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mercoledì 9 febbraio 2011

Klabautamann - Merkur


Devo essere sincero, per iniziare ad apprezzare questo disco mi ci sono voluti veramente tantissimi ascolti perché “Merkur”non è di sicuro uno di quei lavori che ti si stampano immediatamente nella testa o sei è in grado di apprezzare fin dal primo momento. Certo è che, quando il sound dei tedeschi Klabautamann, inizia ad insinuarsi nelle nostre menti, tutto diventa alla fine estremamente interessante e coinvolgente. Partendo da una remota base black metal, l’act teutonico costruisce il proprio sound, basandosi sui sacri insegnamenti degli ultimi Enslaved (quelli di “Vertebrae” o “Isa” tanto per capirci, fino ad affondare le proprie radici nel psichedelico “Monumensium”) o dei deliranti Fleurety, senza dimenticare che l’alone progressive che aleggia intorno a questa release, si ispira ai gods svedesi Opeth, ma riletti in chiave black piuttosto che death. Tutto questo, non per dire che i nostri crucconi siano dei bravi copioni, ma solo per farvi capire che quello che ne viene fuori è un qualcosa di alta classe e di comunque stranamente originale. Non tralasciamo poi le tipiche sfuriate black come in “Herbsthauch” o “When I Long for Life”, dove il duo di Meckenheim mostra veramente di saper far male con il tipico tagliente rifferama nord europeo. Ciò che poi ci stupisce in mezzo a queste tiratissime ritmiche e spiazza completamente, sono quei sorprendenti momenti di atmosfera solenne, dove divagazioni jazz, acustiche o avantgarde, riescono a sorprenderci alla grande per la loro classe cristallina, genuina e geniale. Quello su cui lavorerei maggiormente in mezzo a tutto questo ben di dio, è forse la voce, che renderei decisamente meno lacerante nel suo screaming ferino, cedendo il passo a un tono più oscuro o pulito. Che altro dire su questa new sensation tedesca? Se siete alla ricerca di musica cerebrale, seducente e assolutamente non scontata, “Merkur” farà di certo al caso vostro. Affascinanti! (Francesco Scarci)

(Zeitgeister)
Voto: 80

Sweet Insanity - Believe in Some Kind of Truth


Apprezzabile il gesto, ma darci dentro! I Sweet Insanity sono una band della provincia di Bologna che si forma del 2005. Registrano il loro primo EP autoprodotto, "Welcome To The Theater", tra il novembre 2006 e il febbraio 2007. Nel 2008 vengono messi sotto contratto dalla loro attuale etichetta, l’Hurricane Shiva. Mi capita tra le mani questo loro primo lavoro di ampio respiro. Inforco le cuffie e si parte. Si sente subito chi ha influenzato lo stile di questi ragazzi: il debito nei confronti dei “Four Horsemen” mi fa venir voglia di lasciare stare. Superato questo momento d’impaccio, mi rituffo però nell’ascolto. Per carità, nulla di nuovo sotto il sole: le canzoni sono suonate bene, le chitarre e le percussioni ci sono, i ragazzi ci sanno fare, con assoli puliti e la batteria bella potente quando serve. Ecco, la voce del cantante, molto melodica per il genere, mi lascia un po’ perplesso: s’incunea bene nelle sonorità ma pare non essere abbastanza potente e caratteristica. Il disco ha una sua linea, seppur non originale. “Believe in Some Kind of Truth” si apre con un’arpeggiata “Zeia Mania”, cui segue poi “Ready to Burn” un po’ più tirata (chi dice che ricorda “Fuel” dei Metallica?) che dà il “là” per i brani seguenti. “Conflict” è la prima traccia che si discosta dalle altre, con una parte melodica che permette alla voce del singer di poter spaziare liberamente. Questa vena meno potente si ritroverà più avanti anche in “Angel”. ”Libido”, con parti vagamente orientaleggianti e un finale particolarmente veloce, ha un qualcosa di personale e caratteristico cosi come pure “Funeral Lullaby” che prende le distanze dal resto delle song; melodica con arpeggi, in altri tempi sarebbe stata indicata come la “power ballad” del disco. Senza infamia e senza lode le altre tracce di questa release, a parte “Sons of the Dust” che ha l’aggravante della lunghezza. I testi delle canzoni sono semplici e diretti, cosa apprezzabile, ma forse un po’ troppo. Grossa pecca di questo lavoro è ahimè la bassa qualità di registrazione, davvero una produzione migliore avrebbe meglio portato alla luce le doti della band. Pur con questi limiti, mi sento di considerare questo LP positivo. Chi cerca le sonorità di “Re-Load” (sempre che esistano persone che ne siano in cerca), potrà trovare questa fatica addirittura divertente. Possono fare di meglio e sganciarsi magari dal lavoro e dalla forte dipendenza di altre band, sempre che lo vogliano e non si divertano già abbastanza così. Migliorabili! (Alberto Merlotti)

