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venerdì 8 novembre 2019

Inner Blast - Figment of the Imagination

#PER CHI AMA: Death/Thrash/Gothic
La Ethereal Sound Works si fa promotrice della seconda release ufficiale dei portoghesi (ma non serviva nemmeno specificarlo) Inner Blast. 'Figment of the Imagination' esce a tre anni di distanza dal precedente 'Prophecy', che si era messo in luce grazie alla Nordavind Records, per i suoi gradevoli (ma non eccelsi) contenuti gothic metal. Parlando di questo nuovo lavoro, devo ammettere che le nove tracce qui incluse non apportano grosse novità al genere se proprio di gothic metal stiamo parlando. Partiamo infatti dal solito dualismo vocale tra la classica gentil donzella e la voce della stessa, in formato growl. Questo quanto si evince dall'ascolto di "Mankind", l'opener track del disco. Da un ascolto attento però si possono scovare le prime magagne che mi fanno storcere il naso di fronte a questa uscita. Oltre alla scontatezza della proposta, non ho apprezzato certe soluzioni ritmiche che privano il sound di una certa fluidità di fondo e soprattutto, continuo a faticare nel trovare le vere peculiarità del genere. Lo stesso si scorge in "No Strings", dove ho come la percezione che per non risultare troppo morbidi, i nostri pigino appositamente sul pedale dell'acceleratore, risultando però fuori luogo visto che alla fine finiscono con l'imbastire una forma di metal che ammicca al death. Serve coerenza a mio avviso e forse è meglio suonare un po' più morbidi che mixare forzatamente (come accade in "There's no Pride in this War") un death/thrash con una spruzzatina di gothic (o forse sarebbe meglio parlare di symph metal), laddove compare la voce cristallina di Liliana. Rimango titubante di fronte alla scelta della band, visto che alla fine ho l'impressione che la proposta degli Inner Blast non sia nè carne nè pesce. Per me il gothic è tutt'altra cosa: ci devono essere sonorità oscure e malinconiche, e qui francamente non ne vedo nemmeno l'ombra, mancano poi le atmosfere in grado di creare quelle atmosfere spettrali o decadenti tipiche del genere. Per questo forse c'è un malinteso di fondo e quello che l'etichetta stessa propone come gothic metal non è altro che un disco di thrash/death con vocals femminili. Visto sotto questa nuova luce, posso dire che qualche brano discreto si trova anche: "Throne of Lilith" è infatti uno di questi, una song che nel suo estremismo sonoro, evidenzia qualche tratto vampiresco. Interessante l'esperimento di "O Teu Veneno" cosi come pure "Can I Believe", in una sorta di riproposizione dei Lacuna Coil in forma più estrema. Alla fine dei conti, 'Figment of the Imagination' non è un brutto album, ma occhio ad etichettare la musica, il rischio di incappare nel recensore pignolo e fare brutte figure, è sempre dietro l'angolo. (Francesco Scarci)

(Ethereal Sound Works - 2019)
Voto: 62

https://www.facebook.com/innerblast

Noorvik - Omission

#PER CHI AMA: Post-Rock strumentale
Con un moniker del genere avrei pensato a qualcosa di norvegese ed invece i Noorvik (il cui nome si rifà ad una città dell'Alaska) vengono "banalmente" da Colonia, con questo 'Omission' a rappresentare il loro secondo album. La proposta dei quattro teutonici è un post-rock strumentale che sembra poco abbia da aggiungere a quanto ormai inflazioni la scena da un po' di tempo. Eppure c'è un che di magnetico nella proposta dei nostri: sebbene il disco si apra in modo assai tiepido con "Floating", trovo un che di magico nelle sue note iniziali. Non credo sia quel basso che danza minaccioso nella traccia d'apertura, mentre i tocchi di tastiera generano quel pathos necessario a sostenere la struttura del brano. C'è qualcos'altro che sembra vada a crescere, e questa mia sensazione, una sorta di prurito al naso, molto spesso non sbaglia. Poco oltre la metà del brano infatti, ecco intensificarsi l'emozionalità dei suoni, ma anche la ferocia, con un finale che prende in prestito, almeno per una manciata di secondi, l'efferatezza del post-black, con una scarica ritmica davvero impressionante. E il quartetto non si ferma qui: "Above" miscela abilmente post-rock con suoni progressive e, maledizione che non ci sia una voce in stile Steven Wilson a guidare la musica, avrebbe reso ancor più alla grande i passaggi contenuti in questo notevole pezzo, che si muove in una girandola di chiaroscuri davvero gradevoli. "Hidden" è un bell'esempio di come si possano creare suoni pacati che lascino presagire ad un improvviso cambiamento, nella classica quiete prima della tempesta. La prima sottolineatura va all'eccellente prova del batterista, davvero fantasioso nella sua performance dietro le pelli. Nel frattempo, il lavoro alle chitarre va irrobustendosi con un riffing più roccioso in stile Russian Circle. Ma i cambi ritmici sono dietro l'angolo, con un ipnotico break ambient che sembra sospendere lo scandire del tempo. E come previsto, ecco che la tempesta, all'orizzonte fino a pochi secondi fa, nel frattempo si è avvicinata. Le chitarre nel loro malinconico avanzare, si sono fatte più minacciose e il frustare sulle pelli irrompe nuovamente come se si trattasse di un brano dei Deafheaven. L'ultima song, "Dark", è quella della conferma finale che tra le mani ci troviamo un nuovo campionario di suoni estremamente interessante in un genere quanto mai saturo come il post-rock. Le sembianze sono quelle di una malinconica colonna sonora, almeno per i primi sei minuti del brano, poi la violenza torna a mostrarsi con un finale aggressivo quanto basta per slegare del tutto i Noorvik dalla sola etichetta post-rock. In 'Omission' c'è ben altro, a voi l'elegante compito di decriptare al meglio l'eccitante sound dei Noorvik. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records - 2019)
Voto: 75

