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martedì 15 settembre 2015

Monarca - S/t

#PER CHI AMA: Post Rock/Alternative
I Monarca sono una formazione nata recentemente nell'est veronese, un quartetto dedito al rock strumentale, che è partito in quarta vincendo alcuni premi e sfornando questo EP omonimo. Come dichiarato dalla band stessa, i veronesi si inspirano ai granitici Tool e ai A Perfect Circle, ma l'assenza della voce e quindi lo studio di linee melodiche aggiuntive, li porta ad essere più vicini anche a band come Russian Circles e in ai primi Pelican. I suoni dei Monarca sono però meno saturi e lasciano maggiore respiro all'ascoltatore che non viene costantemente investito da muri di distorsioni, che vengono invece utilizzate ad hoc per caricare al meglio le tracce e dare loro maggior dinamicità. I brani contenuti sono cinque e dopo un'eterea traccia introduttiva a ritmo di hang drum, si viene accolti da "Cricktes", sette minuti di prog rock che convince, affascina e non stanca. Le chitarre la fanno da padrone e la loro corposità appaga l'orecchio del rocker smaliziato, mentre le linee melodiche che i Monarca tessono, non fanno certo rimpiangere la mancanza di un vocalist. Alcuni passaggi risultano minimalisti, creano un'atmosfera introspettiva ed oscura per cui probabilmente si poteva osare qualcosina di più. Gli strumenti ci sono e varrebbe la pena sfruttarli fino all'ultima nota. La sezione ritmica viaggia appaiata e lavora all'unisono per regalare una struttura compatta e coinvolgente che muta con una certa costanza. "Kookai" è la traccia che spicca nel lotto grazie ad il suo riff di chitarra che penetra velocemente nel nostro orecchio e si avvinghia ai neuroni in modo indissolubile. Ottimi gli arrangiamenti e la crescita verso l'alto del brano; si denota la qualità compositiva della band che sicuramente investe tempo e sudore per non (s)cadere nella banalità. Il finale è un'esplosione di quelle ben fatte: grande accelerazione e potenza che spingono anche il più timido ascoltatore ad abbozzare un qualsiasi movimento a tempo di musica. "Sunrise" chiude questo self-titled iniziando con un arpeggio ipnotico accompagnato da un synth spaziale, un perfetto biglietto di sola andata per una lontana galassia sconosciuta. L'evoluzione del brano poi non è da meno e ci ritroviamo in un vortice di luci e suoni che annientano il concetto di spazio/tempo, permettendo alla traccia di diventare la perfetta colonna sonora di un cortometraggio futuristico. Come in precedenza, sul più bello che si pensa di essere arrivati al capolinea, la canzone muta di nuova, introducendo una diversa ritmica. A volte si sente il bisogno di qualche bpm in più, questo permetterebbe alle canzoni di aver un piglio più incisivo e probabilmente aumenterebbe il potenziale bacino di proseliti della band. In sostanza l'EP è ben registrato ed eseguito, a volte pecca in alcuni passaggi di immaturità, ma lascia un discreto margine di miglioramento alla band che ci fa comunque ben sperare per il prossimo futuro. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 70

