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sabato 28 novembre 2020

Stromptha - Endura Pleniluniis

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
Nasce nella minuscola cittadina di Qaanaaq (656 abitanti), in una delle località più a nord del mondo, questo 'Endura Pleniluniis', secondo atto della creatura Strompth, one-man-band capitanata da J, polistrumentista francese emigrato in Groenlandia per stare a diretto contatto con la natura. Sei i pezzi per provare ad apprezzare la proposta musicale dell'artista di Tolosa che si apre sulle tranquille melodie di "De Sang et de Brouillard", ove un cantato in stile Lacrimosa fa il suo ingresso declamando versi in francese, il tuo avvolto in una atmosfera decisamente dark. La song evolve poi in una porzione decisamente più selvaggia (resa cosi anche da una produzione non proprio cristallina), un black melodico, a tratti furibondo, con la voce di J che si muove tra urla nefaste e un cantato baritonale, con la ritmica che vive sulla scia della medesima alternanza vocale, tra accelerazioni caustiche, parti atmosferiche affidate a grosse infarciture tastieristiche e aperture epiche di scuola Windir. Insomma, c'è un po' di tutto in questi primi dieci minuti che lasciano ben sperare per il proseguio. "Au Bout du Tunnel: La Nuit et la Neige" parte subito tiratissima con lo screaming sostenuto dalle taglienti chitarre e da sinistri e onnipresenti synth in sottofondo. C'è spazio anche per un altro atmosferico rallentamento che spezza quel ritmo sostenuto di inizio brano, ma la song è comunque un susseguirsi di cambi di umore che si riflettono anche in una molteplice sperimentazione vocale. Mi piace per quanto il suono risulti spesso impastato e catramoso eppure ha il suo perchè. Cosi come la successiva " Que les Corbeaux Forgent la Tempête" che si affida ad una lunga apertura ambient prima di volgersi verso una tempesta black (mid-tempo). Quello che forse realmente mi disturba è l'utilizzo della drum-machine che rende più gelido e impersonale il sound, poi devo ammettere che il musicista transalpino se la cava piuttosto bene nel creare spettrali atmosfere che in questo frangente in particolare, hanno un che di desolante e malinconico, come guardare una distesa di ghiacci dal finestrino di un treno in corsa. In "Le Passage Aux Fleurs" emergono ancora echi dei Lacrimosa nella componente vocale mentre il sound lento e ritmato avanza avvolto da un'aura gotica che permarrà per l'intera durata del brano, in quello che verosimilmente rimane l'episodio più pacato dell'album. Ma il disco sembra salire in qualità con le ottime melodie di "Brûle, Prairie de Roses" una song che mostra un lato più maledettamente romantico del musicista francese, che la candida peraltro a pezzo migliore del disco, a braccetto con la conclusiva "Quand le Cornu Moissonera" dove davvero la componente atmosferica si conferma l'elemento predominante di questa traccia con un break acustico da applausi. La sensazione è che questi ultimi pezzi siano stati scritti in un periodo differente dai primi tre e facciano trapelare ulteriori novità per un prossimo futuro. Staremo a sentire, nel frattempo godiamoci l'ascolto di questo 'Endura Pleniluniis', un lavoro che più si ascolta e più darà modo di capire qualcosa di più di questo artista. (Francesco Scarci)

