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venerdì 13 marzo 2020

Sertraline - These Mills are Oceans

#PER CHI AMA: Blackgaze, Agalloch
Sertraline atto terzo, quanti gli EP (solo in digitale ahimè) fatti uscire negli ultimi tre anni dalla band di Buffalo, che prende il nome del generico dell'antidepressivo Zoloft. Ora avrei un desiderio, ossia che l'etichetta canadese Hypnotic Dirge Records che supporta la band, mettesse tutti e tre gli EP su supporto fisico, grazie. Ma veniamo a 'These Mills are Oceans', lo splendido lavoro di oggi. Tre pezzi per venti minuti di musica che combinano post metal, post black atmosferico e depressive con grande maestria ed efficacia per un risultato che ho trovato semplicemente intenso ed emotivamente destabilizzante. Perchè queste mie parole? Ascoltate la malinconicissima "Eyes as Tableau", un pezzo che viaggia su una ritmica post metal che vive di qualche sporadica accelerazione black, ma soprattutto di melodie struggenti su cui poggia il cantato in screaming del frontman Tom Muehlbauer. La seconda "Their Cities" potrebbe essere un mix tra Agalloch, Shining e Cult of Luna, il tutto ovviamente suonato in tremolo picking con una portanza emotiva davvero da applausi, tra rallentamenti in acustico e malefiche sfuriate post black, con la melodia sempre collocata in primo piano. A chiudere il dischetto ecco "Prague": lunga intro ambient con tanto di voci malvagie in sottofondo che cedono il passo ad un estatico intermezzo acustico e clean vocals per passare poi ad una tiepida atmosfera blackgaze con le chitarre che ammiccano qui agli *Shels. L'intensità va salendo e il riffing riprende quota acuendo la propria cattiveria a pari passo con lo screaming arcigno del vocalist, per un risultato finale veramente notevole. A parte desiderare i tre EP in cd, gradirei ora anche uno sforzo da parte della band, ossia un full length. Grazie mille per prendere in considerazione i miei desideri. (Francesco Scarci)

domenica 3 febbraio 2019

Altars of Grief - Iris

#PER CHI AMA: Black/Doom
La Hypnotic Dirge Records sta facendo un buon lavoro, fondamentalmente votato a scovare band interessanti in territori black doom senza sbracarsi troppo in innumerevoli uscite annuali. Lo scorso anno tra le release più interessanti dell'etichetta canadese, c'è sicuramente da annoverare quella degli Altars of Grief, quintetto originario di Regina, nel Saskatchewan. Il genere in cui è possibile collocare i canadesi è quello di un death doom emozionale che arriva a sconfinare talvolta nel black. Otto tracce per confermare quanto di buono i nostri avevano lasciato intravedere nel precedente 'This Shameful Burden', ormai datato 2014, anzi fare decisamente meglio. La mid-tempo "Isolation" apre il disco con una certa eleganza, proponendo appunto un death doom atmosferico, corredato da cleaning e growling vocals, che talvolta sfociano in grida dal forte sapore black, pur la traccia muovendosi in territori ritmati e assai melodici. Non si può dire altrettanto della funambolica "Desolation", violentissima nella sua estremissima ritmica black symph con una batteria sparata al fulmicotone, come se non ci fosse un domani. Solo delle evocative vocals provano a placare l'incedere tempestoso di una song dal sicuro impatto sonoro, che nella porzione solistica sembra lasciar intravedere delle reminiscenze progressive. La title track riparte là dove "Isolation" aveva concluso, con un sound decisamente più controllato e decadente, complici le liriche che, come spiegato dal vocalist, narrano di un padre che si ritrova incapace di connettersi e prendersi cura della sua giovane figlia, Iris, che si è gravemente ammalata. Spingendosi sempre più a fondo nei suoi vizi, e sentendosi respinto dalla nuova fede incrollabile di Iris, entra nella sua auto e decide di lasciarla indietro. Da qualche parte lungo la strada ghiacciata, perde il controllo del suo veicolo e perisce. Il suo purgatorio è guardare impotente mentre Iris soccombe lentamente alla sua malattia senza di lui. Tornando alla traccia, non manca neppure qui la forsennata ritmica che schiude a momenti più calibrati, di temperamento doom e linee melodiche dal forte tocco malinconico, spezzate però sempre da quelle intemperanze ritmiche che sembrano deviare notevolmente il corso del brano verso lidi più estremi o ancora far sprofondare il tutto in territori angoscianti in un'altalenanza ritmica davvero pericolosa. "Child of Light" è una song più classica che poco mi ha lasciato al termine del suo ascolto, se non una certa analogia con i grandi del passato. Decisamente più interessante "Broken Hymn" per il violoncello di Raphael Weinroth-Browne, che qui sembra assurgere un ruolo drammaticamente più importante nell'esibire quell'aura decadente all'intero album, in una traccia lenta e ritmata che trova comunque sfogo nelle ormai classiche e divampanti scariche black, contrastate solo dalle splendide vocals pulite del bravissimo Damian Smith, eccellente nella sua prova. "Voices of Winter" mi ricorda un che dei primi Novembre; gli archi di Raphael sono sempre preponderanti ma il corso del pezzo vedrà la proposta della band rallentare verso trame sempre più oscure e tenebrose che ci introducono alla drammatica "Becoming Intangible", dove un duetto formato da chitarra acustica e voce pulita (coadiuvate dal violoncello, qui più in sordina), colpiscono per l'enorme pathos messo in scena nella sua prima parte, prima di esplodere in un'ultima sfuriata black, prima della conclusione affidata al tiepido e nostalgico addio dell'epilogo finale. Davvero intriganti, da ascoltare ad ogni costo. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2018)
Voto: 80

