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sabato 17 novembre 2018

Strunkiin - The Joy of Creation

#PER CHI AMA: Post Black Strumentale
Io francamente non me lo ricordavo, ma Bob Ross fu un pittore che divenne famoso per aver creato il programma televisivo "The Joy of Painting" tra il 1983 e il 1994, che insegnava ai telespettatori, a dipingere delle scene naturali con la tecnia dell'olio. Morì all'età di 52 anni a causa di un linfoma. Questa premessa perchè 'The Joy of Creation', secondo album dei finlandesi Strunkiin, vuole essere un tributo proprio a quell'artista che evidentemente influenzò i nostri con quel suo approccio artistico, qui applicato alla musica. E allora non ci resta altro che socchiudere gli occhi e provare ad immaginare quei paesaggi: "Island in the Wilderness" e le sue ariose tastiere mi conducono in assolati paesaggi montani, penso a quelle distese infinite di radure e foreste che caratterizzano le zone più remote della Finlandia in cui è la natura a governare. Meravigliose le melodie black che guidano il brano, il suono degli animali, di voce non v'è traccia, mi sembra quasi di vedere renne e alci scorrazzare per le lande innevate e le aquile scrutare il mondo dall'alto. La colonna sonora di tutto questo è quella contenuta negli otto minuti dell'opener, tra saliscendi di un black atmosferico assai interessante. "Northern Lights" richiama ovviamente l'aurora boreale e quei magici momenti che caratterizzano la visione di quell'unico evento naturale. La musica si muove veloce, come se fosse guidata dallo sfarfallio delle luci del nord nel cielo stellato, tra improvvise accelerazioni ricche di blast beat e momenti più soavi, in cui le tastiere assumono il ruolo cardine nell'economia del brano, talvolta animato da un tumultuoso riffing in grado di intersecarsi con momenti più calmi, guidati da un tremolo picking malinconico. Lo stesso mood nostalgico apre in acustico "Blue Ridge Falls", una song che miscela il black con un sound etereo, ricco di orchestrazioni e attimi di quiete, ove in sottofondo è sempre il verso di uccellini a tener banco. Poi largo spazio a splendide incursioni melodiche, tocchi di pianoforte e meravigliose vallate (come quelle dell'artwork) riempiono i miei occhi. Il suono dell'acqua apre "Crimson Tide", poi chitarre taglienti iniziano a descrivere con i loro accordi, nuove scene di natura estrema. Tutto molto interessante ma c'è un ma. Brani cosi lunghi (la media è vicina ai 10 minuti) trovo che sia delittuoso lasciarli privi di una voce, sembrano depotenziati e meno poetici, un qualche grido qua e la gliel'avrei messo perchè affrontare quasi 50 minuti di black strumentale, per quanto ispirato, non è tra le cose più semplici da fare. Nel frattempo siamo giunti al finale, affidato a "Wilderness Day", gli ultimi 11 minuti e mezzo di suoni orchestrati dalla rabbia del duo finlandese, che omaggia egregiamente la natura estrema del nord. (Francesco Scarci)