Anabasi Road - S/t

#PER CHI AMA: Progressive/Rock Blues/70s Hard Rock
Il giorno in cui il cd degli Anabasi Road viene recapitato sulla mia scrivania, ho iniziato da poco la rilettura de 'I Guerrieri della Notte' di Sol Yurick, libro dichiaratamente ispirato all’Anabasi di Senofonte. Lo prendo per un segno del destino e inserisco immediatamente il dischetto nel lettore. Non mi è semplice esprimere quelli che sono i miei sentimenti verso quest'album e la formazione reggiana che si è scelto un nome così impegnativo. Perché se da un lato amo il progressive e il blues rock degli anni 70, dall'altro non riesco proprio a digerire le propaggini virtuosistiche da essi originatisi nel corso degli anni e sfociate in pletore di guitar hero dediti ad un prog hard rock onanista (leggasi Dream Theater e compagnia cantante) che ho sempre ritenuto sterile e per me poco interessante. E quest'album sembra essere composto in egual misura da entrambe queste componenti, in un delicato gioco di equilibri, a mio avviso non sempre riuscitissimo, con il risultato di essere a volte un po’ troppo pesante; non una sintesi quanto una somma delle parti. C’è tanta, tanta carne al fuoco qui, a partire dal fatto che gli Anabasi Road sono tutti eccellenti musicisti, nessuno escluso, ma il problema sta proprio nel fatto che sembra vogliano rimarcarlo incessantemente per tutta la durata del disco, senza un solo secondo di pausa. Così facendo, purtroppo, i brani a volte scappano un po’ di mano e sembrano diventare solo delle vetrine per le proprie qualità strumentali. Se l’iniziale “Pleasure in Me” promette molto bene con il suo hard screziato black grazie a un hammond caldissimo, già dalla successiva "Clashing Stars" le cose iniziano pian piano a sfilacciarsi fino a diventare pretenziose, con le inutili prolissità di “Say Man”, improbabile nel suo accostare blues canonico e prog neoclassico, o “I Walk Alone”, che nel finale vuole forse omaggiare i duetti voce-chitarra di Page e Plant con un risultato però parodistico. Troppo spesso chitarre e tastiere si suonano sopra, quasi senza ascoltarsi, lasciando un po’ l’amaro in bocca per quello che sarebbe potuto essere con solo un po’ piú di moderazione un ottimo lavoro, forte anche della presenza di un vocalist ispirato e potente, dal timbro profondo e personale (anche se nell'unico brano cantato in italiano, il peraltro ben riuscito “Guerra Mondiale”, ricorda il cantante dei Nomadi, quelli di oggi). Se posso riassumere la recensione in una frase, direi “Bravi, ma fermate un secondo quelle chitarre!”. Mark Hollis, geniale leader dei Talk Talk dice che non c’è bisogno di suonare due note, se puoi suonarne una sola. Ecco, senza arrivare a questi estremi, un produttore che avesse dato un freno alle debordanti sei corde degli Anabasi Road avrebbe fatto un gran servizio al disco. C’è del talento, qui dentro, e anche tanto. Bisogna solo lasciare che emerga, magari qualche volta togliendo piuttosto che aggiungendo sempre. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 65

sabato 12 settembre 2015

The Morganatics - We Come From The Stars

#PER CHI AMA: Alternative Progressive Rock, Lacuna Coil
Le torride giornate di quest'estate che volge al termine, hanno visto arrivare tra le mie grinfie diversi CD abbastanza interessanti e quello di questa band francese, si dimostra essere forse tra i più convincenti. La band arriva da Parigi e dà alle stampe questo secondo lavoro, dopo un debutto che aveva dimostrato le potenzialità del combo. Cinque componenti, ognuno con delle influenze diverse confluiscono in un solo progetto per produrre musica davvero “scintillante”. Definisco così la loro proposta perchè, sebbene io non sia un grande estimatore dei miscugli di genere, le loro composizioni (oltre ad essere molto interessanti) brillano di luce propria, nonostante emergano qua e là i riferimenti alle band preferite dai vari componenti. Nella biografia della band leggo che le band maggiormente apprezzate sono Linkin Park e Porcupine Tree, due proposte nettamente agli antipodi, ma di cui chiari sono i rimandi in alcune tracce. Aggiungerei poi che in alcuni passaggi i nostri mi hanno ricordato anche i nostrani Lacuna Coil, pertanto mi sentirei di definire la proposta dei transalpini come un solido prog rock moderno. Non vorrei dare per forza un'etichetta ai The Morganatics, ma cerco di farlo per far comprendere meglio a chi legge, se possibile, la particolarità e l'originalità di 'We Come From The Stars'. La musica scorre via piacevolmente lungo i 64 minuti dell'album che consta di 11 tracce. Le canzoni sono facilmente apprezzabili sotto un punto di vista melodico e di esecuzione, risaltate da una produzione al limite della perfezione. Sintetizzatori, archi e parti electro si amalgamano a chitarre più classicamente metal, con un drumming preciso e coinvolgente a creare la solida struttura sulla quale si intersecano precise linee di basso e le vocals, sia femminili che maschili, sempre in clean. Alla fine dell'ascolto rimane la consapevolezza di essere a cospetto di un lavoro assolutamente ben concepito, che a mio parere potrebbe dare il meglio di sé in sede live. Le mie song preferite, pur apprezzando tutte le composizioni, rimangono l'opener “I'm a Mess (but I am Free)” e “Even Terminators Can Cry”. Se avete voglia di ascoltare un disco ben fatto, allontanatevi (come ho fatto io) dai preconcetti legati al genere e date una chance a questi ragazzi transalpini, non ve ne pentirete di certo. Ottimo lavoro. (Claudio Catena)