https://hypnoticdirgerecords.bandcamp.com/album/iris

venerdì 26 gennaio 2018

Kassad - Faces Turn Away

#PER CHI AMA: Black, Windir
I Kassad sono una one-man-band dedita ad un black metal abrasivo e sinistro. Fuori per la canadese Hypnotic Dirge Records, ma proveniente da Londra, l'artista che sta dietro ai Kassad mi ha impressionato non poco per la glacialità mista a melodia, della sua proposta, il cui risultato si riflette nelle sette tracce di questo 'Faces Turn Away'. Si parte fortissimo con il sound tormentato e spinoso di "Shame", selvaggio come pochi nella prima parte (e nell'ultima, con la riproposizione del refrain iniziale), notturna, raffinata ed oscura nell'estesa componente acustica della sua parte centrale, che traccia le coordinate stilistiche, all'insegna di un'ostentata ricerca di originalità da parte del mastermind inglese. La furia belluina continua nelle arcigne distorsioni sia ritmiche che vocali di "Pariah", una cavalcata epica, fredda, spettrale, stracolma però di un pathos avvincente e trascinante. Un'altra chitarra acustica ed è tempo di "Void", splendida nella sua evoluzione malinconica, a tratti tribale, sempre assai melodica, e con quella sua minimalista componente vocale narrativa posta su di un tappeto di riffs in tremolo picking. Tre soli minuti a disposizione di "Madness" per mostrare ancora l'epica ferocia, in stile Windir, di cui è dotato il misterioso musicista della city londinese. E poi ancora un turbillon di chitarre acuminate, il cui suono potrebbe essere paragonabile a tanti piccoli frammenti di vetro conficcati nella carne e alle grida di dolore che ne deriverebbero a toglierli. Il suono di un temporale, dei synth e siamo approdati a "Broken", dove la voce acida del frontman domina su di una ritmica pacata, atmosferica, pronta ad infuocare l'aria, che pare saturarsi di gas pronta ad esplodere; invece rimane bloccata in un magnetico incedere che ci accompagna senza paura ad affrontare la tenebrosa title track. Inquieta ed ansiogena, per quel suo immobilismo musicale intrappolato in un flusso nebuloso di suoni e harsh vocals. Ecco l'enigmatica "Face Turn Away" che idealmente chiude un album che ha ancora nell'ultima "Pulse", oltre nove minuti di suoni ambient che potrebbero rappresentare l'ideale colonna sonora per un film che francamente adoro, "K-pax" restituendo finalmente un po' di pace interiore dopo un assalto sonoro perpetrato per 45 minuti. (Francesco Scarci)

martedì 23 gennaio 2018

Kval - S/t

#PER CHI AMA: Black Old School, Burzum
I Kval sono una nuova one man band finlandese, anzi no: il mastermind che sta dietro a tale monicker infatti, non è altro che colui che fino al 2015 guidava i Khaossos e questo album omonimo è, a dire il vero, la riproposizione di quel 'Kuolonkuu' che su queste stesse pagine abbiamo recensito, con la durata delle song leggermente più elevata. Difficile pertanto aggiungere qualche informazione addizionale ad un disco che, se fosse uscito nei primi anni '90, avrebbe dato filo da torcere a Burzum e compagnia bella, grazie, e riprendo le parole di quella recensione, ad una spettrale overture, e a brani successivi che si affidano ad un incedere ossessivo, tagliente e minimalista. Penso a "Sokeus", una traccia, che nei suoi oltre dieci minuti, mai accenna ad una accelerazione o ad una sfuriata che ne modifichi la sua desolante dinamica esistenziale. Un lavoro spoglio e tormentato che ha modo di mostrare dei tratti folklorici (ad esempio in "Harhainen") ma anche forti accenni di un disperato suicidal black (ascoltate "Kuolonkuu") che lo renderanno ai più un album ostico a cui avvicinarsi. Io, a distanza di quasi tre anni, mi confermo coerente con il voto che diedi alla primordiale forma di questo album dei Kval. Sofferenza allo stato puro. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2017)
Voto: 70

https://hypnoticdirgerecords.bandcamp.com/album/kval

giovedì 27 aprile 2017

Obitus - Slaves of the Vast Machines

#PER CHI AMA: Black Metal, Deathspell Omega, Anaal Nathrakh
Hypnotic Dirge Records atto terzo: in poco meno di un mese ho recensito il ritorno dei Netra, il debutto dei None e ora mi ritrovo fra le mani il comeback discografico degli svedesi Obitus, che arriva a distanza di ben otto anni dal precedente 'March of the Drones' e addirittura a 17 dalla fondazione della band. Se la sono presa con calma i due loschi figuri di Gotheburg: 'Slaves of the Vast Machines' esce per l'etichetta canadese, qui supportata dall'americana Black Plague Records, in un clima di guerra, proponendo un irruente e schizofrenico black metal che ben si riflette nell'unica lunghissima traccia contenuta nel disco. La furia belluina è tradotta in ritmiche assassine, caratterizzate da una violenza cataclismatica anzi, visti i tempi, direi apocalittica. C'è ben poco da scherzare con questi musicisti svedesi che dalla tradizione musicale del loro paese non pescano granché, se non quella nera fuliggine dei Dark Funeral. La musica dei nostri sembra infatti un ipotetico ibrido tra il sound malsano ed esacerbato dei Deathspell Omega miscelato con le ritmiche infernali del post black americano, anche se ammetto di averci sentito un che dei primi Aborym al suo interno, qualcosa in fatto di velocità disumane degli Anaal Nathrakh e un po' di malvagità di scuola Mayhem. Le istruzioni per l'uso e consumo di questo disco devono esser chiare fin dai primi minuti di devastazione totale intessuti dalla band scandinava. I primi dieci minuti sono infatti affidati a ritmiche affilatissime che ben poco spazio lasciano alla melodia e al ragionamento; una prima pausa la si riesce a fare tra l'undicesimo e il quattordicesimo minuto, ma è chiaro che è solo un modo per condurre l'ascoltatore sul precipizio del burrone e spingerlo di sotto senza alcuna pietà. E la promessa è certamente mantenuta in quanto l'act svedese, da li a breve, si riaffiderà a ritmiche serrate, blast beat psicotici e screaming vocals iraconde. Splendido il mood glaciale che si respira grazie a quelle chitarre affilate come rasoi a tessere maestosi riff nordici. Un secondo break tra il 18esimo e il 19esimo minuto, serve più che altro per salvaguardare la salute mentale di chi ascolta e poi giù di nuovo a picchiare come dei fabbri con chitarre tra lo zanzaroso e il tremolante, un drumming che corre a velocità forsennate e le vocals lacerate e raggelanti, per un risultato che, pur non aggiungendo nulla di nuovo al genere, dà comunque modo di rivedere il concetto di velocità all'iperuranio, urla lancinanti e atmosfere diaboliche. Questi sono gli Obitus del 2017, non so quando avremo modo di riascoltarli con un nuovo album, fate quindi buon uso di 'Slaves of the Vast Machines', usando comunque tutte le precauzioni del caso, rischia di essere letale. (Francesco Scarci)

