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domenica 22 novembre 2020

Megalith Levitation / Dekonstruktor - Split Album

#PER CHI AMA: Stoner/Doom/Drone
Chelyabinsk negli Urali e Mosca sono le città dalle quali arrivano queste due band, i Megalith Levitation dalla prima e i Dekonstruktor dalla seconda. Con dei moniker del genere, un artwork di copertina votato al bianco e nero ed un look piuttosto truce, mi sarei aspettato di ritrovarmi fra le mani uno split album votato al black più grezzo e ferale, invece, strano ma vero, questo 4-track mi conduce nei meandri di un doom sperimentale e ritualistico. E a proposito di rituali, si parte proprio con "Opium Ceremony", una traccia che sembra offrire un mantra sonico ad opera dei Megalith Levitation e a quella linea di basso in primo piano (accompagnata da distorsioni di chitarra e un coro quasi cerimoniale) che traccia una melodia ipnotica e lisergica che ci accompagnerà per tutti i suoi cinque minuti e più di musica. A seguire il chitarrismo stoner di "Despair" in un brano di oltre 13 minuti, ove questa volta in primo piano si pone un riffone nerissimo di chitarra plettrato a rallentatore, ancora con quel cantato liturgico in sovrapposizione che talvolta sfocia in uno screaming più efferato. Difficile dire altro vista la monoliticità di fondo che ha il sopravvento in un pezzo che purtroppo sembra proprio peccare in staticità per buona parte della sua durata, quando finalmente ad un certo punto i nostri ci sbattono una qualche variazione al tema, stile primi Cathedral. Un po' pochino, posso dirlo? Anche per i Dekonstruktor solo un paio i pezzi a disposizione per convincermi della bontà del loro sound. Anche in questo caso non si comincia proprio nel migliore dei modi, visto che "Beheaded Horizon" parte con un altro loop chitarristico che non fa altro che stordirmi e alienarmi, sebbene poi si sovrapponga un riffing granitico tipicamente stoner accompagnato questa volta da voci finalmente adatte al genere. Anche qui però il minimalismo ritmico ha il sopravvento e fatico ad arrivare al termine del brano e dirmi anche soddisfatto, sebbene nella seconda parte del pezzo, il terzetto moscovita provi a cambiare le carte in tavola con un mix di sonorità tra il doom e il drone, comunque non cosi semplici da digerire. In chiusura "Magma Pulse", un pezzo strumentale che ha il solo compito di darmi il definitivo KO con il suo incedere psych doom che puzza di una obsolescenza che si rifà ad un secolo differente dal nostro. Vetusti. (Francesco Scarci)
 
(Aesthetic Death - 2020)
Voto: 60

https://megalithlevitation.bandcamp.com/album/megalith-levitation-dekonstruktor

sabato 21 novembre 2020

Amederia - Sometimes We Have Wings...

#PER CHI AMA: Death/Doom, Draconian
Uscito originariamente nel 2008 per la Molot Records il debut album dei russi Amederia, 'Sometimes We Have Wings...' è stato rispolverato dalla BadMoodMan Music per darne maggiore visibilità al pubblico. Esce pertanto in questi giorni una nuova versione di quel disco, a distanza di 12 anni dall'uscita originale. E se non conoscete la band originaria della Repubblica del Tatarstan (noi li abbiamo già recensiti nel 2014), vi posso dire che il 7-piece è fautore di un death doom, fortemente contaminato da note gothic metal. Nostalgici tocchi di pianoforte ci introducono al mondo fatato degli Amederia che si palesa con il death doom di "Doomed Ground", il tipico pezzo che andava di moda 15/20 anni fa (leggasi Tristania, Theatre of Tragedy e Within Temptation) con tanto di dualismo vocale tra donzella e orco cattivo ma che oggi ormai non mi dice più niente. Dopo poco più di due lustri questa musica si è ormai esaurita per quanto mi riguarda, soprattutto perchè se penso alle chitarre contenute in questo disco, ripenso a quelle degli esordi di primi anni '90 dei The Gathering. Quindi che dite? 'Sometimes We Have Wings...' è una raccolta di clichè di un genere che ormai farà solo la gioia dei nostalgici del genere. È innegabile come ai sette russi si possano attribuire qualità indiscusse che trovano oggi trovino ancora un seguito nelle note di band come i Draconian. Per il resto credo che immaginiate già cosa il disco riservi. Sicuramente ottime melodie in tutte le sue tracce, l'operistica performance vocale della brava Gulnaz Bagirova che va a contrapporsi al growling feroce di Damir Galeyev. Poi che altro se non una grande dose di malinconia che stempera quel riffing assai ritmato che caratterizza un po' tutti i pezzi di questo disco, dalla già citata "Doomed Ground" fino alle note conclusive di "Lovely Angel", passando attraverso "Dreams", interessante per i suoi giri di chitarra (peccato per quel fade out finale) e i costanti tocchi di pianoforte. Non mancano i momenti sognanti ed atmosferici come in "Cold Emptiness", interamente affidata a voce e tastiere, sette minuti un po' eccessivi a dire il vero. Più funeral oriented invece la prima parte di "And So I..." mentre più atmosferica ed eterea la sua seconda metà. Insomma, gli Amederia non li scopriamo certo oggi e sono certo che chi ami questo genere, non si sarà fatto scappare 'Sometimes We Have Wings...' a suo tempo. Per i novellini del death gothic, beh un ascolto lo si può sempre dare, la musica è comunque ben suonata per quanto oggi suoni stranamente già obsoleta. (Francesco Scarci)

