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giovedì 14 aprile 2022

The Flying Norwegians – New Day

#PER CHI AMA: Country Prog Rock
Qualche mese fa abbiamo parlato della ristampa del fortunato secondo album, intitolato 'Wounded Bird', del 1976, di questa band scandinava, che come si può immaginare dal loro moniker, è norvegese di nome e di fatto, ma che musicalmente amava definirsi semplicemente come americani di Norvegia. Oggi parliamo invece del loro disco di debutto del 1974, ristampato e rimasterizzato sempre nel 2021, e che farà la felicità degli estimatori della musica folk e country americana, molto popolare nel periodo che oscilla tra i tardi anni '60 e i primi '70. Come detto nella precedente recensione, il gruppo guidato dal chitarrista Rune Walle e dal batterista Gunnar Bergstrøm si affaccia al mercato di fine anni '70, con un ottimo debutto discografico, anche se per il sottoscritto 'Wounded Bird', rimane il mio preferito di sempre. In questo album si fondono come al solito i vari sentori e suoni di riferimento che hanno influenzato il combo norvegese. Il country degli immancabili the Flying Burrito Brothers, gli Eagles, Crosby, Still & Nash, che si alternano con brani, come l'apripista "Young Man", che mostra una sezione ritmica molto spiccata in salsa molto funk, e nella conclusiva "It Ain't Just Another Blow", dove la band di Bergen, si muove agevolmente con melodie allegre da polveroso saloon del vecchio West. In mezzo, un'infinità di chitarre, banjo, pedal steel, wah wah ed evoluzioni sofisticate, proprio come le creazioni dei coloratissimi The Flying Burrito Brothers, lontani anni luce da chi intende il country un genere poco ricercato e piatto. Composizioni ricche e dinamiche, che non disdegnano la presenza di qualche intromissione anche nel soul, nel blues e nel progressive rock, magari nelle sue forme espressive più soft, ma comunque intelligentemente strutturato. Il sound padrone, rimane quello delle grandi praterie americane, ballate solari e libertà, con escursioni anche nella psichedelia, come nell'intermezzo di "Those Were the Days", dove da classica country song si trasforma in una specie di evoluzione ritmica dai tratti caraibici e funge quasi da precursore alle strade percorse più tardi dal geniale David Byrne. La riedizione del disco gode di un'ottima sonorità, fedele all'originale, con suoni caldi e pieni, ma che, allo stesso tempo, suona nuova come se l'album fosse stato registrato ai giorni nostri. L'intera atmosfera del disco è molto rilassante, ed il gusto di starsene sdraiati in poltrona ad ascoltare le molteplici peripezie chitarristiche sparse qua e la, un po' in tutti i brani, sarà la gioia di molti amanti del suono equilibrato e ad alta fedeltà. Come ho detto in precedenza, li preferirirò nel disco successivo, ma non posso dire che anche questo intenso, lungo primo lavoro, non sia un grande disco e che, fin dal primo ascolto, per un vero intenditore di musica, sia un'opera che veramente vale la pena di ascoltarla tutta d'un fiato e ad alto volume! (Bob Stoner)

