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martedì 11 novembre 2014

Northern Oak - Of Roots and Flesh

#PER CHI AMA: Death/Black Folk, Jethro Tull, Skyclad, Primordial
Mi sono avvicinato ai Northern Oak per molteplici motivi: il primo, perchè il sito della band di Sheffield riporta che la loro musica suona come un ibrido tra Jethro Tull, Pink Floyd ed Emperor, quindi questo ha solleticato non poco la mia attenzione e fantasia. In secondo luogo, devo ammettere che mi ha sedotto enormemente la cover del disco. Poi, quando ho anche ricevuto l'elegantissimo digipack a casa, ho premuto play e 'Of Roots and Flesh' ha esordito nel mio lettore, non posso negare di essere stato ammaliato quasi immediatamente dalla qualità del suono e dalla proposta folk black dei nostri, anche se catalogarla in questo modo sarebbe alquanto riduttivo e ingiusto. "The Dark of Midsummer", la opening track, è guidata da un meraviglioso flauto (a cura di Catie Williams), struggenti melodie, ma anche da un incedere dal fare progressivo che trova il proprio sfogo estremo in saltuarie galoppate epiche e nelle growling vocals, in background, del frontman Martin Collins. Con la seconda "Marston Moor", nel sound dei nostri ecco incontrarsi l'approccio pagano dei Primordial con il folklore degli Skyclad, con i flauti andare a sfidare la poesia dei violini (di cui qui il maestro è Digby Brown), mentre sullo sfondo chitarre vibranti e harsh vocals, completano un quadro tanto epico quanto selvaggio. Eccola, l'ho già individuata la mia traccia preferita ne sono certo. "Gaia", la terza song, affida il suo intro al caldo basso di Richard Allan, che verrà successivamente seguito da tutti gli altri strumenti, ma per cui spenderei una parola in più per il bombastico sound del drumming, preciso e fantasioso, grazie a Paul Whibberley, altro valore aggiunto del combo albionico. La song poi sembra essere maggiormente ancorata a suoni folk rock che agli estremismi del black metal, relegati solo all'ultima parte della traccia. Raffinati, non c'è che dire, anche a livello di porzione solistica, in cui a mettersi in evidenza alla sei corde è questa volta Christopher Mole. Ancora echi dei primi Skyclad si incontrano in "Nerthus", ma sarà un po' la costante dell'album, per cui mi muovo, passando per la strumentale "Isle of Mists", a "Taken", song dal chiaro sapore doomish, in cui in sottofondo sono altri strumenti del folklore celtico (mi pare un hurdy gurdy) a comparire. La ritmica a tratti si rivela pesante e profonda, alternando passaggi rock ad altri death doom, senza dimenticare un ipnotico break centrale, forse l'unico punto di incontro che ho incontrato sin qui con i Pink Floyd. “The Gallows Tree” potrebbe essere ascrivibile a una di quelle musiche utilizzate nelle tradizionali danze celtiche: mi immagino infatti gente ballare attorno al fuoco in mistica allegria. "Bloom" un altro bel pezzo tiratissimo la cui melodia di fondo si stampa nella testa, un brano che trascina per energia e variazioni di tema, e che va a collocarsi al secondo posto delle mie preferenze di questo 'Of Roots and Flesh'. La title track vanta un bellissimo lavoro al basso, un fremito palpitante in grado di regalare, in combutta con le chitarre, profonde emozioni. La conclusiva "Only Our Names Will Remain" (anche se una ghost track si cela nell'ultimo minuto e mezzo) offre gli ultimi scampoli elettro acustici, di un lavoro assai interessante che rischia solo di difettare per l'eccessivo (sebbene caratterizzante) utilizzo del flauto, vero strumento portante dell'album che molto spesso ruba spazio agli altri musicisti, che meriterebbero invece di dar mostra delle loro eccelse qualità. Non conoscevo i Northern Oak e me ne dolgo, ora andrò in esplorazione della loro vasta discografia, voi nel frattempo divertitevi con 'Of Roots and Flesh'. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 80