(Black Plague Records/Hypnotic Dirge Records - 2017)
Voto: 70

https://hypnoticdirgerecords.bandcamp.com/album/slaves-of-the-vast-machine

venerdì 14 aprile 2017

None - S/t

#PER CHI AMA: Cascadian Black Doom
Dei None non so praticamente nulla: zero informazioni sul web, men che meno nel cd, dove addirittura i visi dei due loschi individui della band sono cancellati, niente di niente. Sembrerebbe però che il duo provenga dal versante pacifico degli States ma in tempi cosi stravaganti, dove i Ghost Bath dichiarano di essere cinesi e poi si scopre essere americani, nulla è cosi scontato. Focalizziamoci quindi sulla musica di questa band, un trittico di song uscite sotto l'egida della Hypnotic Dirge Records, poche release ma sempre di grande qualità. La proposta dei nostri offre un sound brumoso, disperato, dilatato nelle sue melodie strazianti; ecco quanto emerge dall'apertura di "Cold", lunga apripista di questo drammatico album di black oscuro, lento, deprimente, che mette in luce la capacità dei nostri di costruire sublimi atmosfere e piazzarci sopra vocals arcigne ma anche vocalizzi più eterei, sebbene essi siano più rari. Importante il lavoro delle tastiere, non cosi appariscente, ma di sicuro effetto nel guidare il rifferama denso e compassato dei due musicisti. Le chitarre, in tremolo picking, sembrano definitivamente suggerire la provenienza dei None ossia dall'area nord ovest degli USA, sottolineando le influenze cascadiane che convogliano nel sound della prima song, ma in generale di tutto il disco, mai caustico o tirato all'estremo. Le melodie dominano e guidano il lento fluire della musica che, abbandonate le decadenti melodie della opener track attraverso un dirompente epilogo post black, sfociano nell'acustica introduzione di "Wither", song che tra un ipnotico riffing burzumiano, strani vocalizzi in background e un avvolgente sound doom, offre quasi nove minuti di suoni per un destino inesorabilmente già scritto. Sono tempi bui per la nostra società e la musica dei None potrebbero candidarsi ad offrire la giusta colonna sonora per un mondo in cui la luce è destinata presto a sparire. Questo si condensa anche nei conclusivi nove minuti di "Suffer", una song dal lento e nichilista avanzare, tra tocchi di batteria a rallentatore, un arpeggio in sottofondo e un bel basso in primo piano che sembra scandire l'avvicinarsi della mezzanotte che segnerà l'inizio della fine. Il finale ambient dipinge cosa è rimasto del mondo... il nulla. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2017)
Voto: 80

https://hypnoticdirgerecords.bandcamp.com/album/selftitled

domenica 9 aprile 2017

Netra - Ingrats

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Burzum, Ulver, Massive Attack
Netra potrebbe essere il nome di un locale in cui trovare parecchie sale dove assaporare aromi esotici ed ascoltare musiche diverse. In "Gimme a Break" potrete immaginare ad esempio, di trovarvi nella lounge room del locale, con un tizio che suona il pianoforte ed un altro che abbraccia il contrabbasso, in una scena sicuramente tinta di bianco e nero. In quella sala, chi è più attento, potrà scorgere nascosta una scala che porta dritta nei meandri dell'inferno, dove la sulfurea colonna sonora è rappresentata dal black ferale di "Everything's Fine". Qui lo screaming straziante del mastermind viene smorzato da un break avanguardista anche se il ronzio delle chitarre prosegue come se uno sciame di vespe ci stesse investendo. Se vi piace la musica di Bristol di Massive Attack e Portishead, ecco che la terza sala è quella che fa per voi, per soffermarvi ad ascoltare il trip hop caldo ed onirico di "Underneath my Words, The Ruins of Yours". L'elettro dub sullo stile degli Ulver di 'Perdition City' (anche a livello vocale) lo potete ritrovare in "Live With it", una traccia imprevedibile e dall'arrembante finale EBM. Imprevedibilità, ecco il segreto del mastermind transalpino. Ci mancava la jazz room, eccomi accontentato con "Don't Keep me Waiting" dove la follia dei fiati, da li a poco, si scontrerà con ritmiche infernali nere impestate, in un tripudio di suoni apocalittici che sanciscono l'insanità di quest'imperdibile lavoro. Continuiamo a girovagare nel locale Netra ed ecco palesarsi la darkwave di "A Genuinely Benevolent Man" che nelle sue circonvoluzioni soniche, trova modo di fondere la musica trance col black in stile Burzum, con le urla disumane del factotum francese (ora trasferitosi in Norvegia) sorrette dall'elettronica. Un po' di noise a complicare il tutto di certo non guasta e anzi cade a fagiolo con la lisergica "Paris or Me". "Could’ve, Should’ve, Would’ve" vale una menzione quasi esclusivamente per il titolo azzeccatissimo, perché per quanto riguarda la musica, la sensazione è quella di stare ad ascoltare i Depeche Mode. Sconcertati? Io no anzi, a dir poco esaltato. Le danze si chiudono col blues jazz black funambolico e sperimentale di "Jusqu’au-boutiste", ultimo esempio di lucida follia che esalta la performance incredibile di questo fantastico artista. 'Ingrats' è un album a dir poco spettacolare, chi ha orecchie da intendere... (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2017)
Voto: 90

domenica 24 luglio 2016

Negative Voice - Cold Redrafted

#PER CHI AMA: Death/Doom/Prog, Agalloch, Katatonia, Opeth
La sinergia tra Hypnotic Dirge Records e Solitude Productions inizia a sortire ottimi risultati. Ne è l'esempio lampante il nuovo album dei russi Negative Voice, il secondo per il quartetto moscovita, intitolato 'Cold Redrafted' e vera sorpresa per il sottoscritto, che aveva sottovalutato i nostri nel 2013, quando uscì 'Infinite Dissonance'. Ascoltato il nuovo lavoro, mi sono dovuto ricredere invece sulle potenzialità, all'epoca forse totalmente inespresse, dei nostri. Signore e signori, 'Cold Redrafted' è quello che giudico un gran bell'album, maturo, fresco, squisitamente melodico, ma carico di energia, in grado di regalare emozioni in quantità e di qualità. Otto i brani contenuti e quasi tutti sorprendenti, sin da "Limitation", che mi ha conquistato sin dal primo assolo che si delinea nel primo minuto e mezzo del brano, al suo intero evolversi. Splendido, tutto qui, non serve aggiungere altro. Poi solo una cascata emotiva che mi trascina in un vortice di sensazioni che spaziano dalla malinconia alla gioia, quella vera, capace di regalare lacrime copiose agli occhi. I quattro ragazzi, migrati ora nella capitale russa, regalano un death doom atmosferico in grado di scomodare gli Agalloch, gli Opeth ma anche i Novembre e i Katatonia, per un condensato notevolissimo di musica di ottima fattura che farà la gioia di coloro che amano la drammaticità del doom, ma anche di quelli che non disprezzano le cavalcate post black ("Nightmare Everlasting"), le sinistre atmosfere ("The City of Decaying Gaze"), o i tecnicismi del progressive ("Lighthouse"), per un pot pourrì di assoluto valore che non deve passare inosservato, per alcun motivo. Questa è la musica che amo, in grado di trasmettermi cosi forti emozioni, che mi guidano nella scrittura di queste mie parole, addirittura ad occhi chiusi, godendo della delicata raffinatezza di questi ragazzi, saggi nel saper quando colpire con irruenza, ancor di più nel selezionare i momenti per un break acustico, l'utilizzo di clean vocals piuttosto che del growling assai convincente di Evgeniy Loginov. Classe cristallina, che viene messa al servizio anche solo nell'aprire un brano come "Instant", una song più nervosa e meno lineare rispetto a quelle apprezzate sin qui, in quell'incredibile trittico di pezzi che apre il disco. "Instant" è sicuramente più criptica, cupa, nostalgica e ricercata, forse anche per questo la più complicata da assimilare, ma comunque splendida. Torno a citare invece i Katatonia (del periodo intermedio) per quel riguarda le linee di chitarra quando a scorrere nel mio stereo è "Impasse", un'altra piccola gemma da non perdere. Con "Karmic Pattern" si torna a sprofondare nel doom abissale, anche se nella sua seconda metà, gli echi degli Opeth tornano a farsi sentire. Per certi versi questa uscita dei Negative Voice potrebbe essere accostabile al nuovo lavoro dei loro compagni di etichetta (EchO), e come per gli amici bresciani, la band si dimostra già matura per il grande salto in una big label. 'Cold Redrafted' è infatti un ottimo lavoro, dotato di un certo carisma e di una spiccata personalità, che auspico venga sapientemente convogliata nella giusta direzione anche in futuro, perché probabilmente sentiremo parlare dei Negative Voice per lungo tempo. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music/Hypnotic Dirge Records - 2016)
Voto: 85