(Pest Records/Satanath Records - 2020)
Voto: 70 

giovedì 26 novembre 2020

Shattered Hope - Vespers

#PER CHI AMA: Death/Doom, Mourning Beloveth
Terza recensione per i greci Shattered Hope qui nel Pozzo dei Dannati. Dopo aver esaminato 'Absence' e 'Waters of Lethe', rispettivamente debut album e secondo disco, ecco che ci troviamo alle prese con il terzo lavoro, 'Vespers'. Il quintetto ateniese ci propone altre cinque tracce di death doom oscuro e minaccioso, che francamente poco aggiunge alle uscite precedenti dei nostri e apre semmai ulteriori dubbi sullo stato di forma di un genere musicale ultimamente privo di grandi spunti. Si parte con i 13 minuti di "In Cold Blood", fatta di sfuriate nella prima parte che rallentano paurosamente già dopo tre giri di orologio per sprofondare negli abissi di un funeral mortifero e angosciante che fondamentalmente non cambia di una virgola le mie parole del 2011. Alla faccia della coerenza musicale, ogni tanto una qualche variazione al tema ci starebbe anche bene, altrimenti il rischio di cadere nell'autoplagio si fa più concreto. Rispetto ai dischi precedenti continuo a non sentire davvero alcuna modifica al tema, se non qualche sporadica accelerazione death nella prima traccia, una forte vena malinconica nella seconda "Verge", che rientra comunque in tutte quelle peculiarità stra-abusate dal genere che sembra ormai essersi incagliato in una pericolosa involuzione di stile. In questa traccia molto atmosferica, c'è l'utilizzo di una voce pulita che va a controbattere il growling graffiante di Nick. La song poi inevitabilmente ammicca qua e là a gente del calibro di Saturnus e Mourning Beloveth, ricordandoci tuttavia che questo genere cosi suonato, risale ai primissimi anni '90 con Anathema e My Dying Bride. Quindi perchè non si prova a sperimentare un qualcosa di diverso che i soliti riffoni plumbei triti e ritriti a cui dare seguito con azzannate quasi post black come si sentono sempre in "Verge", dove addirittura fa la sua comparsa la voce di una gentil donzella sul finale. Si, apprezzabile, ma serve altro a far emergere queste realtà da un calderone infinito di band tutte simili le une alle altre. Un ottimo assolo potrebbe giovare ed eccomi accontentato; dai le cose sembrano risollevarsi. "Συριγμός" è un discreto tentativo di utilizzare il greco nelle liriche, ma poi a livello musicale, ci snteo ancora puzza di stantio con un sound che non accenna a decollare nè in una direzione nè in un'altra, non è apocalitticamente funereo, tanto meno devastante, lo trovo ripetitivo e qui nemmeno un bridge chitarristico riesce a risollevarmi dal torpore di un ascolto un po' piattino che ancora stenta a trovare un picco di interesse, se non a livello strumentale per il largo spazio concesso al sound del basso che a braccetto con un chitarrismo di scuola svedese disegna una ritmica truce, una sorta di Dismember sparati a rallentatore. Un fantastico violino si prende la scena per ben oltre due minuti in apertura di "Towards the Land of Deception", poi spazio ad un incedere lento e melmoso che ci conduce con una certa flemma alla conclusiva "The Judas Tree" che riprende ancora con delle splendide note di violino che rendono la song di ben 15 minuti decisamente più accessibile, con la voce del frontman che qui è drammatica e decadente e ben ci sta nel contesto generale di quello che alla fine sarà il mio brano preferito. Un lavoro onesto questo 'Vespers' che necessita ancora una maggiore dose di personalizzazione per il futuro. Per ora confermo quanto detto in passato. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2020)
Voto: 66

https://solitudeproductions.bandcamp.com/album/vespers

domenica 22 novembre 2020

Megalith Levitation / Dekonstruktor - Split Album

#PER CHI AMA: Stoner/Doom/Drone
Chelyabinsk negli Urali e Mosca sono le città dalle quali arrivano queste due band, i Megalith Levitation dalla prima e i Dekonstruktor dalla seconda. Con dei moniker del genere, un artwork di copertina votato al bianco e nero ed un look piuttosto truce, mi sarei aspettato di ritrovarmi fra le mani uno split album votato al black più grezzo e ferale, invece, strano ma vero, questo 4-track mi conduce nei meandri di un doom sperimentale e ritualistico. E a proposito di rituali, si parte proprio con "Opium Ceremony", una traccia che sembra offrire un mantra sonico ad opera dei Megalith Levitation e a quella linea di basso in primo piano (accompagnata da distorsioni di chitarra e un coro quasi cerimoniale) che traccia una melodia ipnotica e lisergica che ci accompagnerà per tutti i suoi cinque minuti e più di musica. A seguire il chitarrismo stoner di "Despair" in un brano di oltre 13 minuti, ove questa volta in primo piano si pone un riffone nerissimo di chitarra plettrato a rallentatore, ancora con quel cantato liturgico in sovrapposizione che talvolta sfocia in uno screaming più efferato. Difficile dire altro vista la monoliticità di fondo che ha il sopravvento in un pezzo che purtroppo sembra proprio peccare in staticità per buona parte della sua durata, quando finalmente ad un certo punto i nostri ci sbattono una qualche variazione al tema, stile primi Cathedral. Un po' pochino, posso dirlo? Anche per i Dekonstruktor solo un paio i pezzi a disposizione per convincermi della bontà del loro sound. Anche in questo caso non si comincia proprio nel migliore dei modi, visto che "Beheaded Horizon" parte con un altro loop chitarristico che non fa altro che stordirmi e alienarmi, sebbene poi si sovrapponga un riffing granitico tipicamente stoner accompagnato questa volta da voci finalmente adatte al genere. Anche qui però il minimalismo ritmico ha il sopravvento e fatico ad arrivare al termine del brano e dirmi anche soddisfatto, sebbene nella seconda parte del pezzo, il terzetto moscovita provi a cambiare le carte in tavola con un mix di sonorità tra il doom e il drone, comunque non cosi semplici da digerire. In chiusura "Magma Pulse", un pezzo strumentale che ha il solo compito di darmi il definitivo KO con il suo incedere psych doom che puzza di una obsolescenza che si rifà ad un secolo differente dal nostro. Vetusti. (Francesco Scarci)
 
