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martedì 17 marzo 2020

Salmagündi - Rose Marries Braen (A Soup Opera)

#PER CHI AMA: Avantgarde/Krautrock/Noise Jazz
Ottima seconda uscita per questa band proveniente dalla provincia di Teramo che ci inebria con un album dal contenuto eclettico e variegato, classificabile solo con la dicitura avantgarde. Provate ad immaginare suoni new wave, sintetici e astratti a la The Residents mescolati all'ultra psichedelia rock dei 500 Ft. of Pipe, un sarcasmo zappiano, un post punk trasversale con una voce salmodiante a metà tra Jim Morrison ed il canto gotico dei Bauhaus, dei synth cosmici, krautrock e follie soniche alla Mike Patton e i suoi Mr. Bungle, per avere lontanamente idea del miscuglio ben generato e ragionato e con effetto molotov di questi Salmagündi, band raccomandata per appassionati di musica cerebrale, schizoide, senza confini nè limiti. I riferimenti sonori sono molteplici e ci si diverte parecchio durante l'ascolto di 'Rose Marries Braen (A Soup Opera)' nel cercare le connessioni con le varie influenze. Detto questo, bisogna ammettere che la band abruzzese, nelle sue evoluzioni strutturali progressive, ha un potenziale di originalità assai elevato e, a discapito di altre band sperimentali, i Salmagündi (il cui significato la dice lunga sulle intenzioni della band - trattasi infatti di una ricetta gastronomica franco-inglese, il salmigondis, che prevede un miscuglio o un mix di ingredienti eterogenei), nonostante la complessità dei brani, si lasciano ascoltare con facilità ed un certo interesse in quanto sono atipici e fantasiosi (l'organico è composto da un synth, due bassi, batteria) e con composizioni storte e intelligenti, mai improntate sul mero virtuosismo, semmai atte a sguinzagliare l'estro creativo dei musicisti, che ripeto, sono assolutamente senza barriere e confini strumentali. Il quartetto si sposta infatti in continuazione tra le note di un brano e l'altro, facendo apparire l'album come un viaggio multicolore, stralunato e folle, per raccontare la storia del pazzo mondo di Braen (un personaggio da Carosello, quel vecchio programma televisivo in onda tra il '57 ed il '77), arrivando a toccare vette di noise-jazz istrionico, come in "Cheese Fake" o "Cockayne". In altre composizioni invece, i nostri assumono tempi lenti e funebri, con il jazz di matrice zappiana, il rock in opposition e quella gradevole goliardica verve teatrale che ritroviamo anche nel disco capolavoro, 'Primus & the Chocolate Factory With the Fungi Ensemble" e che consentono ai nostri di scardinare definitivamente la supposizione che quest'ottimo gruppo rientri nella normalità. Un ascolto obbligato, per veri intenditori! (Bob Stoner)

giovedì 21 novembre 2019

Golden Heir Sun - Holy The Abyss

#PER CHI AMA: Ambient/Experimental/Drone, Earth, Popol Vuh, Neurosis
Da piccolo amavo esplorare i boschi nei dintorni di casa mia: in realtà più che di boschi si trattava di strisce di verde risparmiate da campi e cemento, ma per un bambino era come entrare in un altro mondo che la fantasia ingrandiva a dismisura e dove il tempo perdeva significato. Una volta mi resi conto dell’arrivo di un temporale solo quando il cielo sopra le cime degli alberi era ormai diventato del colore del piombo e il vento aveva iniziato a fare scempio di rami e foglie: per qualche minuto rimasi immobile, incantato da quello spettacolo al tempo stesso meraviglioso ed inquietante, come se una presenza invisibile stesse manifestando un brusco cambiamento d’umore.

Oggi di quei boschi rimane ben poco, ma l’ascolto di 'Holy The Abyss', primo disco di Golden Heir Sun, mi riporta alla memoria quelle immagini ed un indefinito bisogno di isolamento e contemplazione. Del resto il nuovo frutto del progetto solista di Matteo Baldi, già protagonista in una delle migliori formazioni post metal in circolazione, i veronesi Wows, si configura proprio come un inno in onore della natura, fonte di vita ma anche in grado di scrollarsi di dosso da un momento all’altro questa fastidiosa infestazione di esseri troppo spesso inconsapevoli del fatto di essere solo l’ennesima specie di passaggio su questo pianeta.