http://www.northernoak.co.uk/

domenica 9 novembre 2014

Vampillia - Some Nightmares Take You Aurora Rainbow Darkness

#PER CHI AMA: Math/Experimental/Ambient
Ritornano i folli giapponesi Vampillia, già recensiti in occasione del precedente lavoro, dal fido Bob e valutati con un 110 cum laude. Abbandonati gli estremismi sonori di quella release, i nostri diminuiscono anche drasticamente il numero di song contenute nell'album ma le novità non si limitano solo a questo. 'Some Nightmare Take You...' infatti propone una nuova veste per la band del Sol Levante. La title track, posta in apertura del disco è infatti una canzone di oltre sette minuti che si muove ondeggiando su un tenue tappeto di chitarre classiche, violini e un finale drone/noise/wave. I nostri non si smentiscono, anche se non è il folle grind mischiato a musica classica a saturare le mie orecchie. Con “Fedor” ritornano a farsi sentire gli strumenti elettrici e quindi mi attendo verosimilmente il delirio. L'inizio infatti è affidato a una batteria schizofrenica, chorus celestiali e fraseggi ambient prima della definitiva esplosione del tipico sound dei Vampillia: schegge impazzite di grind/math su cui si innestano pianoforte, strumenti ad arco, chitarre classiche e frammenti di urla farneticanti, che sottolineano ancora una volta la genialità del combo giapponese, uno che quando c'è da sperimentare non si tira certo indietro. Il sound fiabesco riprende con la terza “The Volcano Song”, in cui ancora sono eteree voci di donzelle unite a violini a dare una parvenza di normalità ad un sound che spinge per liberarsi da quelle catene che lo tengono costretto alla normalità. Qualche riffone infatti ben più pesante cerca di erompere nella quiete ultraterrena che quegli angeli provano a mantenere con i loro soavi vocalizzi, ma questa volta la follia rimane del tutto controllata fatto salvo per un bellissimo assolo conclusivo accompagnato però da mefistofeliche vocals e da un drumming tribale e ossessivo. È forse il suono di una spinetta quello che apre “Silences” song che nei suoi primi 30 secondi mette in scena tutta la teatralità musicale dei Vampillia: musica classica e grind, un binomio perfetto per un risultato fuori dal comune. Il disco prosegue con una serie di pezzi che non superano i due minuti di durata in cui emerge forte l'anima dei nostri. In “Dream” la musica di questi pazzi sembra richiamare le colonne sonore cinematografiche degli anni '50, mentre “Hope” potrebbe rievocare gli anni '60. A chiudere il disco ci pensano le delicate atmosfere di “Kizuna”, l'ennesimo pezzo che stravolge completamente il concetto musicale dei Vampillia, che in nove brani sono stati in grado di dire tutto e il suo contrario. Genialità e follia allo stato puro. (Francesco Scarci)

