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domenica 17 gennaio 2016

Pil & Bue - Forget The Past, Let's Worry About The Future

#PER CHI AMA: Indie Rock, The Mars Volta, Deftones
I Pil & Bue (in norvegese significa “arco e frecce”) sono un duo norvegese, formatosi nel 2013 e composto da Aleksander Kostopoulos (batteria e percussioni) e Petter Carlsen (voce, chitarra baritona). Il loro sound è energico e multisfaccettato. 'Forget The Past, Let's Worry About The Future' rappresenta il loro secondo lavoro che uscirà a giorni, dopo l'esordio 'Push Start Button (Level 1)' che vide la luce nel 2014. Il disco apre con “No is the Answer” e una bella rullata di batteria, accompagnata poi da un ruffiano giro di chitarra e un ritmo lanciato, con la voce di Pil che ricorda quella dei Deftones o dei 30 Seconds to Mars. Il brano è energico e piacevole all'ascolto, ideale per dare la carica la mattina appena svegliati. Bue, il batterista, mostra grande capacità tecnica cambiando spesso ritmo. Si prosegue con “Shakkakakka”, traccia caratterizzata da un delizioso riff di basso, che viene raggiunto dalle percussioni: il sound non si discosta da quello del pezzo precedente, aggiungendo forse un po' più di rabbia a livello vocale. Suoni metallici e industriali fuoriescono da “Fire”, dove compare anche una chitarra baritona: il risultato sembra uscito da un disco dei Deftones, corredata da uno screaming sulla tosta matrice ritmica, e con qualche inserto delicato in cui la voce diviene nostalgicamente melodica. Impossibile collocare il duo in un preciso genere, in quanto il sound è ricchissimo di sfumature, il che prova la grande abilità di questi due giovani norvegesi. “Nevermind” si distacca leggermente dalle prime tre song, risultando più soft pur senza mai abbandonare la vena energica che contraddistingue il marchio di fabbrica dei Pil & Bue. “Fear Flee Freeze Fight” dimostra la fluidità con cui questa coppia artistica compone proponendo un sound in continua evoluzione che mantiene l'attenzione a livelli elevati senza mai risultare noiosa o ripetitiva. In questo brano azzardo anche una certa similitudine con i White Stripes, specialmente nelle parti di cantato più acute. Ma si tratta solo di un attimo, i nostri tornano infatti a ricalcare la matrice sonora iniziale. Con “Afterlife” si giunge al termine dell'ascolto, ma non senza tentare nuove sperimentazioni: le percussioni sono quasi unplugged, mentre la chitarra gioca con delay ed echo. Dopo i primi 2:30 le carte in tavola cambiano e la sei corde ci delizia con tutte le sue sfumature. Altrettanto fa la batteria, ove si possono chiaramente sentire piatti e grancassa. Tutta la canzone ha un'aura malinconica, quel pizzico necessario a garantire il sogno ad occhi aperti. Nonostante il duo venga da Oslo e si possa associare quella terra con il freddo, la musica dei nostri si dimostra al contrario calda, coinvolgente e mai banale: la mente è sempre all'erta, mentre le orecchie sono deliziate dalle continue novità. 'Forget The Past, Let's Worry About The Future' merita davvero più di un ascolto, perché dotato di cosi tante sfumature da richiedere una continua esplorazione. (Samantha Pigozzo)