Come il precedente 'The Deepest', 'Holy The Abyss' è costituito da un'unica composizione di ben venti minuti di lunghezza che si snoda tra ampie sezioni dominate da atmosfere sacrali, eterei intrecci di chitarra ed esplosioni di dinamica, il tutto concepito come una sorta di rituale catartico volto a ripristinare l’armonia tra l’essere umano e la sua spiritualità più ancestrale. Non a caso, ad accoglierci troviamo il suono oscillante di una campana tibetana affiancata da un lento e malinconico arpeggio di chitarra, mentre da questo ipnotico tappeto sonoro emergono alcuni accordi più duri che si smorzano all’ingresso della voce di Matteo, quasi assorto in un mantra:



“On my hands, Before the Dawn I kneel, in awe.
On my knees, Before the Sun I kneel, in awe.
On my hands, Before the Clouds, I see, rain down.”

Così come l’universo tende inevitabilmente al caos, alla conclusione della “preghiera” corrisponde l’imporsi della chitarra distorta, lanciata in un furibondo crescendo ove il brano aumenta di intensità, raggiungendo il climax al riprendere del cantato, ormai trasformatosi in uno straziante grido:



“Nature is enough, Nature always wins.”

Improvvisamente l’apocalisse sonora si consuma e si disperde come vento: al suo posto riaffiora il vibrare della campana e alcuni tenui accordi che infondono sia un senso di rinnovata quiete che di precarietà, quasi a voler rappresentare il ciclo perpetuo di ordine e disordine che domina il cosmo, nonché il pericolo sempre in agguato degli istinti distruttivi dell’umanità.

Trasporre in note la propria interiorità, le proprie emozioni e suggestioni rappresenta una vera e propria sfida con se stessi, ma a Matteo (non a caso discepolo di maestri quali Neurosis, Godspeed You! Black Emperor e Tool) piacciono le imprese difficili, tanto da concepire questo lavoro come qualcosa che va oltre l’aspetto meramente musicale e che si fonde con altre forme di espressione, allo scopo di coinvolgere l’ascoltatore in questo viaggio introspettivo: parte integrante dell’opera sono infatti le ammalianti coreografie di Giulia, danzatrice che accompagna le esibizioni di Golden Heir Sun, e gli evocativi visual creati da Elide Blind, due componenti fondamentali del progetto che possiamo apprezzare nel videoclip creato per il brano.

Dunque, quale è il messaggio di 'Holy The Abyss'? Una critica ad una vita quotidiana resa sterile dalla superficialità e dalla dipendenza da troppi beni inutili? Un invito a lasciarci alle spalle tecnologia, consumismo e lavori alienanti? Forse. O forse è solo una riflessione su quanto sia meschina l’esistenza senza una presa di coscienza di quanto ci sia di meraviglioso nell’Universo e su quale sia il nostro reale posto in esso. Non basterà a curare questa società malata, ma forse spingerà me a tornare tra i pochi alberi rimasti della mia infanzia e ad inginocchiarmi sulla terra umida mormorando una preghiera:


“Holy the Abyss, free us all.”


(Karma Conspirancy/Toten Schwan/La Speranza Records - 2019)

