Cerca nel blog

domenica 22 gennaio 2012

Cradle of Filth - Darkly, Darkly, Venus Aversa

#PER CHI AMA: Black Gothic Symph
È un piacere per me, presentarvi l’ultima fatica dei Cradle Of Filth. Li avevamo lasciati con “Godspeed on the Devil’s Thunder”, sono ritornati con un capolavoro, un melodramma in musica, basato sulla storia di Lilith intitolato “Darkly, Darkly, Venus Aversa”. Questo nuovo concept album dei Cradle è suddiviso in due cd, uno con 11 track e un secondo con 4 brani. Il primo cd si apre con “The Cult Of Venus Aversa”, dove un bel clavicembalo dolce, dalla melodia settecentesca, fa da apripista, accompagnato da una voce femminile, che sembra quasi prepararci a questa esperienza musicale, e sembra quasi minacciarci quando dice “stanotte arrivo per te…” ed è vero, questo cd sembra avere una vita propria, delle proprie emozioni… Dopo questo attimo di tranquillità (non ve ne aspettate molti questo cd è totalmente violento, potente, devastante e come sempre erotico), il pezzo si concede a noi in tutta la sua brutalità: la batteria inizia le sue rullate veloci, la doppia cassa ci colpisce allo stomaco, le chitarre sono distorte, veloci, mai scontate, sempre in puro stile Cradle sia chiaro, tuttavia c’è da notare quale egregio lavoro sia stato fatto, quando scopriamo la voglia di usare riff diversi, lontani dai soliti canoni black o gothic. Dopo i sette minuti iniziali decisamente oscuri della opening track, ho come la percezione di respirare la stessa aria di “Midian”, per lo meno quella stessa creativa genialità. Passando a “One Foul Step From The Abyss”, una bella melodia di pianoforte ci dà il benvenuto, alla quale poi si attaccano ben presto delle melodie orchestrali, prima della deflagrazione del pezzo vero e proprio: brutale in pieno stile CoF, con i riff di chitarra che per tutto il pezzo si mescolano con le parti orchestrali innescando forti sensazioni, senza mai deludere, anzi meravigliandomi sempre di più, per la vena creativa di Dani (la cui voce è certamente più matura) e soci. Passo a “Retreat of the Sacred Heart”, il suo inizio ricorda “Glided Cunt”, ma è molto più cattiva con il rifferama sempre molto acuminato a supporto di ottime parti atmosferiche, vero pezzo forte di questo lavoro. “Persecution Song” mostra un’altra avvincente melodia di piano iniziale prima di abbandonare progressivamente la propria rilassatezza fino al ritornello centrale. In questa canzone c’è una perfetta amalgama tra i vari momenti (feroci e sognanti), come se si fosse in teatro ad assistere ad una rappresentazione, i cui atti però li ritroviamo in una solo brano. “Lilith Immaculate” si lascia ricordare per la bella voce femminile e il chorus centrale. Skippo velocemente (non vorrei tediarvi troppo) a “Forgive Me Father (I Have Sinned)”, (che è anche il primo singolo estratto dall’album e del quale è stato fatto il video) dove veniamo accolti da una bel riff di chitarra iniziale e dove rimango sorpreso dal modo di cantare di Dani che nella sua veste pulita, devo ammettere possedere una gran bella voce. Ritroviamo sempre la solita batteria quasi da sincope cerebrale, davvero questa volta i nostri hanno sovradosato il tutto con intelligente irruenza. Del secondo cd vorrei citare “Mistress From the Sucking Pit”, che ancora una volta si apre con un meraviglioso piano, che poi viene fagocitato dall’entrata distruttiva e potente della ritmica. Tutto in questo pezzo scorre veloce, dalla batteria frenetica e tipicamente black, al riffing distorto che sembra quasi tagliare l’orecchio all’ascoltatore, prima di trascinarmi verso la fine del pezzo, in un misto di sensazioni angeliche e demoniache, alle quali non sono stato in grado di sottrarmi. Il pezzo corre via, veloce come un'esecuzione di un condannato a morte, maledettamente trascinante, prima che le chitarre si mischino ad un assolo di piano pulito, morbido quasi delicato, che contrappone la propria dolcezza ed eleganza alla malvagità degli altri strumenti. Posso concludere questo viaggio nel mondo infestato da creature demoniache, consigliando caldamente l’acquisto e l’ascolto in religioso silenzio, affermando con certezza che per l’ennesima volta la band d’Albione, è riuscita a regalarmi le sensazioni che mi aspettavo, sebbene da più parti siano stati accusati di essere divenuti commerciali. Ebbene, mi trovo completamente in disaccordo con queste affermazioni perché la musica è l’unica cosa sulla quale ognuno di noi può vederla in maniera soggettiva: per me i Cradle non si sono venduti, ma sono semplicemente cresciuti ed evoluti artisticamente, nella vita si cambia, non si può fare solo musica da segheria… Che dire quindi, se non complimenti ai Cradle che per me hanno centrato di nuovo l’obiettivo, conferendo arte, stile, ed eleganza ad un genere un po’ troppo bistrattato. (PanDaemonAeon)