(Candlelight Records - 2014)
Voto: 80

https://www.facebook.com/pages/Vampillia-official

Deportivo Lb - Gigante

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Crossover, Linea77
I Deportivo Lb vanno subito premiati per essersi autodefiniti brutal-pop, magari per la goliardia o giusto per rompere le palle a chi classifica ogni cosa. La band nasce così nel Piacentino nel 2003 e unisce cinque prestanti ragazzotti con la passione per i riff potenti e pestati. 'Gigante' esce nel lontano 2008 e raccoglie il lavoro fatto dalla band in cinque anni di attività, ben tredici brani per un totale di sessanta minuti. L'album è sorprendente, nel senso che unisce sonorità alla RATM, Linea 77 e altre influenze in maniera molto semplice e armoniosa, potenza come piovesse e suoni un po' nostalgici, almeno per chi ha superato i trenta'anni come il sottoscritto. In certi passaggi si sentono anche venature dei vecchi Timoria, tipo quando la band, in "Il Macaco Julian" inizia in maniera ipnotica, sostenuta da gran chitarre che schiacciano ed elargiscono pressione sonora. Il brano è arrangiato con attenzione, anche nella parte ritmica dove la batteria scalpita a dovere e il basso si fa sentire nei punti giusti e sostiene la struttura per tutti i sei minuti abbondanti. Il cantato (in italiano) è un mix di growl e cori che arrichiscono al brano. Forse i cori andavano studiati un po' meglio, solo per il fatto che il livello generale è buono e quindi può sbilanciare. Pregevole il break a tre quarti della canzone, l'assolo lento di chitarra è ricco di riverbero e delay che concede al suono di aprirsi e spaziare, dando respiro a chi è al di là degli altoparlanti. Poi il finale si ingrossa nuovamente, a ricordare di che pasta sono fatti i Deportivo Lb. "Lo Specchio" mostra il lato più psichedelico della band, con un'intro di basso irriconoscibile e riff dal sapore orientale. Pochi minuti per mostrare che la band si destreggia bene anche con pezzi meno cattivi e più riflessivi. "Il Pellegrino Luis" ci illude di essere una ballad, ma l'illusione dura solo un minuto e poi la devastazione dei nostri si abbatte come un gigante iracondo. Riff claustrofobici e ritmica ansiogena che lascia spazio poi ad un break limpido e cristallino, che cresce fino alla conclusione del pezzo. 'Gigante' è un buon album, probabilmente se fosse stato spinto bene e seguito meglio in alcuni fasi di produzione avrebbe dato risultati ben diversi. A questo punto resta da vedere se la band è ancora attiva e se ha intenzione di bissare questo cd, magari stavolta il vento soffierà a loro favore. La generazione che non ce l'aveva è cresciuta, forse in meglio. (Michele Montanari)

Elderblood - Son of the Morning

#FOR FANS OF: Symphonic Black Metal, Dimmu Borgir, Carach Angren
Being a debut, there’s very little reason why this one is as good as it is but therein lies the fact that this Ukrainian act has just positioned themselves at the forefront of the genre with this commanding, impressive release. Being a Symphonic Black Metal act, there’s very little about this that should appear as a surprise to any listener for the band simply opts for an excessive amount of cinematic-style keyboards that appear as if they’re scoring the battle to an epic battle in a Fantasy/Adventure film, which is precisely the case here but then the band throws one of the few genuinely impressive curveballs around with the ability to actually compose material for the guitars to go winding through the lead on here. Filled with tough, muscular rhythms bristling with technical rhythms and blinding speed, there’s a majesty and grace afforded to these rhythms that nicely off-sets the swirling keyboards and makes this music all the more enjoyable. With all this impressive material up-front of the album, there’s little reason why the spectacular drumming holds up or the dynamic bass-lines keep this going but there’s just so much to like here that this one really gets a lot to like about it. While some of the epics could’ve been trimmed down some, there’s still not much to dislike here as the most expansive epic here is the most enjoyable and blistering piece of music on the album so there’s little to not like about that feature here as the songs are just that good. After the pointless noise collage of ‘Gates to Oblivion,’ proper first song Dies Irae’ gets this going nicely with a stellar combination of their influences wrapped in a tight, muscular package that overwhelms to the point of utter enjoyment. ‘Manifestation ov Dark Essence’ is pretty similar only does so with less time, proving that the band doesn’t need to pen epic-length material to have an epic sound and comes off as one of the better highlights here. Even better, the title track manages to come off as utterly, incredibly bombastic with an overload of symphonic keyboards mixed nicely alongside the chaotic guitar patterns while generating a lot of great rhythms and faster tempos than anything before it, serving as a back-to-back highlight. The melancholic ‘My Death’ attempts to place mid-tempo plodding and atmospheric keyboard work instead of the bombastic symphony-laden approach which gets a little tiresome just due to the meandering mid-section but still has the right approach to remain likeable enough. ‘Triumph of the Beast’ is yet another epic-length barnburner like the title track which gets in plenty of raging symphonic leads, tight guitars and pounding drumming with a touch of the atmospheric for yet another stand-out effort. While not an overall bad song, ‘The XI-th Angle’ does tend to sound like most of the others here so it doesn’t really stand out in any special way yet still contains all the greatness of what made the others so enjoyable so it does have a lot to like about it. The expansive epic ‘Naglfar’ pretty much makes most of the other tracks here obsolete with a solid nine-plus minutes of technical guitar-work, blazing drumming that hurtles forth at maximum speed for the duration of the track and off-set with gorgeous keyboards shimmering and humming along wielding explosive energies and non-stop tempo variations, making for one of the most enjoyable pieces of music in the scene and single-handedly making this a must-buy release. While not up to par with that gorgeous epic, ‘Egocide’ is still quite enjoyable with a multi-sectioned approach of plodding, mid-tempo work with gorgeous, lighter keyboards up front while delving into traditional blasting-heavy approaches and plenty of bombast in the second half. About the only really weak effort here, ‘Re-Birth’ is just too slow and lethargic to make the most of its ho-hum bombast and middling tempo. ‘Dreamless’ is simply just a simple, spacey keyboard melody signaling the end of the journey as this ends on a positive note. Like a breath of fresh air in the genre, this is easily one of the more impressive Symphonic Black Metal acts to come along in a while and is the start of a hopefully impressive career. (Don Anelli)

