 minuti a tenere il passo con il suo monolitico riffing infernale. Ci penseranno invece i 16 minuti di "Misanthropic" a catapultarvi nei più profondi abissi infernali con un ferocissimo attacco black che dopo pochi frangenti preme violentemente sul pedale del freno, facendoci impantanare nel distretto delle sulfuree pozze del doom più melmoso e ossessivo. Qui l'asfissia dovuta allo zolfo si fa assai pesante e insopportabile e la necessità di trovare una bolla d'aria sempre più impellente per potere uscire dalle sabbie mobili di un sound che ha addirittura da offrire intermezzi psych-space rock. Non lasciatevi però troppo ingannare da queste mie parole, la proposta dei Cult of Occult continua ad essere ostica e neppure la più breve "Psychotic" sarà per noi la classica e piacevole "scampagnata" della domenica: i suoi dieci minuti infatti, continuano nella malsana direzione fin qui imboccata da questi misteriosi musicisti, che in questo caso arrivano a saturare il proprio psicotico sound doom anche di suoni drone, che echeggiano fino alla conclusiva "Satanic", quando finalmente ci troveremo al cospetto della bestia. Infernali! (Francesco Scarci)

(Deadlight Entertainment - 2015)
Voto: 70

giovedì 10 marzo 2016

Dust To Dearth / Lysergene - The Death Of The Sun

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Drone/Ambient/Funeral
Uno split con due band, una inglese e l'altra australiana, con sonorità ai confini della realtà, tanto ricercato l'album quanto anonimo nella confezione (l'artwork è poco curato e questa collaborazione meritava decisamente di più), tanto inquietante quanto gratificante nell'ascolto, elitario, impegnativo, sognante, oscuro, un viaggio sonoro verso un'altra dimensione, un trapasso inebriante ma non indolore. Si parte con i Dust to Dearth, progetto solista e parallelo di Mandy Andressen della nota band australiana Murkrat, il cui approccio alla musica drone, industrial, minimal doom si rivelerà apocalittico, con atmosfere rarefatte e silenzi infiniti, solcati da rintocchi orchestrali, come nel gioiello intitolato "Winter", dove un flauto di Pan fa il suo ingresso ancestrale e mistico tra suggestioni drone, elettronica e leggerissime percussioni post atomiche. In questa atmosfera troviamo la chiave di tutta l'opera, la sua voce angelica/sepolcrale, dal tono solenne e alchemico, una sorta di Loreena McKennitt dal tocco plumbeo e marziale atto a sottolineare il rigore ferreo delle malinconiche composizioni surreali della band. Da qui si snoda e parte l'intero lavoro della band, con la parte vocale usata perennemente in maniera sciamanica a guidarci in una foresta sconosciuta di sperimentazioni elettroniche e ipnotiche. L'impatto è psichedelico, melodico, decadente, gotico, etereo, introspettivo, un funeral doom la cui lenta cadenza deprivata di una chitarra, mostra un carico di emotività e magia comparabile a quello emanato da 'Spleen and Ideal' e 'The Serpent's Eggs' dei Dead Can Dance o da 'To Drive the Cold Winter Away' di Loreena Mckennitt molto tempo fa. "It is Dark" con i suoi accordi strascicati di piano, mi ricorda certe ottime cose di Gitane Demone e Dark Sanctuary, mentre "Dearth" ritorna sulle orme della divinità Lisa Gerrard per chiudere alla grande con gli oltre undici minuti di coltre nebbiosa, maestosa e misteriosa di "The Last". I Lysergene di Gordon Bricknell (chitarrista degli Esoteric) si allacciano perfettamente ai compagni di scuderia con un primo brano strumentale, lisergico quanto marziale con un finale contaminato da folle psichedelia aliena, con i suoni che ricordano gli Ulver più eterei e certe oscurità di casa Die Verbannten Kinder Evas con quel sano tocco di geniale perversione elettronica alla Maurizio Bianchi di "New Heavens New Earth", sonorità concepite sempre con un tocco malato, che sfiorano l'ambient di Somnium nel ricordo di un Robert Rich in salsa lo–fi con l'intento di creare un suono atto a disturbare l'ascoltatore con incubi astrali e siderali. La mezz'ora circa di musica strettamente strumentale in odor di Lustmord o simili, offerta dalla band di Birmingham è votata all'assenza di percussioni e ci costa un viaggio di sola andata verso la psiche più oscura della nostra personalità, la colonna sonora perfetta per il nostro inspiegabile B side, srotolata in tre lunghi brani psicologicamente contorti e cerebrali, enigmatici e sperimentali, persino romantici se visti sotto una certa ottica. La Aesthetic Death ci offre l'opportunità di scoprire questi due side project formati da componenti di Esoteric e Murkrat in una forma smagliante, con musica al di sopra delle righe, sicuramente per ascolti di nicchia ma con un valore inestimabile e di alta qualità. (Bob Stoner)