(Indie Recordings - 2016)
Voto: 75

Wows - Aion

#PER CHI AMA: Post Metal/Doom
I WOWS sono un’interessante realtà veronese, una band formatasi nel 2008 che ha subìto una profonda metamorfosi passando dall’alternative rock allo sludge/doom. Tutto questo è avvenuto con calma e razionalità, infatti a cavallo tra il 2012 e il 2013, i nostri hanno registrato a Londra 'War on Wall Street' , un ottimo cd che univa sonorità brit, noise e post punk in modo abbastanza personale. Le sonorità oscure si facevano già spazio tra gli arrangiamenti e le melodie, mentre il vocalist Paolo dava già prova di potenza e tecnica. La band si è lanciata subito in un susseguirsi di live show che li ha portati in giro per l’Italia, aprendo così anche concerti a band nostrane di un certo rilievo. Nel frattempo il pubblico ha cominciato a conoscere la nuova band, grazie anche alla visibilità dei vari video prodotti e pubblicati anche dai portali multimediali, ma intanto i WOWS pensavano ad altro, meditavano una metamorfosi interna, una fusione delle sonorità che ogni singolo elemento del gruppo ascoltava ed amava. Il singolo “Monster Eye”, lanciato nel 2013, infatti sembra un coming out, quattro minuti scarsi che anticipano il lato in ombra dei WOWS, uno stato emotivo irrequieto che non vede l’ora di esplodere e dichiararsi al mondo. Questo accade con 'Aion', il loro nuovo cd, pubblicato da Argonauta Records, dove le otto tracce costruite ed eseguite con precisione e tantissima emotività, sono cariche di lentezza e distorsioni ispirandosi ad ISIS, Amenra, Tool e Cult of Luna. La scena musicale è stata parecchio influenzata da questi mostri sacri e lo si vede dal crescente numero di progetti nati di recente, questo vale anche per i WOWS che non sono rimasti impassibili di fronte alla profondità del post metal. La line up attualmente è formata da sei elementi, appunto Paolo alla voce, Marco e Matteo alle chitarre, Pierluca al basso e l’ultimo acquisto Kevin Follet ai synth e samples. Un piccolo esercito necessario per creare il sound perfettamente calibrato del gruppo, che non lascia niente al caso. Basti pensare alla copertina di 'Aion', un'opera su tela del pittore marchigiano Paolo Girardi che ha realizzato un artwork dai toni tenui, ma apocalittico allo stesso tempo. L’album apre con l’intro “Alexithymia”, un tappeto drone inquietante, pochi beat industrial e un mood ambient che sembra preannunciare l’apocalisse, infatti la traccia si collega direttamente alla successiva "Chakpori", dove la batteria incalza insieme a chitarre e basso per un fraseggio ipnotico, rude che echeggia di delay. Le distorsioni non sono eccessivamente sature come quelle degli Ufomammut o dei Sunn O))), questo permette alla song di avere maggior melodia e più groove. Grandi riff che accelerano per poi rallentare, creando un intreccio ipnotico che attanaglia la mente dell’ascoltatore. Il tutto è perfettamente abbellito dalla grande emotività della voce che trasmette mille sfumature di rabbia, ansia e agitazione interiore che con poca empatia è facile da rivivere sulla propria pelle. Un breve riff di basso permette alla band di lanciarsi verso il finale, un mid-tempo cattivo e possente come non pochi, con tanto di screamo che potrebbe devastare e annientare, tutto questo a pochi minuti dall’inizio dell’album. Poi è la volta di “Nemesi”, probabilmente la mia traccia preferita, sempre oscura, ma con un tono epico a cui difficilmente è difficile sfuggire. Il cantato è inizialmente più disteso, anche i riff di chitarra sono più puliti, ma è solo una preparazione all’esplosione che nei quasi otto di minuti di traccia non tarderanno ad arrivare. Infatti la struttura compositiva si libera dallo schema strofa-ritornello per concentrarsi nel creare tappeti sonori che crescono, si fermano e ripartono improvvisamente. La batteria e il basso hanno un ruolo fondamentale, infatti il largo uso di fusti e tocchi decisi alle corde creano atmosfere che difficilmente si pensavano possibili a questo livello di produzione. Bisogna dire che i WOWS hanno lavorato tantissimo sul suono e grazie all’utilizzo di strumentazioni vintage, il risultato è stato raggiunto perfettamente in “Abraxas” che chiude questo magnifico album e lo fa con lo stile oramai consolidato della band veronese, quindi riff pensati e lenti in puro doom, sfruttando quanto di meglio è stato fatto dagli anni '70, ma rivisto in chiave moderna. Che dire, 'Aion' è un album che lascia piacevolmente colpiti, soprattutto se si va a leggere la storia della band che l’ha prodotto e alla sua evoluzione. Un masterpiece da avere con una copertina che è un’opera d’arte e dal contenuto altrettanto pregiato. Dimenticavo, se volete regalarvi un viaggio sensoriale, non perdetevi uno dei loro concerti, meritano dall’inizio alla fine. Una band giovane che fa dell’umiltà e dell’attitudine un dogma che può solo far bene alla scena musicale. (Michele Montanari)