giovedì 15 novembre 2018

All My Memories - Umwelt

#PER CHI AMA: Death/Hardcore, Fallujah
I Fallujah stanno facendo scuola. Con la loro tonante proposta di deathcore atmosferico hanno conquistato uno stuolo di seguaci in giro per il mondo, tra cui i qui presenti All My Memories. Si tratta di un ensemble proveniente da Parigi che con 'Umwelt' (un titolo che mi aveva indotto a pensare ad origini teutoniche per la band) tagliano il traguardo del secondo album. Un disco che conta undici tracce belle dirette e immediate e dalle durate non troppo estenuanti. Si parte infatti con i novanta secondi di "Terra Mater" che espongono immediatamente il manifesto programmatico dei cinque francesini, ossia un death/hardcore melodico. Chiaro che un minuto e mezzo sia poco per capire le intenzioni dei nostri ed eccoli lanciarsi immediatamente con la title track, un pezzo possente che mette in luce le buone intenzioni della band transalpina, tra suoni iper bombastici, possenti linee di chitarra che ogni tanto si concedono quelle bombe ritmiche che cosi tanto mi fanno sussultare e apprezzare il genere. E mentre i suoni scivolano piacevolmente tra i roboanti riff e pulsanti tocchi di basso di "Wasteland", a guidare il tutto c'è il bel vocione del frontman Loïc che si dimena tra un growl cavernoso e qualche chorus ruffiano. In men che non si dica, ci ritroviamo già alla quarta traccia, "Thanatos", song più oscura, ma che mantiene l'intelaiatura musicale sin qui goduta. Si prosegue con "Coward", e le atmosfere si fanno più malinconiche nel loro incedere, peccato solo si faccia fatica a goderne appieno, il vocalist per quanto bravo, a mio avviso canta un po' troppo per i miei gusti, avrei dato maggior spazio a quei rallentamenti apocalittici che spaccano in due il brano. Ottimo il comparto tastieristico, e quel piglio electro death all'inizio di "Burn The Heaven" (ma sarà ben più enfatizzato in "Behind The Wall", dove peraltro ci sarà il featuring di Anthony Doniak, dei Here Come The New Challenger), in una song che fondamentalmente si muove sulla falsariga di quanto fatto sin qui e che verrà fatto da qui fino alla fine. Forse in questo immobilismo (ed in un eccessivo numero di pezzi) risiede il punto debole degli All My Memories, anche se deve essere chiaro che 'Umwelt' è un buon album, con tutti i suoi pregi e sbavature. D'altro canto siamo solo al secondo lavoro per la band francese e la strada imboccata è sicuramente quella buona. (Francesco Scarci)

mercoledì 14 novembre 2018

The Rambo - The Past Devours Everything

#PER CHI AMA: Noise/Post-Punk/Rockabilly/Country/Garage Rock
Ascoltarli è una goduria e accostarli ad un solo genere è compito arduo e impossibile. I The Rambo, band di Lodi al terzo lavoro, proseguono la loro folle corsa verso una commistione di musiche allucinate e scapestrate fatte di garage punk, derive noise, post punk, country e rockabilly, ben intuibili anche dall'artwork scherzoso di copertina. Il tutto viene gestito benissimo con un'irruenza nevrotica e un sano tocco di pazzia tanto caro alla Captain Beefheart, con tanto di vocals degenerate, paranoiche e indigeste. I primi tre brani impazziti di questo 'The Past Devours Everything', volano che è un piacere e ci mostrano ballerini country intenti a pogare, lanciando per aria il loro cappello texano, poi si entra con il ritmo rumoroso, ipnotico e malato di "Rope of Sorrow" e qui si sventolano alte le bandiere in onore del psychobilly alla Cramps. Il disco prosegue con la bellissima "The Past Returns" e si continua sulle coordinate schizoidi tra punk e no wave, corrosiva e tagliente, mentre ci si arresta nei ritmi di "Napalm", brano dai connotati blues, tanto vintage alla Stones vecchia maniera che amplifica e mette in risalto le già note capacità compositive della band lombarda. Siamo a metà dell'opera e un titolo assurdo "Wh_T's Th_S S_Ckn_Ss?", ci porta una ventata di festoso quanto strampalato country da saloon che fa da apripista alla sbilenca, e diciamo per certi versi, etnico-balcanica, "The Devil Lurk in the Holy House". Il tutto seguendo sempre i canoni stilistici psicotici e rumorosi del gruppo che afferma ad ogni brano la propria personale visione dei generi toccati volta per volta. Accenno di ottimo post punk a ritmo di ballo liscio per la breve e sfuggente "Deadline Show" e finale esplosivo acido e perverso con la conclusiva "Shining Light". Una carrellata di generi e stili in circa mezz'ora di musica piena di energia e originalità, brani brevi e veloci, vitali e taglienti, un attitudine punk e un piglio compositivo da far invidia, che non sempre emerge nelle band italiane di certa musica trasversale. Non saranno di facile ricezione ma il buon intenditore saprà apprezzarli per bene. Ottimo album. Buona follia a tutti! (Bob Stoner)