(Paragon Records - 2013)
Score: 85

https://www.facebook.com/Elderblood

sabato 8 novembre 2014

Conjonctive - Until the Whole World Dies...

#PER CHI AMA: Deathcore
È con questo debut album che gli svizzeri Conjonctive giungono sul mercato, dopo aver fatto la classica gavetta tra live, EP e quant'altro, maturando la giusta esperienza che trasuda tra le note di 'Until the Whole World Dies'. Infatti, questo disco tutto sembra tranne che un album di debutto. Votati al deathcore più intransigente, si notano influenze thrashcore e perchè no, qua e là, anche elementi di symphonic black che riportano immediatamente alle sonorità create da gruppi quali Dimmu Borgir, Cradle of Filth e compagnia bella. Dico subito quello che secondo me è il tratto distintivo del gruppo: il simbiotico dualismo delle vocals, una maschile ed una femminile, che dal primo all'ultimo secondo ci presentano un growling che dire estremo è dir poco. Mai un secondo di pausa, mai una clean qua e là...sempre e solo growl; oddio, per quello che mi riguarda non esattamente una buona notizia, però gli stilemi del deathcore più conservatore vogliono questo, e qua vengono decisamente rispettati. Il dualismo tra i due profondi urlatori, femminile e maschile, però tende a rendere più interessante quanto qui proposto. La musica invece, mi ha fatto venire in mente questa immagine piuttosto esplicativa: una motosega che dilania tutto quello che incontra sul suo percorso, senza tentennamenti di sorta. Una distruzione totale, ossessiva, talvolta più frenetica ("The Rise Of The Black Moon" e la title track), altre volte più lenta e cupa ("Emily Rose" e "Victoria's Lake"), ma che giunge sempre allo stesso risultato: le ossa triturate. La violenza senza compromessi è il tratto distintivo di questo album, senza intervalli melodici e fronzoli, accompagnata però da una notevole perizia tecnica agli strumenti da parte dei ragazzoni elvetici. Nulla da eccepire anche per quello che riguarda la produzione, assolutamente di livello e talmente precisa da risultare tagliente come una lama pericolosissima. Album da ascoltare in blocco e riascoltare per gustare le sfumature più sottili; un buonissimo risultato, debut album assolutamente valido. (Claudio Catena)