giovedì 23 maggio 2019

Teverts/El Rojo - Southern Crossroads

#PER CHI AMA: Stoner/Psych Rock
Due band, due brani, venti minuti in tutto: questi gli ingredienti di 'Southern Crossroads', lo split degli italianissimi Teverts e El Rojo. I primi, con oltre dieci anni di attività alle spalle, aprono le danze con la spettacolare “Road To Awakeness”: oltre sette minuti di cavalcate stoner e psichedelia, dove il sound settantiano alla Hawkwind si unisce ai riff più contemporanei di Kyuss e soci. Il risultato è compatto, solido, costruito anche grazie alla lunga esperienza della band. A legare il tutto, lo splendido lavoro vocale di Phil, che passa con facilità dalle allucinanti melodie sussurrate a timbri più ruvidi e sostenuti. Memorabile il finale strumentale (dai sei minuti in avanti), con lunghe chitarre riverberate a colorare un perfetto riff di basso. Con “The Longest Ride” degli El Rojo (band di Cosenza alla seconda uscita ufficiale) ci muoviamo sostanzialmente lungo la medesima highway nel deserto. C’è meno psichedelia forse, e più colore alle ritmiche (ottimo il lavoro alle pelli). Completamente diverso il contributo vocale, qui più ispirato ai The Melvins che al gusto blues di Jon Garcia. “The Longest Ride" scorre ruvido e ossessivo fino alla prevedibile accelerazione intorno ai cinque minuti, che lascia sfogare la chitarra con un solo indovinatissimo. Non c’è nulla di davvero innovativo in nessuno dei due brani, intendiamoci: ma non avrebbe senso giudicare la personalità di una band ascoltandone solo 10 minuti scarsi. Aggiungete una produzione senza fronzoli — che però permette di entrare bene nei pezzi, senza essere né troppo fredda, né troppo sporca — e un design della copertina ad opera del sempre bravissimo SoloMacello, e non resta che chiedersi: quando arriveranno i due full-length? (Stefano Torregrossa)

(Karma Conspiracy Records - 2019)
Voto: 70

https://tevertselrojo.bandcamp.com/album/southern-crossroads

sabato 11 maggio 2019

The Worst Horse - The Illusionist

#PER CHI AMA: Hard Rock/Stoner
Una mitragliata hard-stoner-fucking-rock’n’roll ci getta violentemente in questo 'The Illusionist'. L’opener “Tricky Spooky” ci aggredisce e ci trascina giù, vorticosamente nel disco, al grido rabbioso dei milanesi The Worst Horse. Un grido che sale dal basso e si protrae fino alla successiva “313 Pesos”, che non accenna a diminuire i toni, con l’imposizione del suo groovvone metallico e fregiandosi di richiami (e ricami) hard blues, sempre ovviamente con gli amplificatori sparati al massimo. 'The Illusionist' è in realtà un concept, improntato appunto sulla figura appunto dell’Illusionista. Questo tetro personaggio è artefice ma allo stesso tempo vittima di malvagità, ormai schiavo di quei mostri interiori che ha voluto seguire ma che ora si impongono al suo volere, gli stessi mostri che sovente s'impossessano anche dei cupidi esseri umani. Le tetre fantasie che s'incontrano nei brani, sono infatti profonda allegoria di una realtà che troppo spesso cede alle malvagità, quei demoni che raschiano il fondo dell’anima umana e tuttavia ne sono anche parte integrante. La title-track, coi suoi richiami ai Motorpsycho più recenti, funge appunto da descrizione-presentazione del nostro Illusionista e della sua eterna caduta. L’album procede senza intoppi, sempre sfoggiando riffoni e groove trascinanti in puro stile Worst Horse, tra pure sonorità stoner alla The Sword ed ispirazioni dark-blues sabbathiane. Elemento fondamentale, anche per lo storytelling del concept, le vocals potenti e laceranti (come nel brano “XIII”) di David Podestà, fondatore del gruppo assieme al guitar-man Omar Bosis. Dopo essere passati per oscuri anfratti e scabrosi pensieri, arriviamo in conclusione, dove ci aspettano sette abbondanti minuti con la sparata hard-rock “It”, brano solido, dal titolo già decisamente evocativo in ambito di demoni e terrori. La struttura è decisamente articolata rispetto agli altri brani, ma pur sempre coesa, traduzione di un ottimo lavoro a livello compositivo e di arrangiamenti del trio milanese (oggi quartetto con l’ufficializzazione dell’ingresso del nuovo bassista). Da segnalare anche la presenza su quest’ultima traccia di un ospite d’eccezione: Luca Princiotta (Doro Pesch, Blaze Bayley) come chitarra solista. Diretto e deciso, ma molto più profondo del previsto nelle tematiche, questo concept-album è sicuramente un’eccellente prova da parte dell’ensemble milanese, che prima di 'The Illusionist' aveva pubblicato un EP omonimo, 'The Worst Horse'. Negli ultimi anni la frequente attività live deve aver temprato le corde di questi ragazzi dal grande potenziale, che ci regalano un’altra piccola chicca da inserire nell’ampio panorama dello stoner-rock nostrano, arricchito però da quell’anima groove ed aggressiva che li contraddistingue. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Karma Conspiracy Records - 2019)
Voto: 82

