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mercoledì 9 dicembre 2020

Clouds Taste Satanic - The Satanic Singles Series Vol 1: The Book of Satan

#PER CHI AMA: Doom Strumentale
I Clouds Taste Satanic ci introducono in una nuova avventura musicale, stavolta incentrata sui ricordi musicali che hanno avuto un'importanza nel corso della vita del monolitico combo di New York. 'The Satanic Singles Series Vol 1: The Book of Satan' è una particolare rivisitazione della band di alcuni brani non necessariamente legati al mondo doom, pubblicati a piccole dosi in vinile 7'' da collezione, con copertine esoteriche da urlo, in soli 200 esemplari, licenziati via Kinda Like Music. All'interno del primo volume, troviamo due cover stravaganti, che vengono rivisitate in maniera molto originale e fantasiosa dal trio americano. La prima cosa che si nota è il tipo di sonorità adottata dalla band che si discosta leggermente dalla pesantezza tipica della solita proposta, un leggero cambio di registro che, nell'ascolto del disco, non compromette minimamente l'integrità sonora del gruppo. Da un lato del disco troviamo "Funeral for a Friend", un classico intramontabile di Elton John, ridisegnato a puntino con un estroso gioco continuo di chitarre che ricordano i Thin Lizzy carichi ma melodici dell'album 'Renegade', mentre dall'altro lato del vinile un'inaspettata, "Also Sprach Zarathustra" di Richard Strauss, o almeno quella piccola parte celebre, fissata nelle colossali immagini del film di Kubrick, '2001: Odissea nello Spazio'. Un brano di musica classica ricostruito per l'occasione in una veste più consona ai Clouds Taste Satanic, per maestosità del suono, in una rilettura di appena due minuti di accordi ariosi nello stile da opera rock di Pete Townshend. Tornando a "Funeral for a Friend", quello che colpisce è come un brano dal sostrato molto triste riesca, tramite delle mani esperte, essere suonato con un calore ed un colore sonoro tutto nuovo e squisitamente rock, un rovente, epico retro rock, delicato e potente allo stesso modo, facendolo esplodere letteralmente, riesumandolo senza farne perdere il senso di malinconia, per renderlo un brano incendiario, soprattutto se immaginato dal vivo. In definitiva, se questo è l'inizio di una serie di 7'' pollici così ben concepiti, non possiamo far altro che attendere tutte le prossime uscite dei 'The Satanic Singles', trepidanti e curiosi. (Bob Stoner)

Eclipse of the Sun - Brave Never World

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, Morgion
Da un luogo dal nome impronunciabile, Székesfehérvár, arrivano questi Eclipse of the Sun, quartetto ungherese dedito ad un death doom d'annata. 'Brave Never World', atto secondo nella discografia dei nostri, a dieci anni dalla loro fondazione, è un disco onesto, che francamente se fosse uscito vent'anni fa, avrebbe meritato qualche chance in più. Si, perchè l'iniziale "Pillars of Creation" non fa altro che rimarcare quelle che sono le influenze quasi trentennali del disco, che ci riportano alle prime release dei My Dying Bride. Questi, in compagnia di Morgion, Swallow of the Sun, primi Paradise Lost e moltissimi altri, potrebbero figurare tra le principali influenze del quartetto magiaro. Anche la successiva "Things Called Life" fa l'occhiolino alla "Mia Sposa Morente" sia per utilizzo della voce pulita (ma qui compare anche un cantato sporco) che per un impianto sonoro che suona un filino datato. Ed è un peccato perchè mi scoccia limitarmi ad una mera sufficienza come sprono per una band che fondamentalmente avrebbe le capacità per fare meglio ed essere un po' più personale. Questo perchè gli Eclipse of the Sun sanno suonare, creano discrete atmosfere (ascoltate la title track e quel suo fare sinistro), ma quello che manca è una buona dose di freschezza e da una band in giro da ben dieci anni, beh mi sarei aspettato qualcosa in più che seguire i puri dettami dei maestri del genere e poco altro. Tra i mie pezzi preferiti vi citerei la sofferente "Not a Symbol" e la più sperimentale "Home", dove la voce è lasciata in sola compagnia di una batteria di accompagnamento in una prova quasi del tutto riuscita. Ancora ampi sprazzi atmosferici in "World Without Words", song guidata dalle tastiere e da una larga parte ambient che esploderà in un finale a dir poco devastante e che a mio avviso rappresenta l'ultima vera apprezzabile traccia del disco, complice una song conclusiva, "Era of Sun", ancora troppo ancorata al sound dei My Dying Bride. 'Brave Never World' è alla fine un disco che sembra mostrare ancora il lato acerbo della band, o comunque non farne uscire i reali valori. C'è da lavorare ancora duro per scrollarsi di dosso i facili paragoni e togliersi qualche discreta soddisfazione. (Francesco Scarci)

