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domenica 8 aprile 2012

Alchemist - Tripsis

#PER CHI AMA: Death Progressive, Avantgarde, Musica da Marte
Io sono nato e cresciuto con gli australiani Alchemist e ogni loro uscita rappresenta per me un evento da celebrare. Anche il loro sesto lavoro, intitolato semplicemente “Tripsis”, è riuscito a conquistarmi, con il suo inconfondibile marchio di fabbrica “made in Australia”. Nove pazze tracce che non fanno altro che confermare la brillantezza compositiva degli aussie boys. Come sempre, per spiegare una release del quintetto di Camberra, bisognerebbe farsi una vacanza su Marte e poi, dopo aver aperto la propria mente, inserire il cd nello stereo e via con la musica. Si attacca con il prepotente basso distorto di “Wrapped in Guilt” e le sue melodie malate mid tempos, che ricordano le song di “Spiritech”; il vocione di Adam Agius è sempre lo stesso, un mix di growl-screaming da orco; la ritmica si è fatta più violenta che in passato, ma gli effetti e i samples space rock, non mancano mai. Con la successiva “Tongues and Knives” si inizia a scuotere la testa che è un piacere: melodie schizoidi su un tappeto ritmico ferocie, una sorta di spirale impazzita accompagnata da una danza tribale. La terza, “Nothing in no Time”, è più riflessiva delle altre: in essa confluiscono le influenze psichedeliche del combo australiano, con la furia elettrica delle chitarre capaci di passare dal death più selvaggio alla costruzione di fraseggi groove assai rockeggianti, che ricordano il geniale debut “Jar of Kingdom”. Altri pezzi memorabili sono “Grasp at Air” dove un simpatico coro si stampa nella testa e non si leva più e l’oscura/mistica “God Shaped Hole”. Ancora una volta, un album di questi pazzi scatenati, si rivela un contenitore ben amalgamato di stili: è il perfetto connubio tra brutal death e rock, passando attraverso contaminazioni gothic, industrial, senza tralasciare i suoni lisergici di stampo seventies, elettronica e tanto tanto altro. Atmosferici, sperimentali e dannatamente violenti, questi sono gli Alchemist; se siete degli amanti di suoni progressive/avantgarde e se siete alla ricerca di linfa vitale, beh “Tripsis” farà al caso vostro. Per chi invece non li conoscesse ancora, beh mi raccomando, avvicinatevi con cautela!!! (Francesco Scarci)