(Argonauta Records - 2015)
Voto: 80

sabato 16 gennaio 2016

Koko - S/t

#PER CHI AMA: Avantgarde/Elettronica/Jazz
A seguito dell'EP datato 2013, che ripescheremo a breve su queste stesse pagine, la band viennese dei Koko ha rilasciato nell'anno appena trascorso il nuovo full length autoprodotto il cui titolo omonimo ricalca il moniker della band. Esperienza totale in un mondo parallelo fatto di musica elettronica di confine e sperimentale, funk, rock indipendente, acid jazz e un pizzico di (in)sana follia. L'album scivola dolcemente, considerando la sua natura destrutturata, dove ci si scontra con le atmosfere nebbiose e dub di un Tricky d'annata, la fumosità da club malfamato alla guru Jazzmatazz, accenni d'avanguardia alla Zu, gocce di funk contaminato stile Urban Dance Squad, un certo amore per l'hip hop articolato di D'Angelo filtrato dai sogni paralleli degli Autechre, il rock indie alla Deus, lo spettro di Prince esagerato nel brano "Perfect", il tutto condito da un umore malato e grigio che stranamente mi riporta alla mente i Crime and the City Solution. 'Koko' è sicuramente un album difficile da assimilare e capire, contorto all'inverosimile, un lavoro elettronico dalla veste progressiva che si illumina d'immenso nell'ascolto ripetitivo. Presumo sia un lavoro inconcepibile per un pubblico rock, al contempo inaccettabile per gli oltranzisti di musica elettronica, penoso per i fanatici dell' hip hop da classifica, ideale per ricercatori di avanguardie sonore in odore di jazz sperimentale. Il brano "Velvet" è geniale: qui compare niente meno che una chitarra in stile Talking Heads, anno di grazia 1985 epoca 'Remain in Light', unita ad esplosioni free jazz e no wave, contornate da bassi pulsanti e ritmica cool inspiegabile quanto la musica dei Peeping Tom. La cosa che più sorprende è che nell'album aleggi nell'aria una velata atmosfera di colta presa di coscienza sonora, come se la band fosse pronta ad un passo mainstream. In realtà i Koko lo sono, con il piccolo particolare che la loro indole di sperimentatori sonori restringe il raggio d'azione nella sola cerchia di chi veramente ama il lato indie e iconoclasta della musica a 360 gradi. Indifferentemente da ciò che vi aspettate o che assorbirete da questo album, nell'ascoltare questo disco, partite da un solo presupposto che questo box di brani eccezionali è l'esatto contraltare in ambito di musica alternativa al geniale ultimo album di sperimentale metal estremo, 'Blackjazz Society' degli Shining. Concedetemi il paragone... ascolto dovuto per menti esageratamente aperte! Geniali! (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 80