(More Hate Productions/Satanath Records - 2020)
Voto: 62

https://satanath.bandcamp.com/album/sat291-eclipse-of-the-sun-brave-never-world-2020

domenica 6 dicembre 2020

Astarium - Hyperborea

#PER CHI AMA: Symph Black
Dalle desolate lande della Siberia, facciamo la conoscenza degli Astarium, una one-man-band che in realtà esiste già dal 2005 e la sua discografia vede ben otto album all'attivo e 12 tra split ed EP. Io ignorantone non li conoscevo, quindi potrò fare pochi confronti con il passato ma dirvi piuttosto cosa ci ho sentito in questo 'Hyperborea'. Intanto partirei col dirvi che ci sono la bellezza di 16 tracce qui incluse ma non di grandi durate visto che il disco alla fine dura poco più di tre quarti d'ora. La musica del mastermind russo si muove nei paraggi di un black pesantemente infarcito di tastiere. "The Wild Hunt", "Doomed" e "Halls of Winter Gods" sono pezzi sicuramente interessanti, la seconda peraltro mi ha evocato un che dei Limbonic Art miscelati con il delirante approccio degli ungheresi Nagaarum, il tutto con l'apporto pesante delle keys che richiamano un che dei Bal Sagoth più pomposi e orchestrali. La cosa che salva Mr. Astarium è che i pezzi sono tutti di breve durata e quindi non si fa in tempo ad annoiarsi. "When the Proud Die" ha un incedere decisamente più cupo, quasi funereo, con la strana ma originale voce del frontman in primo piano, ma la song non arriva ai due minuti e quindi scivola via liscia che un piacere. Molto meglio la successiva "Snow Storm", molto più dinamica, che si mantiene sempre nei territori di un black estremamente melodico, dove le tastiere dominano la scena, creando ottime orchestrazioni su di un tappeto ritmico costantemente anomalo. Molto più veloce e caustica a tratti, "Sign of Cosmic Might", con la voce che ricorda la versione più pulita di Dani Filth. Il disco continua con tutta una serie di pezzi sulla stessa falsariga: la strumentale "Battle Glory" che gode di un'influenza dei Summoning. In "Daughter of Imir" compare la risata dolce e sensuale di una donna in apertura poi il pezzo riparte alla stregua dei precedenti. "Kill to Survive" ha un lungo incipit atmosferico per poi sfociare in una song più tirata, il che si riconferma anche in "Curse from the Past" o nella violenta lucida follia di "Lucky Bastard", 24 secondi di un sound infernale. Arrivato alla fine però, la sensazione è quella di avere ascoltato un album monumentale, tipo due ore di musica. Forse un disco cosi spezzettatto per qunato intrigante per contenuti, si rivela ostico non poco per quanto un genere alquanto accessibile. Ora potrò andare pure ad ascoltare i vecchi lavori e cercare di capirne di più di questi Astarium. (Francesco Scarci)

(GrimmDistribution/Gravações Tunguska - 2020)
Voto: 65

https://grimmdistribution.bandcamp.com/album/059gd-astarium-hyperborea-2020

Napalm Death - The Code Is Red...Long Live The Code

#FOR FANS OF: Death/Grind
Ever since 'Scum' and 'The Peel Sessions' came out, I was hooked on this band. Even though they play more death metal (especially on this one) it hasn't shyed me away from liking this band. So on 'The Code Is Red...Long Live The Code', you'll hear a more ND death metal approach to their music. Though there is blast beating by Danny on here, it's mostly just fast riffing that's mixed. This is more of a death metal approach to music on here, as opposed to the old line-up producing sheer and utter noise-grindcore. I kind of miss that about the band and thought that 'Harmony Corruption' (and still do) was their greatest times.
 
