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sabato 17 novembre 2018

Gutwrench - The Art of Mutilation

#FOR FANS OF: Death Metal, Autopsy
A very short-lived death metal band from the early days of the subgenre, Gutwrench is the Dutch response to a steadily fragmenting series of death metal styles at the time. With its cohesive and crushing sound, the band harnesses the unhinged intensity of New York death metal, the speed and screaming treble of the Florida sound, and the cavernous horror hiding Sweden's sickness. 'The Art of Mutilation' is a compilation and re-release of the two demos that Gutwrench had delivered within a year and a half period from March of 1993 to September of 1994. The first five tracks comprise 'Wither Without You' while 'Beneath Skin' makes up the final six tracks. Between both of these demos is a previously unreleased song, “Asphyxia”, that serves as a strong transition between these two distinctly different demos.

'Wither Without You' is the exact sort of filthy, meaty, thickly textured metal that spreads teeth and sticks deeply into gums and ribs. Whereas a slice of early rhythm in “Meatlocker” would see its cousin come up in Lamb of God's “In the Absence of the Sacred”, Gutwrench throws that sound into a dike filled with sewerage as the quintet quashes any notion that the percussive New York style was a fluke. Emerging in 1993, this cavernous and hammering cassette was initially distributed by Displeased Records, a company that would also go on to sign the likes of Nile, Cryptopsy, Deeds of Flesh, Disgorge, and plenty of other easily dropped names that pad many a metalhead's collection. Displeased seems to have known the direction the sound would take over time but somehow Gutwrench got lost in the race.

Gutwrench's sound is not only a fascinated with the viscous 'Effigy of the Forgotten' swamp that had overtaken the death metal world at the time, but it provides the variety necessary to keep its sound fresh and appealing with some Swedish as well as Florida licks along with a good sense of flow and groove making “Crawl” live up to its namesake. A great harmony setting off “Necrosis”, sounding a bit bluesy and plenty doomy with some melancholic flair, achieves the pummeling style that we all know and love as it malignantly mutates. However, in Autopsy fashion, Gutwrench drags the song into the dirt so that skin can fester and maggots can feast, malleting those 'Mental Funeral' moments into a coffin fit for an infant.

Gutwrench enjoys the call and response of scraping strings as cymbals storm through the milliseconds between them, creating an unhinged sound that grooves as much as it growls. This makes the storm of guitars in the title track crash with a thick backdrop of swirling cymbal winds and stomp on paper cities like a '50s Japanese monster. The rudimentary beginnings of this band show the strength of death metal's direction through the early '90s, one that relied on raw talent and beastly riffage rather than focusing on production value and incorporating tropes from other styles to create an exquisite sound that grabs an ear. Gutwrench is sheer aggression pushing its limits and making mincemeat out of its audience, fitting seamlessly into its time and unfortunately having been lost by the wayside during its hangover.

'Beneath Skin' comes right out the gate bearing some some striking moments with a most familiar shrill scream across the treble, rising in a harmony, that has me thinking of later more accessible bands and takes its middling pace a step or two into melodic death metal territory as it leans more towards the Gothenburg style that, by 1994, was firmly planting itself. At its heart though, Gutwrench is still a death metal band that thrashes its way 'Beneath Skin' and stomps on the exposed bones of the “Scarred and Hollow”. An overflowing putrescence of riffing and blasting makes such a dissection drown in reverberating muck before finding a rise in an echoing flying riff joined by double bass and pounding snare to make the most encompassing moments in the production erupt from their elaborate catacombs like a startled swarm of bats. Simultaneously gorgeous and treacherous, the massive and meaty “Cain” brings that New York crush to the fore before brutalizing a melody until a snippet of soloing brings this frenzy rampaging to bloody conclusion featuring a slight hint of the synth that Enslaved would ride into nihil nearly a decade later in “The Dead Stare”.