(Aesthetic Death - 2020)
Voto: 60

https://megalithlevitation.bandcamp.com/album/megalith-levitation-dekonstruktor

sabato 21 novembre 2020

Amederia - Sometimes We Have Wings...

#PER CHI AMA: Death/Doom, Draconian
Uscito originariamente nel 2008 per la Molot Records il debut album dei russi Amederia, 'Sometimes We Have Wings...' è stato rispolverato dalla BadMoodMan Music per darne maggiore visibilità al pubblico. Esce pertanto in questi giorni una nuova versione di quel disco, a distanza di 12 anni dall'uscita originale. E se non conoscete la band originaria della Repubblica del Tatarstan (noi li abbiamo già recensiti nel 2014), vi posso dire che il 7-piece è fautore di un death doom, fortemente contaminato da note gothic metal. Nostalgici tocchi di pianoforte ci introducono al mondo fatato degli Amederia che si palesa con il death doom di "Doomed Ground", il tipico pezzo che andava di moda 15/20 anni fa (leggasi Tristania, Theatre of Tragedy e Within Temptation) con tanto di dualismo vocale tra donzella e orco cattivo ma che oggi ormai non mi dice più niente. Dopo poco più di due lustri questa musica si è ormai esaurita per quanto mi riguarda, soprattutto perchè se penso alle chitarre contenute in questo disco, ripenso a quelle degli esordi di primi anni '90 dei The Gathering. Quindi che dite? 'Sometimes We Have Wings...' è una raccolta di clichè di un genere che ormai farà solo la gioia dei nostalgici del genere. È innegabile come ai sette russi si possano attribuire qualità indiscusse che trovano oggi trovino ancora un seguito nelle note di band come i Draconian. Per il resto credo che immaginiate già cosa il disco riservi. Sicuramente ottime melodie in tutte le sue tracce, l'operistica performance vocale della brava Gulnaz Bagirova che va a contrapporsi al growling feroce di Damir Galeyev. Poi che altro se non una grande dose di malinconia che stempera quel riffing assai ritmato che caratterizza un po' tutti i pezzi di questo disco, dalla già citata "Doomed Ground" fino alle note conclusive di "Lovely Angel", passando attraverso "Dreams", interessante per i suoi giri di chitarra (peccato per quel fade out finale) e i costanti tocchi di pianoforte. Non mancano i momenti sognanti ed atmosferici come in "Cold Emptiness", interamente affidata a voce e tastiere, sette minuti un po' eccessivi a dire il vero. Più funeral oriented invece la prima parte di "And So I..." mentre più atmosferica ed eterea la sua seconda metà. Insomma, gli Amederia non li scopriamo certo oggi e sono certo che chi ami questo genere, non si sarà fatto scappare 'Sometimes We Have Wings...' a suo tempo. Per i novellini del death gothic, beh un ascolto lo si può sempre dare, la musica è comunque ben suonata per quanto oggi suoni stranamente già obsoleta. (Francesco Scarci)