(Dischi Bervisti/Wallace Rec/Cloudhead Rec/Villa Inferno/Il Verso del Cinghiale Rec - 2018)
Voto: 70

https://dischibervisti.bandcamp.com/album/the-past-devours-everything

Panchrysia - Dogma

#PER CHI AMA: Black/Doom
La Satanath Records deve avere un buon scouting in giro per il mondo, andando a pescare band in tutti gli angoli della terra. La compagine di oggi, i Panchrysia, arrivano dal Belgio, dalla zona di Anversa per l'esattezza e per quanto a me siano totalmente sconosciuti, 'Dogma' rappresenta già il loro quinto lavoro da quanto sono in giro. Non devono essere troppo prolifici però, dato che si sono formati nel '98 e questo cd arriva a ben sette anni di distanza dal precedente 'Massa Damnata'. La proposta del quartetto si prefigura come un black dalle fosche tinte atmosferiche, con buone accelerazioni post-black. Ciò è quanto si evince almeno dalla brillante opening track, "Each Against All", che offre buone soluzioni melodiche, un bel riffing compatto ed una più che dignitosa performance vocale. Nonostante le premesse, queste vengono deluse da una seconda song più piatta, "Salvation", sempre in bilico tra un black e doom che poco di nuovo hanno da proporre. Ci riproviamo allora con "Gilgamesh", di sicuro più grintosa della precedente ed avvolta da un'aura old school. La song vive in realtà di sussulti tra spinte notevoli e intriganti rallentamenti, in cui il cantante si avvale di spoken words per affascinare l'ascoltatore. Interessante ma da riascoltare. Sembra decisamente più stuzzicante "Kairos" e la sua alternanza perpetua tra soluzioni incazzate e reminiscenze mi portano a 'Dance of December Souls' dei Katatonia, anche se il riffing qui viaggia su binari death black. Il disco si conferma altalenante: se la seguente "War With Heaven" non mi convince appieno, ancora un po' piattina nella sua evoluzione, "Never to See the Light Again" ha modo di regalare un prog black aggressivo evocante per certi versi, gli Enslaved. Lo stesso dicasi di "28 Steps", ma è forse con "Rats", che la band belga trova la quadratura del cerchio con una prova convincente quanto sperimentale, tra suoni anni '30 proposti come intro, spaventose accelerazioni e lunghi momenti atmosferici. C'è ancora molto da lavorare per elevarsi sopra le masse di band che propongono simili sonorità, speriamo solo di non dover aspettare un altro lustro per sentir ancora parlare dei Panchrysia. (Francesco Scarci)

(Satanath Records - 2018)
Voto: 65

https://panchrysia.bandcamp.com/

martedì 13 novembre 2018

Black Space Riders - Amoretum Vol.1 - Vol. 2


#PER CHI AMA: Heavy/Psych/Space/Stoner/Alternative Rock
La Germania ci ha sempre abituati ad una certa avanguardia stilistica a tutto campo: dalla purezza del Bauhaus al kraut-rock, dai robotici Kraftwerk al calzino con sandalo, dai Rammstein ai würstel bianchi. Non stupisce, quindi, che una band come i Black Space Riders provengano proprio dal cuore della Germania. Stupisce anzitutto la loro produzione musicale: ben cinque album in sei anni prima di questo doppio lavoro 'Amoretum', che da solo sfiora i cento minuti di durata (cento!), divisi tra Volume 1 e Volume 2, usciti a soli sei mesi di distanza. I due volumi di 'Amoretum' condividono evidentemente una scrittura uniforme e comune, come in un gigantesco concept album di ventidue tracce diviso in due macro movimenti: il primo, appena più psichedelico; il secondo più disposto ad osare con il lato oscuro, distorto, pesante. E, proprio come nel giardino evocato nel titolo, i brani germogliano impazziti come milioni di diverse varietà vegetali: nascondono o riflettono la luce del sole, hanno spine pungenti o fragili petali, fiori colorati o foglie nerissime, radici infestanti o steli delicati, profumano l’aria o la soffocano. Le coordinate musicali dei Black Space Riders non sono facili da identificare: se da una parte pescano a piene mani da una certa new wave anni ’80 — nelle melodie, sempre piacevoli e orecchiabili — (“Soul Shelter”) dall’altro non disdegnano le distorsioni fumanti tipiche dello stoner rock (“Come and Follow”, “Lovely Lovelie”, “Ch Ch Ch Ch pt. 2”), le atmosfere ipnotiche dello space rock più settantiano (“Movements”), un songwriting che ha molto a che spartire con il prog-rock (“Lovelovelovelovelovelovelovelove Love”, o la lunghissima e conclusiva “The Wait is Never Over”, assoluto capolavoro). Ad un ascolto più attento, emergono persino una certa ambient minimale, voci growl, parentesi dub/reggae (“Fire! Fire!”), chitarre shoegaze, atmosfere orientali (“Ch Ch Ch Ch pt. 1”) — e, in generale, l’impressione di assomigliare contemporaneamente a The Cult, Monster Magnet, U2, Colour Haze, Mogwai, Brant Bjork, Hawkwind e chissà quanti altri. So cosa state pensando: troppi generi, troppa carne al fuoco — il disco non può che risultare sconnesso, disomogeneo. Tutt’altro. Nella selva di emozioni e ispirazioni all’interno dei due capitoli di 'Amoretum' c’è, presente e sottesa per l’intero lavoro, una coerenza innegabile: l’amore immenso e incontenibile per la sperimentazione, la libertà, l’immaginazione senza vincoli se non quello, perfetto, della bellezza. Cos’è il rock, nel suo spirito più puro, se non questo? Poco dovrebbe importarci delle etichette di genere, quando siamo davanti a capolavori di scrittura e invenzione come questo. Da ascoltare, senza alcuna paura di perdersi — anzi, proprio per perdersi. (Stefano Torregrossa)