(Tenacity Music - 2013)
Voto: 75

Vertigo Steps - Disappear Here In The Reel World: A VS Coda

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Porcupine Tree
I Vertigo Steps sono un progetto del duo finnico/portoghese formato nel 2007 da Bruno A. (all guitars, keys, programming & samples, music) e Niko Mankinen (lead vocals), che si avvale di Daniel Cardoso (drums, bass, backing vocals ) come session e di altre collaborazioni. 'Disappear Here in the Reel World: A VS Coda', si propone come un sunto del background della band, creando un'antologia che pesca dalla discografia del gruppo dall'album d'esordio 'Vertigo Steps' del 2008, all'ultimo 'Surface/Light' del 2012, passando per 'The Melancholy Hour' (2010). Già dai primi tre brani, che formano ognuno uno step nella discografia dei Vertigo, si può avere un assaggio della crescita del gruppo dagli esordi a oggi. "Fire Eaters" si presenta fra i tre come il brano meno ispirato e dalle tendenze eccessivamente commerciali, soprattutto per quanto riguarda la sezione iniziale e la sua ripresa finale, la parte che sta nel mezzo è invece più interessante, con chitarre acustiche, note stoppate e sovrapposizioni vocali a creare un alone sonoro dal gusto più sperimentale. Purtroppo una produzione che privilegia troppo la sezione chitarristica toglie respiro alla parte vocale e gli altri strumenti. "Silentground" alza il tiro e la posta in gioco, con un sound più omogeneo e idee negli arrangiamenti e nei temi più interessanti, pur mantenendo strutture e atmosfere simili al brano d'apertura. Eccellenti sono le prestazioni della chitarra solista, come le suggestioni melodiche e le scariche elettriche che porta con sé. Solamente con "Railroads of Life" viene però completato il viaggio attraverso questo ideale trittico d'apertura che passa in rassegna gli archivi della band dal 2008 al 2012. Il pezzo si apre con una chitarra acustica che inaugura una delle semi-ballad più belle di quest'antologia, essa dialoga con il caldo registro basso del vocalist e viene puntellata da interventi delle chitarre soliste. All'esplodere della seconda sezione del pezzo stupiscono anche le registrazioni di dialoghi parlati e gli interventi di una voce femminile dal sapore orientale. In "The Swarming Process" un'introduzione accattivante cattura subito l'attenzione. Un brano davvero interessante, che mischia arrangiamenti metal a un atteggiamento post rock e a una linea vocale dal timbro suadente e levigato, malgrado l'uso del registro alto del vocalist. Il giro di basso che domina la strofa iniziale è davvero efficace tanto da risaltare come il punto di forza su un pezzo dai molti spunti intriganti. Un'altra semi-ballad si affianca a Railroads of Life. "The Porcupine Dilemma", il cui titolo rimanda subito alla band fondata dall'eclettico Steven Wilson, si presenta in ultima analisi come un pezzo enigmatico, infatti quello che può sembrare un brano orecchiabile e immediato nasconde vie traverse percorse dalla struttura e dal sound che portano subito l'ascoltatore a fermarsi e rimandare il pezzo da capo. Intro e autro portano con sé tocchi cristallini di triangolo, e una strofa ruvida ma malinconica che sfoga nella parte centrale del pezzo il un grido corale supportato da un muro di chitarre ritmiche dagli accordi ostinati. Chitarra acustica, armonici naturali e piatti accompagnano l'apertura di "INhale". La voce si muove su un registro medio-basso quasi esalato e leggermente filtrato nella parte iniziale e la struttura è costituita in un crescendo continuo che domina sempre più imponente fino al finale. Difficile definire semi-ballad una struttura così aperta e semplice che si muove in linea retta, il suo tramonto altrimenti ripetitivo viene giustificato e valorizzato da tale struttura a sovrapposizione sonora. "Through Sham Lenses", con una bella chitarra in clean iniziale, si presenta come un pezzo dalle forti influenze di band come gli U2, specie nelle vocals, il tutto trasportato nella stile proprio della band. Un pezzo che senza troppe pretese prende con molta