Ketha - #!%16.7

#PER CHI AMA: Musica totale, Primus, Tool, Meshuggah
Sapete che quando trovo un album eccezionale lo devo gridare a tutti, è più forte di me; cosi spulciando per la rete ecco capitarmi fra le mani i polacchi Ketha, sconosciuti autori già di due album e di questo incredibile EP dal titolo emblematico '#!%16.7'. La durata ahimé limitata rendono ancor più ossessiva la mia caccia ai precedenti introvabili lavori. Nel frattempo devo accontentarmi di queste 12 minuscole tracce che in realtà ne costituiscono una sola dato il flusso sonico continuo che si sviluppa dalla opening track, "Shhh" alla conclusiva "Redshift", in un viaggio musicale senza precedenti. Ragazzi, qui non si scherza. L'ensemble polacco ha prodotto un qualcosa di estremamente delirante che abbina il riffing nevrotico dei Meshuggah con la follia dei Primus, in un percorso ipnotico che vi lascerà di sasso e avrà modo di percorrere saliscendi progressivi, partiture blues-jazz, rimandi di tooliana memoria, trionfi di sax e trombe, aperture cinematiche, growling vocals, twist and shout, superbe montagne di groove, splendidi assoli, death metal, space rock e chi più ne ha più ne metta. Non fatevelo scappare, per loro garantisco io. (Francesco Scarci)

(Instant Classic - 2015)
Voto: 90

https://www.facebook.com/kethaband

mercoledì 9 settembre 2015

Last Minute to Jaffna - Volume II

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, Neurosis, Cult of Luna
Non proprio una passeggiata affrontare il nuovo album dei torinesi Last Minute to Jaffna. 'Volume II' è infatti un lungo percorso di 70 minuti che vi darà modo di conoscere l'inesplorata cerebralità del combo piemontese. Otto i capitoli a disposizione dello storico quartetto nostrano, otto lunghe tracce che seguono il sentiero tracciato dagli statunitensi Neurosis, vero punto di riferimento dei nostri, e lo ampliano grazie ad una propria caratteristica fisionomia, che nel tempo è andata via via maturando in seno alla band. Le chitarre ribassate rombano che è un piacere nelle casse del mio stereo, ma devo ammettere che sono quei break pseudo acustici, che prendono il sopravvento all'interno dei brani, ad entusiasmarmi maggiormente. Il flusso canalizzatore che la band instaura è infatti da manuale, con il sound che cresce lentamente e come un serpente striscia minaccioso, facendo breccia nella mia testa. "Chapter DCCXV" è forse la traccia che maggiormente rappresenta il sound della band, con quell'alternanza tra chitarre sporche e cattive e frangenti più intimistici (e più votati ad un post rock claustrofobico), dove la voce di Valerio Damiano abbandona il growling selvaggio per dedicarsi a gorgheggi più delicati. "Chapter XII" è un altro pezzo che parte forte anche se dopo un minuto, i quattro tirano il freno a mano e deliziano i palati più raffinati, con un sound al limite del trip hop, e un cantato quasi liturgico, decisamente da brividi. L'atmosfera che si respira è rappresentata dai colori monocromatici della cover del disco. La song non tarda però ad assumere connotati quasi tribali a livello del drumming che cresce progressivamente e si ingrossa (e mi sovviene un'immagine live di qualche anno fa a Torino, che rimarrà indelebile nella mia mente per tutta la vita: i due vocalist dei Neurosis che suonano le percussioni all'unisono), mentre la voce di Valerio diventa sempre più corrosiva. Anche qui è questione di attimi, perché il sound torna ad incupirsi, rinchiudersi in se stesso provare a disegnare lande gelide, come fatto dai Cult of Luna in 'Somewhere Along the Highway'. Non c'è modo di annoiarsi in questo disco perché i nostri si divertono non poco, addirittura propinandoci sonorità drone nella psicotica "Chapter DCLXVI". "Chapter XIII" (presente peraltro in veste acustica insieme alla notturna "Chapter XXV", su 'Volume III') è quella che per costruzione mi ricorda maggiormente i gods di Oakland: una traccia di ben dieci minuti che avanza lenta come la morte, con la voce del bravo Valerio a emulare quella di Scott Kelly (anche se alla fine risulterà più litanica), mentre il sound caliginoso dell'act italico passa con estrema disinvoltura da frangenti atmosferici a qualche rara sfuriata elettrica, fino a tormentate e opprimenti visioni da fine del mondo, in un tortuoso percorso musicale di ottima fattura. "Chapter XIV" ha un che dei Fields of the Nefilim con quella sua forte aura darkettona, anche se poi quando esplode la veemenza del vocalist e deflagra il sound della sei corde, i nostri prendono le distanze dal dark sound della band inglese capitana da Carl McCoy. Ma l'atmosfera apocalittica torna da li a breve ad avvolgere il sound maledetto dei Last Minute to Jaffna che si riaffaccerà in modo violento nella parte finale del pezzo. La conclusiva "Chapter XXVI" è un esempio di suono crepuscolare affidato a sole malinconiche chitarre che segnano l'epilogo di questa entusiasmante release targata Argonauta Records. Eccellenti! (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2015)
Voto: 85