(BlackSpaceRecords/CargoRecords - 2018)
Voto: 90

https://blackspaceriders.bandcamp.com/

sabato 10 novembre 2018

Unhold - Here is the Blood

#FOR FANS OF: Post Metal/Sludge, Cult of Luna, Neurosis
There is a Swiss quintet, better to name it fivesome considering the mass of this album, presenting a humble masterpiece called 'Here is the Blood, the release issued on 9th November 2018 from Czar Of Crickets Production. Everytime I reach such an artwork my biggest struggle is “to have never seen a live performance of this band is such a pity”. The outcome is a mature and full-bodied wave of magnitude, this heavy bernese band is not a newcomer in the metal scenario, they actually look like being active since at least 25 years, not a surprise when it comes to analyse their tracks’ texture, engineering, mixing and mastering: Unhold is definitely candidated to be one of the best niche European sludge realities. Taking a considerable distance from the initial noise roots spotted in the previous LPs, this last work’s style reminds us to Cult of Luna and Neurosis even if the synth layers and the astonishing voice of Miriam Wolf, co-vocal and pianist, define a unique sound amenable to a personal and unique trademark. 'Here is the Blood' starts with "Attaining the Light", brilliant and convincing invitation to enjoy the whole product, "Convoy" pulls us with a stoney riff into a hidden rage corner, announcing the arrival of a bloody flow. The following tracks Deeper in and Curse of the Dime shepherd the path with remarkable vocal atmospheres. In "Hunter", Miriam takes the lead and orchestrates a melancholic break, a teardrop of hope in a ocean of fury but also a bid, a bid to test our integrity, coherence and our responsibility. "Pale" and "Altar" dive again into waters of anger, the hoarse voices of the guitarists Philipp Thöni and Thomas Tschuor, spread oblivion and agony. The last track, "The Chronic Return" encases all the adjectives compliant to this 50 minutes album: emotional, aesthetic, hopeful, existential, a wall of depth. This alpine ensemble latest production is definitely a must buy! (Pietro Cavalaselle)