(Relapse Records)
Voto: 80

Heaven If - Introspectral

#PER CHI AMA: Power Metal e Progressive, Dragonforce
Altra band italiana, stavolta proveniente dalla vicina Milano: formatisi nel 2004, la loro musica può ricordare un'altra band del nostro paese, i Labyrinth, oltre ad accostarsi ai Dragonforce. Vediamo di approfondire meglio il loro primo lavoro, uscito nel 2008. “Liquid Circle” ha un suono piacevole, ma la voce tendente all'acuto, mantiene costantemente quell'aria di falsetto e dopo un po', annoia: i riff di chitarra e batteria si rivelano assai ripetitivi, anche se i “solo guitar” riescono a dare un po' di brio a tutto il brano. “Points of View” presenta un ritmo più veloce, con la chitarra che sembra animarsi, accompagnando bene la voce che spesso cambia tonalità, passando dall'acuto al grave. “Cassilda's Song” è invece meno veloce e più melodica, con la chitarra che funge da primadonna assieme al drumming, mentre la voce stavolta viene relegata in secondo piano anche se è tirata fino al massimo dell'acuto (ricordiamo che il cantante è un uomo, dunque è difficile poter sostenere note acute per molto tempo): soltanto verso la metà del brano, si ha una piccola inversione di tendenza sul ritmo, diventando più veloce e vivace. Il tutto si conclude con un assolo di chitarra molto interessante. “Passage” riprende il ritmo di “Points of View”, diventando quasi la sua copia, fatta eccezione per il falsetto molto più presente e per l'uso abbondante della chitarra distorta. “Behind the Lies” si apre con un sound più progressive, un ritmo più lento e l'immancabile voce che gioca ancora con i bassi e il falsetto. Questo, a mio avviso, è il brano più bello di tutto l'album proprio per la ricercatezza negli accordi e nel ritmo. “The Neverending Journey” ricalca le atmosfere ascoltate precedentemente, tenendo però in considerazione il filone ritmico di tutto l'album, e arrivando persino a ripetere gli assoli di chitarra e batteria. “Insomnia”, nella prima metà, è puramente strumentale: soltanto poi riprende gli stessi riff di chitarra e lo stesso ritmo dei precedenti brani. “Instru-Mental” è totalmente strumentale (come chiaramente descritto dal titolo), con un ritmo che ricalca le onde: dapprima è veloce, poi risulta più lento, per poi riprendere il motivo “allegro andante”, risultando una vera sorpresa per le orecchie. Con “The Reawakening” si arriva così alla fine di questo album: l'inizio acustico, ma poi, più avanti si procede col brano, noterete che di nuovo non presenterà nulla: né gli assoli, né il tono di voce, tanto meno il ritmo. Per quanto questa band abbia un potenziale nascosto, il fatto di voler rimanere sul power metal dopo un po' stanca: l'ascolto risulta pesante anche per un'appassionata di power-melodic come la sottoscritta, in quanto l'assenza delle tastiere si sente veramente tanto. In attesa di un nuovo loro lavoro, possibilmente più ricco di sperimentazioni musicali (e, perché no, magari di diversi stili in un unico album), ripongo questo primo album sullo scaffale, sperando presto di poterlo mettere a confronto con il secondo. (Samantha Pigozzo)

(New Music Distribution)
Voto: 50
 

The Foetal Mind - The Grand Contraction

#PER CHI AMA: Black, Post Rock, Shoegaze
Un peccato! Eh già, davvero un peccato che questo lavoro sia quasi completamente strumentale (solo “Big Crunch” è infatti cantata o meglio urlata), perché altrimenti a “The Grand Contraction” avrei riservato sorte migliore, in termini di voto ovviamente. “The Grand Contraction” rappresenta il secondo “figlio” per il duo francese, che dopo l’esordio del 2009, “Suprême Cheminement”, pensa bene (a questo punto oserei dire, male) di rilasciare questo lavoro: a parte la solita inutile intro, l’album attacca appunto con “Big Crunch”, song che mette subito in mostra la marcata vena malinconica del duo, guidato da Lord Trowe e Lord Vaahl. La produzione targata The Foetal Mind è in linea con quelle dell’attenta etichetta canadese Hypnotic Dirge Records, ponendo l’emozionalità ed il pathos, al centro della proposta del combo transalpino. E cosi, ecco i nostri sciorinare, con una certa freschezza, le fluide song che si dipanano con un sound all’insegna dell’inquietudine nell’arco dell’ascolto, attraverso musiche contraddistinde da melodie soft e al contempo toni grevi, che rischiano talvolta di sfociare nel doom o addirittura nel drone. Non solo, perché l’essenza strumentale delle composizioni, porta più di una volta ad associare il sound dei nostri, ad un certo post rock, seppur il riffing di chitarra abbia comunque le classiche venature del black metal atmosferico, come avviene ad esempio nella meravigliosa “Silence”, dove la chitarra offre affreschi aranciati tipici del periodo autunnale o nella più corrosiva “Espirit Nosible”. La componente depressive si sente decisamente forte anche in altre song, dove intermezzi acustici trovano ampio spazio (la title track ad esempio o la cupa “Instrumental”) e questo non fa altro che aumentare il mio rammarico nei confronti di un lavoro che se avesse goduto anche della performance di un bravo vocalist, e di qualche atmosfera in più di tipo shoegaze, avrebbe sicuramente dato il filo da torcere agli Alcest o ai Les Discrets, e certamente avrebbe meritato molto di più la mia attenzione. Da rivedere anche la produzione del disco, che presenta le tracce con volumi di registrazione impostati su differenti livelli. Un peccato si, un vero peccato perché i The Foetal Mind hanno decisamente la caratura tecnica e stilistica per fare sfracelli. Il mio consiglio è quindi di guardarsi attorno e cercare un vocalist con le palle! (Francesco Scarci)