venerdì 20 novembre 2020

Setoml - Reincarnation

#PER CHI AMA: Black Melodico
I Setoml sono un nuovo progetto di DeMort (incontrato qui nel Pozzo con i suoi Luna) e di Krivoviaz Serge, vocalist dei I Miss My Death. 'Reincarnation' è il risultato del connubio di questi due artisti ucraini, otto tracce che faranno contenti gli amanti del black melodico. Il disco si apre con "Flames", un dirompente esempio di come la melodia possa esser messa a disposizione di un riffing serrato di matrice black, in una proposta che, pur non offrendo assolutamente nulla di innovativo, garantisce comunque tre quarti d'ora di musica solida e ben suonata. Una sassaiola di pezzi granitici che uno dopo l'altro ci vengono scagliati in pieno volto. Se la spietata "In the Cold Eyes" l'ho trovata alquanto banale tra l'altro con un songwriting piuttosto modesto, diverso è il discorso per "In the Gray Field of Hope", song devastante ma al contempo dotata di buoni arrangiamenti a cura di un lavoro di synth che la rendono decisamente più interessante anche nel suo pattern chitarristico. Più orientata verso il funeral doom è "Thousands Shimmering Souls", dove DeMort sembra trovarsi maggiormente a proprio agio con sonorità più oscure e solenni, anche se nella seconda parte del brano, i nostri tornano più indiavolati che mai con un riffing corposo e vivace e blast beat sparati a 299792458 m/s. Quello che ancora non mi convince è come l'eccellente voce di Serge mal si adatti a delle liriche che non sembrano affatto scritte per questa release. Un po' di spettralità ce la regala la lenta "By the Dark Lake", almeno nei suoi primi 90 secondi, visto il successivo e spaventoso attacco black, che si conferma ancora piuttosto scontato. Poi quando è la musica a parlare, non si possono discutere le capacità distruttive del duo ucraino, tuttavia il tutto rimane confinato all'interno di canoni ormai usurati. Un tentativo di deviazione dagli standard è offerto dalla tribalità percussiva di "Night Dance" e dall'imprevedibilità ritmica palesata nella seconda metà di "Their Wings Are Gray Like Spirits", che forse a questo punto indicherei anche come mio pezzo preferito insieme alla conclusiva "The Shadows Path". Qui, il duo di Kiev prova timidamente a staccarsi dagli stilemi classici ormai fin troppo abusati, pur non rinunciando ad una violenze sempre più traboccante. Direi pertanto di ripartire da qui e andare in cerca di una ben più definita identità musicale, coraggio, osate! (Francesco Scarci)