Like the obscurity in which these demos reside, the members of Gutwrench maintained marginal roles in the death metal underground with guitarist Edwin Fölsche being the only member to come up again in as recognizable a band as Pentacle, playing guitars on the 1996 EP 'The Fifth Moon'. In all, Gutwrench seemed to have moved on long before the turn of the millennium and the beginning of this new era where underground sounds are so easily accessed and finally giving this band its deserved due. Dirty, corroded, and very much a product of its time, Gutwrench's short output is as enjoyable as it is a time capsule, filled with gems from decades past and buried in the rough underground but entirely worth being unearthed. (Five_Nails)

Julinko - Ash Ark/Sycamore Tree


#PER CHI AMA: Dark/Drone
È una raccolta di canti rituali e melodie decadenti quella di Julinko, Giulia Parin Zecchin all’anagrafe, il tutto contornato da caleidoscopici arrangiamenti di chitarra in un riverbero perenne e ancestrale. Un progetto coraggioso a livello sonoro, 'Ash Ark' più che un ascolto richiede un totale abbandono ai suoi rituali e ai suoi ambienti sacri dal sapore dimenticato e solenne. Ciò che più si avvicina ad un brano, come siamo abituati a sentirlo è quello, penso ironicamente, nominato "Ghost Track" che vede la partecipazione di Carlo Veneziano alla batteria. Il riff ha delle reminiscenze pink floydiane, più precisamente barrettiane, sia nello stile compositivo che nel suono di chitarra. Saranno stati i lidi veneziani in inverno con la nebbia e l’umidità che entra nelle ossa, ad ispirare questa piacevole volata psichedelica che non perde l’incanto mistico in una delle più belle performance vocali del disco. Mi vengono in mente quegli scenari alla 'Eyes Wide Shut', le stanze inaccessibili e le cerimonie segrete, l’incenso bruciato, le maschere e le tuniche decorate, oggetti dorati ovunque e grandi arazzi alle pareti. Tuttavia c’è anche qualcosa di molto più primitivo della massoneria, basta ascoltare la traccia "Transumanar" per trovare tracce di antichi sacerdoti sciamanici di una qualche tribù amazzonica dimenticata da millenni ma che ognuno di noi, inspiegabilmente, sente familiari. Dopo 'Ash Ark' è uscito il singolo "Sycamore Tree", una ballata acustica in stile Nick Cave, dove la voce di Giulia, di una spettrale bellezza, si fa strada in un ambiente cupo e melanconico. Si parla di morte e di immortalità, di transizione verso l’aldilà; il "Sycamore Tree", l'albero del sicomoro, è presente nei miti egizi ed ebraici utilizzato appunto per facilitare il passaggio dell’anima da questo mondo al prossimo, e la canzone, nel suo funereo evolversi, trasmette una sensazione di sospensione e di profondo struggimento, senza perdere quella caratteristica, sempre presente e pertanto fortemente distintiva, dell’artista. Siamo davanti ad un progetto da non perdere di vista perché credibile, non comune e ben curato in tutti gli aspetti; Julinko è una sacerdotessa oscura dalla voce cristallina, capace di ipnotizzare ed incantare l’ascoltatore nelle sue spire sonore, ove dolcemente vi troverete immersi in un mondo tra il fantastico e l’ignoto e farete molta fatica a trovare la volontà e la forza di tornare indietro. (Matteo Baldi)