The Sea Shall Not Have Them - Debris

#PER CHI AMA: Post Rock/Ambient
Per chi non ha ancora le orecchie sature di post rock semi-strumentale, ecco che un po' di nuova musica arriva dall'Australia, un luogo che sembra essere la fucina perfetta per questo genere musicale. Loro sono un duo, si chiamano The Sea Shall Not Have Them e 'Debris' è il loro secondo album che arriva a sette anni distanza dal loro debut 'Mouth'. Quando c'è post rock e Australia poi, non si può non citare la Bird's Robe Records che ne produce quasi tutte le uscite. Il lavoro dei nostri include otto tracce che con l'iniziale traccia omonima, mi prende il cuore, lo lacerano con un condensato di musica estremamente malinconica e lo lasciano accartocciato per terra come un feto abbandonato per la strada. Non un'immagine piacevole, me ne rendo conto, ma l'effetto forte e commovente della musica dei The Sea Shall Not Have Them ha generato in me queste immagini tremebonde. Con la successiva "Lower the Sky", dove compare il featuring di Ed Fraser alla voce, ci troviamo di fronte ad un brano enigmatico, introspettivo e irrequieto, dal flavour tipicamente new wave, contraddistinto da una pulsante linea di basso. Figo. Peccato poi che la band torni fin troppo a normalizzarsi con "YXO", un brano che francamente ha ben poco da offrire nella sua minimalistica ritmica ridondante. Già meglio "Splinters" che trae nuovamente linfa vitale da sonorità new wave, anche se questo insistere con i medesimi giri di chitarra (cosa che accadrà anche nelle successive "Everything Melts", dove peraltro ci sarà l'ottimo featuring alla chitarra di Ian Haug dei Powderfinger e nella noiosetta "Ash Cloud") non è che giovi parecchio alla lunga ai nostri. In chiusura ecco "Underneath", l'ultimo psichedelico atto di un disco a tratti intrigante, in altri frangenti forse troppo normale. Spunti interessanti se ne trovano qua e là a dire il vero ma io avrei osato un pizzico in più. (Francesco Scarci)

mercoledì 6 aprile 2022

Taumel - Now We Stay Forever Lost in Space Together

#PER CHI AMA: Dark/Jazz
Il buon Bob si era divertito a recensire il debut album dei teutonici Taumel, sempre in bilico tra doom, dark e psych jazz. E cosi ero curioso anch'io di mettermi alla prova con la stravagante creatura di Jakob Diehl, lo "Sconosciuto" della serie Dark, che torna con la seconda parte del ciclo musicale chiamato 'TRAUM'. Questo secondo capitolo, dal breve titolo 'Now We Stay Forever Lost in Space Together', racchiude cinque nuove oscure e psichedeliche visioni del poliedrico artista tedesco. L'album si apre con "Now" che nei suoi suggestivi giochi di chitarra mi evoca immediatamente i Pink Floyd. Le analogie con la band inglese e tutto il seguito che si è portato dietro nel tempo, sono tangibili nei chiaroscuri del quartetto di Rheda Wiedenbrück, con sonorità che potrebbero essere accostabili anche alle colonne sonore prodotte dagli Ulver, quelle di 'Lyckantropen Themes' e 'Svidd Neger', tanto per capirci, anche se quanto composto dai Taumel suona decisamente più pensato ed articolato nella sua stravagante forma musicale. "We Stay", la seconda song, ha un piglio decisamente più improvvisato anche se la sua prima parte potrebbe essere usata come colonna sonora per il mio funerale. Dal terzo minuto in poi, le atmosfere si fanno più stralunate, e quanto messo in scena sembra più frutto di una jam session che altro, un incontro tra artisti jazz, kraut, doom, blues, psych e chi più ne ha più ne metta, visto che non sarà cosi semplice accostarsi a tali sonorità. E non importa che il tutto sia esclusivamente strumentale, i vari strumenti esplicano qui il ruolo di mille voci differenti. Con "Forever", l'atmosfera si fa ancora più noir: mi immagino uno di quei locali fumosi anni '60, con un sassofonista che suona minimaliste melodie di un altro tempo, mentre la gente attorno non si accorge di quell'omuncolo che in realtà è un artista fenomenale che ahimè nessuno comprende. E quel senso di vuoto che risiede nella sua anima si manifesta attraverso suoni glaciali e al contempo caldi, difficile da spiegare, ancor di più da capire. È con "Lost in Space" che si parte invece per galassie lontane, dove il propellente è rappresentato da strambe melodie aliene espletate da inaspettati strumenti musicali in mondi surreali che sembrano dipinti da Salvador Dalí, De Chirico o più recentemente da Willem den Broeder. Il disco chiude con "Together", l'ultima stravagante espressione musicale di 'Now We Stay Forever Lost in Space Together' (l'avevate notato vero che il titolo del disco non sono altro che i titoli dei brani?), in un viatico triste e deprimente di sonorità surrealistiche tra il suono di una tromba ed effetti vari che sanciscono la genialità di un ensemble quasi unico nel suo genere. (Francesco Scarci)