(Peaceville Records)
Voto: 85
 

Forgotten Sunrise - Ru:mipu:dus

#PER CHI AMA: Electro, Avantgarde, Death, Arcturus, Ulver
Con i Forgotten Sunrise pensavo mi sarei accostato ad una death metal band e in effetti è proprio in quel filone musicale che il gruppo estone si è fatto le ossa, pubblicando numerosi mcd durante l'intero corso degli anni '90. In “Ru:mipu:dus”, però, di death metal non vi è quasi più traccia e la nuova dimensione in cui il gruppo ha deciso di muoversi, non solo mette a dura prova qualsiasi tentativo di classificazione, ma lascia anche stupefatti per l'estrema disinvoltura dimostrata dai quattro musicisti nell'abbracciare svariati generi musicali e nel plasmarli in un insieme omogeneo di brani. Se di ibrido si può parlare, il termine va quindi inteso nella sua accezione positiva, vista anche la distanza che i Forgotten Sunrise mantengono da certe soluzioni pacchiane o da quelle scelte infelici in cui si è soliti incorrere quando diventano troppi gli ingredienti da mescolare assieme. Al contrario, le morbide venature darkwave, le eccentriche contaminazioni elettroniche e i retaggi vocali death metal diventano inebrianti flussi di emozioni, che si incontrano seguendo movenze sinuose ed eleganti. La flebile voce della cantante Tiiu Kiik conferisce inoltre un tono di cupo astrattismo all'intero lavoro, rendendo veramente speciali le note di brani visionari come ''Never(k)now” e “Vhatsoewer”. Personalmente, abituato come sono a grugniti di ogni sorta, non ho faticato ad apprezzare nemmeno il growling di Anders Melts, tuttavia, dovendo essere obiettivo, penso che quest'ultimo aspetto potrà costituire un ostacolo non indifferente per gli ascoltatori dai palati più fini. A loro mi rivolgo, invitando a non snobbare “Ru:mipu:dus” e a godere invece di canzoni giocose e bizzarre come “Surroundcosmos” o “Please Disco-nnect Me”, l'una illuminata da un irresistibile ritmo di pop latino, l'altra introdotta addirittura da una suoneria Nokia! Ottima anche “Thou-Sand-Men”, dove Anders si cimenta in un'interpretazione vocale molto vicina allo stile di Brendan Perry, dimostrando di esserne un emulo convincente e lasciando supporre un'influenza Dead Can Dance abbastanza marcata. Chiudo segnalandovi il video di “Never(k)now”, presente nel cd e disponibile pure sul sito della My Kingdom Music, dove potrete scaricarlo nella sua versione integrale. (Roberto Alba)