INTERVIEW WITH VOLA

Follow this link for an interesting chat with the Danish guys of VOLA, authors of one of the best albums of this summer:




Aidan - Témno

#PER CHI AMA: Instrumental Post-metal/Ambient, Pelican, Mogwai
Aspettavo al varco i padovani Aidan, dopo il bel debutto di 'The Relation Between Brain and Behaviour' di due anni fa. Tornano sulla scena con questo EP di quattro brani, sostanzialmente diviso in due grandi momenti: l’apertura e la chiusura del disco (affidate rispettivamente a “Levnad” e “Ora Puoi Scendere nella Fossa con la tua Musica”) pescano a piene mani nell’ambient: atmosfere inquiete, synth ronzanti, violini carichi di pathos. Due brani che sono quasi colonna sonora – in “Ora Puoi Scendere…”, non a caso, appare il lungo dialogo sulla bellezza e il genio da 'Morte a Venezia' di Luchino Visconti –, onirici ed emozionanti, valorizzati da una produzione praticamente perfetta. Il secondo momento del disco, invece, è rappresentato dai due brani centrali, più legati alla tradizione strumentale del post-rock e post-sludge. “Negazione dell’Appartenenza/Appartenenza alla Negazione” è forse il migliore momento di 'Témno': una lunga suite, che oscilla con naturalezza tra il riffing ipnotico e progressivo dei Pelican e l’armonia delle parti più riverberate e sognanti, che ricordano in certi tratti i Mogwai ma persino i Tame Impala. La successiva “Il Terzo Escluso” è un lavoro più psichedelico e ambizioso, che premia la maturità degli Aidan in particolare nell’armonizzazione delle melodie tra le due chitarre e il basso (ascoltate il magistrale incastro tra strumenti dal primo minuto in avanti). Delay e feedback, ben dosati su suoni ruvidi tipici dello sludge, condiscono il lavoro trasformandolo in un piccolo capolavoro. C’è maturità negli Aidan, e si sente: si va oltre il solito gioco forte/piano del post-rock, e in generale i due brani centrali lasciano trasparire un lavoro su dinamica, tempi, melodie e suoni maggiore del precedente debut album. 'Témno', nonostante le altissime potenzialità, lascia però a bocca asciutta: la brevità dell’EP delude, e delude ancor di più se metà disco è sostanzialmente ambient, giocato su una singola nota che evolve tra arpeggi, delay e synth. Attendo il full-length che, mi auguro, valorizzerà meglio le grandi capacità compositive e tecniche della band, soprattutto quando lavora a pieno regime su brani complessi e completi. (Stefano Torregrossa)