Strunkiin - The Joy of Creation

#PER CHI AMA: Post Black Strumentale
Io francamente non me lo ricordavo, ma Bob Ross fu un pittore che divenne famoso per aver creato il programma televisivo "The Joy of Painting" tra il 1983 e il 1994, che insegnava ai telespettatori, a dipingere delle scene naturali con la tecnia dell'olio. Morì all'età di 52 anni a causa di un linfoma. Questa premessa perchè 'The Joy of Creation', secondo album dei finlandesi Strunkiin, vuole essere un tributo proprio a quell'artista che evidentemente influenzò i nostri con quel suo approccio artistico, qui applicato alla musica. E allora non ci resta altro che socchiudere gli occhi e provare ad immaginare quei paesaggi: "Island in the Wilderness" e le sue ariose tastiere mi conducono in assolati paesaggi montani, penso a quelle distese infinite di radure e foreste che caratterizzano le zone più remote della Finlandia in cui è la natura a governare. Meravigliose le melodie black che guidano il brano, il suono degli animali, di voce non v'è traccia, mi sembra quasi di vedere renne e alci scorrazzare per le lande innevate e le aquile scrutare il mondo dall'alto. La colonna sonora di tutto questo è quella contenuta negli otto minuti dell'opener, tra saliscendi di un black atmosferico assai interessante. "Northern Lights" richiama ovviamente l'aurora boreale e quei magici momenti che caratterizzano la visione di quell'unico evento naturale. La musica si muove veloce, come se fosse guidata dallo sfarfallio delle luci del nord nel cielo stellato, tra improvvise accelerazioni ricche di blast beat e momenti più soavi, in cui le tastiere assumono il ruolo cardine nell'economia del brano, talvolta animato da un tumultuoso riffing in grado di intersecarsi con momenti più calmi, guidati da un tremolo picking malinconico. Lo stesso mood nostalgico apre in acustico "Blue Ridge Falls", una song che miscela il black con un sound etereo, ricco di orchestrazioni e attimi di quiete, ove in sottofondo è sempre il verso di uccellini a tener banco. Poi largo spazio a splendide incursioni melodiche, tocchi di pianoforte e meravigliose vallate (come quelle dell'artwork) riempiono i miei occhi. Il suono dell'acqua apre "Crimson Tide", poi chitarre taglienti iniziano a descrivere con i loro accordi, nuove scene di natura estrema. Tutto molto interessante ma c'è un ma. Brani cosi lunghi (la media è vicina ai 10 minuti) trovo che sia delittuoso lasciarli privi di una voce, sembrano depotenziati e meno poetici, un qualche grido qua e la gliel'avrei messo perchè affrontare quasi 50 minuti di black strumentale, per quanto ispirato, non è tra le cose più semplici da fare. Nel frattempo siamo giunti al finale, affidato a "Wilderness Day", gli ultimi 11 minuti e mezzo di suoni orchestrati dalla rabbia del duo finlandese, che omaggia egregiamente la natura estrema del nord. (Francesco Scarci)

giovedì 15 novembre 2018

All My Memories - Umwelt

#PER CHI AMA: Death/Hardcore, Fallujah
I Fallujah stanno facendo scuola. Con la loro tonante proposta di deathcore atmosferico hanno conquistato uno stuolo di seguaci in giro per il mondo, tra cui i qui presenti All My Memories. Si tratta di un ensemble proveniente da Parigi che con 'Umwelt' (un titolo che mi aveva indotto a pensare ad origini teutoniche per la band) tagliano il traguardo del secondo album. Un disco che conta undici tracce belle dirette e immediate e dalle durate non troppo estenuanti. Si parte infatti con i novanta secondi di "Terra Mater" che espongono immediatamente il manifesto programmatico dei cinque francesini, ossia un death/hardcore melodico. Chiaro che un minuto e mezzo sia poco per capire le intenzioni dei nostri ed eccoli lanciarsi immediatamente con la title track, un pezzo possente che mette in luce le buone intenzioni della band transalpina, tra suoni iper bombastici, possenti linee di chitarra che ogni tanto si concedono quelle bombe ritmiche che cosi tanto mi fanno sussultare e apprezzare il genere. E mentre i suoni scivolano piacevolmente tra i roboanti riff e pulsanti tocchi di basso di "Wasteland", a guidare il tutto c'è il bel vocione del frontman Loïc che si dimena tra un growl cavernoso e qualche chorus ruffiano. In men che non si dica, ci ritroviamo già alla quarta traccia, "Thanatos", song più oscura, ma che mantiene l'intelaiatura musicale sin qui goduta. Si prosegue con "Coward", e le atmosfere si fanno più malinconiche nel loro incedere, peccato solo si faccia fatica a goderne appieno, il vocalist per quanto bravo, a mio avviso canta un po' troppo per i miei gusti, avrei dato maggior spazio a quei rallentamenti apocalittici che spaccano in due il brano. Ottimo il comparto tastieristico, e quel piglio electro death all'inizio di "Burn The Heaven" (ma sarà ben più enfatizzato in "Behind The Wall", dove peraltro ci sarà il featuring di Anthony Doniak, dei Here Come The New Challenger), in una song che fondamentalmente si muove sulla falsariga di quanto fatto sin qui e che verrà fatto da qui fino alla fine. Forse in questo immobilismo (ed in un eccessivo numero di pezzi) risiede il punto debole degli All My Memories, anche se deve essere chiaro che 'Umwelt' è un buon album, con tutti i suoi pregi e sbavature. D'altro canto siamo solo al secondo lavoro per la band francese e la strada imboccata è sicuramente quella buona. (Francesco Scarci)