https://kokotheband.bandcamp.com/

Zaibatsu - Zero

#PER CHI AMA: Stoner/Industrial
I Zaibatsu sono un trio romano di cui non si trovano molto informazioni in rete, ma va bene così, mica bisogna essere come la maggioranza delle band che riportano vita, morte e miracoli di loro stessi. Quello che si sa di certo è che la band è stata fondata nel 2011 e alla fine del 2015 hanno lanciato 'Zero', album di debutto prodotto dalla Killerpool Records, piccola etichetta romana che sta iniziando a farsi conoscere per la qualità delle sue band. 'Zero' contiene dieci brani che viaggiano sul filo dello stoner in stile QOTSA, quindi più elegante rispetto ad altre band votate al desert sound. Sicuramente non ricordano i Kyuss, in quanto i Zaibatsu sono più riflessivi, oscuri e con una vena industrial mica male; se dovessi far riferimento ad altre band recensite sul Pozzo dei Dannati, vi direi di andare ad ascoltarci i vicentini Limerick. Lo stile infatti è quello, anche se i romani hanno un taglio abbastanza personale, con l’aggiunta di synth a rinforzare le linee melodiche. L’album è stato registrato in presa diretta per cogliere al meglio l’istinto e l’attitudine della band e difatti il prodotto ne ha giovato. La qualità è più che buona e nonostante manchino sovraincisioni e quant’altro, il risultato si fa apprezzare. “Plastic Machine Head” è il brano che apre le danze e lo fa con un mix di stoner/alternative rock e industrial ben fatto; pensate ad una fusione dei QOTSA, Muse e Marilyn Manson che per l’occasione hanno partorito una cavalcata pulsante dove la batteria trascina i riff di chitarra e basso, mentre la voce è stata distrutta a livello molecolare e ricomposta per sembrare provenire da un’altra dimensione. Il crescendo finale strizza parecchio l’occhiolino alle band appena citate, ma è una sottigliezza che si può perdonare. “Mantra 3P” è sicuramente uno dei brani meglio riusciti del disco. Infatti la sua struttura è camaleontica con passaggi noise e riff di chitarre che ricordano lontanamente quel pazzo di Jack White. Sei minuti complessi, introspettivi ed oscuri che vi scaraventeranno nel mondo dei Zaibatsu. In generale il cantato è ben studiato, sempre un po' sommesso e sussurrato, ma che regala grande enfasi ai brani e permette all’ascoltatore di concentrarsi sulla musica e sugli arrangiamenti. “Technocracy” è un pezzo sbruffone, con una gran cassa al limite della musica techno e un parlato che decanta slogan come messaggi a filo diffusione per plasmare le menti di una società ormai schiava del sistema capitalista. La melodia rallenta e diventa ossessiva, quasi ipnotica e tutto si chiude in poco meno di tre minuti che comunque vi lasceranno in uno stato di malessere mentale, come verosimilmente la band desiderava. Un album di debutto ben fatto, studiato ed eseguito con cura che prende spunto certamente da altri artisti, ma che comunque riesce nell’intento di creare un mix personale che colpisce e non lascia indifferenti. Una band da seguire e che presenta tutti i presupposti per regalare in futuro un secondo album ancora migliore di questo 'Zero'. (Michele Montanari)

(Killerpool Records - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/zaibatsu.band/

shEver - Panta Rhei

#PER CHI AMA: Funeral Doom/Sludge
Devo ammettere che fa un certo effetto incontrare il nuovo cd della band svizzera che ad oggi risulta essere tra le più coerenti e longeve attività artistiche in circolazione. Gli shEver, in attività costante dall'anno della loro costituzione, il 2003, hanno prodotto cinque album tra EP e full length, hanno suonato al Roadburn Festival tra l'altro in egregia compagnia di nomi da culto del genere tra cui, Ahab, Saturnus, ed Esoteric. Un curriculum invidiabile per una band che propone una musica di confine, penetrante e profonda come nella migliore tradizione doom, mai scontata né rivolta alla disperazione fine se stessa, ma sempre protesa verso una ricerca interiore. Il sound è devoto alla causa ma qui sempre per certi versi più frizzante (permettetemi il termine astruso per questo genere!), oscuro e naturale, completato da una magistrale esecuzione della divina cantante Alexandra che lascia una ferita aperta ad ogni suono lancinante emesso dalle sue corde vocali. All'ottima vocalist, espressione e interprete del disagio interiore dei nostri, si contrappone un impianto sonoro di tutto rispetto, contornato dalla consueta cura maniacale e da una certa profondità per i suoni, con risultati maestosi ed inquietanti. Il sound è naturale, tagliente e di splendida qualità, la cadenza è rallentata di dovere e nel brano "La Fin" arriva a rasentare l'ambient più tenebroso e drammatico, con una ciclicità cinematica deliziosa e un'ossatura rock, buia e desertica, anche se l'iniziale "Smile", a dispetto del titolo, mi lascia a bocca aperta e mi manda in estasi depressiva. Gli echi mistici e il retro rock dei Jex Thoth si percepiscono in varie parti del disco e persino un pizzico di OM in "Infinita Mente Triste", devastante brano stritola emozioni. La lunghissima "Path of Death" presente solo su versione cd (l'immancabile versione in vinile non contiene questa traccia) ci mostra la vocalist in una veste più dimessa e sofferente, come soffocata da un monolite, pesante e rumoroso che un passo alla volta viene scalato da uno screaming insuperabile; la musica poi è ossessiva, cupa e asfissiante, e pare costruita per un'oscura sfilata funerea. Un brano stupendo inserito in un contesto altrettanto ottimo, una band da adorare e inserire tra i grandi nomi del genere, un album di pregiato e affascinante doom, per un viaggio drammatico e necessario, per capire quanto importante sia l'esistenza (ed essenza) di questa musica. Da amare alla follia! (Bob Stoner)