(My Kingdom Music)
Voto: 75
 

Flëur - Magic

#PER CHI AMA: Ethereal Folk
La Prikosnovénie non poteva inaugurare in modo migliore le sue pubblicazioni di primavera se non con questo nuovo lavoro dei Flëur: “Magic”, opera seconda per il progetto proveniente da Odessa, città situata nella parte meridionale dell'Ucraina. Il gruppo (ma sembra riduttivo volerlo chiamare con questo nome!) si compone di ben undici musicisti, tra i quali spiccano le due cantanti e principali compositrici/liriste Olga Pulatova ed Elena Voynarovskaya. La lista degli strumenti suonati in quest'album è tale da far intuire subito cosa ci aspetta dall'ascolto: flauto, violoncello, violino, percussioni, pianoforte, per citarne qualcuno... sicuramente un lavoro di musica eterea, ma non la "solita" musica eterea! I titoli delle canzoni sono tutti in inglese, come a voler permettere all'ascoltatore di catturare l'idea che ha generato ogni pezzo, ma i testi sono in ucraino e l'espressività musicale di questa lingua è decisamente unica. Il titolo “Magic” sembra proprio calzare a pennello, l'album è infatti un sentiero magico costellato di tredici melodie che accarezzano l'anima, cullandola dolcemente attraverso immaginari fiabeschi dalle tinte tenui, delicatissime. Olga ed Elena si alternano alla voce accompagnate da un trionfo di armoniose tessiture di melodie pop impreziosite da eleganti disegni neoclassici, ma spesso i Flëur sembrano attingere anche dalla tradizione russa, o almeno così appare ad orecchie profane come le mie cui sembra di percepire nel cantato ritmato di alcune canzoni quali “Never”, “The Russian Roulette” e “Horizon” echi di una tradizione slava, comunque fortemente ed egregiamente contaminata da sonorità più attuali. L'avvicendarsi di Olga ed Elena alle voci, oltre a caratterizzare il lavoro di una certa varietà, segna anche tangibili differenze stilistiche nei brani, così che a Olga, dalla voce più severa e che si accompagna sempre al piano, sono affidati i brani di connotazione decisamente pop, dove gli strumenti a corda creano melodie più morbide e classicheggianti (“The Emptiness”, “Formalin”, “Repair”, “I Will Do it” e “The String” sono tra le più caratteristiche in tal senso), mentre Elena, che si accompagna con la chitarra classica ed è dotata di una timbrica più dolce, canta nei brani più raccolti e spesso malinconici, dove emergono influenze folk o che sono caratterizzati da ritmiche più decise (“Almost Real”, “The Ballad of White Wings and Scarlet Petals”, “Medaillion”). Lasciatevi ammaliare dai Flëur, scoprirete un mondo abitato da fate e sogni che non vorrete mai abbandonare. (Laura Dentico)