sabato 19 marzo 2016

Womb - Deception Through Your Lies

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi My Dying Bride, Saturnus
Se mi sembrava strano che il funeral doom imperversasse in Brasile con gli HellLight, altrettanto strano mi suona che gli andalusi Womb si facciano portavoce di un death doom atmosferico. Diavolo, in quelle terre dove il sole splende alto nel cielo, che bisogno c'è di deprimersi con atmosfere di siffatta decadenza. Supportati dalla onnipresente Solitude Productions (sempre più in simbiosi con la Hypnotic Dirge Records), questo quartetto, tra le cui fila militano membri o ex di Winterstorm e Shattered Sigh, si abbandona ad un acerbo concentrato di sonorità doom che poco hanno da aggiungere a quanto già affolla la scena oggigiorno. Non posso negare che le melodie di "Echoes of Our Scars" non siano gradevoli, però trovo che la produzione scarna e scarsa, ne penalizzi non poco il risultato finale. Ovviamente, gli ingredienti del genere ci sono tutti: riff lenti e ossessivi, atmosfere cupe e apocalittiche, qualche accelerazione di matrice death e infine le immancabili funeste voci growl, che rappresentano il secondo punto di debolezza (forse ancor più grave della produzione) di questo 'Deception Through Your Lies' per cui lo relegano ad album per soli amanti del circuito funeral doom underground. Insomma, qui c'è spazio per crescere, non basta prendere i soliti punti di riferimento, Saturnus o i primi My Dying Bride, tanto per citarne un paio che ho percepito nella malinconica "March", per confezionare un album che possa puntare a chissà quali traguardi. 'Deception Through Your Lies' è sicuramente un lavoro onesto che però poco di innovativo ha da dire. Una maggiore cura nei dettagli a livello dei suoni con un vocalist un po' meno "cavernicolo" e qualcosa di meglio sarebbe sicuramente emerso dalle note di queste cinque tracce. Per ora rimandati, ma non perdete la fiducia mi raccomando. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions/Hypnotic Dirge Records - 2015)
Voto: 55

https://hypnoticdirgerecords.bandcamp.com/album/deception-through-your-lies

domenica 28 febbraio 2016

Orphans of Dusk - Revenant

#PER CHI AMA: Death/Gothic/Doom, Type O Negative, My Dying Bride
Australia e Nuova Zelanda non sono dopo tutto cosi lontane, cosi come non lo sono Canada e Russia. In un mondo in cui le distanze siderali sono azzerate dall'esistenza di internet, non c'è da stupirsi se gli Orphans of Dusk siano un terzetto formato da personaggi della scena di Sydney (Australia appunto) e di Dunedin, sconosciuta località confinata all'estremo sud della Nuova Zelanda. Altrettanto vale per le etichette che hanno messo le mani in cooperazione su questo act oceanico: la canadese Hypnotic Dirge Records e la russa Solitude Productions. Originariamente uscito in solo formato digitale nel 2014, 'Revenant' ha pertanto modo di farsi vedere più vicino al mondo grazie all'intervento delle due case discografiche, dimostrando che la scelta fatta è stata assai arguta. Quattro i pezzi a disposizione del trio, che in questo primo EP, ha modo di citare nelle proprie composizioni, i primi My Dying Bride e i Paradise Lost, grazie alla vena death gothic doom che ammanta l'intero lavoro e in secondo luogo, e qui sta il forte interesse per i nostri, anche i Type O Negative per l'uso delle vocals baritonali da parte di Chris G (membro dei Mesmur), molto vicine a quelle del compianto Peter Steel (ma anche al vocalist dei Crash Test Dummies), nonchè anche per un certo uso delle tastiere che richiamano i primi lavori, più doom oriented, della band di Brooklyn (ascoltate "August Price" e capirete cosa intendo). La musica si muove comunque tra gli anfratti del doom più atmosferico e decadente, con le keys che sprigionano una certa sacralità per quella loro affinità con l'organo da chiesa, forte soprattutto in "Starless". "Nibelheim", la terza, è forse la traccia più ostica a cui avvicinarsi, laddove le asperità del death in stile Bolt Thrower trovano pace in un gothic ammaliante in grado di placare l'istintiva brutalità espressa nella prima metà del brano e donare una certa vena di originalità alla proposta dell'ensemble oceanico. Chiude l'EP "Beneath the Cover of Night", un mellifluo brano di oltre otto minuti in cui a farla da padrone sono quasi esclusivamente le vocals di Chris (in formato growl e gotico) e i synth di James, sorretti comunque da una buona base ritmica. Se il buongiorno si vede dal mattino, mi aspetto grandi cose nell'immediato futuro da questo terzetto. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records/Solitude Productions - 2015)
Voto: 70

https://orphansofdusk.bandcamp.com/album/revenant

sabato 5 settembre 2015

Atten Ash - The Hourglass

#PER CHI AMA: Death Doom, Daylight Dies, Rapture, primi Katatonia
Li avevo menzionati in occasione della recensione dei Norilsk; finalmente ho modo di parlarne più dettagliatamente grazie a 'The Hourglass', disco originariamente registrato nel 2012, ma che solo a febbraio di quest'anno ha visto la luce, grazie alla Hypnotic Dirge Records. Sto parlando degli statunitensi Atten Ash, trio del North Carolina, fautore di un sound che ha più di qualche punto di contatto con i conterranei Daylight Dies. Si inizia con "City in the Sea" che propone un sound vicino al death doom, anche se poi certe aperture melodiche (al contempo malinconiche) palesano piuttosto influenze che spazziano dai Katatonia di 'Brave Murder Day' ai finlandesi Rapture. E con questa attitudine death doom darkeggiante, gli Atten Ash finiscono per coinvolgermi sin da subito per quella loro vena oscura, sorretta da ottime melodie e brillanti assoli, che rendono questo loro debutto a tratti parecchio accessibile. Come sempre, desidero sottolineare che non ci troviamo nulla di originale fra le mani, anche se l'ottimo songwriting, sorretto dalle inevitabili growling vocals e da egregi arrangiamenti, contribuiscono a consegnarci un lavoro maturo e di tutto rispetto. "See You... Never" è un pezzo che strizza maggiormente l'occhiolino alla musicalità dei Saturnus e l'eccelsa produzione non fa altro che enfatizzare la qualità di un lavoro già di per sé assai buona; metteteci poi uno splendido assolo alla fine del brano e potrete godere anche voi delle qualità di questo ensemble a stelle e strisce. In "Not as Others Were" è da segnalare l'utilizzo delle clean vocals a cura di James Greene (un po' il factotum della band) che si contrappongono al cantato feroce di Archie Hunt. "Song for the Dead" (cosi come "First Day" o nella conclusiva e notturna titletrack) vede di contro, il totale abbandono delle voci death a favore di un cantato in grado di agevolare maggiormente un avvicinamento anche per coloro che non hanno molta confidenza con il death doom. Ancora una volta, la componente solistica e una discreta dose di suoni progressivi, intervengono a favore dell'ottima riuscita del disco. Lo stesso si potrebbe dire per la successiva "Born", song che a parte qualche grugnito qua e là, che ci sta peraltro davvero bene, farà la gioia degli amanti del doom alla Doom:Vs, complici anche la presenza di interessanti break crepuscolari. Insomma che altro dire, se non consigliare caldamente un'altra uscita targata Hypnotic Dirge Records: poche releases ma sempre di ottima qualità! (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/attenashband