(Satanath Records/Kryrart Records - 2020)
Voto: 62

Bergeton – Miami Murder

#PER CHI AMA: Synth-Wave/IDM/Electro
Devo ammettere che la copertina di questo album mi ha incuriosito molto e scoprire chi si cela dietro al progetto Bergeton, è stata una cosa proprio inaspettata. Siamo al cospetto di una figura di culto del mondo black metal, che ha suonato con Gorgoroth, Godseed, 1349 e che dal 2011 è parte integrante dei Mayhem. Sto parlando di Morten Bergeton Iversen, artista norvegese conosciuto da tempo nella musica estrema con lo pseudonimo Teloch. In questo nuovo solo project, il musicista di Oslo si cimenta con l'arte della musica elettronica, lontanissimo dalle sue abituali ritmiche violente, fredde e oscure. Qui Mr. Iversen si mostra padrone della scena e capace costruttore di architetture elettroniche che subiscono l'influenza di vari mostri sacri del genere ma non soccombono al plagio anzi, con un pizzico di glamour e humor noir, l'artista norvegese riesce efficacemente a mescolare le sue carte fino a realizzare una manciata di brani fruibili e godibili, frutto di un certo gusto e coinvolgimento nel genere in questione. Dicevamo dell'artwork di copertina, che si mostra come la locandina di un anime thriller, ambientato in una Miami del futuro il che rende molto l'idea della musica contenuta in questo disco di debutto. Una musica ispirata, che non abbassa mai i toni, sostenuta, che incrocia il suono dei Front Line Assembly con quello dei videogiochi anni '80, che rimastica i Model 500 con i Kraftwerk, i suoni dei primi Depeche Mode con il mood della celebre sigla della serie X-files. Musica costantemente pulsante, con belle atmosfere, a volte più morbide ed immediate, a volte più sinistre, intelligentemente danzanti (IDM) con inserti e arrangiamenti intriganti, a volte persino tese e nevrotiche senza mai perdere la vocazione per l'orecchiabilità. Si parte con "Arabian Nights" ed il suono scivola immediatamente tra la synth wave e la dance cosmica di fine anni '70, con un perfetto riff etnico che certamente farà presa su ogni tipo di ascoltatore. Si prosegue con un brano che si presenta da solo, dal titolo inequivocabile "Depeche Load", che si schianta tra la band di Dave Gahan e le prime intuizioni sintetiche e dark dei VNV Nation. In "Fort Apache Marina", il suono si snoda tra ritmi elettro/funk di gusto retrò e innesti chitarristici inaspettati, di chiara ispirazione metal. Il disco continua con influenze kraut e persino techno-trance, con il brano "Lambo", ma è con la new wave di "Miami Murder" che dà anche il titolo all'album che si tocca la vetta, con analogie che l'accomunano alla sigla del film Miami Vice, filtrata dalla decadenza espressa in "Vienna" dai mitici Ultravox. " Natasha K.G.B." è un buon esempio di come una musica fatta con intelligenza, possa farti immaginare un film di spionaggio che non hai ancora visto, mentre "The Demon", a differenza degli altri brani, esplora un ambiente sonoro più duro, e distorto più vicino all'EBM, agli ultimi Project Pitchfork con l'ingresso della presenza vocale, che si manifesta in forma di inquietante parlato. Il finale è lasciato a "Valley of Death" che chiude l'album con un beat ossessivo, curve e altalene elettroniche rubate direttamente dalla console Atari e dai videogames di un tempo assai lontano. 'Miami Murder' è sicuramente un disco molto dinamico ed energico, che non avanza pretese di originalità ma che gode di ottima fantasia e gusto, qualità che bastano a rendere il tutto piuttosto personale. Sarebbe proprio un peccato dire in giro di non averlo mai ascoltarlo. (Bob Stoner)