(Red Sound Records - 2015)
Voto: 75

domenica 6 settembre 2015

Assumption – The Three Appearances

#PER CHI AMA: Death Old School/Doom/Psichedelia
Prendete come esempio gli Incantation dell'EP 'Deliverance of Horrific Prophecies', 'In Memorium' dei Cathedral e 'Dawn of Possession' degli Immolation e chiudete gli occhi. Mettete il nuovo album (il secondo) degli Assumption nel lettore e ditemi se il sogno non si avvera, se non sembra di tornare indietro nei primi anni '90 quando il Death metal agli albori mostrava le sue divine mostruosità di incesti malsani tra metal, figure horror e doom degenerato con una credibilità da pelle d'oca. Ecco, 'The Three Appearances' non necessita di ulteriori spiegazioni, è semplicemente un gioiellino dal fascino vintage, intelligente, allucinato e curatissimo ma soprattutto è bellissimo. Il duo palermitano suona come una vera band dell'epoca ed i brani sono così intensi, lugubri e deformi che risultano perfetti. La voce fa la differenza ed il gutturale di G., che suona anche chitarre, synth e basso, è magnifica come la parte grafica; l'artwork è infatti così legato a quell'epoca che quasi commuove. L'immagine space/fantasy dal retrogusto horror della copertina è perfetta per il sound decadente e marcio promosso dalla band nostrana. Prodotto divinamente, con qualità, conoscenza del genere e attitudine moderna, i due bravi musicisti siciliani riescono a rinverdire i fasti di un tempo e mostrarsi perfino originali, cogliendo spunti anche dal doom degli Esoteric. Il tocco d'infinita oscurità che corona le composizioni di un aurea macabra e futurista, si muove sinuoso tra le tracce e pur non mostrando nulla di nuovo, risulta affascinante in maniera disarmante. Una catarsi buia nei meandri di una psiche malata, ventinove minuti di ottimo delirante primordiale death metal diviso in quattro brani di eguale splendore usciti per Terror From Hell Records/Elektroplasma Music nel 2014 (anche se "Moribund State Shifts" rimane la mia hit del disco insieme all'esperimento psich/death/doom di "The Non - Existing"). Death metal old school, doom, psichedelia, chitarre impazzite, voce gutturale, sound proveniente dal cosmo più profondo e sconosciuto...un lavoro di culto imperdibile! (Bob Stoner)

(Terror From Hell Records / Elektroplasma Musik - 2014)
Voto: 90

https://www.facebook.com/assumptiondoom

Heaving Earth - Denouncing the Holy Throne

#FOR FANS OF: Death Metal, Morbid Angel, Destroying Divinity, Hate Eternal
As has been the case with a large amount of Eastern European Death Metal, the influence of American acts is pretty astounding to behold as not only is it stylistically similar in creation but also growing in enjoyment, which follows suit with this Prague-based act. Technical when it needs to be but much more often just blasting away with urgency and intent, there’s a lot at work here as the band shifts from the mid-tempo realms filled with those technically-proficient guitar rhythms popularized by Morbid Angel to the frantic, flesh-flaying full-throttle assaults whipping through numerous sections here which are much more prominent in the modern Death Metal scene. Coupled with the album’s approach of mixing that audio violence with an appropriately surging hellfire-inspired sound it just brings the riffs to life and makes for another outstanding piece to the puzzle found throughout here. The tight leads and the explosive drumming are all favorably aided by this and it truly makes for a much dynamic affair here that does seem more than able to cover up the lone flaw running through the album in having way too many instrumental interludes. In the second half, its split evenly with track-interlude-track-interlude into the finale and that leaves a slightly jarring effect against the rest of the album which didn’t have much. Knock off one or three of them and this would be even higher up than it already is, which is a testament to the rest of the tracks on the album. Opener ‘The Final Crowning’ gets this going nicely with a fine build-up into pounding drumming and hellfire-soaked rhythms blistering into a mid-tempo cacophony bristling with the technical nuances dripping through the guitar work along the extended final half to set the stage perfectly here. ‘Nailed to Perpetual Anguish’ goes slightly more technical in approach and as a consequence eases off the throttle slightly but still manages quite the impressive outing here, while ‘Doomed Before Inception’ continues featuring blazing-fast technically-proficient riffing and dynamic blasting drum-work that gives this a solid three-peat opening. The first instrumental, ‘And the Mighty Shall Fall’ offers stylized majesty melodies and growing atmospheric riffs gradually build to dark, heavy rhythms that segues into ‘Worms of Rusted Congregation’ that continues on with the majority of time offering those slow, dark and heavy rhythms while still maintaining a decidedly Death Metal edge while putting out some Doom influences in the only real section of the album. The next instrumental, ‘...into the Sea of Fire’ features trilling guitar riffs and ambient, dark atmospheric rhythms which is so short it’s questionable why it’s here altogether. Luckily, that’s all quelled with back-to-back quality efforts in ‘Forging Arcane Heresy’ and ‘I Am Nothing’ as the ripping riff-work, utterly explosive drum-blasts and raging tempo changes that sweep from technical thrashing to demonic tremolo-rhythms and mid-tempo blasting make for the album’s two-best overall highlight quality efforts. While not as explosive, ‘Into the Depths of Abomination’ does feature enough engaging rhythms, blasting drum-work and frantic energy to come off as enjoyable even with the odd track placement in the second half when it really reads more of what happened to the first half’s tracks. The next instrumental, ‘...Where the Purified Essence Descends Ablaze’ is so worthless it’s not worth mentioning, while the epic ‘Jesus Died’ offers up slow, sprawling rhythms and tremolo-picked melodies alongside a tight series of drum-blasts and the occasional frantic series of riff-work that really gives this a punch for a fine offering overall. The outro instrumental ‘Endless Procession of the Holy Martyrs / Final Termination’ continues that sprawling blast-work and tight rhythms before fading out into an extended collage of noise that makes for a fine conclusion and a well-placed interlude. If only it had cut back on the others this one might be even more impressive. (Don Anelli)