https://noorvik.bandcamp.com/album/omission

mercoledì 6 novembre 2019

Starless Domain - EOS

#PER CHI AMA: Cosmic Black, Mahr
Gli Starless Domain sono una band statunitense formatasi nel 2018 da membri di Stellar Descent e Twilight Falls, che ha pensato bene di rilasciare due lavori in questo 2019, 'EOS' e 'ALMA'. È il primo però che andiamo ad fronteggiare quest'oggi, un disco di quattro pezzi che sfiora l'ora di durata. Questo perchè abbiamo di fronte brani dalle lunghezze imponenti: si apre infatti con "EOS I", quasi 17 minuti di sonorità insane, glaciali e terrificanti. È puro black cosmico quello proposto del trio dell'Oregon che si avviluppa attorno a lunghe fughe strumentali contrappuntate da un utilizzo sagace dei synth, da vocals aliene in sottofondo, ma soprattutto dall'instaurarsi di un senso di vuoto e desolazione che caratterizza uscite di questo tipo. L'effetto è straordinariamente efficace, andando a provocare però (e per questo fate estremamente attenzione) pericolose alterazioni sensoriali. Il brano prosegue linearmente in un tutt'uno con il secondo capitolo ("EOS II") e pure con i successivi, proseguendo in quell'opera di annichilimento cerebrale, e accrescendo in tal modo un disagio interiore instillando nell'anima altre strane paure, a seconda che in sottofondo ci sia una chitarra dai suoni siderali o delle lunghe fughe ambient di derivazione extraterrestre ("EOS III"). Il risultato lo ribadisco è stupefacente, disturbante, orrorifico e, sebbene il rischio di scadere nella noia, vista la lunga durata del disco, sia piuttosto elevato, vi garantisco d'altro canto, che il turbinio sonoro in cui si sprofonda, è tale che se ne vorrebbe sempre di più. La proposta insana di questi Starless Domain alla fine mi ha estasiato nella loro singolare follia, ricordandomi peraltro uno stranito ibrido tra Aevangelist (band nella quale guarda caso il vocalist, nonchè bassista dei nostri, ha suonato) e Mahr, soprattutto nel capitolo finale di questo notevole lavoro di black metal astrale. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2019)
Voto: 80

https://starlessdomain.bandcamp.com/album/eos

Deadly Shakes - Left Behind

#PER CHI AMA: Hard Rock
In arrivo dalla Francia un bel carico di hard rock suonato con i controcoglioni. Loro sono i Deadly Shakes e 'Left Behind' è il loro EP di debutto, dopo aver rilasciato un altro EP, questa volta col monicker The Stone Cox, nel 2015. Quattro pezzi quindi per saggiare la tonicità di questo terzetto di Mulhouse. Si parte da "Living by the River", caratterizzata da un bel giro di chitarra iniziale, vocals potenti e da un groove che mi ha evocato per certi versi quello contenuto in 'Electric' dei The Cult. Lo spunto finale poi, a livello di solismi con tanto di coda stoner-darkeggiante, impreziosisce un brano di per sè convincente. Si passa a stretto giro all'arrembante, ma soprattutto punkeggiante, "Reap What You Sow", un pezzo che ammicca a certa produzione targata Billy Idol, una scheggia divertente di rock che dura poco più di una manciata di minuti. Pronti poi per ricominciare dalla title track, una semi-ballad dall'anima blues-rock, com'erano anni che non ne sentivo, con un bel crescendo finale con tanto di assolo scaldacuori in stile Guns N' Roses. Le danze si chiudono con un altro pezzo che scomoda Axl Rose e compagni: si tratta di "Never Return", che ci mostra nuovamente il lato più tenero di questa band alsaziana, ma al contempo la capacità di muoversi all'interno di contesti non propriamente hard rock, bensì più controllati ed introspettivi, sebbene nel finale i nostri si lancino in uno splendido e accecante esempio di hard rock di scuola Led Zeppelin. Peccato solo che il lavori non superi i 17 minuti, sarebbe stato interessante capire maggiormente come la band si muova in territori, dove spingere il piede più sull'acceleratore, è più che indicato. (Francesco Scarci)