(Meus Records - 2020)
Voto: 70

https://bergeton.bandcamp.com/

giovedì 19 novembre 2020

End of Mankind - Antérieur à la Lumière

#PER CHI AMA: Black/Thrash
Credo che in Francia il covid abbia avuto un impatto importante in termini di stimolazione della forma artistica musicale. Sono infatti cosi tante le release uscite in questo periodo dal territorio transalpino che credo di averne perso ormai il conto. Gli ultimi nella mia lista arrivati in ordine di tempo e ora sulla mia scrivania, sono questi End of Mankind, un nome un programma di questi tempi. La band, originaria della capitale, giunge con 'Antérieur à la Lumière' al secondo lavoro, un disco che consta di nove pezzi, di cui l'incipit è un'intro declamata in lingua francese. È solo con la seconda "Temporary Flesh Suit" che i nostri iniziano infatti a far sul serio con una miscela mortifera di black, thrash e post-hardcore, che potremo semplicemente definire come post-black. Tuttavia il pezzo, a fronte di una ritmica bella possente (a tratti quasi punk, scuola Motorhead), delle vocals che si barcamenano tra uno screaming spietato e urlacci hardcore, palesa anche straordinarie aperture melodiche cosi come break atmosferici che completano a tutto tondo una proposta intrigante, che non rifugge nemmeno certe aperture malinconiche davvero azzeccate. E la furia black divampa ancor più possente anche in "La Peste Dansante" in una cavalcata di ordinaria amministrazione che combina acuminati riff black con un più pesante riffing di natura thrash metal in un vortice sonoro completato da copiose frustate blast beat e vocalizzi al vetriolo. Sia ben chiaro, anche gli End of Mankind non inventano nulla di nuovo, ma quello che propongono è davvero ben fatto, calibrato al punto giusto, la ricercatezza sonora e gli arrangiamenti, tutto calza a pennello, in una seconda parte da applausi. E si continua con un sound invischiato nel sinfonico con "Outrenoir" che mi evoca un che dei vecchi Anorexia Nervosa. È una sensazione che rimane però solo una manciata di secondi perchè i nostri si ributtano a capofitto con un un black che tra accelerazioni e brusche frenate, ha modo di chiamare in causa anche Dimmu Borgir, Old Man's Child e Gorgoroth. Mini intermezzo acustico di ristoro e poi via con la mortifera "Golgotha", una scheggia di violenza disumana sparata ai mille all'ora con ammiccamenti questa volta alla scena black svedese, Unanimated in testa. Ma la band è abilissima nel dosare violenza e parti atmosferiche, ed ecco infatti che in un batter di ciglia, il quintetto parigino cambia ancora registro e lo farà ancora per un paio di volte da qui al termine di un brano che comunque non arriva ai tre minuti e mezzo di durata. Questo dimostra la grande capacità della compagine francese di saper variare enormemente in brevissimi frangenti di tempo. Inizio acustico per "Opponent Deity", un esempio palese di come si possa ancora suonare post-black oggi dopo che ormai tutto è stato fatto negli ultimi 10 anni, unendo la furia del black con l'irruenza del thrash ma soprattutto con la sperimentazione visto l'utilizzo di un sax jazzato a completare in modo delizioso una traccia multiforme. C'è ancora comunque spazio alle sorprese con le epiche e tonanti melodie della devastante "Step Towards Oblivion" a strappare gli ultimi applausi di una release davvero avvincente che vede completare il suo ultimo vagito con la conclusiva "Le Boël", un pezzo strumentale che chiude in modo suadente una release ben suonata ma prima di tutto, ben pensata. Chapeau! (Francesco Scarci)