(Hurricane Shiva)
Voto: 65

Maninfeast - How One Becomes What One Is


Che bello l’underground, cosi pullulante di band ai più sconosciuti, pullulante di band che meriterebbero peraltro un contratto più di un qualsiasi altro gruppo, magari già affermato. Questa premessa perché la scoperta di oggi arriva dal sottobosco lusitano ed è ancora una volta sorprendente quante cose interessanti possano annidarsi là sotto. Signori e signore vi presento i Maninfeast, act proveniente dal Portogallo, formatosi poco più di un anno e mezzo fa e capace di rilasciare questo introspettivo Ep di 5 pezzi. La musica proposta? Non è cosi semplice da descrivere, complice il perfetto mix tra sonorità provenienti dai più disparati ambiti musicali. L’apertura è affidata a “Speaking Void”, song tranquillissima, quasi una lunghissima intro a cavallo tra il rock progressive e l’ambient. La successiva “Ewige Wiederkunft” mi fa immediatamente drizzare le orecchie: per quella sua apertura arabeggiante, ho forse un desiderio recondito di sentire nuovamente le sonorità dell’Ep d’esordio dei loro conterranei Moonspell. Questa mia speranza persiste per qualche minuto, in cui il quartetto di Lamego ci ipnotizza con il loro sound quasi psichedelico, per poi strozzarsi quando i nostri iniziano a premere un po’ di più il piede sull’acceleratore (in realtà mai più di tanto). Il sound dei Maninfeast si potrebbe descrivere infatti come “oniric metal”, per quella sua (già matura) capacità di catapultarci in un’altra dimensione, quasi sognante con lunghe soffuse ambientazioni, in cui esplodono saltuariamente rocciose chitarre e qualche vocals al limite del growl. La terza “Keynesian Model” è un ponte di raccordo, al limite della musica elettronica per quei suoi stordenti loop di synth (ad opera di Francisco Pina), con “Beyond Blindness”, song ancora una volta dall’incipit oscuro con le vocals di André Lobão che si alternano intelligentemente tra un mood assai sporco (quasi stile Sepultura) e uno più pulito, mentre le ritmiche viaggiano sospese tra il progressive, la musica etnica, l’ambient e il sound psichedelico ala Tool. A chiudere il Mcd ci pensa “Magic Stones”, la song più metal delle cinque (e quella che mi piace anche meno tra l’altro), in cui la voce di André adotta uno stile più alternative, mentre le ritmiche più tirate rispetto ai brani precedenti, hanno un certo flavour stoner. Concettualmente vicino alla filosofia di Friedrich Nietzsche, al pensiero del teorico di Lord John Maynard Keynes e anche al libro di Madame Blavatsky, “How One Becomes What One Is” ci mostra una nuova realtà proveniente dal Portogallo, che ci fa ben sperare per il futuro. Forti della produzione affidata a Guilhermino Martins (ThanatoSchizO), tra l’altro anche in veste di guest come tastierista nella seconda traccia, I Maninfeast rappresentano a mio avviso la new sensation dal Portogallo. Promossi a pieni voti! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