venerdì 20 novembre 2020

Setoml - Reincarnation

#PER CHI AMA: Black Melodico
I Setoml sono un nuovo progetto di DeMort (incontrato qui nel Pozzo con i suoi Luna) e di Krivoviaz Serge, vocalist dei I Miss My Death. 'Reincarnation' è il risultato del connubio di questi due artisti ucraini, otto tracce che faranno contenti gli amanti del black melodico. Il disco si apre con "Flames", un dirompente esempio di come la melodia possa esser messa a disposizione di un riffing serrato di matrice black, in una proposta che, pur non offrendo assolutamente nulla di innovativo, garantisce comunque tre quarti d'ora di musica solida e ben suonata. Una sassaiola di pezzi granitici che uno dopo l'altro ci vengono scagliati in pieno volto. Se la spietata "In the Cold Eyes" l'ho trovata alquanto banale tra l'altro con un songwriting piuttosto modesto, diverso è il discorso per "In the Gray Field of Hope", song devastante ma al contempo dotata di buoni arrangiamenti a cura di un lavoro di synth che la rendono decisamente più interessante anche nel suo pattern chitarristico. Più orientata verso il funeral doom è "Thousands Shimmering Souls", dove DeMort sembra trovarsi maggiormente a proprio agio con sonorità più oscure e solenni, anche se nella seconda parte del brano, i nostri tornano più indiavolati che mai con un riffing corposo e vivace e blast beat sparati a 299792458 m/s. Quello che ancora non mi convince è come l'eccellente voce di Serge mal si adatti a delle liriche che non sembrano affatto scritte per questa release. Un po' di spettralità ce la regala la lenta "By the Dark Lake", almeno nei suoi primi 90 secondi, visto il successivo e spaventoso attacco black, che si conferma ancora piuttosto scontato. Poi quando è la musica a parlare, non si possono discutere le capacità distruttive del duo ucraino, tuttavia il tutto rimane confinato all'interno di canoni ormai usurati. Un tentativo di deviazione dagli standard è offerto dalla tribalità percussiva di "Night Dance" e dall'imprevedibilità ritmica palesata nella seconda metà di "Their Wings Are Gray Like Spirits", che forse a questo punto indicherei anche come mio pezzo preferito insieme alla conclusiva "The Shadows Path". Qui, il duo di Kiev prova timidamente a staccarsi dagli stilemi classici ormai fin troppo abusati, pur non rinunciando ad una violenze sempre più traboccante. Direi pertanto di ripartire da qui e andare in cerca di una ben più definita identità musicale, coraggio, osate! (Francesco Scarci)

(Satanath Records/Kryrart Records - 2020)
Voto: 62

Bergeton – Miami Murder

#PER CHI AMA: Synth-Wave/IDM/Electro
Devo ammettere che la copertina di questo album mi ha incuriosito molto e scoprire chi si cela dietro al progetto Bergeton, è stata una cosa proprio inaspettata. Siamo al cospetto di una figura di culto del mondo black metal, che ha suonato con Gorgoroth, Godseed, 1349 e che dal 2011 è parte integrante dei Mayhem. Sto parlando di Morten Bergeton Iversen, artista norvegese conosciuto da tempo nella musica estrema con lo pseudonimo Teloch. In questo nuovo solo project, il musicista di Oslo si cimenta con l'arte della musica elettronica, lontanissimo dalle sue abituali ritmiche violente, fredde e oscure. Qui Mr. Iversen si mostra padrone della scena e capace costruttore di architetture elettroniche che subiscono l'influenza di vari mostri sacri del genere ma non soccombono al plagio anzi, con un pizzico di glamour e humor noir, l'artista norvegese riesce efficacemente a mescolare le sue carte fino a realizzare una manciata di brani fruibili e godibili, frutto di un certo gusto e coinvolgimento nel genere in questione. Dicevamo dell'artwork di copertina, che si mostra come la locandina di un anime thriller, ambientato in una Miami del futuro il che rende molto l'idea della musica contenuta in questo disco di debutto. Una musica ispirata, che non abbassa mai i toni, sostenuta, che incrocia il suono dei Front Line Assembly con quello dei videogiochi anni '80, che rimastica i Model 500 con i Kraftwerk, i suoni dei primi Depeche Mode con il mood della celebre sigla della serie X-files. Musica costantemente pulsante, con belle atmosfere, a volte più morbide ed immediate, a volte più sinistre, intelligentemente danzanti (IDM) con inserti e arrangiamenti intriganti, a volte persino tese e nevrotiche senza mai perdere la vocazione per l'orecchiabilità. Si parte con "Arabian Nights" ed il suono scivola immediatamente tra la synth wave e la dance cosmica di fine anni '70, con un perfetto riff etnico che certamente farà presa su ogni tipo di ascoltatore. Si prosegue con un brano che si presenta da solo, dal titolo inequivocabile "Depeche Load", che si schianta tra la band di Dave Gahan e le prime intuizioni sintetiche e dark dei VNV Nation. In "Fort Apache Marina", il suono si snoda tra ritmi elettro/funk di gusto retrò e innesti chitarristici inaspettati, di chiara ispirazione metal. Il disco continua con influenze kraut e persino techno-trance, con il brano "Lambo", ma è con la new wave di "Miami Murder" che dà anche il titolo all'album che si tocca la vetta, con analogie che l'accomunano alla sigla del film Miami Vice, filtrata dalla decadenza espressa in "Vienna" dai mitici Ultravox. " Natasha K.G.B." è un buon esempio di come una musica fatta con intelligenza, possa farti immaginare un film di spionaggio che non hai ancora visto, mentre "The Demon", a differenza degli altri brani, esplora un ambiente sonoro più duro, e distorto più vicino all'EBM, agli ultimi Project Pitchfork con l'ingresso della presenza vocale, che si manifesta in forma di inquietante parlato. Il finale è lasciato a "Valley of Death" che chiude l'album con un beat ossessivo, curve e altalene elettroniche rubate direttamente dalla console Atari e dai videogames di un tempo assai lontano. 'Miami Murder' è sicuramente un disco molto dinamico ed energico, che non avanza pretese di originalità ma che gode di ottima fantasia e gusto, qualità che bastano a rendere il tutto piuttosto personale. Sarebbe proprio un peccato dire in giro di non averlo mai ascoltarlo. (Bob Stoner)