(Mallevs Records - 2020)
Voto: 78

https://endofmankind.bandcamp.com/

lunedì 16 novembre 2020

Brudini - From Darkness, Light

#PER CHI AMA: Psych/Indie Rock
'From Darkness, Light' mette in musica fatti ed esperienze di vita del giovane musicista thailandese/norvegese (e ora trasferitosi a Londra) Erik Brudvik, in arte Brudini, in una sorta di speciale diario di bordo autobiografico, scritto con una predilizione verso l'estetica della poesia in musica. I dodici brani sono tutti brevi o brevissimi e si cimentano in un susseguirsi di istantanee che alternano sentimenti come la malinconia, la speranza o la sconfitta, seguendo un filo logico nel raccontare storie di vita vissute dell'autore. Colpisce la peculiarità nella scelta dei suoni ed il legame che si instaura tra i pezzi, assai simile ad un concept album di stampo, passatemi il termine, progressivo. Non che la musica si snodi in termini di rock progressivo ma l'attitudine narrativa ricorda molto gli stilemi della composizione libera di certa musica estrosa, anche se qui tutto è indirizzato verso l'interpretazione minimale del sound. Così, brano dopo brano ci si imbatte in piccole suite di jazz psichedelico, come nella splendida "Emotional Outlaw", oppure ci si lascia corrompere dalla malinconica gioia di "Pale Gold" e dalla sua incalzante marcetta dal gusto sudamericano, un motivo molto divertente che non scade mai nel banale. La poesia si intervalla alle canzoni fin dall'inizio, con gli intermezzi recitati da Brudvick su testi poetici dello scrittore californiano Chip Martin, che nella costruzione ricordano, con toni più moderati e sommessi, l'esperimento "The Valley of Unrest", del grande Lou Reed, nel concept album dedicato alle poesie ed ai racconti di E. A. Poe, 'The Raven'. Il disco scorre veloce tra chitarre acustiche e batterie indie, la voce di Brudini è solenne, narrante e farà felice i fans degli statunitensi Death Cab for Cutie, o gli amanti delle atmosfere dell'ultimo Plans, che si porta appresso sempre una buona dose di malinconia, in un miscuglio tra un Dylan d'annata e le evocative tonalità di Antoine Mermet dei Saint Sadrill, che in alcuni brani dal tocco più solare, penso a "Radiant Man", riesce a creare un perfetto equilibrio tra luci ed ombre che si eleva a vette assai alte di bellezza. "Everything is Movement" è un brano intimo, giocato su rintocchi di piano, rumori e percussioni dal forte sapore di jazz notturno e disperato, atmosfere offuscate nella prima metà per poi sorprendere con un'apertura pop/soul sognante ed ariosa, con archi e tastiere che liberano dallo stato di visione grigia disseminato ovunque nell'album. Non dimentichiamoci poi quella sottile vena psichedelica presente nei brani, che sparsa qua e là, dona un tocco naif al disco, trovando il suo apice, nella canzone conclusiva, "Boulevards", meravigliosamente delicata, cosmica ed ipnotica. Un album riflessivo, per certi aspetti stravagante, che usa tante idee pur mantenendo un profilo minimale per il sound ed un profilo altamente espressivo nel canto, un disco che vale la pena ascoltare. (Bob Stoner)

(Apollon Records - 2020)
Voto: 73

http://www.brudini.com/

Gong Wah - S/t

#PER CHI AMA: Experimental Kraut Rock/Noise Pop
Si apre il sipario su un insieme di brani che vi sorprenderanno. Tutte le tracce sono vive in essere e vitali in divenire nello stesso disco. L’ascolto dell'omonimo album dei tedeschi Gong Wah è un ritorno al futuro. Partiamo da "Let’s Get Lost". Voce carismatica quella di Inga Nelke. Raggi di criptonite che incalzano le pause strumentali. Avvolgenti i ripetuti del ritornello che diviene ipnotico lasciando il passo al velluto della voce della frontwoman che incalza intercalari ritmati. L’atmosfera in cui ci accolgono i Gong Wah è un ibrido tra il rock e l’ambient. Cambiamo del tutto l’attesa con "I Hate You". Qui lo strumentale è un ribattere, calco di gesso dinamico quasi aggressivo che si frantuma in un istante ripetuto. Una rabbia di zucchero filato e molto zuccherino che cristallizza esplodendo in un senso cosmico. Polvere di stelle. Le sorprese incalzano quando parte "Supersized Kid". Lei voce pop estremamente sensuale, ci porta indietro di 25 anni. Canta, accarezza l’ascolto. Canta, sa come far vivere il passato nel presente. Canta e complimenti a chi ha arrangiato il brano perché è un salto senza paracadute negli anni '90. Andiamo oltre ed accontentiamo i viaggiatori del tempo, quelli che mettono la musica in cuffia e si alienano dalla realtà. "With Him". Ora la carica nostalgica cresce sino a far godere pienamente della condivisione tra pop e shoegaze. Non sarete ancora sazi spero! Incalza il mio preferito tra questi pezzi "Sugar & Lies". Volume. Volume. Qui abbiamo un insieme di così tante sonorità e di annate musicali che gira la testa solo ascoltandolo. Adoro il suo incedere, così come la sua traccia definita e la sua arroganza nell’essere tutto e nel non somigliare a nulla di pregresso. Mandatelo in loop. Quando l’entusiasmo trova un picco succede spesso debba avere la sua contropartita, eppure "Contaminated Concrete" mi ferma il cuore per portare i battiti ad un altro livello. Ascoltando questa traccia ho vissuto momenti di pura intensità, istanti di un brivido graffiante, tempo dilatato e lento. Un'alchimia tra la musica, la voce e le sonorità distorte. Siamo a "Not This Time" e l’aria è ferma. È questo è il pezzo che quando parte con il suo mix di post-punk e electro dance la muove sul serio l’aria. La musica si muove. La voce si muove. Non inizio a respirare, ma ad ansimare. La musica chiama. Non è lo stile, il ritmo, il genere, ma l’alchimia dell’insieme. Concludo l’ascolto con questo inferno retroattivo ed eloquente. È il tempo di "Just Sayin'". Che dire. I sensi si risvegliano uno ad uno seguendo il ritmo deciso ed urgente di questo pezzo. Voci congiunte. Suoni stridenti armoniosamente agganciati agli strumenti. Pause strumentali lunghe, emozionanti, accattivanti. Le voci entrano in assonanza con gli strumenti. Una degna chiusura di un album da avere. Un viaggio tra il noise pop, il kraut rock, la psichedelia, lo shoegaze. Eppure, per ogni traccia si sente la forza della musica che mescola i generi e rinasce come fenice a vita indipendente. Artistico. Intenso. Eclettico. (Silvia Comencini)