(Prikosnovénie)
Voto: 80
 

Frailty - Lost Lifeless Lights

#PER CHI AMA: Death Doom, Saturnus
Ed eccomi stavolta, a parlare di una band, i Frailty, in circolazione da otto anni, nella lontana (ma non tanto) Lettonia: l'album che mi accingo ad illustrare risale al 2008, il loro primo full-lenght. Le tematiche sono concentrate prevalentemente sulla morte e spiritualità, con qualche accenno alla mitologia. L'intro sembra preparare l'ascoltatore ad un viaggio nelle profondità dell'animo umano, avvalendosi di suoni distorti e caotici: “I Know Your Pain” e “The River of Serpents” ricalcano perfettamente il sound del doom/death, con suoni pesanti e lenti, esprimendo al meglio il messaggio di dolore e malinconia che traspare dai testi. Batteria e chitarra ripetono lo stesso motivo, mentre verso la fine lasciano spazio a note di pianoforte, in modo tale da accrescere il pathos. “Ariadne” è più veloce e meno pesante, mentre Martins viene accompagnato da Edmunds nei ritornelli, dando così l'impressione di solennità per questa ode ad una fanciulla perduta; persino l'assolo di chitarra illustra molto bene il peso della perdita, aiutata anche da note di tastiera appena percettibili. Si torna alle atmosfere cupe ed introverse con “Graphics in Ebony”, dove il growl si alterna ad una voce melodica e grave, con un'atmosfera, oserei dire, magica ed eterea: è solo dalla metà in poi che il tono diventa più sul demoniaco andante (oserei dire pseudo-isterico), ma senza mai perdere la vena doom/death che li caratterizza. “The Fall of Eve” segue lo stile della precedente, ma con un timbro più melodico, rendendo il tutto di più facile ascolto. È con “A Summer to Die” che le cose cambiano: il cantato ricalca quello precedente di “Graphics in Ebony”, avendo cura di curare il ritornello in modo tale da renderlo anche canticchiabile ed orecchiabile (senza mai cadere nel commerciale più blando). La malinconia più nera fa da sfondo per “The Scorn”, il brano più longevo di tutto l'album; note di pianoforte introducono una chitarra distorta e una batteria pacata, con la voce più grave che Martins possa mai trovare. Sebbene all'inizio il motivo sia lento, soltanto poi inizia ad essere più accelerato, con la voce demoniaca (di cui sopra) e un loop di chitarra unito alla batteria che si ripete, sottolineando la solennità della morte; si torna poi alla lentezza dell'inizio, come una sorta di mare scuro con le onde inerti che si ripetono ogni volta. Chicca del brano: un momento di totale tristezza e fatica, in cui persino il cantante pare fatichi a parlare. Il brano prosegue e si conclude con un assolo di chitarra molto tranquillo, quasi ad aver esaurito tutte le forze. Con la cover dei Monro di “Lugsana” si conclude l'album: un ottimo brano per finire in bellezza un viaggio all'interno del doom/death lettone, che nulla ha da invidiare ad altre band maggiori o più conosciute. Per chi ha voglia di esplorare il metal proveniente da stati “neonati”, questa è un'occasione da non perdere. (Samantha Pigozzo)
 
(Solitude Productions)
Voto: 70
 

Maryposh - La Luna Insegue il Sole

#PER CHI AMA: Rock Psichedelico
I Maryposh sono bravi e la differenza tra loro e un gruppo professionista non c'è. Con questo potrei chiudere qua la recensione perché stiamo parlando di una band e del loro album, perfetto per il grande salto. Se il mercato discografico avesse una giustizia sua, farebbe sparire tutta l'inutilità, la mediocrità e l’indolenza che ci propinano e darebbe spazio a musicisti che hanno molto da dire. "La Luna Insegue il Sole" è un album rock con alcune influenze pop che vengono spazzate via dalle stupende chitarre di Diego (anche autore dei brani), dalla psichedelia di alcuni arrangiamenti, dal violino cattivo e ammaliatore di Laura e dalla voce suadente di Veronica. "Angelo Nero" apre il cd in maniera degna, con dei bei riff di chitarra che richiamano i Tool e la ritmica incalzante di batteria e basso. Un pezzo che invece si insinua nel subconscio è "Guinzaglio", lento ma al contempo violento, anche nelle parole stesse che non sono mai banali e scontate. Bisogna dire che gli arrangiamenti e la post produzione hanno dato qualcosa in più al pezzo che comunque è apprezzabilissimo anche in versione unplugged (ve li consiglio). La quinta canzone, "Vino Rosso", è la dimostrazione che si può scrivere un bel testo anche senza parlare di amori e tradimenti, ottima pensata messa in pratica sempre in maniera impeccabile. Le parole di Veronica e l' archetto di Laura ondeggiano nell' aria e amoreggiano continuamente con le dure corde di Diego e compagni. Questo dualismo tra il bene e il male ripercorre un po’ in tutti i pezzi, come una continua danza di corteggiamento, dove le parti si toccano e si allontanano subito. All'infinito. Scusate per questa recensione più emozionale che tecnica ma ormai poca musica fa quest'effetto. Purtroppo. (Michele Montanari)