I admire the fact that the music on here varies, but miss the intensity of the old ND. At least they're still making music though they're veterans now. Barney's vocals changed after 'Death By Manipulation'. It's not as low and he doesn't do the loud massive roars like Barney of the old. But now they have Mitch contributing screams periodically. Screams ups the variety and keeps you guessing. A still highly politically based band lyrically but the focus is on the music, not so much the lyrics. A lot of songs on here too, that's why they split it up. The guitar is pretty unique though the riff quality is nowhere near as good as on 'Harmony Corruption'.
 
It's fresh meat though, even though this was released in 2005. It's pretty new to me because it's the first time hearing this album. I don't necessarily like the slower stuff near the ending of the album, but for the bulk of it, it's a "B". I felt that they measured up to their standards. And the fact that this is death metal and not grindcore anymore, they still are pretty much the founders of that genre. I think it'd possibly be Mitch making the turn into death metal and it's a big loss that ND doesn't have Jesse anymore. Died too young, that's for sure. I think Napalm Death wanted a change because the only real original member is Shane. Even he came later however.

I liked this album enough to write about it. I thought that the musical quality was good, just that they should've taken out the outros. They should've just ended at track 13 and that's it. But they squeezed in two unnecessary tracks. I guess that that's how they wanted it to be though. A big transformation from them then I used to know. Especially listening to 'The Peel Sessions' in High School. It seems as though now that there's less fire in the band because of the lack of Mick, Lee and Bill, they should've changed their name. They aren't losing their fire entirely, but let's see how they sound if they're releasing a new album in 2020. (Death8699)

(Century Media - 2005)
Score: 82

https://www.facebook.com/officialnapalmdeath/

Over the Voids… - Hadal

#FOR FANS OF: Black Metal
Poland for many years has been a truly respected scene with many talented musicians involved in the black metal genre, creating and developing projects both classical or innovative, but always with a distinctive sound. Some of those musicians are more focused on their main projects as others, like the musician known as the Fall, have been participating in several bands, though he decided to create a solo-project where he could forge a sound sorely based on his ideas. Over the Voids… was the name of this project created a few years ago, which caught the attention of the respected Swedish label Nordvis Produktion. The interesting homonymous debut album was the first stone of this project´s career, whose sound was firmly rooted in a devotion to the 90s black metal.

Three years later Over the Voids… has released its sophomore album 'Hadal', confirming the main characteristics found in the debut album but expanding a little bit its sound, though it keeps the core sound which always helps to maintain the personality of the project recognizable. The aforementioned devotion to the '90s black metal classic style is still there, though the production fits the current times. The first proper song of the album "One Commandment", is a fine example of it, stylistically the style is highly recognizable with those rasped vocals, yet with a slightly lower tone, which is quite classic in other bands of the Polish scene. Some melancholicesque vocals are also introduced as a tiny variation which is always welcome. The riffs have a distinguishable black metal sound with a little distortion, very typical in modern times. The guitars are obviously a strong point on this album with remarkably well-done work in the composition of the riffs. This is by no means an album with the typical songs with a lineal structure as variation in the guitar lines, sometimes more aggressive and other times slightly more melodic, are also accompanied by a rhythmic base where drums and bass create flowing structures in terms of intensity and pace. The fourth song "Witchfuck" is one of my favorites and one which shows clearly the explained variance of these songs. The more aggressive tone "Stone Vault Astronomers" doesn’t leave behind the already exposed features, combining straightforward sections with aggressive vocals and ferocious riffs, but at the same time introducing again those melancholic clean vocals which mark a clear contrast. This combination of elements is undoubtedly an interesting resource to create varied and exciting songs and marks which are maybe the key elements introduced in this second opus of Over the Voids... I wouldn't like to forget mentioning another impressive track, the one entitled "Prodigal King". This song has some of the best riffs of this album, quite melodic yet still aggressive, and introduces some echoing vocals which give a certain atmospheric touch to this song, making it one of the most varied of this sophomore album.