Il Grande Scisma d'Oriente - Synesthesia


Anche l’Italia ha i suoi Opeth? Dall’ascolto di questo Mcd autoprodotto, la risposta parrebbe proprio scontata… Si. L’influenza che la band di Mikael Akerfeld e soci è ormai globale, e i romani Il Grande Scisma d’Oriente non ne sono immuni; e ciò non è assolutamente un danno per la musica, anzi, a mio avviso è un modo per far crescere un genere che sicuramente avrà molto da dire in futuro. Fatta questa premessa, è abbastanza chiara quella che sia la proposta musicale del five pieces di Roma: prendete come punto di partenza il sound degli Opeth di “Blackwater Park” con tutte le sue caratteristiche: song di lunga durata, frangenti acustici intervallati a un riffing corposo ben strutturato, l’alternanza tra growling e cleaning vocals e il gioco è fatto. Questo è quello che si evince infatti da “Synesthesia II”, mentre in “Hypnagogia II” si fa molto più forte l’influenza dei nostrani Novembre, sia nei giri di chitarra che nelle linee vocali pulite. È chiaro che la band capitolina si trovi a proprio agio con queste sonorità anche nella conclusiva “Onironauta”, connubio perfetto tra le sonorità delle due band citate sopra. Che altro dire, se non che la preparazione tecnica è più che buona, le idee ci sono ma andrebbero sfruttate decisamente meglio, cercando di non scadere talvolta nel plagio, e infine invito la formazione romana a lavorare all’insegna di una ricerca costante di una propria definita personalità perché, diciamocelo, questa band, dal nome cosi affascinante, ha senza dubbio le carte in regola per ottenere un buon successo. E allora, scrolliamoci di dosso questi fantasmi e proviamo con tutte le forza a disposizione, a cercare il proprio sound. “Synesthesia” è un discreto punto di partenza, ma come dicevano i professori a scuola, “l’alunno si impegna ma potrebbe dare molto di più”. Volere è potere! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

domenica 6 febbraio 2011

Black Infinity - 666 Metal


Arrivano dal Vietnam (Saigon), questi Black Infinity, gruppo formatosi nel 2006. Il loro lavoro posto alla nostra attenzione è “666 Metal” (già il titolo appare un po’ scontato) registrato nel 2009 per la SongNam.Il cd è composto da 11 brani e lo stile è un tipico melodic death unito a ruffianerie tipiche del gothic metal. I ragazzi promettono bene, ma a causa della loro immaturità, mostrano poche idee innovative, poiché probabilmente hanno voluto lavorare su un qualcosa di “sicuro”, senza osare nemmeno un pochino. Ci sono tipiche ballate metal unite a cavalcate più tipicamente death. Canzoni come “Intro Return For Dying” e “Lost Angels”, possono rappresentare quanto di meglio i nostri abbiano da offrire. Mostra un po’ più di interesse la traccia n° 4, “The Secret”, che offre (nell’intro) una buona unione tra la musica etnica vietnamita (o comunque i tipici suoni orientali) e il gothic metal. La song “Embracing Hearts“ è un’altra tipica metal ballad, quasi rilassante, “diciamo sentimentale”. La traccia numero 7, “When Her Love On Fire”, è invece un pezzo strumentale, con il solo pianoforte che ha il fine esclusivo di denotare la bravura del tastierista ma nulla più. Le tracce “Deathbed Illusion”, ”Celebrating Nightmare”, “God” e “Apocalyptic” (con quest’ultima a chiudere il cd), si rivelano molto violente, ben ritmate, suonate adeguatamente, ma purtroppo non mostrano le potenziali capacità che questa band potrebbe offrire, potendo sfruttare le proprie origini (cosi come hanno invece fatto altri act orientali come Chthonian o Tyrant) e alla fine per tutte le 11 tracce si finisce per percepire una sensazione di già sentito. Peccato! Come dire “Bocciati no! Ma rimandati al prossimo lavoro, sicuramente auspicando che i nostri possano miscelare maggiormente la musica estrema a quella dell’estremo oriente”. (PanDaemonAeon)