(Czar of Crickets Productions - 2018)
Score: 80

https://unhold.bandcamp.com/album/here-is-the-blood

Pavallion - Stratospheria

#PER CHI AMA: Psichedelia/Kraut Rock/Prog, Porcupine Tree
Psichedelia in tinta progressiva per questa giovane band tedesca al suo secondo album intitolato 'Stratospheria' che si riallaccia musicalmente al precedente buon lavoro del 2017. Il quartetto di Krefeld ha continuato il suo percorso sulla scia di un suono floydiano mischiato ad aperture e chiaroscuri alla Riverside e Porcupine Tree, con toni cupi e riflessivi che sfoderano atmosfere care a certe composizioni del miglior post rock dell'ultimo decennio. I Pavallion riescono a dare spessore alle loro composizioni con un'amalgama sonora sempre ben equilibrata, il canto è coinvolgente, leggero e astratto, le chitarre liquide che ricordano i mitici fraseggi malinconici di Robert Smith nei The Cure oppure le parte più melodiche e sognanti degli Isis se ci focalizziamo sul modo di utilizzo della sezione ritmica. Il nuovo album si presenta con l'iniziale "Waves", un brano dalla durata di circa dieci minuti che dona speranza grazie a quel suo incedere cristallino e alla sua diffusa sensazione di fluttuare nell'aria, una song dal taglio molto soft, ambientale e post rock, con aperture ariose e un buon cantato ed una coda finale esplosiva, in una situazione sonora dove i nostri giovani suonatori si muovono in perfetta sintonia. Anche nella lunghissima (24:37 minuti) e conclusiva terza song, "Stratospheria", che dà il titolo all'intero disco, la musica rimarca i canoni compositivi della band. Forse il brano è effettivamente molto lungo, impegnativo, pieno di divagazioni, il cantato è molto bello e intenso, in alcuni momenti la traccia prende le vie epiche e la forza degli ultimi Solstafir e da contraltare pone strutture chitarristiche, seppur rimodernate e rivisitate, col sapore vintage delle cavalcate dei migliori Big Country. Dentro questo brano c'è veramente molta roba. In realtà mi sono riservato di parlare per ultimo del brano centrale, "Monolith", di soli cinque minuti, perchè lo reputo un piccolo capolavoro, il suo passo lentissimo, la sua evoluzione, il senso di staticità, la sospensione provocata da questi accordi è fantastica e l'idea di unire il suono cristallino del prog con l'andamento lento e decadente di certo doom di classe, è stata proprio un'ottima scelta. Questa band ha tanto da dire e lo fa sempre con una buona dose di personalità. Possono vantarsi degnamente di appartenere alla categoria del Neo prog con la N maiuscola, con un disco da ascoltare più volte, che non è per tutti ma è da assaporare lentamente in tranquillità. Raccomandato l'ascolto. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2018)
Voto: 75

https://pavallion.bandcamp.com/album/stratospheria

mercoledì 7 novembre 2018

Nomura e Nulla+ - Impronte / Lacrime

#PER CHI AMA: Sludge/Post Black
Siamo di fronte allo split 'Impronte / Lacrime' di Nomura / Nulla+, un disco di 5 pezzi che si muove tra lo sludge, il black e il post. Le atmosfere cupe sono la linea tematica, l’italiano usato con rabbia e disperazione è il mezzo. Si tratta di un quarto d’ora di inferno, uno sguardo dentro un oscuro abisso di disagio e disperazione. Il brano dei baresi Nomura, "Salice", diviso in due parti, è una sferzata di post black sanguigno ma anche spirituale legato alla natura e alla convinzione che essa sia al di sopra di tutto e di tutti, che assista impassibile allo svolgersi delle più efferate atrocità che l’uomo sia in grado di concepire. Il Salice è un simbolo, un albero piangente che si duole e soffre con l’umanità per la sua destinata e catastrofica fine. I Nulla+, con il loro black metal al vetriolo, si concentrano invece sulla sofferenza umana, nell’incomunicabilità tra le persone, le lacrime come effige di una lotta mai vinta e mai combattuta, che non può che finire in una cocente disfatta. I rampolli arricchiti che sperperano denaro e tempo negli oggetti e nelle attività più inutili, in un mondo in cui la fame non molla mai e le persone che hanno fame, alla fine muoiono per gentile concessione della società cosìddetta civile. Uno split imbevuto di petrolio viscoso e velenoso, una volta toccato, penetra nella pelle e pervade ogni emozione, solo il nero regna sovrano per ricordarci che il male esiste, vive e non se ne andrà mai. (Matteo Baldi)

(The Triad Rec/Italian Extreme Underground/Nothing Left Records/Boned Factory - 2018)
Voto: 75

https://nomuratheband.bandcamp.com/album/impronte-lacrime