(Meus Records - 2020)
Voto: 70

https://bergeton.bandcamp.com/

giovedì 19 novembre 2020

End of Mankind - Antérieur à la Lumière

#PER CHI AMA: Black/Thrash
Credo che in Francia il covid abbia avuto un impatto importante in termini di stimolazione della forma artistica musicale. Sono infatti cosi tante le release uscite in questo periodo dal territorio transalpino che credo di averne perso ormai il conto. Gli ultimi nella mia lista arrivati in ordine di tempo e ora sulla mia scrivania, sono questi End of Mankind, un nome un programma di questi tempi. La band, originaria della capitale, giunge con 'Antérieur à la Lumière' al secondo lavoro, un disco che consta di nove pezzi, di cui l'incipit è un'intro declamata in lingua francese. È solo con la seconda "Temporary Flesh Suit" che i nostri iniziano infatti a far sul serio con una miscela mortifera di black, thrash e post-hardcore, che potremo semplicemente definire come post-black. Tuttavia il pezzo, a fronte di una ritmica bella possente (a tratti quasi punk, scuola Motorhead), delle vocals che si barcamenano tra uno screaming spietato e urlacci hardcore, palesa anche straordinarie aperture melodiche cosi come break atmosferici che completano a tutto tondo una proposta intrigante, che non rifugge nemmeno certe aperture malinconiche davvero azzeccate. E la furia black divampa ancor più possente anche in "La Peste Dansante" in una cavalcata di ordinaria amministrazione che combina acuminati riff black con un più pesante riffing di natura thrash metal in un vortice sonoro completato da copiose frustate blast beat e vocalizzi al vetriolo. Sia ben chiaro, anche gli End of Mankind non inventano nulla di nuovo, ma quello che propongono è davvero ben fatto, calibrato al punto giusto, la ricercatezza sonora e gli arrangiamenti, tutto calza a pennello, in una seconda parte da applausi. E si continua con un sound invischiato nel sinfonico con "Outrenoir" che mi evoca un che dei vecchi Anorexia Nervosa. È una sensazione che rimane però solo una manciata di secondi perchè i nostri si ributtano a capofitto con un un black che tra accelerazioni e brusche frenate, ha modo di chiamare in causa anche Dimmu Borgir, Old Man's Child e Gorgoroth. Mini intermezzo acustico di ristoro e poi via con la mortifera "Golgotha", una scheggia di violenza disumana sparata ai mille all'ora con ammiccamenti questa volta alla scena black svedese, Unanimated in testa. Ma la band è abilissima nel dosare violenza e parti atmosferiche, ed ecco infatti che in un batter di ciglia, il quintetto parigino cambia ancora registro e lo farà ancora per un paio di volte da qui al termine di un brano che comunque non arriva ai tre minuti e mezzo di durata. Questo dimostra la grande capacità della compagine francese di saper variare enormemente in brevissimi frangenti di tempo. Inizio acustico per "Opponent Deity", un esempio palese di come si possa ancora suonare post-black oggi dopo che ormai tutto è stato fatto negli ultimi 10 anni, unendo la furia del black con l'irruenza del thrash ma soprattutto con la sperimentazione visto l'utilizzo di un sax jazzato a completare in modo delizioso una traccia multiforme. C'è ancora comunque spazio alle sorprese con le epiche e tonanti melodie della devastante "Step Towards Oblivion" a strappare gli ultimi applausi di una release davvero avvincente che vede completare il suo ultimo vagito con la conclusiva "Le Boël", un pezzo strumentale che chiude in modo suadente una release ben suonata ma prima di tutto, ben pensata. Chapeau! (Francesco Scarci)