(Totally Unnecessary Records)
Voto: 85
 

Nerve End - Axis

#PER CHI AMA: Djent, Experimental, Swedish Death, Devin Townsend
Ma quante diavolo di band ci sono in Finlandia (e dire che sono poco più di 5 milioni di abitanti), ma soprattutto come è possibile che il livello qualitativo medio sia sempre cosi elevato? Domande a cui non riuscirò mai a dare delle risposte, ma ben venga, se ogni giorno troverò chi sia in grado di infondermi piacere con una semplice proposta musicale. I Nerve End arrivano dalla sconosciuta cittadina di Joensuu e un paio di mesi fa hanno rilasciato questo inaspettato EP (il secondo) di quattro pezzi in un pregevole formato digipack. La proposta del quartetto lappone? Beh semplice no: prendete la follia di Devin Townsend, delle belle schitarrate djent, tonnellate di riff catchy e grondanti atmosfere grooveggianti, il tutto spruzzato da una melodia squisitamente swedish (scuola In Flames) e bagnato in sonorità progressive, et voilà i giochi sono fatti, che ne dite? Sulla carta sembra facile, ma vi garantisco che servono le palle quadrate per proporre un simile sound e i nostri sembrano proprio avere gli attributi giusti per promuovere questo tipo di musica. La classe d’altro canto non si compra al mercato, è insita nei nostri e se alla base non ci fossero degli ottimi musicisti, con le due asce che si intrecciano in sofisticati giochi chitarristici, con la voce di Joonas a richiamare quella del genietto canadese, e con una sezione ritmica (basso e voce) esplosiva, saremo qui a parlare di una qualsiasi anonima band proveniente da un qualsiasi anonimo paese del mondo. Ma i Nerve End, con i loro quattro pezzi (e solo per questo mi sono mantenuto basso col voto), sfoderano una prova convincente al secondo tentativo (l’EP del 2010 non ho ancora avuto modo di ascoltarlo, ma andrò di sicuro a recuperarmelo). “Venom Willow”, “Axis of Rotation” forse i pezzi migliori: intraprendenti, imprevedibili, folli, forse già pronti a strappare lo scettro al buon Devin, grazie ad una proposta davvero convincente. Esaltanti! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75
 

Moloken - Rural

#PER CHI AMA: Post Metal, Sludge
Li avevamo lasciati poco più di un anno fa, nell’autunno del 2010 con il loro primo brillante full lenght, “Our Astral Circle” e ora finalmente ritornano i fratelli Bäckström, come sempre egregiamente supportati dalla Discouraged Records, con un nuovo lavoro. Il sound non cambia cosi palesemente rispetto al precedente album, e di certo non può essere un male, se eravate rimasti piacevolmente impressionati da quella release. La musica dei nostri continua dunque a viaggiare in territori post metal/sludge, di quello però dalle tinte più fosche, meno accessibile, più carico di rabbia e di certo meno pregno di facili melodie. “Rural” è un album incazzato, mettetevela via. Nelle sue sette song e nei suoi lunghi cinquanta minuti, alterna umori che serpeggiano tra il furibondo e l’irascibile, lasciando saltuariamente spazio a frangenti al limite del post rock (la seconda metà di “Ulv”). Quel che mi stupisce maggiormente nella nuova opera dei Moloken, è una certa combinazione nei suoni che escono dalle corde delle chitarre, talvolta veramente deliranti o del tutto disarmonici (penso al finale psicotico di “Waltz of Despair” per esempio o all’ipnotico inizio della già citata “Ulv”, song pachidermica – della durata di 16 minuti – feroce ma al contempo oscura, che rimembra quei vaneggiamenti di scuola Ved Buens Ende), che contribuiscono a disorientare non poco l’ascoltatore. La tribale e schizofrenica “Casus” funge da ponte di connessione con “Blank Point” e a poco a poco inizio a realizzare quanto di buono sia contenuto in “Rural”, un lavoro a dir poco controverso, sicuramente di difficile digestione, ma data la sua complessità, dall’importante divenire. Le vocals di Niklas continuano ad essere al limite del cavernicolo, cosi come sottolineato nella precedente recensione, ma poco importa in quanto misuro la band nella sua capacità di variare le proprie sonorità e vi garantisco che non c’è un attimo di tregua in cui si corra il rischio di appisolarsi o adagiarsi, sebbene si abbia l’impressione che il sound dei nostri possa talvolta rimanere intrappolato in sonorità doomish o addirittura psichedeliche (e penso alla soffocante e malata “Thin Line”); nessuna paura però, perché il quartetto di Holmsund ne esce ancor più inferocito e pronto a maciullarvi le ossa. Sono sconquassato dall’irruenza dei nostri, dal loro cupo grigiore, quasi stessi osservando il sole che tramonta veloce all’orizzonte, lasciando ben presto il posto ad una fitta nebbia che si impossessa dell’oscurità della notte. Ostili, nevrotici, glaciali, paurosi; sono solo alcune degli aggettivi che escono dalla mia mente dopo l’ascolto di questo deturpante “Rural”, album da avere ad ogni costo nella vostra collezione. Farneticanti! (Francesco Scarci)