mercoledì 14 novembre 2018

The Rambo - The Past Devours Everything

#PER CHI AMA: Noise/Post-Punk/Rockabilly/Country/Garage Rock
Ascoltarli è una goduria e accostarli ad un solo genere è compito arduo e impossibile. I The Rambo, band di Lodi al terzo lavoro, proseguono la loro folle corsa verso una commistione di musiche allucinate e scapestrate fatte di garage punk, derive noise, post punk, country e rockabilly, ben intuibili anche dall'artwork scherzoso di copertina. Il tutto viene gestito benissimo con un'irruenza nevrotica e un sano tocco di pazzia tanto caro alla Captain Beefheart, con tanto di vocals degenerate, paranoiche e indigeste. I primi tre brani impazziti di questo 'The Past Devours Everything', volano che è un piacere e ci mostrano ballerini country intenti a pogare, lanciando per aria il loro cappello texano, poi si entra con il ritmo rumoroso, ipnotico e malato di "Rope of Sorrow" e qui si sventolano alte le bandiere in onore del psychobilly alla Cramps. Il disco prosegue con la bellissima "The Past Returns" e si continua sulle coordinate schizoidi tra punk e no wave, corrosiva e tagliente, mentre ci si arresta nei ritmi di "Napalm", brano dai connotati blues, tanto vintage alla Stones vecchia maniera che amplifica e mette in risalto le già note capacità compositive della band lombarda. Siamo a metà dell'opera e un titolo assurdo "Wh_T's Th_S S_Ckn_Ss?", ci porta una ventata di festoso quanto strampalato country da saloon che fa da apripista alla sbilenca, e diciamo per certi versi, etnico-balcanica, "The Devil Lurk in the Holy House". Il tutto seguendo sempre i canoni stilistici psicotici e rumorosi del gruppo che afferma ad ogni brano la propria personale visione dei generi toccati volta per volta. Accenno di ottimo post punk a ritmo di ballo liscio per la breve e sfuggente "Deadline Show" e finale esplosivo acido e perverso con la conclusiva "Shining Light". Una carrellata di generi e stili in circa mezz'ora di musica piena di energia e originalità, brani brevi e veloci, vitali e taglienti, un attitudine punk e un piglio compositivo da far invidia, che non sempre emerge nelle band italiane di certa musica trasversale. Non saranno di facile ricezione ma il buon intenditore saprà apprezzarli per bene. Ottimo album. Buona follia a tutti! (Bob Stoner)

(Dischi Bervisti/Wallace Rec/Cloudhead Rec/Villa Inferno/Il Verso del Cinghiale Rec - 2018)
Voto: 70