(Lavadome Productions - 2015)
Score: 85

https://www.facebook.com/heavingearth

Immanent – Human Reflection

#PER CHI AMA: Progressive, Dream Theater, Porcupine Tree
La volontà di emulare e magari raggiungere i propri miti è insita nel prog metal e quando per idoli si hanno divinità come Dream theater e Porcupine Tree "2.0" (ovvero quelli più duri della seconda era) la battaglia per la conquista di un trono si rende durissima ed il paragone diviene innegabile ma soprattutto insostenibile. La giovane band francese ha buona tecnica d'esecuzione e ottime idee in fase compositiva e si presenta con il secondo full length autoprodotto dopo quello splendido da noi recensito, del 2012. 'Human Reflection' è traghettato poi da una produzione davvero notevole che offre una proposta variegata, completa, bilanciata e tanto ordinata. Tutto si trova al posto giusto, l'equilibrio tra la componente progressiva e il metal è magistrale e come unica lacuna possiamo azzardare una critica sulla gestione della voce che andrebbe curata e accudita alla pari e con la stessa dedizione riservata alla musica. Di certo rimanere orfani dell' incantevole vocalist Anastasiya Malakhova e dimenticare la magia retrò delle atmosfere jazz uscite dal suo piano malato non deve esser stato facile ma la band parigina ha ripreso il timone, puntando su un nuovo vocalist maschile e virando la rotta verso lidi metal progressivi più moderni, per trovare nuovi stimoli e nuova linfa vitale. Difficile parlare di forte personalità della band poiché in questo genere tutto risulta abbastanza omologato peraltro in virtù della sola tecnica, che in questo caso risulta comunque eccellente. Senza voler fare paragoni ormai inutili con il passato, un consiglio per il nuovo frontman potrebbe essere di volgere uno sguardo alle interpretazioni più vintage ed emotive del buon vecchio Fish nei primi Marillion o al mito del teatrale Peter Gabriel con i Genesis, passando anche per James LaBrie ma senza emularlo troppo, calcare la mano sul buon vecchio prog non dovrebbe guastare. Una scelta simile potrebbe far risultare il tutto anche tremendamente originale, unico, oltre che bello. Le composizioni risultano un po' ostiche, l'ascolto impegnativo, particolarmente indicato agli appassionati del prog metal tout court, e riservano molti angoli tecnici tutti da scoprire, tra cambi di tempi e classicismi barocchi mozzafiato, senza mai rinunciare alla potenza e alla dinamica di gruppo. L'act transalpino è migliorato ulteriormente rispetto al precedente lavoro, sprigionando qualità da tutti i pori. "Mad Happiness" (la mia preferita) è un brano di oltre nove minuti che ammalia con il suo intermezzo acustico, dove il basso è adorabile, il ponte dai toni jazz è un tocco di vera classe e gli strumenti sono supportati da una voce che sfodera una forza emozionale. La melodia, la tecnica e la potenza s'incrociano a dovere. In realtà, tutti brani dell'album raggiungono vette altissime e rilasciano ottime sensazioni. Gli Immanent si confermano una giovane band dalle ottime prospettive che non bisogna farsi scappare, mentre 'Human Reflection' è un album che è andato molto vicino a centrare il bersaglio più ambito. Ascolto obbligato per veri amanti del prog metal. (Bob Stoner)