giovedì 27 agosto 2015

Norilsk - The Idea of North

#PER CHI AMA: Doom/Black, Celtic Frost
La Hypnotic Dirge Recors sarà anche rimasta in standby per un po' di tempo, ma dopo che le attività sono riprese presso l'etichetta canadese, le cose sono andate migliorando con una serie di uscite interessanti: i Verlies, gli Atten Ash e questi Norilsk. Curioso come il nome derivi da quello di una città siberiana, e quando penso alla Siberia, associo inevitabilmente il tutto a gelidi suoni funeral doom. I canadesi Norilisk non vanno proprio cosi distanti dal genere. Lo attesta il riff posto in apertura a "Japetus", che introduce il sound sofferto del duo del Québec; diciamo che rispetto al doom tradizionale o al funeral doom dell'est Europa, la proposta dei nostri rimane un po' più atmosferica ma assai complicata da digerire. La musicalità della band non è di cosi facile assimilazione, data una certa dissonanza di fondo nelle linee melodiche e dalla presenza di un avvolgente manto di malignità che pervade la song (e il disco), anche a livello vocale, con lo screaming acido di Nicolas ad alternarsi al suo malefico growl. In "Planète Heurt" ecco il rallentamento tenebroso che stavo aspettando, e a salire quella sensazione di respiro affannoso dovuto a un luogo angusto che degenera in uno stato d'ansia. Il senso di asfissia va peggiorando man mano che la song procede a rallentatore, per poi dissolversi improvvisamente quando uno splendido assolo restituisce quella serenità che sembrava andata perduta. In "Throa" il sound malsano dei nostri, qui dotato di una vena di Celtic Frost memoria, macella non poco i nostri timpani per la sua monoliticità di fondo, interrotta fortunosamente da "La Liberté Aux Ailes Brisées", song di più ampio respiro, soprattutto per la freschezza delle sue chitarre. Cosa attendersi invece da un brano intitolato "Nature Morte"? Poco in realtà, se non suoni che potrebbe accompagnare la visione di un frutto morso lasciato su un tavolo, o meglio, un teschio abbandonato. Il disco prosegue nella sua compattezza con l'orrorifica "Potsdam Glo", un breve pezzo strumentale e la title track, "The Idea of North", che lungo i suoi nove minuti, sfodera probabilmente la miglior performance del duo nord americano, offrendo un doom sorretto da una bellissima e suadente chitarra black che impreziosisce il brano con una certa vena malinconica, in quella che è la song più completa di questo aspro e indigesto lavoro, capace di incutere timore ma anche grande curiosità. La conclusione del disco è affidata a "Coeur de Loup", altra traccia costituita da suoni cupi e a tratti teatrali nella sua manifestazione vocale. Decisamente ardui da affrontare, i Norilisk in questo disco aprono nuovi orizzonti sonori nell'ambito doom. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2015)
Voto: 75

venerdì 7 marzo 2014

Obsidian Tongue - A Nest of Ravens in the Throat of Time

#PER CHI AMA: Cascadian Black, Agalloch
L'Hypnotic Dirge Records continua la sua ricerca nel più profondo underground, alla ricerca di band che abbiano qualcosa di interessante da dire in ambito black metal. Oggi mi soffermo a disquisire sul secondo capitolo della discografia degli statunitensi Obsidian Tongue, che fin dalla copertina hanno richiamato in un qualche modo la mia attenzione. Un viso stilizzato in bianco e nero con (credo) delle penne sulla testa e una simbologia ritualistica che ha evocato nella mia mente un qualcosa dell'immaginario indiano (d'America), mi ha indotto a credere di avere per le mani un qualcosa di estremo contaminato in un qualche modo dai canti e musiche dei pellerossa. La mia fantasia viaggia troppo velocemente perchè quando i nove minuti abbondanti di "Brothers in the Stars" fanno la loro comparsa nel mio stereo, vengo aggredito da una bella scarica di puro e cupo metallo nero che non lascia tregua, non fosse altro per qualche intermezzo atmosferico, che il duo del Massachussets ogni tanto si concede. Con la successiva "Black Hole in Human Form", la band statunitense cambia leggermente registro sporcando il proprio feroce sound con un incedere inizialmente doom. Chiaro che quando i nostri pestano sull'acceleratore, i toni si fanno più aspri e taglienti. I martellanti blast beat della song e gli improvvisi rallentamenti/divagazioni, finiscono per delineare la componente post-black dell'ex one man band di Brendan Hayter. Un arpeggio sul finire della traccia mi concede il tempo di rifiatare, prima di essere inglobato dalla suadente melodia di "My Hands Were Made to Hold the Wind", che mi permette di inquadrare i nostri da un punto di vista differente da quello sin qui descritto. La song infatti è decisamente più tranquilla e rilassata, con un più ampio spazio affidato ad una componente ambient e a sconfinamenti pagan (stile Primordial). Questo non fa altro che aumentare il mio interesse, inizialmente non proprio entusiastico. "The Birth of Tragedy" conferma questo trend, abbinando alla ferocia del black cascadiano digressioni progressive (di scuola Enslaved), per un risultato sicuramente più apprezzabile, dettato anche dall'alternarsi di corali voci pulite a quelle sgraziate del vocalist americano. Diciamo che l'album è altalenante nella sua vivacità, offrendo un songwriting non sempre omogeneo o all'altezza, cosi come devo ammettere di preferire l'ensemble nelle parti più ragionate e rallentate, come accade proprio nel break centrale di "The Birth of Tragedy" che si candida ad essere la traccia più riuscita (e varia) di questo 'A Nest of Ravens in the Throat of Time'. Con "Individuation" e la conclusiva title track, i nostri sembrano raddrizzare definitivamente il tiro anche se qualche calo di tensione è riscontrabile a più riprese. Diciamo che l'album palesa ancora dei difetti di fondo in termini di songwriting, screaming vocals non proprio all'altezza o le talvolta sterili furiose accelerazioni, per cui auspico che i nostri possano individuare ciò che non funziona lavorandoci al meglio per le prossime release, da cui a questo punto, mi aspetterò parecchio. Staremo a sentire. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2013)
Voto: 65