(Love Apache Records - 2019)
Voto: 69

https://deadlyshakes.bandcamp.com/releases

domenica 3 novembre 2019

Lambs - Malice

#PER CHI AMA: Crust/Post-Hardcore
Che fine hanno fatto i Lambs che ho recensito ormai tre anni fa su queste stesse pagine, in occasione dell'uscita del loro EP 'Betrayed From Birth'? Quella era una band di corrosivo post-hardcore/post-black, mentre i Lambs di oggi, sembrano piuttosto una realtà apparentemente più riflessiva, immersa in un contesto più vicino al post-metal. Questo è almeno quanto si evince dalla song posta in apertura di 'Malice', dall'eloquente titolo "Debug" (song che vanta peraltro la partecipazione di Paolo Ranieri degli Ottone Pesante e il musicista genovese Fabio Cuomo). Che si tratti quindi di una correzione del tiro da parte della compagine cesenate o che altro? Lungi da me trarre conclusioni cosi frettolosamente, visto che il finale della stessa si lancia verso un primigenio caos sonoro che richiama quello stesso corrosivo suono crust che avevo evidenziato in occasione del precedente dischetto, proseguendo addirittura con un sound ancor più aspro nella successiva "Arpia". La traccia si apre con ritmiche sghembe che strizzano nuovamente l'occhiolino alle band black della scena transalpina, per poi infilarsi in mefitici e fangosi meandri sludge (dove i nostri sembrano trovarsi più a proprio agio) e lanciarsi infine, come un treno fuori controllo, in un'ultima cavalcata dalle tinte oscure, non propriamente nere. È quindi il turno di "Ruins" e qui il ritmo va più a rilento, almeno fino al minuto 4 e 37, quando una grandinata improvvisa si abbatte sulle nostre teste. In "Perfidia", una song lenta e magnetica, i nostri si affidano all'italiano per il cantato e il risultato, devo ammettere, si rivela ben più efficace di quello in inglese. Certo, la song è assai particolare, muovendosi tra crust punk, math, uno sfiancante sludge e schizofrenia pura, risultando alla fine la mia song preferita. C'è ancora tempo per l'ultima sassaiola, quella affidata a "Misfortune", un brano che tuttavia parte piano con un timido esempio di post-rock in stile *Shels, con la tromba di Paolo Ranieri in sottofondo. Come anticipato però, di sassaiola si tratta e non c'è niente da fare, non la si può scampare quando esplode nella sua furia distruttiva. I Lambs cercano di attutirne i colpi, rallentando pericolosamente l'incedere intimidatorio del pezzo. Il giochino riesce alla grande ma alla fine provoca un giramento di testa non da poco, che mi sa tanto che mi accompagnerà per parecchio tempo. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2019)
Voto: 72