Monumentum - Ad Nauseam

#PER CHI AMA: Dark Electro-Gothic
Ad introdurmi all'ascolto dell’album dei Monumentum è la meravigliosa tela di Alessandro Bavari riprodotta in copertina, dal titolo “Aula della Coprofilia”, la cornice più indovinata e calzante per la musica di “Ad Nauseam”, che sembra attingere dal grigio tocco dell'artista romano lo stesso senso di oppressione che il quadro è in grado di infondere. Dal primo album “In Absenthia Christi”, che uscì nel 1995 per Misanthropy Records, sono passati ben sette anni, un lungo silenzio che faceva temere lo scioglimento ma che ha invece contribuito a donare nuova linfa al gruppo, restituendoci una delle band più valide e singolari che l'Italia possa vantare. Il filo conduttore che lega questo nuovo lavoro al precedente è apparentemente molto sottile ed è evidente come le influenze dark-wave di “In Absentia Christi” oggi si rivelino impreziosite da un maggior dinamismo. Tuttavia, già dopo alcuni ascolti attenti, si avverte la medesima atmosfera drammatica e decadente del debutto e non si ha dubbio sul fatto che ci si trovi davanti ad un altro bellissimo album. “Ad Nauseam” è un lavoro che va assimilato lentamente per carpirne la bellezza e questo non significa necessariamente che si tratti di un disco difficile: la grandezza dei Monumentum sta, infatti, nell'assemblare una complessa ed elegante struttura di sovraincisioni senza che l'insieme perda mai in immediatezza, ma svelando certe trame nascoste solamente all'ascoltatore più paziente. Inutile tentare il paragone con altre band, perché la classe del gruppo milanese è unica; e se da una parte il loro suono riesce ad evadere dai cliché tipici di un genere come l'electro-gothic (a cui il gruppo potrebbe essere erroneamente associato), dall'altra va detto che risulterebbe azzardato anche un accostamento all'elettronica pop di gruppi appartenenti al mainstream, con i quali la band ha un'affinità solamente "estetica" riscontrabile in alcuni arrangiamenti. Brani come “Last Call for Life”, “A Tainted Retrospective”, “Perché il mio Amore” (cover di Fausto Rossi) e “Under Monochrome Rainbow” sono semplicemente bellissimi e vengono resi ancor più perfetti da un ispiratissimo Andrea Stefanelli, che grazie alla sua interpretazione vocale ci trascina in un vortice di affanno, negatività e abbandono, per poi liberarci e lasciarci esausti. Notevole anche la prova della cantante Francesca Bos, che per un istante riesce a tingere di un colore più vivido il dark-rock di “Distance” e “I Stand Nowhere”. Altre canzoni come “Angor Vacui” e “Numana” fanno invece della ricerca sonora il loro punto focale e si sviluppano senza l'ausilio del cantato, tra perversioni digitali e soffocanti incubi sonori. Senza esagerazioni, ritengo che “Ad Nauseam” sia uno degli album più belli che la scena alternativa abbia proposto negli ultimi anni... un grande ritorno, senza dubbio. (Roberto Alba)