https://www.facebook.com/obsidiantongueband

martedì 18 febbraio 2014

Ekove Efrits - Nowhere

#PER CHI AMA: Suoni sperimentali, Dark, Trip Hop
Ben ritrovato caro Count De Efrit, talentuoso musicista iraniano, che da sempre offri una forma di musica intimistica, per cui se mi consenti, abbandonerei definitivamente l'appellativo di black metal. Con questo nuovo 'Nowhere', il tuo quarto full lenght, persegui la tua opera di ricerca di un suono unico ed onirico, che prosegue sulla falsa riga del precedente 'Conceptual Horizon', ma esasperandone i contenuti e toni che si pongono al di fuori dell'ambito metal. "Public Theatre" dimostra la tua spiccata personalità palesemente e l'eccezionale dote con cui fai coesistere sonorità accessibili ad un pubblico tipicamente non metal con altri adatti agli amanti della scena estrema. La tua voce oscura e malvagia ancora fa breccia tra le note di questo lavoro, mentre la brava Megan Tassaker e i suoi suadenti vocalizzi, ti aiutano a muoverti fra il trip hop e la dark music in "Parallel Presence"; poco importa se alla fine ci piazzi una bella cavalcata black. Un breve intermezzo musicale e le tue clean vocals emergono nel contesto elettronico di "One Truth, One Confession", dove riesumi, anche se per pochi secondi, una linea chitarristica quasi tipicamente black. Poi sono l'EBM, il gothic e la dance a venirti in aiuto, proponendo un sound che si diversifica in mille sfacettature diverse, abbracciando anche i temi da colonna sonora. Persisti con la produzione lo-fi, chissà cosa salterebbe fuori in caso di produzione cristallina? Un tump-tump-tump apre "Infinitesimal", cyber song che potrebbe piacere a chi segue Massive Attack, Portishead o Sigur Ros, e in cui riemerge la sensualità vocale di Megan, che alla fine assurge a ruolo di indiscussa protagonista. Ma cosa in realtà ti fa soffrire Count De Efrit, se tutta questa malinconia permea le tue canzoni? Sofferenza, disagio, tristezza e disperazione, sono infatti le componenti principali su cui si fonde il sound della tua band. "Metamorphosis" è un brano il cui incipit mi ha evocato l'inizio di una song che ho recentemente ascoltato in India: song criptica, sperimentale, decisamente ambient che pone fuori dagli schemi la proposta musica degli Ekove Efrits. Tiepidi suoni pop rock si ergono nell'iniziale parte di "Sword and Wound", ma non temo di venire deluso dalla tua inusuale proposta, tutto è messo nel posto giusto e la sfuriata black che ci attacchi in seguito è perfetta a smorzare la fluidità devastante di un sound che talvolta sembra imboccare una strada pericolosa. Non posso dire altro che complimentarmi ancora con te Count De Efrit, che fai della sperimentazione il tuo credo. Cosa dovrò attendermi ora per la prossima release? Non vedo l'ora di scoprire come evolverà il suono della tua band in futuro. A presto. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2013)
Voto: 85

http://www.ekove-efrits.com/

giovedì 9 gennaio 2014

Vin De Mia Trix - Once Hidden From Sight

#PER CHI AMA: Death Doom, My Dying Bride, Saturnus
Della serie piccoli My Dying Bride crescono, ecco arrivare dall'Ucraina questi Vin De Mia Trix per quella che è una collaborazione tra gli amici della Hypnotic Dirge Records e quelli della Solitude Productions. Avrete capito che siamo al cospetto della solita band dedita ad un death doom che si rifà sicuramente ai maestri inglesi, ma anche ai danesi Saturnus, con un album che monumentale è dir poco, con i suoi 65 minuti e passa di suoni monolitici, a tratti assai ispirati. "A Study in Scarlet" apre il lavoro con una melodia di forte rimando ai gods della "Sposa Morente", che tuttavia col passare del minutaggio tende ad esasperare toni ed atmosfere, con un sound pesante ma anche assai malinconico, che finisce per sfociare nel funeral. "Nowhere is Here" è un'altra mazzata che lambisce i dieci minuti di durata: lenta, melmosa, disperata e ispirata grazie a pregevoli aperture melodiche che si insinuano in fitti e oscuri meandri di notevole suggestione. Al growling possente si affiancano anche delle cleaning vocals, ma è il break centrale a catalizzare maggiormente la mia attenzione, spostando il mio sguardo sul minutaggio e segnandomi il minuto 4.45 come quello maggiormente degno di nota. Si prosegue con un lungo e superfluo intermezzo dal titolo in francese in cui ad essere al centro sono solo leggeri tocchi di pianoforte. Non so se "The Sleep of Reason" voglia essere un tributo a Goya, fatto sta che la canzone richiama altre realtà nordiche come i Doom:Vs o gli onnipresenti Swallow the Sun. Un'altra song fiume, "Silent World" e ancora umori di carattere depressive che emergono in una song cupa che sfodera tuttavia il più feroce latrato death dell'album e in cui le linee di chitarra omaggiano ancora una volta gli esordi dei MDB, prima che la song si soffermi in un interessante break acustico. Ancora un inutile intermezzo prima dei due pezzi conclusivi che proseguono stancamente sulla falsariga dei precendenti brani con il loro death doom atmosferico. Discreto l'esordio per il quartetto di Kiev, un po' poco però se si vuole attirare l'attenzione di chi è costantemente sommerso da sonorità di questo tipo. Urgono nuove idee... (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records/Solitude Productions - 2013)
Voto: 65