giovedì 14 gennaio 2016

Il Mostro - S/t

#PER CHI AMA: Math Rock/Alternative
Anche se 'Il Mostro' è ormai uscito da tre anni, siete sempre in tempo per recuperarlo e dargli un ascolto interessato. Il quartetto di Como risulterà infatti parecchio intrigante per quella frangia di appassionati di sonorità sperimentali (e un po' insane) che vedono mischiate, nella stessa minestra, psichedelia, alternative, blues rock, colonne sonore, country, cinematica, math e molto altro. Vi basta questo come descrizione per spingervi all'ascolto di questo cd datato 2013? Non ancora? Allora vorrei aggiungere che il vocalist, tra l'altro molto bravo, suona anche l'ukulele e mi ricorda vagamente Arnaud Strobl, il vocalist (nella sua veste clean) dei Carnival in Coal. Soddisfatti ora o devo stuzzicare ulteriormente il vostro palato? Va beh, vi sparo lì una delle influenze cardine dei nostri: Mike Patton, senza i suoi Faith No More però, quindi pensate pure ad una delle folli reincarnazioni dell'artista californiano e potrete farvi un'altra idea di questi quattro folgorati. E di un album che include 11 tracce, le prime otto dai titoli ispirati e un po' canzonanti la musica classica (Allegro, Vivace, Andante) e gli ultimi tre in inglese. Trentanove minuti che irrompono col basso minaccioso di Gillo e grida di donna, in una song, "Presto Ostinato", ruvida e minacciosa nel suo presentarsi, "Io Sono il Mostro". Si prosegue sull'onda anomala, con i suoni malsani e ipnotici di "Allegro Brillante", un movimento che si dirige esattamente nella direzione opposta del suo titolo, in un blues che solo nel finale trova modo di esplodere in un math rock impazzito che sprofonda da li a breve nella cupezza di "Andante Arrabbiato", ove si palesa finalmente la voce di Rip e il suono della sua chitarrina infernale, con la musica che ondeggia a cavallo tra i Maniscalco Maldestro e i 6:33. "Prestissimo" nel suo chorus sembra quasi fare il verso "Batman", mentre la ritmica corre via veloce, fatto salvo un geniale break centrale di pattoniana memoria e un roboante finale. "Allegro con Brio" apre con una tamburellata di basso, poi una breve sfuriata e infine la traccia si incanala in suoni oscuri (anche qui notevole la prova vocale di Rip) e malinconici. Con "Vivace" ci lanciamo in un bel pezzo country rock, ove la chitarra di Mamo s'intreccia con l'ukelele del frontman. Si sprofonda addirittura in un orrorifico e teatrale doom in "Largo Solenne", ma l'imprevedibilità dei quattro è comunque sempre dietro l'angolo e la sensazione è quella di ritrovarsi in un film di Q. Tarantino, ed ecco "Allegro Vivace", ascoltare per credere: il suo coro sembra addirittura una versione inglese di "Sciuri Sciuri". Si arriva a "The Phantom of Jeaslousy" ed è ancora il basso di Gillo a dettare legge in un pezzo che sembra quasi richiamare gli anni '70-80 (chi ha detto Police?), con una batteria, a cura di un fantasioso Gionson, a tratti davvero esplosiva. Con "There She Blows! (Ahab's Dream)" si entra in meandri musicali spettrali e spaventosi, lugubri e molesti. "That's Enough" infine si chiede se forse ne abbiamo avuto abbastanza di queste folli breve schegge dei quattro mattacchioni di Como: un blues rock che dimostra l'eclettismo di una band che sembra aver imboccato altre strade sperimentali in nuovi brani, per cui vi rimando alla loro ricerca su youtube. Che altro aggiungere se non obbligarvi moralmente all'ascolto de Il Mostro. Bravi, bravissimi. (Francesco Scarci)