https://theworsthorse.bandcamp.com/album/the-illusionist

martedì 8 gennaio 2019

Muon - Gobi Domog

#PER CHI AMA: Stoner/Doom, Electric Wizard, OM
Leggo e sento spesso considerazioni molto pessimistiche sulla musica underground italiana (metal e non), tra cui la ben nota triade “mancano i gruppi”, “mancano i locali dove suonare”, “mancano le idee”: se da un lato la scena è bella proprio perché esclusiva, dall’altro diventa difficile proporre nuovi progetti, nuove occasioni per live e nuove idee quando il movimento si esaurisce in una cerchia ristretta di eletti. Malgrado queste problematiche, il filone doom-psych-stoner nostrano sembra essere più florido che mai, grazie a nuove formazioni che spuntano come quei funghi che spesso stimolano la fantasia dei musicisti. Non conoscendo la dieta dei Muon, quintetto veneto dedito ai muri di amplificatori e a visioni sciamaniche, immagino che abbiano ottenuto l’ispirazione per il loro disco d’esordio dal monolite nero di “2001 Odissea nello Spazio”: come quest’ultimo 'Gobi Domog' è solido nella sua semplicità, un album quadrato e dal sound classico, eppure in grado di regalare spunti interessanti all’ascoltatore attento. Dopo una breve traccia introduttiva, veniamo storditi dall’impatto devastante di “New Born”, l’austero sottofondo di un rituale primordiale con cui verremo iniziati alla setta dei Muon: la voce salmodiante del cantante sembra infatti guidare immaginarie processioni pagane in cui i penitenti sono continuamente terrorizzati dai riff mastodontici di chitarra e basso detunati e sferzati dalle percussioni selvagge. L’iniziale violenza è poi mitigata da melodie orientaleggianti, le quali non fanno che acuire la sensazione di essere trasportati in un mondo surreale. Ci facciamo strada attraverso il canyon creato dalle colossali distorsioni di “The Second Great Flood”, il racconto reso in musica di un cataclisma ancestrale dove a sopraffarci non sono le maree del diluvio, ma penetranti onde sonore di potenza inaudita: è da sottolineare il perfetto lavoro in fase di post-produzione grazie al quale siamo letteralmente immersi nell’esecuzione dei brani, quasi come se stessimo assistendo all’esibizione dal vivo della band. Le tenebre calano su di noi quando un marcissimo giro di basso apre alle ritmiche imponenti di “Stairway to Nowhere”, pezzo in cui l’ascoltatore è portato a perdersi tra dune impossibili di paesaggi desolati mentre il cantante-profeta intona, con voce sconvolta, lunghi sermoni. Chiude la maestosa “The Call of Gobi”, un’insana fuga al ritmo della batteria martellante e caratterizzata da un finale psichedelico, con il quale il mostro, che dà il titolo all’album, verrà finalmente evocato. La fine del cd ci coglie un po’ di sorpresa, ormai stregati dalle melodie ipnotiche alla Om e dalle distorsioni senza ritegno in stile Electric Wizard, lasciandoci un nuovo interessante tassello della sempre più affollata offerta musicale stoner/doom italica. Va però detto che i Muon possono e devono crescere nel songwriting, imparando a riempire meglio gli ampi spazi sonori da loro creati, perché i produttori di riff cafoni ci piacciono, ma la concorrenza nel mestiere inizia a diventare spietata. (Shadowsofthesun)