efficacia già dal primo ascolto. Da un fade in esplode "The Spider & The Weaving", un pezzo che lascia poco spazio ai ragionamenti e s'impone per la sua possente fisicità. La potenza della batteria domina, le chitarre l'attorniano dialogandovi, la voce prolunga questa forza. Inaspettatamente il brano viene spezzato da un intermezzo di piano dal sapore malinconico, per poi riprende nel finale l'iniziale forza poi sfumando questa volta in fade out. "Silent Bliss", brano dal sound molto moderno e curato, non riesce a imporsi ulteriormente a livello compositivo, passando leggermente inosservato, certo è che questo assaggio tratto dall'ultimo lavoro dei nostri trova il suo perché in un alone sonoro ricco di riverbero che permea musica e voce. "Someone (Like You)" è la prima vera ballad dell'album. Dall'arrangiamento nella prima parte minimale e nella seconda più pieno, dai cori e dalle sovrapposizioni vocali e infine dall'andamento ritmico andante ma calmo, s'intuisce l'intenzione di creare un'esperienza istintiva, fatta di impressioni sonore più che di strutture tematiche distinte e sfoggio di perizia tecnica fine a se stessa. I brividi sono assicurati già all'apertura di "Nothing At All". Magistrali l'interpretazione del vocalist e la sua versatilità nel muoversi tra registri bassi e caldi e falsetti morbidi. Tutta la prima sezione si muove calma tra chitarre clean minimali e samples dai suoni di batteria elettronica e un piano che incanta e adombra il tutto contemporaneamente in un'atmosfera strana e surreale non priva di un lucente fascino. La seconda sezione si rivela più piena nell'arrangiamento, espediente strutturale che rimanda nel brano precedente. Dal nulla nasce "Synapse (Sleepwalking Metaphorms)", che assieme a "Railroads of Life", "The Swarming Process", "The Porcupine Dilemma" e "Nothing at All" sale sul podio dei 5 brani più validi e interessanti di questa raccolta. Dolce chitarra acustica, interventi corali come aure pulsanti di suono, brandelli di registrazioni di dialoghi prima dell'entrata di basso e batteria. La voce si sovrappone alla chitarra clean dell'inizio e a questo morbido tappeto della sezione ritmica. Finché non esplode la granata del chorus dalla chitarra ritmica che strizza l'occhio al metal. L'ultima parola va alla chitarra solista che chiude la porta al chorus per aprirla a una ripresa della strofa iniziale. Questo rapporto cangiante tra esplosione e implosione tra queste sezioni portanti costituisce l'ossatura del brano. L'assolo di chitarra centrale, supportato da una forte ritmica derivata dal chorus si fonde a essa, in una metamorfosi impercettibile che porta alla lunga coda delle chitarre in larsen. A chiudere questo notevole excursus tra la discografia della band vi è "Sunflowers/Remissions", e mai titolo poté meglio descrivere questo gioiello strumentale cui le chitarre acustiche e le elettriche in clean, dai molteplici timbri, donano linfa vitale. Il pezzo in realtà è strutturato in due parti, divise da una frase parlata, quasi sussurrata, per lasciare infine spazio alla musica dove le parole non possono arrivare. I Vertigo Steps hanno la freschezza e lo stile di band come gli Alter Bridge unite alla sensibilità espressiva e la cura nel sound di band come i Porcupine Tree. Grazie a questo viaggio negli archivi del gruppo dagli esordi agli ultimi lavori è possibile notare una maturazione nella qualità del sound, specie per ciò che concerne gli equilibri tra le molteplici traccie nel mixaggio. L'artwork si mantiene sempre raffinato ma moderno e dall'alta professionalità. Malgrado gli eterogenei spunti stilistici la band riesce a creare comunque uno stile personale e omogeneo, anche considerando la discografia nella sua interezza. L'originalità, seppur calibrata alla fruibilità di un ascolto da parte di un ampio spettro di pubblico proveniente da più generi, appare sempre in modo ragionato e mai disorientante, riuscendo comunque a dare un tocco di classe a questo progetto che unisce idealmente il freddo nord europa al caldo sud. (Marco Pedrali)