In conclusion, it is undoubtedly that Over the Voids… has made a step forward with 'Hadal', reaching a pretty inspired balance between straightforward aggression, a remarkable melodic facet, and some interesting new adds which enrich its compositions. This is a very good black metal album that may appeal to, both the lovers of the classic sound and the ones who want bands that renew the classic sound without reneging on it. (Alain González Artola)

(Nordvis Produktion - 2020)
Score: 82

https://overthevoids.bandcamp.com/album/hadal

sabato 5 dicembre 2020

Akral Necrosis - The Greater Absence

#PER CHI AMA: Black/Death, Anaal Nathrakh
Grazie al lavoro incessante di Loud Rage Music e Pest Records, la scena rumena inizia ad affacciarsi nel panorama internazionale sempre con più forza. Oggi è il turno dei blacksters Akral Necrosis che giungono con 'The Greater Absence' al traguardo del terzo disco senza che io ne conoscessi l'esistenza. E allora benvenuti nel Pozzo dei Dannati, grandi violentatori di timpani. Si perchè la ferocia con cui i nostri aprono il disco è da paura, con "Silent Altar" che si presenta come una spirale di violenza senza compromessi ma chi si fermerà a questa superficiale valutazione sia bandito. Questo perchè la song ha una sua anima fatta di emozioni, melodie, tecnica e mille altre sfaccettature che lasciano davvero a bocca aperta. Violenza si, ma fatta con somma intelligenza un po' come insegnano da anni gli Anaal Nathrakh, ma qui, a differenza degli inglesi, si sentono ancor più palesi le influenze heavy classiche, altre note malinconiche che rendono la proposta del quintetto di Bucarest decisamente affascinante. Chiaramente, i suoni proposti in questo dinamitardo lavoro non sono certo per tutti, "Oldd Mirror" è una mazzata terribile sul muso che in quei suoi rari rallentamenti, riesce a rivelare ai fan le doti invidiabiliti di un gruppo di musicisti in grado di bilanciare elevatissime dosi di suoni infausti e ritmiche furenti con parti più controllate e iper tecniche che rivelano una grande preparazione strumentale. I miei complimenti. Soprattutto quando è "Intonation" a suonare nel mio stereo, in cui le melodie si prendono tutta la scena e in sottofondo lo screaming velenoso del vocalist dà man forte ad un suono comunque profondo, intenso e magnetico che nel finale trova modo di tornare ad essere caustico, ammiccando a Darkthrone e soci. Ancora frustate black con l'indiavolata "In Nightmare Shades" che dopo un giro di orologio rallenta paurosamente nei meandri di un doom angosciante, che ripartirà a ritmi furibondi dopo un altro giro di orologio. Ma devono avere origini svizzere i nostri visto che questo giochino di alternanza black-doom verrà adottato anche nei restanti 180 secondi. Ancora echi norvegesi (scuola Carpathian Forest) in "Man in the Cauldron", song glaciale (e incendiaria al tempo stesso) che potrebbe essere stata concepita in Scandinavia nel decennio '90-2000. Il disco è un susseguirsi di brani suonati a ritmi vertiginosi che vede ancora punti di grande interesse nello splendido e lugubre break atmosferico di "Revamping the Inside" o nell'aberrante ritmica, stile Altar of Plagues, di "Plaguebound", una traccia complessa e complicata che vi farà esplodere i pochi neuroni rimasti nei vostri cervelli, soprattutto grazie a quel suo doppio assolo conclusivo in grado di spettinare anche un pelato come il sottoscritto. Ultima menzione per il finale affidato a "Damnatio Memoriae", la traccia più lunga del lotto, quasi 10 minuti di ritmiche arrembanti, sparate a tutta velocità tra una tempesta di blast-beat, urla disumane, chitarre tremolanti ed un basso che sembra uscire da una hit degli Iron Maiden, che esaltano alla grande la prova di questi eccellenti Akral Necrosis. (Francesco Scarci)