http://vindemiatrixband.com/

martedì 1 ottobre 2013

Frigoris - Wind

#PER CHI AMA: Black Malinconico, Agalloch,
Torna l'Hypnotic Dirge Records con il terzo album rilasciato quest'estate, quello dei teutonici Frigoris. La band di Dominik Winter (che ci sia una correlazione tra il cognome del mastermind e quanto di gelido potrebbe evocare il nome della band?) ci propina un concentrato di black mid tempo assai melodico, le cui chitarre per certi versi possono ricordare il canto del cigno degli ahimè scomparsi Dissection. Otto tracce di cui due strumentali e un'intro ad allietarci con più di tre quarti d'ora di musica che a partire da “Zwischenwelten” lascia intravedere spiragli di buona ottime sonorità che si dipanano tra Amon Amarth, Fen e a livello acustico richiamano gli Agalloch. Sulla carta “Wind” sembrerebbe una bomba, però ci sono ancora tanti dettagli da limare: assolutamente azzeccati gli intermezzi arpeggiati, cosi come pure quelli epico-vichinghi, un po' meno il risultato che fuoriesce dalle partiture più veloci o comunque dalle parti più aggressive. Le arcigne vocals di Dominik non sono affatto male nel loro screaming malefico. Un altro soffuso arpeggio tiene banco per un paio di minuti nell'epilogo di “Im Keim Ertrunken” prima che le ritmiche infernali prendano il sopravvento con il martellare preciso di Pelle alla batteria e il tagliente suono delle chitarre, prodotto dal duo d'asce formato dallo stesso Dominik e Raphael. Le atmosfere sono rarefatte, malinconiche, ad un certo punto addirittura ipnotiche perché la chitarra ritmica continua a girare su se stessa con un loop paralizzante su cui poggia la solista. I Frigoris sono decisamente dei maestri nel creare splendide atmosfere sinistre e cosi molto spazio viene lasciato a intermezzi gentili, prettamente stracolmi di nostalgia e dai forti rimandi folk. Emozionante. Devo ammettere di aver sottovalutato le potenzialità di “Wind” e averlo bollato ad un primo ascolto come album scadente. Ma riascoltandolo, mi sono accorto che nella musica dei nostri si celano umori, sensazioni ed emozioni che non mi hanno lasciato del tutto stranito, ma anzi mi hanno fatto apprezzare ascolto dopo ascolto, la proposta del quartetto tedesco. Ovviamente non abbiamo di fronte dei fuoriclasse ma neppure dei brocchi e quando in “Frühlingsnacht” compare anche la soave voce di Melanie, la bassista, non posso che rimanere piacevolmente spiazzato e rivalutare il mio voto assegnato alla release. Sognanti, e la prima delle due tracce strumentali ne è la riprova, mentre la seconda è un mix tra thrash, black e folk, con vocals narranti. A completamento dell'album citerei “...Und Asche Rinnt Durch Meine Hände”, song che si rifà decisamente ai suoni Cascadiani e la malinconica conclusione, affidata alle cupe note di “Wenn Die Make Bricht”, mi convincono appieno della bontà di questo lavoro di decadente black metal. Folklorici. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2013)
Voto: 70

http://www.frigorisofficial.de/

lunedì 23 settembre 2013

Galaktik Cancer Squad - Ghost Light

#PER CHI AMA: Black atmosferico
La Hypnotic Dirge Records è un fiume in piena che prosegue la sua opera di reclutamento di semi-sconosciute band di talento per farle conoscere ad un pubblico più ampio. È il caso dei teutonici Galaktik Cancer Squad, one man band che sinceramente ignoravo fosse già giunta alla loro quarta release e che ho appunto scoperto grazie all'etichetta canadese. L'act germanico è dedito a un black ferale dalle vaghe tinte progressive, che già dalla prima track, mette in mostra un potenziale di fuoco pauroso. “Ethanol Nebula” è una song contraddistinta da lunghe tempestose sfuriate di colante metallo nero su cui gravano le mortifere vocals del factotum Argwohn. I brani sono tutti molto lunghi e i nove minuti di “When the Void Whispers my Name” si articolano in un’intro affidata a una spettrale e ipnotica chitarra, che poi deflagra in una minacciosa cavalcata oscura. La selvaggia irruenza del black rappresenta il vero marchio di fabbrica del combo tedesco, anche se ovviamente il tutto è agghindato da partiture più ragionate, sprazzi melodici e break acustici che riescono a spezzare quello che rischierebbe di essere il vero limite dell'album, l'eccessiva velocità. Splendido a tal proposito il finale della seconda traccia, un notturno intermezzo acustico che ristabilisce quella quiete che era stata spazzata via dalla furia belluina iniziale. Le chitarre ronzanti in stile Burzum, aprono “In Lichterlosen Weiten”, lunga suite di dodici minuti, in cui accanto alla rabbia incessante, a tratti alienante, del mastermind teutonico, si affiancano momenti di rilassatezza che mi consentono di tirare il fiato, rilassarmi sulle note più suadenti della band e poterne apprezzare al meglio suoni e sfumature, altrimenti sbaragliate dall'arroganza strumentale dell'album. E cosi non posso far altro che lasciarmi trasportare dal mid-tempo del terzo brano che offre richiami dei primi Katatonia e di altre realtà dedite a sonorità più doom oriented; decisamente la mia song preferita, forse quella più matura e varia, in cui comunque dopo la quiete, a irrompere è nuovamente la tempesta. La title track sembra più sperimentale nelle sue ritmiche e suoni: maggior spazio viene lasciato alla componente strumentale e ad un approccio meno black e più death; altrettanto lo screaming, che si fa più oscuro. Bell'esperimento. “Hypnose” è un altro quarto d'ora di pura violenza primordiale (peccato per l'uso della drum machine), per di più interamente strumentale, che viene interrotta solo al minuto 8 da un break acustico. Insomma un po' dura da digerire. Messo al muro, non ho modo di parare i colpi inferti dai Galaktik Cancer Squad. Ko tecnico. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2013)
Voto: 70

https://www.facebook.com/GalaktikCancerSquad

sabato 13 luglio 2013

Nethermost - Alpha

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Katatonia
L'attacco di "Alpha" puzza tanto di Katatonia degli esordi: "Phasing Currents" apre infatti in una vena doom malinconica come solo il mitico "Dance of December Souls" fu in grado di fare. Ritmica molto lineare e nel ventre della musica, si muove una chitarra pizzicata, affranta e crepuscolare, che lascia solo intravedere le tenebre della notte. Eccolo il debutto dei Nethermost, band proveniente dal Texas, non proprio quel che si dice una terra dalle atmosfere plumbee ed oscure, eppure il death doom che i nostri propongono, suona come quello nord europeo, con appunto Katatonia e tutti i cloni derivati (in testa gli October Tide), come principale fonte di ispirazione. Il terzetto di Laredo non fa poi molto per discostarsi dagli insegnamenti dei gods svedesi e con "The Untroubled Kingdom of Reason" è palese l'amore viscerale anche per "Brave Murder Day". Le chitarre disegnano linee melodiche laceranti l'animo, con il growling di John a turbare ulteriormente la nostra sensibilità. "Dance of Burning Beasts" chiude un EP assai troppo derivativo, che pur proponendo una musica emotiva, rischia di perdersi tra l'infinito mare di clone band che da 20 anni cercano di riproporre il mastoso sound degli esordi di Blakkeim e soci. Da rivedere la monotonia di fondo con nuove soluzioni sonore. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records)
Voto: 65