(Tatra Records)
Voto: 90

http://www.myspace.com/monumentum

Mandrake - Calm the Seas

#PER CHI AMA: Death/Gothic, Theatre of Tragedy, Tristania
Sembra che i Mandrake abbiano sbagliato un po' i tempi. Il debutto discografico di questa giovane band ripropone infatti, in una collezione di undici brani, una sintesi di tutti quegli elementi del gothic metal già ampiamente sfruttati nell'intero corso degli anni '90, prima con i Paradise Lost e in seconda battuta con formazioni come Theatre of Tragedy e Crematory. Ed è proprio a questi ultimi che il gruppo tedesco sembra rifarsi, unendo in un solo platter tutti gli stilemi più scontati del metal romantico, a partire dall'alternanza tra una celestiale voce femminile e quella roca maschile, fino all'utilizzo massiccio di tastiere dal suono soffice e cristallino. Non che l'effetto complessivo risulti sgradevole, sia chiaro, ma dall'ascolto di “Calm the Seas” stento veramente a trovare dei punti di reale pregio che possano invogliare ad avvicinarsi alla musica dei Mandrake. Benché i musicisti si dimostrino padroni dei propri mezzi e siano supportati da una produzione che farebbe invidia a tante band emergenti, penso che anche il più imberbe e sprovveduto tra i fruitori di gothic-doom si accorgerebbe di quanto il disco suoni datato e non basti qualche partitura elettronica facile facile a rendere il tutto più attuale. In “Calm the Seas” non è la qualità delle composizioni a mancare e tra i brani più dinamici come “Shine” e “Essential Trifles” si intravedono incoraggianti spiragli verso un'evoluzione più personale ed ispirata, tuttavia, il pesante limite del "già sentito" aleggia sempre in maniera troppo insistente durante tutto l'ascolto, facendo provare giusto un po' di nostalgia per un suono che andava per la maggiore qualche anno fa, ma non riuscendo certo a sollevare l'album da un giudizio che supera di poco la sufficienza. Trascurabile. (Roberto Alba)

(Greyfall)
Voto: 55

venerdì 6 aprile 2012

Dead Summer Society - Visions from a Thousand Lives

#PER CHI AMA: Death Doom Gothic, My Dying Bride
Il Belpaese mi sorprende ogni giorno di più, regalandomi costantemente belle sorprese, almeno in campo musicale. E cosi quel che oggi mi appresto a recensire, è il debut cd della one man band molisana dei Dead Summer Society, band capitanata da Mist, chitarrista degli How Like a Winter. “Visions from a Thousand Lives”, che segue ad un paio di anni di distanza, il demo cd “Heart of the Autumnsphere”, è un bell’esempio di black gotico, che ha subito rievocato in me un altro debutto eccellente, “Thieves of Kisses” dei Drastic; era il 1998 e le atmosfere decadenti andavano alla grande, grazie soprattutto ad act quali Katatonia (forte l’alone della band scandinava a permeare anche il lavoro di Mist) e il death doom di My Dying Bride e Paradise Lost. E il buon Mist, non immune al fascino dei grandi act di ieri e di oggi, aiutato da Trismegisto (altra conoscenza del Pozzo, con i suoi Cult of Vampyrism) alle vocals, propone un sound che paga si un minimo dazio alle band succitate (ma quale band ormai non si ispira ai mostri sacri?), rilascia dodici interessanti pezzi di suoni evocativi, ispirati ed esoterici. La malinconia del pianoforte e delle tastiere è l’emozione dominante in “I Met You in Heaven and Hell”; i suoni a la Katatonia emergono forti in “Shadow I Bear”, dove le oscure vocals di Trismegisto, si alternano tra il growling e il pulito sussurrato e dove trovano posto anche le female vocals di Claudia M. Luisa Murella (la cui timbrica mi ha riportato alla mente la vocalist degli embrionali Ensoph). L’inizio di “The King’s Alone” è un bell’esempio di metal atmosferico, dove sono le linee di chitarra a non convincermi appieno, un po’ troppo elementari e con un sound non troppo incisivo; l’onirico break centrale contribuisce ad assicurare una bella dose di turbamento all’ascoltatore e creare un destabilizzante clima di suspense; bravi in questo, anche se questo li avvicina ai siciliani Lord Agheros. Un pianoforte apre “Down on You”, altra song dal forte flavour deprimente, che vede la comparsa dietro al microfono di un’altra (ahimè terribile) gentil donzella, Federica Fazio; non me ne voglia, ma la prova alla voce non è certo di quelle memorabili, di sicuro non in senso positivo. Decido pertanto di skippare in avanti, nonostante il bell’intermezzo acustico posto a metà brano. La nera “Her White Body, from the Coldest Winter” mette in evidenza le influenze più legate al sound estremo dei My Dying Bride, ma al contempo anche l’uso un po’ fastidioso (e qui molto udibile; prima non me ne ero accorto) della drum machine, a rendere il sound un po’ troppo artificioso. Me lo faccio scivolare addosso e mi lascio avvinghiare dall’eterea atmosfera creata nella parte centrale dalla performance della brava Claudia. Un paio di inframmezzi ambientali e riecco un’altra manciata di song, “Within Your Scars”, “Unreal” e “I Fade”, dove ad affiancare il bravo Trismegisto ritorna la poco convincente voce di Federica, mentre i brani si fanno notare per un’anima estremamente volubile, che miscela sapientemente (e con giuste dosi) malinconia, rabbia e dolcezza. Chiude la cibernetica bonus track, “Army of Winter (March of the Thousand Voices)” che racchiude in sé deliziosi spunti per il futuro; auspico solo che vengano limate quelle imperfezioni che avrebbero potuto fare di “Visions from a Thousand Lives” un maestoso debutto. Stimolanti! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70
 