https://dischibervisti.bandcamp.com/album/the-past-devours-everything

Panchrysia - Dogma

#PER CHI AMA: Black/Doom
La Satanath Records deve avere un buon scouting in giro per il mondo, andando a pescare band in tutti gli angoli della terra. La compagine di oggi, i Panchrysia, arrivano dal Belgio, dalla zona di Anversa per l'esattezza e per quanto a me siano totalmente sconosciuti, 'Dogma' rappresenta già il loro quinto lavoro da quanto sono in giro. Non devono essere troppo prolifici però, dato che si sono formati nel '98 e questo cd arriva a ben sette anni di distanza dal precedente 'Massa Damnata'. La proposta del quartetto si prefigura come un black dalle fosche tinte atmosferiche, con buone accelerazioni post-black. Ciò è quanto si evince almeno dalla brillante opening track, "Each Against All", che offre buone soluzioni melodiche, un bel riffing compatto ed una più che dignitosa performance vocale. Nonostante le premesse, queste vengono deluse da una seconda song più piatta, "Salvation", sempre in bilico tra un black e doom che poco di nuovo hanno da proporre. Ci riproviamo allora con "Gilgamesh", di sicuro più grintosa della precedente ed avvolta da un'aura old school. La song vive in realtà di sussulti tra spinte notevoli e intriganti rallentamenti, in cui il cantante si avvale di spoken words per affascinare l'ascoltatore. Interessante ma da riascoltare. Sembra decisamente più stuzzicante "Kairos" e la sua alternanza perpetua tra soluzioni incazzate e reminiscenze mi portano a 'Dance of December Souls' dei Katatonia, anche se il riffing qui viaggia su binari death black. Il disco si conferma altalenante: se la seguente "War With Heaven" non mi convince appieno, ancora un po' piattina nella sua evoluzione, "Never to See the Light Again" ha modo di regalare un prog black aggressivo evocante per certi versi, gli Enslaved. Lo stesso dicasi di "28 Steps", ma è forse con "Rats", che la band belga trova la quadratura del cerchio con una prova convincente quanto sperimentale, tra suoni anni '30 proposti come intro, spaventose accelerazioni e lunghi momenti atmosferici. C'è ancora molto da lavorare per elevarsi sopra le masse di band che propongono simili sonorità, speriamo solo di non dover aspettare un altro lustro per sentir ancora parlare dei Panchrysia. (Francesco Scarci)

(Satanath Records - 2018)
Voto: 65

https://panchrysia.bandcamp.com/

martedì 13 novembre 2018

Black Space Riders - Amoretum Vol.1 - Vol. 2


#PER CHI AMA: Heavy/Psych/Space/Stoner/Alternative Rock
La Germania ci ha sempre abituati ad una certa avanguardia stilistica a tutto campo: dalla purezza del Bauhaus al kraut-rock, dai robotici Kraftwerk al calzino con sandalo, dai Rammstein ai würstel bianchi. Non stupisce, quindi, che una band come i Black Space Riders provengano proprio dal cuore della Germania. Stupisce anzitutto la loro produzione musicale: ben cinque album in sei anni prima di questo doppio lavoro 'Amoretum', che da solo sfiora i cento minuti di durata (cento!), divisi tra Volume 1 e Volume 2, usciti a soli sei mesi di distanza. I due volumi di 'Amoretum' condividono evidentemente una scrittura uniforme e comune, come in un gigantesco concept album di ventidue tracce diviso in due macro movimenti: il primo, appena più psichedelico; il secondo più disposto ad osare con il lato oscuro, distorto, pesante. E, proprio come nel giardino evocato nel titolo, i brani germogliano impazziti come milioni di diverse varietà vegetali: nascondono o riflettono la luce del sole, hanno spine pungenti o fragili petali, fiori colorati o foglie nerissime, radici infestanti o steli delicati, profumano l’aria o la soffocano. Le coordinate musicali dei Black Space Riders non sono facili da identificare: se da una parte pescano a piene mani da una certa new wave anni ’80 — nelle melodie, sempre piacevoli e orecchiabili — (“Soul Shelter”) dall’altro non disdegnano le distorsioni fumanti tipiche dello stoner rock (“Come and Follow”, “Lovely Lovelie”, “Ch Ch Ch Ch pt. 2”), le atmosfere ipnotiche dello space rock più settantiano (“Movements”), un songwriting che ha molto a che spartire con il prog-rock (“Lovelovelovelovelovelovelovelove Love”, o la lunghissima e conclusiva “The Wait is Never Over”, assoluto capolavoro). Ad un ascolto più attento, emergono persino una certa ambient minimale, voci growl, parentesi dub/reggae (“Fire! Fire!”), chitarre shoegaze, atmosfere orientali (“Ch Ch Ch Ch pt. 1”) — e, in generale, l’impressione di assomigliare contemporaneamente a The Cult, Monster Magnet, U2, Colour Haze, Mogwai, Brant Bjork, Hawkwind e chissà quanti altri. So cosa state pensando: troppi generi, troppa carne al fuoco — il disco non può che risultare sconnesso, disomogeneo. Tutt’altro. Nella selva di emozioni e ispirazioni all’interno dei due capitoli di 'Amoretum' c’è, presente e sottesa per l’intero lavoro, una coerenza innegabile: l’amore immenso e incontenibile per la sperimentazione, la libertà, l’immaginazione senza vincoli se non quello, perfetto, della bellezza. Cos’è il rock, nel suo spirito più puro, se non questo? Poco dovrebbe importarci delle etichette di genere, quando siamo davanti a capolavori di scrittura e invenzione come questo. Da ascoltare, senza alcuna paura di perdersi — anzi, proprio per perdersi. (Stefano Torregrossa)