sabato 5 settembre 2015

Atten Ash - The Hourglass

#PER CHI AMA: Death Doom, Daylight Dies, Rapture, primi Katatonia
Li avevo menzionati in occasione della recensione dei Norilsk; finalmente ho modo di parlarne più dettagliatamente grazie a 'The Hourglass', disco originariamente registrato nel 2012, ma che solo a febbraio di quest'anno ha visto la luce, grazie alla Hypnotic Dirge Records. Sto parlando degli statunitensi Atten Ash, trio del North Carolina, fautore di un sound che ha più di qualche punto di contatto con i conterranei Daylight Dies. Si inizia con "City in the Sea" che propone un sound vicino al death doom, anche se poi certe aperture melodiche (al contempo malinconiche) palesano piuttosto influenze che spazziano dai Katatonia di 'Brave Murder Day' ai finlandesi Rapture. E con questa attitudine death doom darkeggiante, gli Atten Ash finiscono per coinvolgermi sin da subito per quella loro vena oscura, sorretta da ottime melodie e brillanti assoli, che rendono questo loro debutto a tratti parecchio accessibile. Come sempre, desidero sottolineare che non ci troviamo nulla di originale fra le mani, anche se l'ottimo songwriting, sorretto dalle inevitabili growling vocals e da egregi arrangiamenti, contribuiscono a consegnarci un lavoro maturo e di tutto rispetto. "See You... Never" è un pezzo che strizza maggiormente l'occhiolino alla musicalità dei Saturnus e l'eccelsa produzione non fa altro che enfatizzare la qualità di un lavoro già di per sé assai buona; metteteci poi uno splendido assolo alla fine del brano e potrete godere anche voi delle qualità di questo ensemble a stelle e strisce. In "Not as Others Were" è da segnalare l'utilizzo delle clean vocals a cura di James Greene (un po' il factotum della band) che si contrappongono al cantato feroce di Archie Hunt. "Song for the Dead" (cosi come "First Day" o nella conclusiva e notturna titletrack) vede di contro, il totale abbandono delle voci death a favore di un cantato in grado di agevolare maggiormente un avvicinamento anche per coloro che non hanno molta confidenza con il death doom. Ancora una volta, la componente solistica e una discreta dose di suoni progressivi, intervengono a favore dell'ottima riuscita del disco. Lo stesso si potrebbe dire per la successiva "Born", song che a parte qualche grugnito qua e là, che ci sta peraltro davvero bene, farà la gioia degli amanti del doom alla Doom:Vs, complici anche la presenza di interessanti break crepuscolari. Insomma che altro dire, se non consigliare caldamente un'altra uscita targata Hypnotic Dirge Records: poche releases ma sempre di ottima qualità! (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/attenashband

Sarpanitum - Blessed Be My Brothers…

#PER CHI AMA: Brutal Death Melodico, Mithras, Nile
Non sono mai stato un fan del death metal tout court, di quello fatto di chitarre arroventate, growling vocals paurose e sezioni di batteria che somigliano più ad una contraerea impazzita che a uno strumento musicale. Quando però c'è da essere obiettivi e togliersi il cappello di fronte ad una band eccezionale che propone tale genere, io sono il primo a farlo. Da quando mi sono imbattutto nel furibondo e quanto mai tagliente sound degli inglesi Sarpanitum, non ne sono più riuscito a fare a meno. 'Blessed be my Brothers...' si è consumato all'interno del mio lettore, fosse quello dell'auto o di casa. Il trio di Birmingham mi ha letteralmente conquistato con quel loro modo di suonare tanto debitore della scena inglese, Mithras in testa. Non a caso tra le fila del combo albionico milita proprio Leon Macey, chitarrista e batterista della band britannica suddetta. E parte dell'impianto sonoro che il buon Leon utilizza nella sua band principale, è stato trasferito anche nella matrice dei Sarpanitum. Ritmiche serratissime e acuminate come un rasoio, tirate a velocità supersoniche ma anche dotate di rallentamenti da brividi. Una intro strumentale a dir poco notevole e poi tocca a "By Virtuous Reclamation" farsi portavoce del marchio di fabbrica dei Sarpanitum: si tratta di una cavalcata di vorace ed epico death brutale, in grado di maciullare le carni ma anche di deliziare con mirabolanti aperture melodiche in grado di scatenare brividi mai ipotizzati per tale genere. Incredibile a dirsi di un disco che parte da solidissime basi death metal che poggiano sui dettami di gente del calibro di Nile o Immolation, o per rimanere in casa loro, di Napalm Death o Benediction. I Sarpanitum non sono degli sprovveduti e la loro eccelsa perizia tecnica rappresenta un biglietto da visita incontrovertibile che testimonia a più riprese la capacità e la sapienza di una band, di saper coniugare death brutale, melodia e alte, altissime dosi di epicità. L'album spacca letteralmente grazie a quei riff selvaggi, alle atmosfere che si rifanno ad un duo formato da Nocturnus e Melechesh, turbinii sonori di scuola Mithras, e spaventosi cambi di tempo conditi da altrettanto pazzeschi assoli, a cura di Tom Hyde. Detto della notevole traccia numero due, ce ne sono altre nel magnifico lotto che che vorrei citare: "Glorification upon the Powdered Bones of the Sundered Dead" è un bel mix tra Morbid Angel e Nile mentre "I Defy for I Am Free" è forse il pezzo più completo del disco con quel malinconico incipit, la sua veemenza nella sua parte centrale, e un assolo conclusivo a dir poco fotonico che vale probabilmente da solo il costo del disco. Incredibili! (Francesco Scarci)