(Aesthetic Death - 2010)
Voto: 75

domenica 28 febbraio 2016

Sequoian Aequison - Qual der Einsamkeit

#PER CHI AMA: Post Rock/Drone/Ambient
Quando arriva materiale dall'etichetta Slow Burn la giornata prende subito una buona piega, vista la qualità dei lavori da loro prodotti. In realtà stavolta c'è una collaborazione con Tokyo Jupiter Records (supporto cd) e Towner Records (cassetta), quindi le aspettative crescono a dismisura. I Sequoian Aequison (SA) nascono nel 2012 nella bellissima e ricca città di San Pietroburgo e nel corso della loro giovane carriera 'Qual der Einsamkeit' si posiziona come secondo e penultimo lavoro (si tratta di un EP di due lunghissimi pezzi), infatti qualche mese fa è uscito anche uno split con i Dry River, mentre il debut album 'Onomatopoeia' è stato recensito sempre dal sottoscritto su queste pagine alla fine del 2014. Il cd che ci è pervenuto è la versione per gli addetti ai lavori, priva di booklet, molto minimalista quindi e per cui non potremmo dare un giudizio sulla versione disponibile per il pubblico. Il genere perseguito dai SA è un post rock intriso di atmosfere ambient e doom, come la prima traccia "Der Sklave Des Nichts" (lo schiavo di niente) mostra con un inizio affidato a un lungo monologo in lingua tedesca. Man mano, il quartetto russo tesse una trama sonora oscura e malinconica, ma allo stesso tempo carica di tensione repressa pronta ad esplodere ad un cenno del capo. Arpeggi liquidi di chitarra e un pattern ritmico ipnotico crescono e calano a rotazione per circa undici minuti che grazie ad un'interpretazione artistica di tutto rispetto, riescono ad ammagliare e coinvolgere l'ascoltatore senza mai annoiarlo. Anzi, basta abbassare un poco le difese mentali e si entra subito nel mood della band, ciondolando lenti come un paziente di psichiatria che ha preso la sua dose giornaliera di farmaci. Nonostante la ritmica doom, sia il batterista che il bassista riescono a intrecciare riff e battute in modo da arricchire la composizione che altrimenti affonderebbe nella totale accidia. "Abendwasser" sembra il secondo atto dell'opera musicale imbastita dalla giovane band e come tale, ricalca suoni (perfettamente curati) e melodie già dettati dai maestri che segnarono la via da seguire. La struttura è la solita: campionamenti di voci e qualche suono elettronico qua è la, anche se in realtà è proprio l'esplosione che arriva quasi alla fine a far rimpiangere uno svolgimento diverso. La visione epica che la band crea in modo immaginario davanti ai nostri occhi, è una sorta di mondo parallelo, fatto di colori e profumi mai percepiti prima. Un mondo nuovo che esiste, ma che ci sfugge troppo presto dalle mani. In sè l'album è eccellente, i SA hanno studiato e messo in pratica alla perfezione tutto quello che già è stato fatto in questo genere, ora il punto da capire è se qualcuno avrà il coraggio e le doti per mischiare le carte in tavola e trovare un'evoluzione stilistica non fine a se stessa. (Michele Montanari)

(Tokyo Jupiter Records/Towner Records - 2015)
Voto: 75

https://sequoian.bandcamp.com/album/qual-der-einsamkeit

mercoledì 17 febbraio 2016

Goatpsalm – Erset la Tari

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Ambient Noise/Drone/Black
I Goatpsalm sono una band di sicuro interesse per ricercatori di suoni spinti al limite del rumore ambientale, del feedback lisergico oltre confine ed estimatori d'avanguardia black/industrial estrema. La band russa esplora con il secondo album, uscito per la Aestethic Death nel 2012 l'universo storico e l'oscurità che si cela nella cultura sumero/babilonese, raffigurando la divinità Tiamat armata di tridente in copertina e cospargendo l'intero artwork di riferimenti e simboli storico religiosi dall'aria sinistra e minacciosa, mischiati alle poco rassicuranti figure dei tre musicisti sovietici. I nostri propongono la loro musica attraverso sonorità estreme divise in tre brani distinti, di cui il primo e l'ultimo di notevole durata (vicina ai venti minuti), separati da "Bab Illu", più corto e rafforzato da una evidente presenza etnica mediorientale costruita da strumenti a corde irrorati di misticismo e mistero per un'atmosfera arcaica e cupa pregna di sentore nero, un presagio sonoro perfetto per l'imminente disfatta di Babele. La conclusiva "Under The Trident Of Ramanu" mette in evidenza un riconoscibile destrutturato riff di chitarra, sorretto da una rarefatta, rumorosa e lacerata sezione ritmica in salsa lo-fi, con un finale caotico e astratto come se, giocando con il sound più glaciale e minimale del black metal, i Sunn O))) perdessero il mastodontico peso a favore di un groviglio di riff e lamenti chitarristici abissali, rubati ad un Eric Draven, fantasma e malato, nascosto in un luogo solitario tra il Tigri e l'Eufrate, investito da rumori di ogni tipo con finale spettrale che richiama i temi toccati nel brano d'apertura. Ricco di minimalismo rumorista, voci agghiaccianti, sussurrate e recitate, escursioni etnico/tribali che conducono in un viaggio da incubo in compagnia della divinità Marduk; una chitarra scarnificata, tagliente e gelida rallenta il battito cardiaco, giocando le sue carte sul filo del black sperimentale oltranzista (immaginate i Beherit di 'Unholy Pagan Fire' con una sezione ritmica dalla cadenza marziale, eterea, statica e lacerata) e l'industrial/drone più radicale, drammatico, minimale, cinematico, per certi aspetti molto simile ad una vera e propria colonna sonora da film. Aspettando il terzo e nuovo full length in uscita sempre per Aestethic Death a brevissimo, lasciatevi travolgere da questa infinita, affascinante, tenebrosa, tempesta mistica mediorientale! (Bob Stoner)

(Aestethic Death - 2012)
Voto: 75