(BlackSpaceRecords/CargoRecords - 2018)
Voto: 90

https://blackspaceriders.bandcamp.com/

sabato 10 novembre 2018

Unhold - Here is the Blood

#FOR FANS OF: Post Metal/Sludge, Cult of Luna, Neurosis
There is a Swiss quintet, better to name it fivesome considering the mass of this album, presenting a humble masterpiece called 'Here is the Blood, the release issued on 9th November 2018 from Czar Of Crickets Production. Everytime I reach such an artwork my biggest struggle is “to have never seen a live performance of this band is such a pity”. The outcome is a mature and full-bodied wave of magnitude, this heavy bernese band is not a newcomer in the metal scenario, they actually look like being active since at least 25 years, not a surprise when it comes to analyse their tracks’ texture, engineering, mixing and mastering: Unhold is definitely candidated to be one of the best niche European sludge realities. Taking a considerable distance from the initial noise roots spotted in the previous LPs, this last work’s style reminds us to Cult of Luna and Neurosis even if the synth layers and the astonishing voice of Miriam Wolf, co-vocal and pianist, define a unique sound amenable to a personal and unique trademark. 'Here is the Blood' starts with "Attaining the Light", brilliant and convincing invitation to enjoy the whole product, "Convoy" pulls us with a stoney riff into a hidden rage corner, announcing the arrival of a bloody flow. The following tracks Deeper in and Curse of the Dime shepherd the path with remarkable vocal atmospheres. In "Hunter", Miriam takes the lead and orchestrates a melancholic break, a teardrop of hope in a ocean of fury but also a bid, a bid to test our integrity, coherence and our responsibility. "Pale" and "Altar" dive again into waters of anger, the hoarse voices of the guitarists Philipp Thöni and Thomas Tschuor, spread oblivion and agony. The last track, "The Chronic Return" encases all the adjectives compliant to this 50 minutes album: emotional, aesthetic, hopeful, existential, a wall of depth. This alpine ensemble latest production is definitely a must buy! (Pietro Cavalaselle)