(Willowtip Records - 2015)
Voto: 85

https://www.facebook.com/sarpanitum

The Pit Tips

Kent

Forest Swords - Engraving
Greensky Bluegrass - When Sorrow Swim
Ben Frost - A U R O R A

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Francesco Scarci

Sarpanitum - Blessed be my Brothers
Stealing Axion - Aeons
Cradle of Filth - Hammer of the Witches

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Don Anelli

Delirious - Moshcircus
Expenzer - Kill the Conductor
Unleashed - Dawn of the Nine



giovedì 3 settembre 2015

Smash Hit Combo - Playmore

#PER CHI AMA: Rapcore/Metalcore/Djent
Prendete il rap. No, non il crossover alla Rage Against The Machine né la old-school del ghetto: proprio il rap, rap bianco ed europeo per carità, ma pur sempre rap. Però cantato in francese. Metteteci sotto una base di metalcore tecnico votata al groove – tipo Periphery o Protest The Hero, per intenderci. Aggiungete una spolverata di suoni elettronici, synth ruvidi e percussioni sintetiche. Salite sul palco addirittura in otto elementi (tre voci, due chitarre, basso, batteria e sampler/piatti). E, ciliegina sulla torta, cantate fondamentalmente di videogiochi. Sì, videogiochi. Questa è la stramba ricetta dei francesi Smash Hit Combo, formazione decennale addirittura al quinto full length (più un EP nel 2005). Musicalmente il disco sta in piedi: non c’è quasi niente di nuovo e originale, ma non si può certo dire che chitarre, batteria e basso non sappiano suonare. Ci sono groove ben fatti, riffing interessanti, palm-mute in abbondanza, mitragliate di doppia cassa, velocità; c’è in generale quel suono sintetico e tagliente tipico del metal più contemporaneo. I brani – tolti giusto un paio di lenti (“Quart de Siècle”, “Déphasé”, “B3t4”) – sono però davvero troppo uguali a se stessi per lasciare un segno, costruiti su una identica forma (“In Game”, “Animal Nocturne”, “Le Vrai du Faux”, “48h”) che alterna ritornelli aperti melodici, strofe rappate e bridge urlati a ripetizione. La differenza la fa l’uomo dietro l’elettronica, che dosa piuttosto bene scratch, effetti, synth, campioni e beat con un’originalità non facile da trovare nel genere. Per giunta, il lavoro è masterizzato perfettamente da Magnus Lindberg, già alla console per i Cult Of Luna. Il problema però sono i tre cantanti. Insipidi, noiosi, con un flow davvero troppo piatto per risultare anche solo vagamente interessante (l’episodio migliore? Il featuring di NLJ al microfono in “48h”). Diciamoci la verità: è già dura rappare da bianchi senza essere ridicoli (chi si salva? Beastie Boys, Rage Against The Machine? Certi Faith No More? Sicuramente non Eminem, né Fred Durst e l’allegra compagnia del nu-metal); rinunciare a qualunque presa di posizione sociale o politica nelle liriche per cantare di videogiochi, e per di più farlo in francese significa segarsi le gambe. Certe urla – “Je ne suis pàààààààààààààs!” – sono davvero imbarazzanti. Imbarazzanti. Peccato. (Stefano Torregrossa)

(CHS Productions - 2015)
Voto: 60