(Songnam)
Voto:60

mercoledì 2 febbraio 2011

Pornomatic - Pornomatic


Siamo sinceri, il Glam non è uno dei miei generi ma scrivendo recensioni bisogna essere obiettivi. Mettiamoci su 'sta parrucca bionda e spariamoci i Pornomatic. Premetto, ora vi racconto tutto ma preferirei sparare ai Pornomatic... Questo duo francese che canta nella propria lingua madre cerca di ricalcare i più blasonati gruppi del genere ma non arriva mai ad emularli e tanto meno a proporre qualcosa di nuovo. Le sonorità sono scontate, gli arrangiamenti pure e dopo qualche traccia posso dire che è classificabile più come Glam Pop che Rock. Ovviamente non si può dedurre se la scelta di cantare in francese sia dovuta al fatto di voler distinguersi dalla massa o perchè il vocalist non aveva voglia di cimentarsi nella lingua britannica, di fatto sottolineo che non ho valutato i testi anche se dubito che brillino di profondità e contenuti sociali. Le chitarre più che ovvie troneggiano qua e la ma risultano sempre fredde e sterili, il vocalist sarà sicuramente amato dalle fan ma quanto a doti canore manca di quell' appeal che possa regalare qualche emozione in più. Per rispetto mio e vostro non vado ad analizzare le singole tracce e tanto meno riesco a segnalarne qualcuna degna di nota. Lasciamo quindi i Pornomatic a calcare i locali d' oltralpe, vestiti di lustrini davanti a folle (spero per loro) di donne impazzite. Poca sostanza, ma penso che ne siano più che coscienti visto che calcano la scena da qualche anno e questo album omonimo è il secondo lavoro dei Pornomatic.

(Self)
Voto: 40

domenica 30 gennaio 2011

Glacial Fear - Equilibrium Part I


"Equilibrium Part I" rappresenta il ritorno di una delle band metal italiane più longeve: un EP di 4 pezzi che segue a distanza di 2 anni, il precedente “Filthy Planet”. Il sound dell’ensemble di Catanzaro continua la personale rivisitazione del proprio sound, aprendo a nuove frontiere metalliche. Il cd è aperto da “Black Mountains”, song molto vicino alle ruvide sonorità degli Slipnokt degli esordi, mantenendo quindi uno stile old school che non potrà far storcere il naso ai fan dell’act calabrese. Ritmiche sempre massicce, suoni corrosivi e talvolta arzigogolati di Meshugghiana memoria uniti al growling malvagio di Giuseppe Pascale, caratterizzano la traccia. La successiva “Technicolor Society” ha un approccio più soft, con un accenno melodico e oserei direi malinconico nelle sue linee di chitarra con un’eccellente prova da parte del batterista. L’EP non lascia tregua e scorre via veloce con la terza “Control” dove accando ai grugniti di Mr. Pascale compare anche un clean chorus, mentre la batteria continua a sferrare micidiali attacchi ai nostri padiglioni auricolari e le chitarre che si susseguono in tecnici, quanto mai disarmonici, riffs di chitarra in un funambolico esplodere di violenza. La conclusiva “New Noise” non è altro che una cover dei Refused, band sconosciuta ai frequentatori di queste pagine, ma assai famosa nel mondo hardcore, che vi potrà garantire quattro minuti e trenta di furore, headbanging sfrenato e colate di groove, dettate da un cantato che riesce arriva a sfiorare una impostazione rap/hip-hop. Non sono certo un amante di simili sonorità, quel che è certo è che i Glacial Fear ancora una volta sono in grado di stupirci con un amalgama di sonorità ruvide, psicotiche e non del tutto immediate. Attendo ora con curiosità il nuovo cd, per capire verso quali lidi i nostri possano ampliare la prossima volta i propri confini. Malsani! (Francesco Scarci)