Ethir Anduin - Pathway To Eternity. The Agony

#PER CHI AMA: Black/Post-Hardcore
Gli Ethir Anduin sono un duo (uomo/donna) proveniente dall'area di San Pietroburgo in Russia. In giro addirittura dal 2006, i nostri giungono con 'Pathway To Eternity. The Agony' all'ammirevole traguardo dell'ottavo album in studio (a cui aggiungere anche altri 4 EP e 2 split, mica male). Il genere proposto? Eh, mica semplice. Cosi su due piedi, vi direi che stando a quanto eruttato nella lunghissima opener "Awareness of the Frailty of Being", potremmo parlare di ibrido tra black, doom e post-hardcore, peraltro ben suonato ed interpretato dai due musicisti russi che francamente non conoscevo, ma di cui sarò costretto a parlarvi davvero bene. Si, perchè la proposta immaginata da questi Ethir Anduin non è cosi semplice da mettere in atto. Serve conoscenza dei vari generi, grande gusto per le melodie malinconiche e perizia tecnica. Posso dirvi che ai nostri non manca nulla di tutto questo e che solo con i chiaroscuri, le sfuriate, i rallentamenti degli oltre undici minuti di apertura, la band mi ha conquistato? Ben fatto signori, ecco cosa intendo quando dico di osare. I nostri hanno miscelato due generi, il black e il doom spesso affini, con il post-hardcore, senza peraltro rinunciare a frangenti post-metal o schitarrate death. Cazzo! Magari ai più risulteranno ancora piuttosto grezzi, ma io ritengo che in queste note iniziali ci sia parecchia succosissima carne al fuoco, da prendere e farsi una bella scorpacciata. E non ci si ferma certo qui, considerato che il disco dura giusto 80 minuti in otto tracce. Sarà un massacro, lo so già, però chi se ne frega, qui di classe ce n'è un bel po' che andrebbe un attimino sgrezzata. Ma quando ascolto anche la seconda "Pandemonium" trovano conferma le mie parole, con questi chitarroni spaventosi di matrice post- che si frantumano contro parti atmosferiche ed in parallelo il growling catarroso di Luka che si evolve in soavi vocalizzi. Bomba. Intro acustica invece per "The Invisible Veil of the Cold Silence" con splendido giro di percussioni annesso e voci femminili inserite in un contesto dark/gothic da visibilio (che tornerà anche più in là con "Beneath the Ruins"), prima di una ripartenza verso un'attesa ritmica pesante, che concederà comunque largo spazio a questa componente atmosferica lugubre in cui a prendersi la scena e la disperata voce della frontwoman, in una prova di grande sofferenza, per un pezzo a cui non manca davvero nulla e che per certi versi potrebbe ricordare la collaborazione dei Cult of Luna con Julie Christmas in 'Mariner'. Più doom oriented per lunghi tratti "The Agony", visto che la pacatezza iniziale cede il posto alle intemperanze black/death della band con un assolo peraltro di chiara matrice progressiva che mi spiazza non poco e mi induce a dare un altro punticino in più alla band in una scalata verso il punteggio pieno. Ragazzi non c'è da scherzare, oggi ho scoperto una band davvero interessante che credo meriti platee ben più ampie. Lo conferma la dirompente "Eternal Shining Star" con gli strumenti e la violenza collocata esattamente nei posti dove deve stare, e con una dose di melodia sempre ben bilanciata. Il disco ha un'altra mezz'ora davanti e forse qui risiede l'unica nota dolente, la sua eccessiva lunghezza: oltre alla già citata darkeggiante "Beneath the Ruins", ecco le fumose ambientazioni sperimentali di "The Universe Hears Everything" e l'ultimo vagito affidato a "Last Struggle" che segna l'apoteosi musicale di un lavoro di grande portata che merita ampi consensi. Davvero bravi! (Francesco Scarci)