(Karma Conspiracy Recors - 2018)
Voto: 65

https://muonstonerdoom.bandcamp.com/releases

lunedì 17 dicembre 2018

Nereide - S/t

#PER CHI AMA: Post Metal
Solo quattro pezzi per farsi notare e giocarsi le proprie carte. Ecco i Nereide e il loro EP d'esordio omonimo. Un dischetto che si apre col parlato di "Mindful", una traccia che sottolinea immediatamente le qualità del trio pugliese che si muove con disinvoltura attraverso un post rock intimista, caldo quanto basta per abbassare le nostre difese e farsi avvolgere dalla strumentalità di una song che gioca e successivamente soggioga, con un bel lavoro alla sei corde, prima tra riverberi e ridondanti giri di chitarra, e poi punisce con accelerazioni improvvise dal forte sapore post black. In "The Wave", compare la voce del frontman Roberto Spels, un ibrido tra Fernando Ribeiro dei Moonspell e Peter Steele dei Type O Negative, a fare da contraltare ad una ritmica melodica e dal forte impatto darkeggiante, in cui a guidare il tutto c'è sempre la chitarra ben ispirata del buon Roberto, accompagnato in questo viaggio da Cosimo Barbaro (basso) e Giacomo Scoletta (batteria). La musica qui non va mai oltre i confini del dark/post rock e risulta alla fine assai gradevole. Di ben altra sostanza invece "Surmise", che sembra scollegata dagli altri due pezzi, e mostra sia a livello ritmico (decisamente più pesante) che vocale (qui Roberto canta con un growl graffiato), le potenzialità del combo italico nel cimentarsi in territori post metal ma anche dotati di venature progressive, come palesato nella sezione solista del brano stesso. A chiudere i giochi arriva "Polars", una song strumentale, meno sognante della prima metà del cd, che sembra riflettere il carattere più nervoso sostenuto dalla precedente "Surmise". Diciamo che 'Nereide' alla fine è un buon modo per affacciarsi nel mondo musicale e che quello dei Nereide per il momento sembra un cantiere aperto alla ricerca dei giusti incastri da offrire in futuro. (Francesco Scarci)

(Karma Conspiracy Records - 2018)
Voto: 70

https://nereide.bandcamp.com/album/nereide-3

lunedì 9 aprile 2018

Slow Nerve - S/t

#PER CHI AMA: Alternative Rock
La Karma Cospirancy Records è una realtà giovane ma molto attiva, sgomita per farsi strada nella scena e lo fa con proposte originali e ricercate come gli Slow Nerve, una formazione beneventina snella ed essenziale, che propone un mix di showgaze, rock e alcuni sprazzi di free jazz tra ritmiche incalzanti e incastrate, ardite linee vocali sintetizzatori e chitarre a tratti aggressive a tratti decisamente atmosferiche. Il risultato è qualcosa di onirico, una musica da dormiveglia dove il sogno ha appena iniziato a generare le sue assurde immagini, o quel momento in cui appena svegli ci si ricorda di tutte le cose della propria vita, ancora non totalmente consapevoli di cosa sia veramente reale. Il debutto degli Slow Nerve apre con "Liquid Glass" dove la voce di Flaminia si libera come il volo di un gabbiano su un tappeto dalla ritmica sbilenca e sugli accordi di synth che come nuvole su un cielo uggioso d’inverno, coprono lo spettro sonoro, generando lunghe scie bianche. L’attitudine è aulica e leggera, pur sempre mantenendo una certa classe nella scelte armoniche e di arrangiamento, le band che mi vengono in mente sono i Blonde Readhead e i Flaming Lips, a tratti anche i Muse. Gli Slow Nerve riescono comunque a distinguersi con una propria originale interpretazione del genere, qualcosa che in Italia non si vede spesso e che lascia ben sperare per il nostro underground. Si passa poi ad "Asia" uno dei pezzi più significativi del disco, forse quello che maggiormente esprime la carica onirica della band che ipnotizza con suoni intensamente eterei, sostenuti da una batteria che insiste nell’inciampare e continuamente rialzarsi creando un effetto allo stesso tempo statico ma lanciato in una corsa forsennata sospesa a mezz’aria e senza meta, come quando si sogna di volare o quella sensazione di cadere all’infinito, per poi accorgersi di essere stesi immobili sul letto. Il mio pezzo preferito però è senza dubbio "Libellula", potrei ascoltarla per ore, oltre a racchiudere tutte le caratteristiche del sound degli Slow Nerve, è anche l'unico pezzo dove vediamo utilizzato l’italiano: “perché il raziocinio è soltanto raziocinio e soddisfa soltanto la capacità raziocinativa dell’uomo” il messaggio espresso non mi è estraneo anzi lo sento comune a molti, è un’arringa accorata sulla cecità in cui quotidianamente viviamo, intrattenuti dalle nostre piccole contingenze ci dimentichiamo sempre di non essere solo oggetti da profitto, cavie da laboratorio del mondo dell’agire gerarchico e organizzato. “La natura agisce tutta insieme” dice Falminia, la natura non si cura delle nostre credenze, dei nostri stereotipi e costrutti mentali, la natura distrugge e crea, culla e punisce, la natura pervade ogni cosa dell’esistenza e noi non ne siamo parte, noi siamo la natura in prima persona. Una menzione infine, va fatta anche a "Dive Splendida" chiusura in stile Explosions in the Sky in vena di suonare riff alla At the Drive In, ove il basso si rende protagonista e trasporta la musica verso uno scenario psichedelico e svuotato, un limbo sonoro dove il sogno ha lo spazio necessario per allargarsi fino al suo limite massimo solo per poi risolversi simmetricamente nel violento turbinio metrico inziale. Slow Nerve è un progetto in divenire che sicuramente ha molto ancora da dire, attendo impaziente il prossimo lavoro sperando che i ragazzi non escludano un utilizzo più esteso dell’italiano che personalmente mi ha davvero colpito e che renderebbe il progetto ancor più unico. (Matteo Baldi)