(Do It Yourself Conspiracy)
Voto: 70

Aneurysm - Archaic Life Form


“O la va o la spacca” devono aver pensato gli Aneurysm, una delle band più sottovalutate e sfortunate della storia metal nostrana, dopo aver confezionato questo loro nuovo terzo lavoro, dove i nostri questa volta l’hanno combinata davvero grossa. No, non temete, non prendetela con l’accezione negativa che di solito questa affermazione può avere, bensì estremamente positiva. “Archaic Life Form” rappresenta infatti un bel balzo in avanti infatti rispetto al precedente “Shades”, che non era affatto male come album, ma che mostrava ancora qualche lacuna in chiave compositiva da parte del combo veneto. Con questa nuova release invece, targata Kreative Klan Records, il quintetto veronese sfodera una prova brillante, sviluppando la propria musica su un concept album ambientato in mondo futuristico in cui l’essere umano si è estinto e le macchine popolano il pianeta, clonando l’uomo per studiare le proprie origini ma, scoperta la debolezza dei sentimenti, il progetto viene abortito. Certo io ne ho riassunto drasticamente i contenuti, ma vi garantisco che i testi si rivelano assai interessanti, cosi come la proposta musicale del resto. Il sound dei nostri, poggia costantemente su basi techno thrash fin dall’iniziale “The Clear Obscure”, che apre con una ritmica schiacciasassi, per essere interrotta solamente dalle vocals di Gianmaria Carneri; la produzione è decisamente bombastica, cosa che si rende assolutamente necessaria per rendere maggiormente fruibile l’ascolto dei campionamenti di varia natura inseriti, capaci di rendere il risultato finale assai appetibile e vario. La song risulta quindi una mistura tra aggressività, forti dosi di melodia, un elevato tasso tecnico e un sacco di stacchi cyber metal; se dovessi fare un paragone, mi verrebbe da dire che i Nevermore incontrano gli Anacrusis, suonando in stile Fear Factory, non male vero? Andiamo oltre con “The Missing Element”, dove un plauso va fatto innanzitutto alla voce di Gianmaria, migliorata enormemente rispetto al passato, dotata di una personalissima timbrica vocale, mentre la musica è un flusso di vibranti emozioni caratterizzate dal costante dualismo tra potenza e melodia. “Agent One” mostra i nostri suonare in una chiave più cyber/industrial con una serie di elementi disorientanti di sottofondo capaci realmente di trasportarci con la mente in questo immaginario mondo del futuro, mentre la sezione ritmica picchia come un ossesso e le asce sfoderano spietati killer riff. Intriganti, aggressivi e creativi, questa nuova veste degli Aneurysm mi piace un sacco e le successive “Last Farewell” (dove compaiono tra l’altro reminiscenze di scuola Meshuggah) e “Angel” (song assai malinconica, aperta da nostalgici tocchi di pianoforte e la voce di Gianmaria non può che ricordare il buon Serj Tankian) continuano a stupirmi per la loro sofisticata e intelligente personalità. Il suono di una sirena annuncia “Anomaly” e qui gli echi musicali ci riportano inizialmente ai The Kovenant, ma poi la band intraprende il proprio personalissimo percorso infarcendo la song di “anomalie”, ossia l’effetto di salto del disco come se fosse sporco, tanto da indurmi a controllare più volte se la polvere si sia depositata sulla lucida superficie del cd, ma si tratta solamente di uno scherzo giocato dall’ensemble per obbligare la mia mente a ripetere tutti questi loop anomali. È poi la volta di “Postulates” una song che viaggia a cavallo tra reminiscenze thrashcore e il suono cibernetico che caratterizza gli Aneurysm del 2011. Chiudono il cd “The Great System” e “Progeneration/Deactivation”, che sanciscono l’incredibile livello di maturità tecnico-compositivo raggiunto da questa nuova release. Non far proprio questo lavoro sarebbe uno scellerato delitto quindi datevi da fare e fatelo vostro. La sorpresa di questo 2011? Lo spero proprio, intanto in bocca al lupo! (Francesco Scarci)