(Czar of Crickets Productions - 2018)
Score: 80

https://unhold.bandcamp.com/album/here-is-the-blood

Pavallion - Stratospheria

#PER CHI AMA: Psichedelia/Kraut Rock/Prog, Porcupine Tree
Psichedelia in tinta progressiva per questa giovane band tedesca al suo secondo album intitolato 'Stratospheria' che si riallaccia musicalmente al precedente buon lavoro del 2017. Il quartetto di Krefeld ha continuato il suo percorso sulla scia di un suono floydiano mischiato ad aperture e chiaroscuri alla Riverside e Porcupine Tree, con toni cupi e riflessivi che sfoderano atmosfere care a certe composizioni del miglior post rock dell'ultimo decennio. I Pavallion riescono a dare spessore alle loro composizioni con un'amalgama sonora sempre ben equilibrata, il canto è coinvolgente, leggero e astratto, le chitarre liquide che ricordano i mitici fraseggi malinconici di Robert Smith nei The Cure oppure le parte più melodiche e sognanti degli Isis se ci focalizziamo sul modo di utilizzo della sezione ritmica. Il nuovo album si presenta con l'iniziale "Waves", un brano dalla durata di circa dieci minuti che dona speranza grazie a quel suo incedere cristallino e alla sua diffusa sensazione di fluttuare nell'aria, una song dal taglio molto soft, ambientale e post rock, con aperture ariose e un buon cantato ed una coda finale esplosiva, in una situazione sonora dove i nostri giovani suonatori si muovono in perfetta sintonia. Anche nella lunghissima (24:37 minuti) e conclusiva terza song, "Stratospheria", che dà il titolo all'intero disco, la musica rimarca i canoni compositivi della band. Forse il brano è effettivamente molto lungo, impegnativo, pieno di divagazioni, il cantato è molto bello e intenso, in alcuni momenti la traccia prende le vie epiche e la forza degli ultimi Solstafir e da contraltare pone strutture chitarristiche, seppur rimodernate e rivisitate, col sapore vintage delle cavalcate dei migliori Big Country. Dentro questo brano c'è veramente molta roba. In realtà mi sono riservato di parlare per ultimo del brano centrale, "Monolith", di soli cinque minuti, perchè lo reputo un piccolo capolavoro, il suo passo lentissimo, la sua evoluzione, il senso di staticità, la sospensione provocata da questi accordi è fantastica e l'idea di unire il suono cristallino del prog con l'andamento lento e decadente di certo doom di classe, è stata proprio un'ottima scelta. Questa band ha tanto da dire e lo fa sempre con una buona dose di personalità. Possono vantarsi degnamente di appartenere alla categoria del Neo prog con la N maiuscola, con un disco da ascoltare più volte, che non è per tutti ma è da assaporare lentamente in tranquillità. Raccomandato l'ascolto. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2018)
Voto: 75

https://pavallion.bandcamp.com/album/stratospheria

mercoledì 7 novembre 2018

Nomura e Nulla+ - Impronte / Lacrime

#PER CHI AMA: Sludge/Post Black
Siamo di fronte allo split 'Impronte / Lacrime' di Nomura / Nulla+, un disco di 5 pezzi che si muove tra lo sludge, il black e il post. Le atmosfere cupe sono la linea tematica, l’italiano usato con rabbia e disperazione è il mezzo. Si tratta di un quarto d’ora di inferno, uno sguardo dentro un oscuro abisso di disagio e disperazione. Il brano dei baresi Nomura, "Salice", diviso in due parti, è una sferzata di post black sanguigno ma anche spirituale legato alla natura e alla convinzione che essa sia al di sopra di tutto e di tutti, che assista impassibile allo svolgersi delle più efferate atrocità che l’uomo sia in grado di concepire. Il Salice è un simbolo, un albero piangente che si duole e soffre con l’umanità per la sua destinata e catastrofica fine. I Nulla+, con il loro black metal al vetriolo, si concentrano invece sulla sofferenza umana, nell’incomunicabilità tra le persone, le lacrime come effige di una lotta mai vinta e mai combattuta, che non può che finire in una cocente disfatta. I rampolli arricchiti che sperperano denaro e tempo negli oggetti e nelle attività più inutili, in un mondo in cui la fame non molla mai e le persone che hanno fame, alla fine muoiono per gentile concessione della società cosìddetta civile. Uno split imbevuto di petrolio viscoso e velenoso, una volta toccato, penetra nella pelle e pervade ogni emozione, solo il nero regna sovrano per ricordarci che il male esiste, vive e non se ne andrà mai. (Matteo Baldi)

(The Triad Rec/Italian Extreme Underground/Nothing Left Records/Boned Factory - 2018)
Voto: 75