(Karma Conspiracy Records - 2017)
Voto: 75

https://slownerve.bandcamp.com/releases

lunedì 26 febbraio 2018

Zenden San - Daily Garbage

#PER CHI AMA: Funk/Noise/Math
'Daily Garbage', spazzatura quotidiana, un nome alquanto azzeccato per un disco come quello degli Zenden San edito per la Karma Conspiracy. Dico azzeccato perché si sente chiaramente che la musica è stata scritta per sfogo, per cercare di espiare la noia, l’assillo e il voltastomaco che la vita di ogni giorno sfacciatamente ci lancia addosso. Gli Zenden San sono come dei samurai del mondo antico e combattono a colpi di ritmiche sempre più strane e ricercate contro l’omologazione e l’appiattimento. Difficile infatti ricondurre le influenze del power duo ad un solo genere, ci sento noise, funk, new wave, math ma sempre resi con impeccabile attitudine al groove e alle metriche improbabili. Mi vengono in mente a volte i Melvins per alcune soluzioni ritmiche, a volte gli Incubus o i Rage Against the Machine per la timbrica e la complessità delle linee di basso, altre volte ancora la sezione ritmica di James Brown strafatta di metanfetamine. L’ascolto tuttavia non è semplice, 'Daily Garbage' è un disco che può apprezzare di più chi di musica ne ascolta molta ed è stufo di sentire le solite soluzioni e i soliti arrangiamenti. Ponendosi nei panni di un neofita del genere invece, la sensazione sarebbe sicuramente di sgomento e smarrimento, che in ogni caso, se si è coraggiosi abbastanza, non è male ogni tanto provare. Il disco inizia con "Bang!", nome alquanto appropriato per un pezzo che colpisce come un mitragliatore e lascia l’ascoltatore mezzo stordito dalle continue pause e cambi di ritmica. Il metodo di composizione degli Zenden San è implacabile, vicinissimo all’hardcore per la concentrazione di parti in un minutaggio veramente esiguo, il che rende il peso specifico delle canzoni così alto da superare quello dell’uranio. Uno dei miei pezzi preferiti è "Industrial Zone", una cavalcata impossibile che attraversa nel suo inarrestabile incedere mille e uno ambienti, tutti radioattivi, malati e altamente tossici. La sensazione alla fine del pezzo è quella di essere passati in lavatrice e, come i panni sporchi, esserne usciti sbattuti ma puliti. In fondo, questa sensazione si può applicare all’intero disco, si tratta un’opera di purificazione attraverso l’esplorazione dei più malati territori del ritmo e l’espiazione della totale insensatezza e monotonia della quotidianità. (Matteo Baldi)