(Self - 2013)
Voto: 80

mercoledì 13 gennaio 2016

Ad Cinerem - Once Mourned...Now Forgotten

#PER CHI AMA: Black/Doom, Saturnus
È un EP di soli tre pezzi quello dei tedeschi Ad Cinerem, duo di Dresda uscito lo scorso anno con questo demo cd intitolato 'Once Mourned...Now Forgotten'. Come lascia presagire il titolo, non possiamo che trovarci di fronte al cospetto di un black doom dalle tinte fosche e malinconiche che si palesano immediatamente nella opening track, l'atmosferica e melliflua "To Revise Downward" e che si traducono in liriche all'insegna di alienazione, perdita, odio e amore. Niente di trascendentale sia chiaro, ma il mid-tempo (tendente allo slow, a dire il vero) della traccia, si rivelerà assai piacevole nel suo incedere sinistro, a tratti romantico e decadente. Caratteristiche del sound forgiato da Val Atra Niteris e Hekjal, che si ritroveranno anche nella successiva "To Come to Rest", song strumentale, addirittura più oscura e lenta della precedente che tuttavia sembra avere una valenza di intermezzo acustico, pur durando oltre i cinque minuti e dove la musica dei nostri trova modo di strizzare l'occhiolino ai Saturnus. Il disco si chiude con "Foliage Burial", nove minuti in cui di luce non v'è la benché minima traccia e l'amore per il doom più plumbeo, si manifesta nelle ritmiche pesanti e nell'aria rarefatta di un pezzo dove echeggia il gorgoglio disperato di Hekjal su delle ispiratissime e melodiche linee di chitarra. Band da tenere monitorata per capire come evolverà il loro sound. (Francesco Scarci)

(GSProductions - 2015)
Voto: 65

Celestial Meisters - S/t

#PER CHI AMA: Post-core/Sludge, The Ocean, Old Man Gloom
La band dei Celestial Meisters, nella sua insolita veste di copertina osannante i poteri dei fumetti e cartoni manga, non si smentisce, usando addirittura la lingua giapponese per il cantato. Costituitisi nel 2012, provenienti da Wuppertal, i nostri presentano un post-core dall'umore molto nero con buone escursioni fuori genere, dai tratti psichedelici e filmici, con innesti di minimale elettronica e campionature, presumo, di provenienza manga, che intensificano l'aspetto debordante dei brani. La lingua giapponese è di sicuro effetto se accostata ad un cantato hardcore con cui si amalgama perfettamente, permettendomi di saltare la difficoltà iniziale assai facilmente ed innamorarmene immediatamente dopo con altrettanta facilità. L'interpretazione drammatica del vocalist poi è una spinta addizionale che fa anche da buon collante con una musica costantemente tenuta in tensione, in un post-core dalle matrici moderne, ipnotiche (ascoltatevi "Graham's Melancholy") e futuristiche, proprio come l'artwork robotico di copertina. I Celestial Meisters suonano con onestà e sapienza, giostrando riff pesanti, potenti e d'impatto, un pugno dritto allo stomaco come potrebbe essere un brano tratto da un album degli Old Man Gloom, con influenze post metal alla The Ocean, e alla fine il quintetto teutonico si fa portavoce di un sentore negativo che viene trasmesso da ogni singola vibrazione sonora. Sarebbe interessante anche intuire le connessioni tra testi e il pianeta manga, ad esempio nell'ottima traccia finale, "Celestial", con quella voce bambina, campionata da qualche film o cartoon, che esce tra urla al limite della disperazione umana, chissà quali le tematiche trattate nel brano. L'EP, uscito nell'autunno del 2015, rappresenta un valido biglietto da visita per il combo germanico: tutti i brani restano in piedi dall'inizio alla fine mostrando forte solidità, in un cd autoprodotto in maniera lodevole, curato e ben suonato. Magari ad una band dalle simili caratteristiche non si apriranno immediatamente le porte dell'Olimpo post-core ma sicuramente un posto d'onore tra le raccolte dei ricercatori di nuove emozioni e particolarità al vetriolo, i ventotto minuti di puro grigio magma energetico di questo EP d'esordio, lo troveranno di certo. Da ascoltare ad alto volume! (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 75