(Kreative Klan Records)
Voto: 85

sabato 29 gennaio 2011

Mothercare - The Concreteness of Failure


La Kreative Klan Records, neo etichetta del chitarrista dei Mothercare, Mirko Nosari, esordisce sul mercato discografico proprio con la band del suo proprietario, che finalmente dopo un silenzio durato 5 anni e che ha visto diversi avvicendamenti all’interno della band, torna prepotentemente alla ribalta con un album che si potrà certo accostare ai gods mondiali, sfoderando una maturità artistica mai prima riscontrata. Sia ben chiaro che non ci troviamo di fronte a dei pivellini di primo pelo, ma ad una storica realtà italiana che da quasi vent'anni calca la scena underground. Abbandonate le suggestioni nu metal degli esordi, assoldato un nuovo vocalist a sostituire il defezionario Guillermo Gonzales, prese un po’ le distanze dal thrash/hardcore del precedente “Traumaturgic”, il combo veronese si presenta ai propri fan con un lavoro intelligente, moderno, dirompente che non potrà non conquistarvi per la sua estrema immediatezza, dovuta essenzialmente ad una azzeccatissima miscela di suoni brutali uniti ad una inaspettata vena melodica. Non vorrei depistarvi con la parola melodia, perché all’interno del cd scorrono fiumi di odio nei confronti di una società estremamente corrotta, che si tramutano in arrembanti ritmiche, contraddistinte da apocalittiche atmosfere, in grado come sempre di creare uno stato di disagio e profonda angoscia interiore. Dopo l’intro “The Art of Diplomacy”, esplode forte la rabbia, il furore e la violenza di “The Slow and the Proud March to Conformity”, subito eletto il mio pezzo favorito, dove tra hyper blast beat, ritmiche mozzafiato e rallentamenti in stile “meshuggahiano”, possiamo godere già da subito dell’ottima performance vocale di Simone Baldi, coadiuvato dalle backing vocals di Mirko e Fabiano, bravo a muoversi tra un growling mai troppo esasperato e vocalizzi di impostazione cibernetica. Finito l’headbanging iniziale, mi getto nella mischia con la successiva “To Be or to Sink” che dà l’idea di essere una song più ragionata della precedente, con un tappeto ritmico sempre di notevole spessore, forte anche di una produzione cristallina, effettuata presso i Bunkker Studio e mixata poi ai Kreative Klan Studio, song capace di ammiccare a certe sonorità grooveggianti d’oltreoceano, per poi proseguire in un crescendo di aggressività e tecnicismi, in cui non può non emergere la tecnica disumana dell’ottimo Marco Piran dietro alle pelli. “Ten Easy Lessons”, song interessantissima per il suo testo e le sue dieci semplici lezioni da rispettare, mostra il lato più sperimentale dei Mothercare, con Stefano Torregrossa, preso in prestito dagli Aneurysm, a divertirsi con i synth. Il risultato? Notevole e garantito, con echi di Fear Factory che emergono qua e là fino allo strepitoso assolo conclusivo. Sono senza fiato, accasciato al suolo dalla costante e martellante efficacia di questi sei loschi figuri. “Blessed Be the Useless” conferma la creatività dell’act veneto e la grande voglia di sperimentare, per uscire fuori dagli schemi classici e garantire un prodotto competitivo a livello mondiale. È un destro-sinistro montante che non lascia assolutamente scampo, i Mothercare sono finalmente tornati e più in forma che mai. La dimostrazione è data anche dalle successive “Gateway to Extinction”, in cui basso e batteria si rincorrono in movimenti tellurici spaventosi, con il buon Simone che continua a vomitare odio nel microfono; “Mother” aperta da un basso malato, la psicotica e psichedelica “Phobic”, passando attraverso la pachidermica e sperimentale title track fino alla conclusiva “slipknottiana” “Uncontrolled Hatred”. Decisamente un gradito ritorno; dei Mothercare sentivamo la mancanza e questo “The Concreteness of Failure” placherà questa nostra voglia e colmerà decisamente il gap tra la scena italiana e quella estera. Ben tornati Mothercare, vi stavamo aspettando! (Francesco Scarci)