Soonago - Fathom

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale
Quando c'è di mezzo la Kapitän Platte, di solito c'è da aspettarsi qualcosa fuori dagli schemi. Anche questa volta l'etichetta teutonica ci porta in casa propria ad ascoltare questo nuovo album dei Soonago, intitolato 'Fathom', attraverso quattro pezzi piuttosto lunghi. Ci imbarchiamo in questa avventura, premendo il tasto play del lettore cd, per poi sprofondare nelle melodie metalliche di "Evac", un brano potente, decisamente melodico, ahimè strumentale e dotato di un forte retaggio post rock nel suo scheletro musicale. E su quelle architetture raffinate, sorrette peraltro da onirici break atmosferici, i nostri impongono le loro devastanti (ma sempre accattivanti) linee ritmiche che troveranno il massimo sfogo in un dirompente finale. Le cose si fanno ancora più interessanti con "Besa", una song che corre via veloce (si fa per dire, visti i suoi 13 minuti) tra alti e sonanti vortici ritmici, cambi di tempo, rallentamenti vari, flussi emozionali grondanti vagonate di malinconia, complice una sezione d'archi che si prende tutta la scena dopo cinque minuti e prosegue vibrante fino al termine del pezzo, in una girandola di emozioni, ideale per il mio stato d'animo di oggi. Cala la notte, arrivano le lenti e sensuali melodie di "Apophenia", morbide come una carezza rassicurante sul viso rigato da lacrime di dolore. Quel dolore che sembra cedere il posto ad un più epico inno di gioia che esploderà nel corso di una traccia comunque inquieta, come quella stessa inquietudine che alberga nella mia anima. È il disco che dovevo ascoltare oggi, non ci sono più dubbi, nemmeno quando nelle casse irrompe la title track e quelle sue più stralunate melodie che sembrano aver a che fare molto meno con quanto ascoltato sin qui. Ero certo che in un modo o nell'altro i Soonago mi avrebbero colpito con un fare diverso, fuori dai soliti canoni del post rock e questa traccia rappresenta la dimostrazione più lampante di un disco che non sarà l'emblema dell'originalità, ma che certamente lascia ascoltarsi per la sua eleganza, potenza, emotività, a cui aggiungerei anche la presenza di un certo Magnus Lindberg (Cult Of Luna) dietro alla consolle. Ben fatto! (Francesco Scarci)

(Kapitän Platte - 2022)
Voto: 75

https://soonago.bandcamp.com/

Crust - Stoic

#PER CHI AMA: Black/Doom/Sludge/Post
Con un moniker del genere che cosa vi aspettavate, dite la verità? La band originaria di Veliky Novgorod ci spara in faccia otto pezzi che dall'iniziale title track giungono alla conclusiva "Desert", attraversando le paludi fangose dello sludge, le inquietanti atmosfere doomish, il tutto senza disdegnare brutali scorribande post black e death. Eccovi presentato in poche righe quanto ritroverete durante l'ascolto di questo terzo lavoro dei russi Crust, intitolato 'Stoic'. Se l'opener è un connubio di un po' tutti i generi sopraccitati, la seconda "Watching Emptiness" ha un piglio decisamente più atmosferico e introspettivo, muovendosi nei paraggi di un death doom emozionale, in grado di richiamare i primi Paradise Lost, attraverso un sound cupo ma costantemente accattivante, nonostante gli oltre dieci minuti di durata (anche se gli ultimi due sono piuttosto inutili). Con "A Blind Man in Darkness" si torna a galoppare alla grande con un riffing più teso, articolato, a tratti anche decisamente più ostico da digerire, sebbene numerosi tentativi volti a rasserenare gli animi, con parti più atmosferiche. Per un ripristino delle funzioni cerebrali, arriva però l'acustica di "Willow Forest", un breve intermezzo in grado di metterci in pace col mondo. Da qui si riparte con la seconda parte del cd e un trittico formato da "Plague", "Darkness Becomes Us" e "Anhedonia" che sembrano restituirci una band più tonica ed ispirata tra le dirompenti e melodiche ritmiche post black della prima, il black dissonante della seconda (uno dei pezzi forti del disco) e il doomish black della terza (un altro brano davvero interessante), che ci accompagnerà fino al finale affidato alla strumentale e più pacata "Desert", un pezzo che per il suo ipnotico impianto ritmico, potrebbe addirittura evocare "Angel" dei Massive Attack. Alla fine 'Stoic' è un disco che lascia qualcosa dentro che mi ha spinto più volte ad un ascolto più attento dei Crust. (Francesco Scarci)