Darkmoon - Wounds

#PER CHI AMA: Death/Black Melodico
L’attacco arrembante di “The Sword”, segna l’inizio di “Wounds”, terzo Lp di questa longeva band svizzera, la cui forma embrionale risale addirittura al 1995; potrete ben capire pertanto, che non si tratta degli ultimi arrivati che si sono accodati al carrozzone metal. E la proposta del quintetto di Basilea dimostra che i nostri non sono certo degli sprovveduti: death metal melodico (talvolta sospinto verso lidi black) dalle chiare influenze scandinave. Coinvolgenti. Incisivi. Prepotenti. Tre aggettivi che decretano la natura dei Darkmoon, che con il loro sound dirompente, hanno saputo conquistarmi e indurmi a contattarli. Gli ammiccanti chorus in stile metalcore americano, le orecchiabili melodie e il denso contenuto di groove, mischiato alle vorticose schitarrate, hanno avuto presa immediatamente sui miei timpani. E cosi, eccomi investito dalla travolgente e massiccia dose di death metal made in Switzerland. Che gli svizzeri non fossero solo orologi e cioccolato, lo avevamo già intuito con Samael o Celtic Frost, con Eluveitie e Darkmoon ne abbiamo un’ulteriore conferma. Nove agguerrite song in grado di coniugare robuste linee di chitarra con eccellenti trovate: “Conquistadors” si fa ricordare ad esempio per un inquietante break dalle tinte mediorientali; “Black Shell” per la sua cupa parte centrale, “Rise Up” e “Seki State” per i loro attacchi “in your face”, secchi, diretti, dritti al volto come il più classico uno - due pugilistico o il dritto e rovescio dei tennisti. L’idea del combo di Hölstein è davvero vincente, pur non proponendo nulla di nuovo; ma si sa che di Cassius Clay o di Björn Borg, non ce ne sono stati poi molti nella storia, ma che tuttavia ci sono stati altri validi protagonisti che si sono fatti notare per la loro bravura. Ebbene, i Darkmoon potrebbero essere tra questi, non dei precursori del genere, ma dei buoni esecutori, che hanno saputo prendere spunto dagli originali, per imbastire la propria proposta, che fa del death metal melodico, e anche un po’ (black) epico (splendida “Dead Cold World” a tal proposito), ricco di elementi atmosferici, suonato da musicisti dotati di ottima tecnica, il proprio punto di forza. Speriamo di non dover attendere ora, altri quattro anni per saggiare lo stato di forma dei nostri, che per il momento si conferma assai buono. Cavalchiamo l’onda ragazzi! (Francesco Scarci)