(Karma Conspiracy Records - 2017)
Voto: 75

https://zendensan.bandcamp.com/releases

domenica 10 aprile 2016

Teverts - Towards the Red Sky

#PER CHI AMA: Stoner/Psych/Alternative
Se sentite il bisogno di un disco ruvido, oscuro e ricolmo di energia incendiaria, i Teverts fanno al caso vostro. Il progetto è orgogliosamente italiano, i ragazzi sono di Benevento, cattivi come il veleno. Un primo disco è uscito nel 2013 intitolato 'Thin Line Between Love & Hate' ed ora abbiamo tra le mani 'Towards the Red Sky' che ci arriva tramite la Karma Conspirancy Records. La copertina è suggestiva e rende giustizia alla musica: corvi famelici e possenti con i cactus che si stagliano davanti ad un gigantesco sole rosso. L’attitudine è stoner non scevra però dalla sperimentazione e dalle derive psichedeliche. I trenta minuti scarsi di questo LP scorrono velocemente e accendono gli animi, come fare rafting in un fiume in piena. Le chitarre, gigantesche, sembrano quasi bruciare ad ogni accordo e la voce al napalm di Phil Liar, che ricorda a tratti il compianto Lemmy Klimster e a tratti King Buzzo, è come vento sulle braci. Dino Sauro e Head Bomb, rispettivamente basso e batteria, sono talentuosi strumentisti che oltre tutto non si prendono poi così tanto sul serio. A parte la vena ironica della band, quello che passa chiaramente è che non c’è nessuna paura di andare avanti, nessun ostacolo può fermare la cavalcata di 'Towards the Red Sky', tutto viene travolto e divorato. La prima song “Control” fa subito capire in che direzione andiamo, con pensanti riff sabbathiani, assoli lisergici in stile Josh Homme e un incedere da panzer tedesco. La title track non è per niente da meno, grazie alle sferzate di chitarre distorte dritte in fronte e lanciafiamme alla mano. Quella dei Teverts non è rabbia, è voglia di arrivare, una tensione all’esplorazione e una ferma convinzione di proseguire sul percorso intrapreso. Avanzando verso il cielo rosso incontriamo “Charles Dexter Ward”, in cui lo stile è quello dei Melvins sia nella scelta delle note che nel modo di cantare, tuttavia il titolo del pezzo nasconde una storia interessante. Questo strano nome è infatti preso da un romanzo del maestro dell’horror H.P. Lovecraft: si tratta della storia di un ragazzo, appunto Charles Dexter Ward, che, ossessionato dalla fama di stregone di un suo lontano parente, inizia a praticare le arti magiche oscure finendo quasi per perdere la ragione. A proposito di “Two Coins on the Eyes” invece vi è uno strana somiglianza con “Blue” degli A Perfect Circle, non facilmente individuabile perché il sentimento dei Teverts è nettamente più disilluso e impassibile rispetto agli eterei e sognanti APC, ma la parte di batteria e alcune lunghezze risultano simili, a riprova della capacità dei Teverts di iniettare diversi stili nella propria musica, riuscendo ad allargare la normale portata dello stoner inteso in senso classico, cioè per come ci è stato donato da band come Kyuss e Fu Manchu. Degno di nota e sicuramente di un ascolto è poi la particolarissima chiusura del disco, “Sanctuary”. L’intro ricorda ambienti dei Pink Floyd che vengono trasfigurati in un vortice di un cinico e impetuoso stoner per poi ritornare graziosamente calmo e sfociare infine nel silenzio. 'Towards the Red Sky' è un concentrato di fiamme e roccia, un viaggio verso il tramonto nella consapevolezza che il sole, come ogni giorno, sparirà dietro le montagne. (Matteo Baldi)

(Karma Conspirancy Records - 2016)
Voto: 85