http://netherdoom.bandcamp.com/

lunedì 7 gennaio 2013

Epitimia - Faces of Insanity

#PER CHI AMA: Black/Post Rock
Epitimia: la parola deriva da un termine greco che tradotto significa penitenza, il che è già tutto un programma. Si, perché non so decisamente cosa aspettarmi in termini musicali da un lavoro, il cui flyer informativo cita il sound dei nostri, come un mix tra black atmosferico e post rock. Tuttavia, il combo russo è già alla sua terza release, quindi un po’ di esperienza la deve già aver accumulata, pertanto mi devo fidare. “Faces of Insanity” si apre con “Reminiscentia”, un’ottima intro strumentale di quattro minuti e più, i cui contenuti suonano effettivamente come black, avvolti però da una magica aura post rock. Quindi le aspettative nel mio animo si fanno più forti, perché coniugare due tra i generi che in questo momento prediligo, oltre a non essere cosa facile, mi darebbero un grande piacere. Quando parte “Epikrisis I: Altered State of Consciousness”, mi rilasso per la apertura sinistra affidata a chitarre dal flavour rockeggiante, prima che vedano sovrapporsi un secondo riff più pesante e un cantato harsh. La song vive di sussulti: prima una galoppata black, poi un’eterea voce femminile, di nuovo la furia che irrompe, spezzata solamente dalla malinconia che fuoriesce dalla chitarra. “Epikrisis II: Obsession” apre in acustico, per poi confermare che la formula segreta dei nostri, non è poi cosi tanto segreta: ossia l’aggiunta della voce corrosiva di K., una ritmica più incisiva, che si sposa alla perfezione con una produzione un po’ sporca, il tutto pervaso comunque da un tocco chiaramente decadente e intriso di disperazione. È il turno di “Epikrisis III: Megalomania”: inizio a mal digerire il cantato in lingua madre (russo), forse scelta per rendere la proposta più originale o per farsi seguire dal proprio pubblico, ma a mio avviso sarebbe meglio virare il tiro verso l’inglese. Il sound del trio russo conferma la propria vena depressive anche con “Epikrisis IV: Jamais Vu”, dove splendido è il lavoro delle chitarre, potenti ed epiche, mentre il vocalist invasato, arriva ad urlare belluinamente dentro al microfono. “Epikrisis V: Rorschach Inkblot” incuriosisce maggiormente per il contenuto lirico probabilmente riguardante le famose macchie di Rorschach, utilizzate in psicodiagnostica come strumento di indagine della personalità ed in questo caso, per misurare la delirante lucida follia del nostro terzetto. Scherzo, ora vi spiego meglio: “Faces of Insanity” tratta infatti il tema della sofferenza individuale a causa di disturbi mentali, quindi un argomento ahimè attuale e assai interessante. “Epikrisis VI: Leucotomy” vive sullo “sfarfallio” melodioso delle sue chitarre e su aperture pregevoli di scuola primi Katatonia; l’unico problema continua a rimanere la performance poco aggraziata del cantante che alla fine tende a calmierare un po’ tutti gli altri strumenti. A chiudere il disco ci pensano la lunga, malinconica ed oscura “Ds: Schizophrenia” e “Lethe”, deprimente e strumentale outro. “Faces of Insanity” è un album interessante musicalmente parlando; lo sarebbe anche in termine di contenuti se solo questi fossero in lingua inglese. Tante le cose da sistemare ed affinare: la voce e la lingua, un po’ di tecnica individuale, eliminando qualche banale ed inutile cavalcata black, che poco ha a che fare con il sound e le reali potenzialità di questi Epitimia. (Francesco Scarci)

martedì 11 dicembre 2012

Subterranean Disposition - Subterranean Disposition

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride
Se non fosse uscito un mese fa il nuovo album dei My Dying Bride, avrei potuto confondere l’omonimo debut dei Subterranean Disposition, come la nuova release dei gods inglesi. E invece, eccola arrivare la nuova, ennesima, one man band dall’Australia, (e quest’anno abbiamo superato ogni record), a rilasciare questo five-tracks di quasi 55 minuti. Terry Vainoras, l’architetto dietro a tutto ciò, non è di certo uno sprovveduto, avendo militato tra gli altri in Cryptal Darkness, The Eternal ed Insomnius Dei, tutte formazioni che nell’underground death doom, hanno avuto un più che discreto eco. Dopo essersi accasato all’Hypnotic Dirge Records, ecco giungere il primo lavoro che si apre con i versi di scimmie impazzite. Non a caso la prima lugubre traccia, si intitola “Between Apes and Angel” e i suoi quasi dieci minuti confermano la pesantezza di un suono all’insegna del death doom britannico, che segna come punto di interesse la metà della traccia, dove alla voce compare il clone del vocalist dei My Dying Bride che immediatamente mi spinge a verificare nel booklet, che non ci sia proprio Aaron Stainthorpe, in qualità di guest vocalist. Niente da fare, gli ospiti si limitano alla presenza alla voce di Phoebe Pinnock (una sorta di Bjork) in “Prolong this Agony” e “Wailing my Keen” e D’arcy Molan, sassofonista in “The Most Subtle of Storms”, ma di Aaron nessuna traccia. E allora deve essere per forza il bravo Terry a modulare la voce come lo straziante vocalist inglese. Per ciò che concerne la musica invece, siamo ancora in una fase piuttosto embrionale a livello di ritmiche, ancora evidentemente troppo legate agli stilemi classici di un genere, che pecca di un immobilismo e rigore assoluto. Ci sono tuttavia vari tentativi di donare un pizzico di originalità al prodotto, con l’inserto femminile di Phoebe alla voce nelle due song sopra menzionate, che acquisiscono un che di stravagante, quasi avanguardistico, anche se poi non mancano le consuete aperture acustiche, su cui si andranno ovviamente a stagliare le voci growl ed una ritmica bella tosta. Non è certo facile trovare delle nuove soluzioni ad un genere che non ha la benché minima voglia di evolversi. Eppure il buon Terry, talvolta mi dà l’idea di volerci provare, lanciando, accanto ad incursioni chitarristiche non del tutto originali, ma palesemente influenzate dai suoni della terra d’Albione, altre trovate che invece parrebbero proprio il desiderio di prendere le distanze dal genere, come l’incedere asfissiante simil industriale/marziale di “Seven Sisters of Sleep”. Superati i minuti di angoscia e quel forte senso di claustrofobia della precedente traccia, mi accingo ad ascoltare quella song per cui nutrivo un certo interesse per la presenza del sax. A parte l’ennesimo avanzare inquietante, tra vocals che passano con estrema disinvoltura, dal growl allo scream ed infine al tetro clean, e con i suoni costantemente pregni di un feeling degni del teatro dell’horror, arrivo finalmente a gustarmi lo squarcio malvagio del sax in una notte di luna piena. Brividi. Brividi che percorrono le mie braccia per uno dei break più belli che abbia mai sentito. Dicevo io che il buon Terry voleva provarci a differenziarsi dalla massa abnorme di band che affollano il marasma doom/funeral, peccato solo che la divagazione non sia stata certo tra le più lunghe. Quel che è positivo è senza dubbio che le premesse per un miglioramento, per trovare e tracciare nuovi sentieri ci siano, per non rimanere bloccati in quell’immobilismo di cui parlavo poc’anzi. Sicuramente si poteva fare a meno degli ultimi quattro minuti della song, fatta di suoni marini. A chiudere l’album ci pensa la sorprendente e quasi “tooliana” “Wailing my Keen”, in cui ricompare la brava Phoebe accanto all’eccelsa voce di Terry, che qui supera se stesso… Insomma, questo primo capitolo dei Subterranean Disposition, non è cosi facile da digerire, ma quando anche voi, avrete metabolizzato i suoni qui contenuti, non potrete che rimanerne più che soddisfatti. Da tenere sotto traccia oculatamente… (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records)
Voto: 70

https://www.facebook.com/SubterraneanDisposition