(STF Records)
Voto: 80

martedì 3 aprile 2012

Foret d'Orient - Essedvm

#PER CHI AMA: Black Symph., Nihili Locus, Crown of Autumn
Che facile scrivere una recensione quando la musica, cosi suggestiva, mi guida la mano nel mio digitare incessante sulla tastiera e lo schermo si riempie, con mia somma soddisfazione, di parole. Merito decisamente va alla proposta dei veneziani Foret d’Orient (la traduzione francese di “Foresta d’Oriente”), che sciorinano sei pregevoli pezzi di un potentissimo quanto mai ispirato black atmosferico, che per certi versi mi ha ricondotto ad una quindicina di anni fa, quando ascoltai per la prima volta il magico Ep di debutto dei Nihili Locus, “...Ad Nihilum Recidunt Omnia” o il mitico “The Treasures Arcane” dei Crown of Autumn. La presa che i cinque ragazzi di Venezia hanno avuto sul sottoscritto è stata la medesima che le due band succitate ebbero all’epoca, il tutto fin dalla prima epica traccia, una sorta di intro dal forte sapore medievale, “Campo di Marte”, che ha il merito di introdurci nella corte dei Foret d’Orient. Poi il black dei nostri, ottimamente arrangiato (ma che pecca a mio avviso, ancora in fase di pulizia del suono), fa il suo esordio miracoloso con “Sagitta”, una song violenta che tuttavia ha il grande pregio di spezzare la sua irruenza, con gentili e raffinati tocchi di tastiera e arpa; si avete letto bene, l’eleganza di questo strumento antichissimo, suonato dalla dama Sonia Dainese, conferisce all’intero lavoro, una carica emotiva pazzesca. Meraviglioso il finale della seconda traccia, affidata appunto ai suoni di questo incantato strumento. È con la terza song che l’ensemble italico tocca l’apice compositivo: “Mantva 1328”, il cui anno richiama la data d'inizio del dominio dei Gonzaga sul Mantovano, è una canzone che ci mostra quanto la band sia già profondamente matura, sia in termini compositivi che di songwriting; potenza, dolcezza, misticismo e black metal si fondono alla perfezione nei due movimenti che compongono il brano. Merito anche del cantato in italiano (avanti cosi per favore! Inoltre un plauso al bravo Roberto Catto per il suo cavernoso growling) che dona una maggiore enfasi al risultato finale. Come se ce ne fosse ancora bisogno, il successivo intermezzo è nuovamente affidato alle corde suadenti di Sonia, che ci riconducono ancora per un momento nell’antro più oscuro del nostro tempo, il medioevo. I due pezzi conclusivi, “Diadema” e “Prudentia et Armi”, ci attaccano con tutta la loro veemenza, proponendo l’abbinata black atmosferico/suoni acustici/spruzzate folk, il tutto condito da ottime melodie. Bella, quanto mai inattesa, la proposta dei Foret d’Orient; spero proseguano su questa strada, cercando di smussare quegli angoli del proprio sound, ossia quegli sprazzi in cui una violenza un po’ fine a se stessa (con tanto di iper blast beat) prevarica su tutto il resto. Niente di grave però. “Essedvm” si presenta in modo assoluto come un ottimo biglietto da visita per l’act veneto, che da oggi in poi dovrà essere tenuto sotto controllo da parte nostra… (Francesco Scarci)

(Archaic North Entertainment)
Voto: 80