(Kreative Klan Records)
Voto: 80

giovedì 27 gennaio 2011

Devar - Alternate Endings


Chi sono i Devar? Sono una band di Bergen, a sud-ovest della Norvegia, formatisi recentemente con un sound “originale e non tradizionale” (come descritto nel loro sito ufficiale), composta da Devar (voce), Ottoegil (basso), Obdsaija (batteria), Aadland (chitarra) e Odland (chitarra), e giunti nel 2009 al loro debutto discografico per la nostrana Code 666. L'album si apre con la (quasi) strumentale “The Siren”, song che si caratterizza per il canto suadente di una sirena tentatrice. L'inizio potente e la voce roca contraddistinguono “H.M.N.”, che ricorda molto il black metal di primi anni '90 per quel suo uso di blast beats: i ritmi si alternano, passando dal più veloce al più lento, con inaspettate influenze rock. Le cose cambiano in “Cold Slither”: qui il ritmo si fa veloce e serrato, a tratti folle, con la voce, nelle parti più rallentate, talmente strascicata che può ricordare vagamente Kurt Cobain nei suoi deliri. Lo stesso ritmo verrà poi ripreso in “...Of My Dead Skull”, invitando la testa a muoversi avanti e indietro, in un headbanging sfrenato. In “Shadow Feline” si può sentire un gioco di chitarre come nella tradizione rock "settantiana", con la litanica voce di Devar che ricorda quella di Marilyn Manson (non me ne vogliano i fan), le atmosfere si fanno più cupe, i ritornelli sono da cantare a squarciagola, i ritmi rallentati, insomma il tutto a rendere questo uno dei brani più adatti per i live. “Scourger” si presenta invece con un inizio di chitarra acustica e un sound che si avvicina più al progressive rock sempre degli anni '70 rispetto al dark metal. Dalla metà in poi dell'album, i suoni si fanno più gravi e la situazione si capovolge, con un inasprimento della ritmica, anche se non può mancare una nota orchestrale, che si può trovare in “Black 6”: solenne, colpisce nel profondo (è la mia song preferita), dal ritmo pacato e con semplici accordi, ma di grande impatto sul pubblico e di grande energia. Non poteva certo mancare anche una certa vena più sperimentale, cosa che caratterizza “The Dirge”: la voce si alterna tra campionamenti vari e urla strazianti, mentre tutto il brano si basa largamente su un tappeto di tastiere che contribuiscono a rendere più oscure le atmosfere, e con qualche sprazzo di batteria e chitarra portate ai massimi livelli. Ricordate il brano “Scourgerer”? Bene, “Watch Them Fly” ne riprende appieno il ritmo e il sound, ma con con un'enfasi maggiore, tanto da sentire il fiatone del cantante alla fine del brano. Senza neppure accorgermene, sono arrivata alla fine dell'album con “In Sanity”, song ideale per un sottofondo in un film thriller, cattiva e dura al tempo stesso. Le chitarre sono lasciate libere di fluttuare e dipingere astratti panorami psichedelici che, con l’apporto appena percettibile delle tastiere, chiudono al meglio questo primo album dell’act scandinavo. Band giovane, ma che promette grandi cose per il futuro: se mai verranno in Italia in concerto sarà sicuramente un'esperienza indimenticabile. Promosso a pieni voti e stra-consigliato! (Samantha Pigozzo)