(Mallevs Records - 2020)
Voto: 78

https://endofmankind.bandcamp.com/

lunedì 16 novembre 2020

Brudini - From Darkness, Light

#PER CHI AMA: Psych/Indie Rock
'From Darkness, Light' mette in musica fatti ed esperienze di vita del giovane musicista thailandese/norvegese (e ora trasferitosi a Londra) Erik Brudvik, in arte Brudini, in una sorta di speciale diario di bordo autobiografico, scritto con una predilizione verso l'estetica della poesia in musica. I dodici brani sono tutti brevi o brevissimi e si cimentano in un susseguirsi di istantanee che alternano sentimenti come la malinconia, la speranza o la sconfitta, seguendo un filo logico nel raccontare storie di vita vissute dell'autore. Colpisce la peculiarità nella scelta dei suoni ed il legame che si instaura tra i pezzi, assai simile ad un concept album di stampo, passatemi il termine, progressivo. Non che la musica si snodi in termini di rock progressivo ma l'attitudine narrativa ricorda molto gli stilemi della composizione libera di certa musica estrosa, anche se qui tutto è indirizzato verso l'interpretazione minimale del sound. Così, brano dopo brano ci si imbatte in piccole suite di jazz psichedelico, come nella splendida "Emotional Outlaw", oppure ci si lascia corrompere dalla malinconica gioia di "Pale Gold" e dalla sua incalzante marcetta dal gusto sudamericano, un motivo molto divertente che non scade mai nel banale. La poesia si intervalla alle canzoni fin dall'inizio, con gli intermezzi recitati da Brudvick su testi poetici dello scrittore californiano Chip Martin, che nella costruzione ricordano, con toni più moderati e sommessi, l'esperimento "The Valley of Unrest", del grande Lou Reed, nel concept album dedicato alle poesie ed ai racconti di E. A. Poe, 'The Raven'. Il disco scorre veloce tra chitarre acustiche e batterie indie, la voce di Brudini è solenne, narrante e farà felice i fans degli statunitensi Death Cab for Cutie, o gli amanti delle atmosfere dell'ultimo Plans, che si porta appresso sempre una buona dose di malinconia, in un miscuglio tra un Dylan d'annata e le evocative tonalità di Antoine Mermet dei Saint Sadrill, che in alcuni brani dal tocco più solare, penso a "Radiant Man", riesce a creare un perfetto equilibrio tra luci ed ombre che si eleva a vette assai alte di bellezza. "Everything is Movement" è un brano intimo, giocato su rintocchi di piano, rumori e percussioni dal forte sapore di jazz notturno e disperato, atmosfere offuscate nella prima metà per poi sorprendere con un'apertura pop/soul sognante ed ariosa, con archi e tastiere che liberano dallo stato di visione grigia disseminato ovunque nell'album. Non dimentichiamoci poi quella sottile vena psichedelica presente nei brani, che sparsa qua e là, dona un tocco naif al disco, trovando il suo apice, nella canzone conclusiva, "Boulevards", meravigliosamente delicata, cosmica ed ipnotica. Un album riflessivo, per certi aspetti stravagante, che usa tante idee pur mantenendo un profilo minimale per il sound ed un profilo altamente espressivo nel canto, un disco che vale la pena ascoltare. (Bob Stoner)

(Apollon Records - 2020)
Voto: 73

http://www.brudini.com/