martedì 1 dicembre 2020

ĀraṇyakAƔnoiantAḥkaraṇA (ĀAAA) - S/t

#PER CHI AMA: Experimental/Ethno/Folk/Psych
La Family Sound è una realtà artistica esageratamente underground e fedele al credo Do It Yourself. La sua energia comunicativa è alimentata da una luce propria molto intensa, che mette l'arte al di sopra di ogni cosa, in maniera così ostinata che dalla produzione fisica a quella concettuale di un'opera sonora (nella sua filosofia rigorosamente una diversa dall'altra) non tralascia nulla alla banalità delle cose, neppure nella realizzazione dei dischi. Evitando le normali vie di fabbricazione dei vinili, costruendosi copertine autonomamente, fino a far uscire sul mercato, come in questo caso, la bellezza di sole 21 copie in vinile fatte a mano. Ricordando che i suoi artisti sono praticamente senza identità, che le opere nascono da una collaborazione internazionale, col solo intento di far esplodere l'ispirazione creativa dei musicisti, vi invito a farvi un'idea leggendo di seguito come questa etichetta usa presentarsi: "una one man label specializzata nella pubblicazione in vinile creando edizioni con musica diversa per ogni copia, copertine diverse, loops finali e altro". La label promette di adottare i principi dell’industria musicale al contrario: nomi dei gruppi impronunciabili e impossibili, edizioni in vinile super-limitate e super-costose, testi chilometrici, produzioni musicali troppo eversive per entrare in qualsivoglia nicchie, generi fuori moda, e altro ancora. Fatte le dovute premesse, affrontiamo il disco degli ĀraṇyakAƔnoiantAḥkaraṇA, cominciando da un nome impronunciabile per un disco ispirato alla cultura sacra vedica. Gli Aranyaka o "libri anacoretici" (circa sec. VIII-VI a. C.) sono opera di asceti che nella "selva solitaria" (āraṇya) sostituivano al culto esteriore delle cerimonie sacrificali il culto interiore della meditazione sul valore simbolico e sul significato mistico dei riti. Il nome del duo si fa carico del significato musicale dell'opera il cui intento è proiettare l'ascoltatore in un'estasi mistica, ipnotica e incantatrice, oserei dire, ossessivamente trascendentale. Prendete "Dust" di Peter Murphy, privatelo di tutte le sue parti ritmiche, tenendo solo quelle etniche, spostandole poi nel versante indio/ mediorientale, avvolgetele in un tappeto costante di sitar ancestrale e acido al pari di certa psichedelia allucinata di casa nella Londra del '67, sporcate il tutto con rumori e brevi accenni ritmici minimali, filtrate con l'elettronica, quella low fi, ed con del folk apocalittico. E il gioco è fatto. Immaginate i due brani di apertura del capolavoro '...If I Die, I Die' dei Virgin Prunes, "Ulakanakulot" e "Decline and Fall", scarnificati e suonati con la cupa e lenta avanguardia dei Sunn O))), il lato mistico dei Dead Can Dance e la psichedelia etnica di un capolavoro degli Aktuala quale fu il loro album omonimo del 1973, e ancora, la drammaticità dell'ultimo Nick Cave e le sfumature notturne del più cupo Tom Waits e forse avrete una lontana idea di cosa si nasconde dentro questo album. Tre brani di cui il primo, "No Store of Cows" supera i 22 minuti, seguito da un lampo di neppure due minuti per concludere con una liturgia dark di circa 15 minuti ("The Margin Spread"). Vi siete fatti un'idea di quale spettacolare risultato sia riuscito ad ottenere questo duo di musicisti senza volto? Un cantato oscuro alla maniera del gotico vocalist dei Bauhaus, teso, esasperato, che usa salmodiare le preghiere descritte nei testi che dentro al vinile sono trascritti, niente poco di meno che su di una reale pergamena, un impianto sonoro che non lascia intendere dove inizia il campionamento, il loop o la reale strumentazione suonata, ed una emotività sacra tanto esposta da rendere alcuni momenti musicali veri e propri viaggi spirituali, a volte trascendentali, a volte aspri e bui al pari di una composizione degli OM. La difficoltà di descrivere un album simile è enorme, poiché questo tipo di opera non è alla portata di tutti e rifiuta ogni logica commerciale, sono brani che richiedono attenzione assoluta e apertura mentale per essere recepiti nella loro integrità artistica, per questo servono più ascolti e molta concentrazione per capirli. Alla fine però, si ha l'impressione di essere di fronte ad un vero capolavoro, che rimarrà in eterno al di fuori del tempo. L'intento di creare musica altra, senza vincoli, ispirata e profonda, in questo disco si è decisamente fatta realtà. Un immancabile ascolto per gli amanti più temerari della psichedelia d'avanguardia. (Bob Stoner)