https://lambsit.bandcamp.com/album/malice

Rosetta - Terra Sola

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna
Dopo un lungo tour mondiale durato due anni a supporto del meraviglioso 'Utopioid', tornano i Rosetta con un secondo EP datato 2019. Dopo 'Sower of Wind' infatti, rilasciato ad inizio anno, ecco arrivare, per il momento solo in digitale (ma la Pelagic Records rilascerà a breve anche il formato fisico, non temete), 'Terra Sola', l'ennesima dimostrazione che la band statunitense in questo momento sia, insieme ai Cult of Luna, leader indiscussa del panorama post-metal mondiale. La classe non mente, e i Rosetta ne hanno parecchia, l'hanno sempre avuta, ma forse passava in secondo piano per la presenza ingombrante degli Isis e dei Neurosis, quando erano in una forma decisamente più ispirata. Ora che i primi si sono sciolti e i secondi sembrano l'ombra di se stessi, ecco che Michael Armine e compagni sono diventati i nuovi maestri nel post metal, incorporando nel proprio sound elementi ambient/drone, come quelli ascoltati nel precedente EP, e tutta la cinematica maestria nel proporre la loro personale visione del post-metal. E 'Terra Sola' non mente, non lo fanno per lo meno gli undici minuti della title track posta in apertura, oltre 660 secondi di suoni malinconici, disperati, rabbiosi, spettrali e al contempo drammatici, tenui, celestiale, grazie soprattutto alla lunga coda strumentale di oltre tre minuti. Spettacolo per le mie orecchie e purificazione per la mia anima. Con "57844", i Rosetta calcano addirittura la mano sull'aspetto emozionale, offrendo un brano dolce e sognante, liberandosi di ogni tipo di legame con il genere musicale a cui appartengono e lasciando fluire le proprie emozioni attraverso un pezzo che di per sè non è nulla di eccezionale, ma che inserito in questo contesto, ha un effetto liberatorio. E con la strumentale "Where Is Hope?", ci immergiamo infine nelle soffuse melodie di una chitarra acustica che ci accompagna soavemente per gli ultimi cinque minuti di questa affascinante release targata Rosetta. (Francesco Scarci)

Woundvac - The Road Ahead

#PER CHI AMA: Grind/Hardcore
Dopo tanto black e post-metal ascoltato in questo periodo, avrei bisogno di qualcosa che sradichi tutti quei suoni e faccia un po' di pulizia nella mia testa. Gli americani Woundvac, con il nuovo 'The Road Ahead', potrebbero fare al caso mio. Accendo lo stereo abbastanza ignaro di quanto mi aspetti, sebbene quella copertina piuttosto splatter lasci presagire il peggio. E infatti quando "The Last Nail" fa seguito all'intro del disco, ecco che vengo investito dalla furia nichilista del quartetto di Phoenix che mi assale con un grind/hardcore senza compromessi, in grado di polverizzare in un battibaleno qualunque forma di contaminazione musicale alberghi ancora nelle mie orecchie. Un due tre, la band sciorina uno dopo l'altro dei pezzi assassini che citano Napalm Death o Terrorizer tra le loro influenze, sebbene le harsh vocals del frontman statunitense non siano cosi profonde come il growling dei colleghi inglesi e il suono risulti più secco rispetto alle due band citate. Poi di fronte alla carneficina compiuta dei nostri non posso altro che alzare le mani e lasciarmi investire dalla tempesta sonica elargita dal malefico terzetto costituito da "Tightening Chain", "Never an Option" e la lunghissima (quasi quattro minuti), ma anche più ritmata, "Institutional Bloodshed". Feroci, furibondi, malefici, violenti, incazzati, trovate anche voi altri aggettivi che definiscano l'essenza ferale di questi terroristi del metal estremo. L'erasing alla mia testa è completato, il risultato raggiunto. (Francesco Scarci)

sabato 2 novembre 2019

Lunatii - Eternal Return

#PER CHI AMA: Symph Black
Mi domando come mai le one-man band siano sempre cosi ispirate, a tal punto da riuscire a rilasciare anche un paio di release l'anno? Non è immune nemmeno il musicista russo Ilya Kuftyrev (nome di battaglia Blakie White) che con questi Lunatii, in poco meno di cinque anni, ha fatto uscire quattro Lp, altrettanti EP, un paio di split album e tre demo. Insomma idee ne deve aver da vendere questo musicista e allora anzichè tenersele in testa, meglio metterle immediatamente in musica. Ecco da dove nasce quindi 'Eternal Return', un EP di due pezzi, dediti ad un black atmosferico che a quanto pare funge da apripista ad una nuova release sulla lunga distanza. L'opener del dischetto è un discreto esempio di black sinfonico che si muove tra chitarre ronzanti, screaming caotici ed una buona dose di tastiere che fungono da driver per l'intera impalcatura del brano. La song vanta anche una certa variabilità musicale che sembra tuttavia nuocere all'economia del brano visto che genera non poca confusione. La seconda song, "The Great Sea of Quiet", sembra inizialmente una ninnananna, cantata dalla dolce (si fa per dire) cantante rumena dei Psychalgia, Black Illness. Il pezzo, nonostante l'apporto della giovane cantante, si muove alla stregua del primo brano con chitarre in tremolo picking e comunque un bel quantitativo di melodie disegnate dalle keys del buon Blakie White, uno che si diverte anche con un altro paio di band, gli Aghory e i Salvation, per il sottoscritto realtà totalmente sconosciute. 'Eternal Return' rimane un discreto antipasto, che mi mette sicuramente addosso una certa curiosità per quel che concerne il rilascio dell'imminente 'Diskonformism: Anhedonia in Utopia', di cui presto dovremmo avere notizie. (Francesco Scarci)