(Tonzonen Records - 2020)
Voto: 78

https://gongwah.bandcamp.com/album/gong-wah

Váthos - Underwater

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
La Romania ci ha preso gusto a sfornare band di una certa rilevanza artistica: dopo il glorioso passato ove sono cresciuto a base di vampiri e Negură Bunget, ecco che in un mese arrivano tra le mie mani prima i Katharos XIII e ora questi Váthos, band originaria di Bucarest, all'esordio assoluto con questo 'Underwater'. La proposta del quintetto rumeno è all'insegna di un black melodico che fin dalla opener "Ruins of Corrosion" sottolinea una certa capacità da parte dei nostri di saper variare il proprio pattern ritmico grazie ad aperture acustiche e linee di chitarra piuttosto melodiche. Pur non essendo di fronte a nessuna grossa novità in ambito musicale, concedo un ascolto attento ai pezzi: "The Suicide" ha un incipit che sa molto di post metal scuola Cult of Luna, poi squarci rabbiosi di chitarre e uno screaming efferato (migliorabile francamente), fanno il resto, sebbene la song si mantenga in territori molto più compassati e anche più interessanti rispetto alla traccia d'apertura, con aperture che di black sanno ben poco cosi intrise da una malinconia spiazzante. Altrettanto disorientante è poi quel break centrale un po' visionario che spezza in due il brano con una certa efficacia, in grado di catturare ancora il mio interesse, visto e considerato che nella seconda parte una voce pulita raddoppi quella gracchiante di inizio brano. Poi è solo un turbinio sonoro. Ancor più delicata "Curse of Apathy" che sembra accompagnarci in territori shoegaze e di seguito in un black atmosferico che pur non aggiungendo nulla ad innumerevoli altre recenti uscite, riesce comunque a catalizzare la mia attenzione, soprattutto in un finale arrembante che sembra godere anche di influenze post-hardcore, il che non mi dispiace affatto, per quel suo traboccare malinconia da ogni sua nota. In "Corrupted Mind" mi sembra di aver a che fare con un'altra band visto un attacco che sa più di thrash metal che altro, il che mi disorienta un pochino. Ci pensano poi le linee melodiche a ripristinare il tutto sebbene quel riffone granitico torni ripetutamente nel corso di un brano che mi ha lasciato francamente con l'amaro in bocca. Con "Shape of... " si torna nei paraggi di un post rock onirico fatto di chitarre tremolanti che evolvono nuovamente in quel black atmosferico apprezzato in apertura, che nelle parti più tirate risottolinea il background thrash dei nostri, mentre nei momenti acustici trasmette una certa drammaticità di fondo che permea comunque l'intera release. Diciamo che le idee ci sono, forse non ancora indirizzate nel modo adeguato, ma stiamo parlando comunque di una giovane band all'esordio e che quindi ha tutto il diritto di poter sbagliare. "Hold My Breath" ripropone un canovaccio abbastanza simile ma ancora una volta faccio fatica a digerire quel cantato caustico di Radu che deve sistemare anche certi guaiti anche nella sua forma più pulita. Il pezzo però non mi convince a 360°, data una ripetitività di fondo asfissiante e passo oltre, a "Sanctimonius Beliefs", song più pulita e dinamica, con il pulito del cantante subito in primo piano accompagnato da un riffing semplice ma efficace che in concomitanza dello screaming, diventa invece più sporco e bastardo. Ancora un break acustico (su cui avrei evitato di cantare in quel modo) e la song scivola con un ultimo slancio in tremolo picking fino a "Flower of Death" che chiude con gli ultimi arpeggi in tipico stile post rock, seguiti da un riffing di scuola Katatonia (era 'Brave Murder Day') che mi portano a concludere che 'Underwater' sia un platter interessante, forse ancora con qualche sbavatura ed un pizzico di immaturità a suo carico, ma che lascia intravedere ampi margini di miglioramento per il futuro. Ci conto ragazzi. (Francesco Scarci)