A Flourishing Scourge – As Beauty Fades Away

#PER CHI AMA: Black Progressive
Affrontare questa band di Seattle è compito arduo: nei ventotto minuti totali del cd infatti si può trovare di tutto e questo complica davvero le cose. Per iniziare dobbiamo riconoscere che i quattro brani sono belli e originali, che i musicisti in questione si distinguono per fantasia e sensibilità musicale, qualità e tecnica, che 'As Beauty Fades Away' suonerà alle vostre orecchie come ostico, atipico ma anche divino se solo riuscirete a carpirne il significato sonoro. Io ci ho provato, ci ho messo un po' e alla fine ho scoperto con piacere che questi A Flourishing Scourge sono una scommessa sul futuro del metal estremo. Quello che si cela tra le quattro lunghe tracce dell'album è un'attitudine progressiva evoluta (stile Hammers of Misfortune), caparbietà da doom metal band, atmosfere di chiara matrice Agalloch, un'anima death metal alla Anterior, voce nervosa e gutturale alla maniera dei Neurosis e la volontà di stupire tecnicamente tanto cara agli Opeth. Sia chiara una cosa però: gli A Flourishing Scourge non imitano nessuno, non ricalcano le impronte dei maestri, anzi, ne fanno ottimo insegnamento creando nuove strade e nuove aperture mentali. Quindi, le parti più dure opteranno per non essere esasperate ma solamente potenti, saranno più scarne, compresse e leggibili, tirate, contorte ma sempre decifrabili, sulla scia dei mitici Disharmonic Orchestra, tutta tecnica da gustare con quella verve retro rock che in alcune band sludge/doom fa davvero la differenza. Ecco degli assoli pirotecnici, le cavalcate e la doppia cassa che vola, il black metal d'atmosfera ma niente suoni glaciali, banditi in toto. Le sonorità si muovono calde, intense, nessuno spazio al freddo dominante, vietato guardare ai ghiacciai del nord. Il suono si scalda come lava colata, il ghiaccio si scioglie in un'iperbole grigia per aumentare quel senso di malinconia autunnale, momenti di vita che bruciano, quel senso di reale caduta, evanescente e inspiegabile che pervade l'intero disco e che raggiunge apici altissimi nei vari pezzi acustici sparsi qua e là nel disco (con "In Continuum" ad essere il mio brano preferito) . Proprio qui, in queste parti delicate e riflessive, i nostri quattro strumentisti americani trovano la loro ideale collocazione con partiture sofisticate e variegate, nate tra i ricordi delle sculture sonore di 'Damnation' degli Opeth, il capolavoro 'Grace' di Jeff Buckley e 'The White' degli Agalloch. L'artwork estratto da 'Il Trionfo della Morte' di Bruegel completa l'opera in bellezza per questo gioiellino underground autoprodotto in maniera lodevole. Album difficile da catalogare, intenso come i lavori dei mitici Agalloch. Una band seria e motivata, con tutte le carte in regola per approdare ad un full length memorabile. Consigliato. (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 75