(Addicted Label - 2021)
Voto: 74

https://crustband.bandcamp.com/album/stoic

Phalanx Inferno/Melek Tha - Order of Eternal Indifference

#PER CHI AMA: Death & Ambient
Un'abbinata alquanto stravagante quella formata dai deathsters americani Phalanx Inferno e dall'entità ambient francese Melek-Tha. Ecco, la domanda che mi è sorta spontanea durante l'ascolto di questo 'Order of Eternal Indifference' è stata perchè combinare due generi cosi diversi tra loro in uno split album, considerando che chi ama il death nudo e crudo, difficilmente apprezzerà anche il drone ambient. Fatte queste dovute premesse, mi accingo ad analizzare questo lavoro di dieci pezzi che si aprono con il recitato inquietante dei Melek-Tha nell'opener "Codex Gigas of Judgement Phase: Alpha Phase 1", ideale per iniziare quella tempesta metallica che si scatenerà da li a breve, nelle successive quattro devastanti tracce dei Phalanx Inferno, in un susseguirsi di pezzi che dalla "morbid angeliana" "Diminished Dominant" arriva tra saliscendi ritmici, assoli al fulmicotone, growling vocals che si alternano a demoniaci scream (ascoltare la breve "Broken Spirit March" per capirne di più) fino alla quarta e più dinamitarda, "Sanguine Chasm". Quello che succede dopo questa traccia ha però dell'assurdo, visto che si passa da un brutal techno death ad un liturgico ambient che vede alternarsi spoken words con fiumi di sintetizzatori e sonorità industriali a dir poco alienanti, causa un reiterato loop strumentale (ascoltatevi "Gloire Aux Tenebres"). Il cd si fa anche più ostico ove la durata dei pezzi raggiunge vette quasi fastidiose, tipo nei tredici minuti di "Le Grand Requiem Des Impies", dove francamente inizio ad annoiarmi dopo soli pochi giri di orologio e dove auspico di raggiungere la fine del mio ascolto quanto prima. Forse il mio collega Bob Stoner avrebbe apprezzato maggiormente simili sonorità dark dronico ambientali, il sottoscritto decisamente no, soprattutto dopo essersi sparato quella dirompente violenza death dei primi pezzi. Per me, questo fusion album non va bene per niente perchè rischia di non soddisfare i palati di nessuno con un lavoro che alla fine contiene due generi troppo distanti tra loro. (Francesco Scarci)