(Discouraged Records)
Voto: 85
 

Huldra - Signals from the Void

#PER CHI AMA: Post Metal, Ambient, Isis, The Ocean
Navigare nel web è un po’ come visitare una galleria d’arte: puoi ammirare qualcosa di meraviglioso oppure puoi avere la sfortuna di incorrere in qualcosa difficilmente intellegibile o addirittura privo di senso. Quest’oggi devo ammettere di essere stato assai fortunato e il trovarmi fra le mani l’EP d’esordio degli statunitensi Huldra, rappresenta una buona medicina per superare queste gelide giornate invernali. Il quintetto di Salt Lake City ci ammalia fin dalle prime note con un post metal atmosferico che subitamente richiama alla memoria i maestri Isis e The Ocean, e sinceramente, avendo grande nostalgia per la band di Boston ed essendo un grande fan del collettivo di Berlino, mi lascio immediatamente cullare dalle sonorità proposte dai nostri. Si parte piano, quasi in punta di piedi con “A Signal Permeates the Sky”: i primi cinque minuti sono dominati da chitarre vellutate, sonorità darkeggianti, vocals pulite, ritmiche blande e suoni dilatati (sludge, si confermo), prima che l’ensemble nord americano sprigioni la propria forza dirompente, scatenata da una sezione ritmica pregevole e dal growling furente di Matt Brotherton. Ma è solo un fuoco di paglia perché la rabbia dei nostri dura pochi minuti, prima di lasciare ancora una volta il posto a notturne sonorità post rock, che anticipano l’esplosione finale, che mi fa innamorare immediatamente del suono di questa new sensation d’oltreoceano (esiste infatti solo dal 2009). Un intermezzo ambient/noise fa da ponte alla successiva “Ashen Lips”, che si apre con un arpeggio e una ancestrale melodia; i toni sono soffusi (chi ha citato i Mogwai?), la voce lamentosa e in sottofondo, ma la tensione è palpabile, non vi è tranquillità, si intuisce che qualcosa sta per accadere e poi, eccola la fragorosa esplosione delle chitarre e del growling possente di Matt. Eh si, il gioco della prima song si ripete anche in questa seconda traccia, che nei suoi dieci minuti abbondanti incanta per i suoi cambi di tempo, per quegli effetti cosi tanto posti in sottofondo da risultare a dir poco ipnotici; le chitarre si incrociano in duetti da lasciarci senza fiato, e il vocalist dà sfoggio di una eccellente performance vocale. Sono estasiato e non mi accorgo che un altro intermezzo mi accompagna alla conclusiva “A Foothill Lies on the Backside of the Mountain that Looms Before us”, undici minuti che si aprono in modo tenebroso, angosciante, ma ormai so già cosa attendermi, mi sono preparato al sound dei nostri: mi stanno solo tendendo una trappola, dove non voglio assolutamente cadere. Facile a dirsi, un po’ più difficile a farsi. Le note sono deliranti, le vocals cariche di pathos, malinconiche; le chitarre si rincorrono affannose in quest’ultimo drammatico saluto, che chiude un lavoro di tre pezzi (per 42 minuti di musica spaccati), che ha il pregio di conquistarci sin dalle prime battute e deliziarci nonostante la lunghezza delle sue suite. Una sola parola per gli Huldra: sublimi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85