https://nomuratheband.bandcamp.com/album/impronte-lacrime

Alchem - Viaggio al Centro della Terra

#PER CHI AMA: Progressive Metal
Se non sapessi che la release degli Alchem 'Viaggio al Centro della Terra' fosse uscito nel 2018, avrei senz’altro pensato, dopo l’ascolto, che fosse datato almeno di 15 anni. Questo album mi ha fatto tornare indietro ai tempi in cui da sbarbatello, sotto gentile concessione dei miei gentiori, andavo alle sagre di paese e scoprivo per la prima volta che la musica non era soltanto 'Hit Mania Dance' e 'Hot Party' ma che invece esisteva, al di fuori di queste compilation, un intero mondo di persone che si ritrovava settimanalmente in uno scantinato nell’intento di preparare live performance. L’ultimo lavoro del collettivo romano fondato da Annalisa Belli e Pierpaolo Capuano è un prodotto genuinamente umano e si capisce subito come i musicisti abbraccino il motto “Do it yourself”: la qualità di registrazione infatti, insieme alle scelte di composizione, sembra inequivocabilmente riconducibile ad una band che da più di un quarto di secolo si è isolata nella sua comfort zone e si è dedicata con zelo a trasportare sogni e visioni su un pentagramma. Non ci vuole molto tempo per trovare informazioni sugli Alchem e scoprire che la loro mission non si esula soltanto nei meandri del progressive metal ma abbraccia anche progetti di visual e grafica, insieme ad una considerevole serie di collaborazioni con altri musicisti. 'Viaggio al Centro della Terra' ahimé non spicca per innovazione e scelte stilistiche azzardate, è un super classicone del genere, condito da intraprendenti breaks vocali che strizzano l’occhio a spiritualità e alla magia. Consiglierei questo album a chi, come me quando non avevo ancora la barba, si dovesse svegliare un mattino di novembre e capire che la musica non è soltanto un daw-software ma è nata e sopravvive, ancora oggi, grazie a persone che sentono il desiderio di comunicare pensieri ed intuizioni. La musica non è solo mixtape e remixe, ma è nata e sopravvive anche nel 2018 grazie a persone che periodicamente s'incontrano e si arrovellano il gulliver per trasformare idee in note, esercitarsi ed esibirsi. (Pietro Cavalcaselle)

(The Triad Records/Black Widow Rec/Maculata Anima/Hellbones Records - 2018)
Voto: 55

https://hellbonesrecords.bandcamp.com/album/alchem-viaggio-al-centro-della-terra

Utburd - The Horrors Untold

#PER CHI AMA: Black/Doom
Le one-man-band, ormai una mania. L'ultima in ordine di tempo a comparire sulla mia scrivania è quella del russo Vitaliy Goryunov (alias Tuor) che con i suoi Utburd e questo ''The Horrors Untold', taglia il traguardo del secondo album, dopo l'esordio datato 2016, 'The Attraction to the Infernal Nature'. La proposta del mastermind di Olenegorsk ci conduce nei meandri del black atmosferico, quello un po' malato e corredato da una matrice musicale disarmonica e pertanto ostica da digerire. Tutto ciò è confermato già dall'opener, "Rise of Dagon", una traccia che non scivola via in modo fluido ma anzi, nel suo incedere sludgy, unisce un black mid-tempo a rare aperture melodiche. E quel grigiore sludge che percepivo nell'opener, diviene black doom nella seguente "The Mystery Of Joseph Karven", una song che sembra trasporre in musica quell'orrore menzionato nel titolo dell'album. Il brano cresce in intensità e pathos, grazie ad una forte ambientazione orrorifica (ottime a tal riguardo le keys), arricchita dall'ampio spettro vocale di Vitaliy, capace di spaziare su differenti timbriche sia in scream che in growl. Il disco prosegue su questa scia, attraversando lugubri atmosfere che sembrano emergere da qualche libro del buon H.J. Lovecraft: penso alle campane che suonano a morte in "Death From Mount Tempest" o quelle più festose all'inizio di "Pikman's Triumph", in un'alternanza musicale faticosa da godere, ma di sicuro interesse, che persiste nel muoversi tra oscuri e decadenti paesaggi, paurosi presagi di morte in un lungo ed estenuante viaggio che sfiora l'ora di durata (gli undici minuti della title track li troverete come i più dispendiosi da affrontare), fino alla conclusiva bonus track "He, Who Paint In Red", pezzo strumentale del 2016, mai pubblicato fino ad ora. Interessante proposta ma non proprio imprescindibile. (Francesco Scarci)