domenica 3 aprile 2022

Allfader - At Least We Will Die Together

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Death
Quando uscì quest'album mi domandai se gli Allfader potessero essere gli eredi degli immortali At the Gates? Difficile da dirsi, però sicuramente la band norvegese aveva le carte in regola per diventare una star in ambito death estremo. La band originaria di Mo I Rana rilasciò un Mcd nel 2002, 'From the Darkest Star', edito dalla Rage of Achilles che gli valse il contratto con la francese Osmose Prod, per il qui presente 'At Least We Will Die Together'. Forse sono un po’ troppo entusiasta dopo i vari ripetuti ascolti a questo lavoro, però devo ammettere che l’esordio del quintetto scandinavo mi ha lasciato senza parole. All’apparente violenza death sprigionata dal combo si affiancano una serie d’influenze che rendono la proposta dei nostri brutale, ma allo stesso tempo, oscura e melodica. La musica degli Allfader fonde gli insegnamenti degli At the Gates con quelli dei Dissection, liberando suoni pesantissimi, un mix di death e black, sui quali si inseriscono fraseggi dal chiaro sapore heavy metal. La band è una furia nei ritmi veloci, ma quando rallenta impreziosisce il proprio sound con aperture melodiche, quasi epiche, che pescano addirittura dal black sinfonico di 'The Archaic Course' dei Borknagar, ma anche dalle cavalcate che hanno reso famosi gli Iron Maiden. Stupende le tracce "This Blackened Heart" con i suoi cori epici e malinconici, e "Into Nothingness" con un coinvolgente assolo conclusivo e un’alternanza vocale tra voci demoniache e pulite, a dimostrazione del totale dinamismo di una band che prometteva davvero bene per il futuro. Cinquantadue minuti di musica aggressiva, melodica e travolgente, eseguita con classe, da cinque ragazzi dalle enormi potenzialità tecnico-compositive. L’album, registrato egregiamente agli Hansen Studios, vedeva peraltro il contributo di Jacob Hansen non solo dietro alla consolle, ma anche come backing vocals in un paio di brani. L’ascolto è pertanto dovuto. (Francesco Scarci)

(Osmose Productions - 2006)
Voto: 76

http://www.allfader.com/Allfader/Allfader.html

sabato 2 aprile 2022

Old Sea and Mother Serpent - Chthonic

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Quattro brani per oltre settanta minuti di musica, mica male, anche se la montagna da scalare non è certo di quelle cosi semplici e banali. 'Chthonic' rappresenta l'opera prima dei moscoviti Old Sea and Mother Serpent che nel 2012 rilasciavano questo mastodontico lavoro autoprodotto (la versione nelle mie mani è il digipack del 2013), per poi lasciarsi un tempo di gestazione per il successivo 'Plutonian' di ben nove anni. La proposta del duo è all'insegna di uno stoner doom che dire solido e compatto, potrebbe suonare quasi eufemistico. Il lavoro apre con la sporca e sludgy "She of the Black Scale" che per 18 minuti risuonerà con il suo tribale tambureggiare, accompagnato da una voce graffiante e da chitarre belle possenti. Quello che potrebbe far impressione è il relegare ad un paio di righe la descrizione di siffatta mole musicale visto che fondamentalmente il pezzo, a parte un assolo di notevole impatto melodico nella parte centrale, ha ben poco altro da raccontare. E se volete questo rischia di essere anche il limite delle restanti canzoni, ossia presentare durate infinite ma poi, a fini pratici, non contribuire a regalare nulla di cosi interessante e originale. Ci riprovano i nostri con la successiva "The Haunt", ed un inizio ritmato al limite della ridondanza sonica. Qui ritroviamo voci registrate in sottofondo, una serie di cambi di tempo che sembrano più una lezione di avvicinamento ad un genere comunque ostico e poi finalmente ricompaiono le vocals, forse l'elemento più positivo dei nostri, visto che la batteria troppo affidata ai piatti, finisce per stizzirmi dopo otto giri di orologio. Qui infatti un duplice psichedelico assolo rabbonisce i miei sensi e mi consente il proseguimento dell'ascolto. Dei quattro brani, il picco più alto da scalare è quello però rappresentato dagli oltre 28 minuti di "Demons of the Sun", fatto di pendici sabbiose ove sprofondare pericolosamente nella matrice doomish dei nostri. La traccia più lunga ma anche quella più veloce da descrivere, vista la natura malmostosa e ampollosa del pezzo, soprattutto nel suo lunghissimo finale dronico, inutile lasciatemi aggiungere. In chiusura ecco la strumentale "Moraydance" che sembra essere anche il pezzo più vivace del disco, non fosse altro che dura poco più di cinque minuti che ci consentono di tornare a respirare aria pura dopo le impervie salite dei primi tre brani. (Francesco Scarci)

(Pestis Insaniae - 2013)
Voto: 62

https://osams.bandcamp.com/album/chthonic