(Code 666)
Voto: 85

Ancient Dome - Perception of this World


Se mi chiedessero “qual è la percezione di questo mondo che hanno gli Ancient Dome?”, risponderei con un “beh proprio ottimistica non direi”. Non crediate, però, che i nostri abbiano fatto un prodotto triste. Rabbia, energia, forza: queste le mie sensazioni dopo aver ascoltato le tracce del disco. Scopro qui per la prima volta questa band italiana, corro ai ripari e mi ascolto anche il loro, unico, precedente lavoro: “Human Key”. Un bel miglioramento, su tutto il fronte. Questo cd mi piace; mi piace per la carica, l’anima e la grinta che ci infondono. Sono curioso di vedere un loro performance dal vivo. Abbiamo 11 canzoni strutturate partendo dal thrash metal, con qua e là qualche lieve accenno ad altri generi più melodici e techno. Le tracce sono quasi tutte dirette. Batteria martellante, accelerazioni, cambi di ritmo, stacchi seguiti da ripartenze immediate: queste le cose che più balzano al mio orecchio. Niente male le chitarre: i riffoni, le scale e gli assoli sono ben fatti e non buttati lì a caso, solo per far sentire che la band ci sa fare con i propri strumenti. Ho però il dubbio che le chitarre non si sentano come dovrebbero, gli assoli in particolare. Apprezzabile anche il singer, abbastanza personale nel suo operato vocale. A proposito delle parti vocali, ascoltatevi con calma la power ballad “Dream Again”. Sì, va bene, è un lentone, non è il massimo dell’allegria, anzi ha al suo interno una decadenza strisciante che stride molto col resto del disco, ma detto tra noi, a me quelle sezioni vocali piacciono. Testimoniano, inoltre, la volontà del gruppo di uscire dal solito schema compositivo e ciò è decisamente un bene. Trovo nella title track un vero compendio dell’idee dell’album mescolate tra loro in maniera funzionale. La considero come la traccia più riuscita dell’ellepì. Più tirate invece "Predominance” e “Liar”. Le altre song sfoderano un po' meno personalità, cosi come pure le due solo strumentali che rimangono in secondo piano seppur ben eseguite. Ah, una nota divertente la potete trovare nel fumetto, che ha come protagonista la band, all’interno del booklet, ma non ve la svelo, andate a dare un'occhiata voi stessi. Alla fine del platter una certa stanchezza affiora, non per carenza tecnica o compositiva, ma per l'ipertrofia delle canzoni stesse. Qualche asciugatura non avrebbe tolto una virgola alla loro fatica e avrebbe reso il tutto più fluido. Da mantenere totalmente la loro attitudine ed energia. (Alberto Merlotti)

(Punishment 18 records)
Voto: 70

mercoledì 26 gennaio 2011

Beansidhe - De Mortis Eloquentia


Un fuoco ardente apre il cd dei ticinesi Beansidhe, band che è in giro da più di un decennio, ma che solo ora arriva al secondo tanto sudato EP, autoprodotto. Dopo l'intro scoppiettante di "Meditatio Mortis", ecco esplodere in tutta la sua furia il sound dei nostri, un black death, che nelle linee di chitarra più taglienti ha qualche richiamo allo swedish black dei mitici Dissection, ma che poi nell'incedere ritmico predilige un sound massiccio più tipicamente thrash death americano. Sei tracce che ben poco hanno da aggiungere alle produzioni attuali, per una certa carenza di fondo di idee in primis, ma anche per una certa difficoltà a produrre qualcosa di realmente interessante in un genere, che ormai ha già detto tutto. Anche se le qualità tecniche ci sono tutte per poter far meglio in futuro, qualche discreta idea, capace di donare un tocco di epicità all'intero lavoro (ascoltare "On Bloodsoaked Grounds Grenades They Ate" o "Shifting Samts" tanto per capire) compare qua e là, risulta ancora troppo poco per ritenere "De Mortis Eloquentia" degno di nota, perché sinceramente è ancora tutto in fase embrionale, cosicché non mi sento di andare oltre ad una striminzita sufficienza. Sicuramente le ritmiche assassine o le rasoiate delle chitarre sapranno catturare l'attenzione di qualche sprovveduto metallers, ma non la mia, che dopo quasi 25 anni di militanza, ne ha sentite davvero tante. Forza ragazzi, iniziamo a metterci più cuore in quello che suonate, per tirare fuori dalla melma un genere che presto rischierà di morire. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 60