domenica 15 novembre 2020

Griffon - ὸ θεός ὸ βασιλεύς

#PER CHI AMA: Black/Death, Windir
Devo ammettere che quel titolo in greco mi aveva tratto in inganno, pensando che i Griffon fossero originari appunto della Grecia. Mi sembrava effettivamente strano che la Les Acteurs de l'Ombre Productions andasse a pescare fuori dalle mura amiche, ma vedendo i più recenti precedenti, pensavo fosse l'ennesima eccezione. I Griffon arrivano invece da Parigi e sono un quintetto di personaggi noti nella scena, visto che tra le fila si annidano membri di Moonreich, Grind-O-Matic, Neptrecus e A/Oratos. Fatte le dovute presentazioni, sappiate che 'ὸ θεός ὸ βασιλεύς' rappresenta il loro secondo lavoro, un esempio di efferato ma melodico black death. Il disco si apre con le spoken word di "Damaskos" e da li decolla con il suo vorticoso black metal, interrotto solo da un break acustico ove voci declamatorie si prendono la scena. Il pathos è elevato e contribuisce a distrarci per una decina di secondi dall'acuminata ritmica dei nostri, in grado di regalare comunque una cavalcata davvero ferale da qui alla fine, dove vorrei sottolineare gli azzeccatissimi arrangiamenti. La tempesta sonora ovviamente non si placa qui, ma prosegue anche con la dinamitarda "L’Ost Capétien" che, a parte segnalarsi per un attacco frontale da paura, si lascia apprezzare soprattutto per una forta vena orchestrale, una buona linea melodica ed un altro bel break acustico. "Regicide" è decisamente più compassata, con un inquietante incipit che lascia il posto ad un'andatura più ritmata, spoken words in francese, inserti melodici di scuola Pensees Nocturnes e altre varie scorribande chitarristiche in un brano decisamente altalenante. Ma questi sono i Griffon, ho già imparato ad apprezzarli per quello che sono con la loro capacità di fare male con quelle chitarre taglienti, con uno screaming costantemente lancinante ed una violenza in genere tarpata nella sua efferatezza da intermezzi acustici, rallentamenti parossistici e riprese ancor più violente. Ne è un esempio lampante "Les Plaies Du Trône", un pezzo che cavalca sonorità post black devastanti nella sua seconda metà, la cui sgaloppata mi ha ricordato qualcosa dei Windir. Delicati tocchi di pianoforte aprono invece "Abomination" e per pochi istanti mi godo una splendida melodia classica che stempera quella violenza da cui siamo stati investiti fino a pochi secondi fa. Il pezzo è apparentemente più contenuto nella furia distensiva, ovviamente stiamo parlando di poco più di un paio di giri di orologio prima che i nostri tornino a macinare alla grande granitici riff sparati al fulmicotone. Ma credo avrete già imparato a conoscere l'imprevedibilità dei cinque parigini, ed ecco quindi tocchi di pianoforte, porzioni corali e ripartenze deraglianti. Interessante poi come "My Soul Is Among The Lions" spenda i suoi primi 60 secondi a giochicchiare con le chitarre prima di lanciarsi in un solenne pezzo di black sinfonico dotato di splendide linee melodiche, forse il mio pezzo preferito. Un intermezzo ambient ci conduce alla conclusiva "Apotheosis", gli ultimi cinque minuti di un album convincente e coinvolgente, che non fanno altro che confermare la qualità sopra la media dell'ennesima band proveniente dalla vicina Francia. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2020)
Voto: 76

https://ladlo.bandcamp.com/album/--2