(Ethereal Sound Works - 2014)
Voto: 80

Cross Examination - Dawn of the Dude

#FOR FANS OF: Thrash/Crossover
Thought the thrash revival was over? Well, you're right. Metal is now so diverse that there really is no governing genre at any time. But thrash metal, ruler of the mid/late eighties, enjoyed a welcoming comeback in the mid 00s. However successful or obscure thrash became - its bastard-child, crossover, pioneered by the likes of S.O.D, Suicidal Tendencies and D.R.I, never really went anywhere. It just gradually became more violent, frenzied, and humorous. This is music for those who truly do not give a fuck - and Missouri's Cross Examination epitomize that characteristic in hilarious fashion. These thrasher's debut full-length "Menace II Sobriety" was a furious, yet surprisingly contained, piece of crossover madness, with memorable riffs and clear song-structures. But if their new EP "Dawn of the Dude" is any sign of things to come...then prepare to rip some fucking wallpaper. The riffs have been diluted by a messier production which boosts the volume of the cymbals and the bass. It's VERY sloppy in comparison to previous releases, which provides the perfect atmosphere for this 13-minute mayhemic monster. Fortunately, Kegmaster's vocals have become even more frantic and hysterical - making him the star of the whole affair. Any crossover fan should reap much joy from hearing him shout "WHAT! THE! FUUUUCK?!" in "Opposite Day". Plenty of samples and spoken-word sections make this a self-aware and charming EP which is guaranteed to plant a smile on the most hardened metalhead. The musings of opener "Wake Up Call", the rhythmic gang-shouts of "Hail To The Jeef", and the sheer chaos of "Ritual Snackrifice" contrast wonderfully with full-blown thrash flings like "The Bluntacolypse" and the groovier title-track, resulting in a schizophrenic, yet endearing, chunk of insanity. Considering its brevity, Cross Examination manage to cram a decent amount of variety into "Dawn of the Dude”, as well as the consistency to remain stylistically loyal to the crossover psychopaths they clearly worship. Highly recommended. (Larry Best)

(Organized Crime - 2014)
Score: 80

giovedì 6 novembre 2014

Khaossos - Eksistentialismi

#PER CHI AMA: Black Old School
Vive qualcosa di realmente malato in questa nuova opera dei finlandesi Khaossos che segna un vistoso balzo in avanti nella loro dimensione artististica, con la loro cadenza depressiva che incombe anche nelle partiture più veloci e taglienti, nei rallentamenti ossessivi e monotoni, grigi, deformi, che si muovono a stento, tombali, offrendo la sensazione di un viaggio doloroso fatto di tetra e cupa negatività. Un sound viscerale e affascinante, misterioso e lugubre, inconcepibile per alcuni, amabile alla follia per altri. Il loro modo di fondere il psico dramma sonico di un purosangue del genere funeral metal con l'iconoclasta volgare e sudicia velocità del black metal old school più degenero e sotterraneo, quello che vive nella penombra e non vede alcun spiraglio di luce. La one man band di Uusima non fa prigionieri e i pochi rimasti li tortura con litanie devastanti, sepolcrali, come le interpretazioni vocali dell'unico membro effettivo, Goatinum Morwon, in grado di gestire bene anche tutti gli strumenti usati nell'album. Un suono spoglio e freddo quanto reale e crudele, carico di sentimentale oscura ispirazione che colma anche piccole lacune compositive che altrimenti risulterebbero compromettere l'intensità dell'intero box. Pochi virtuosismi e tanta genuina tristezza, un'efferata volontà di trasmettere emozioni oscure che mai titolo migliore, 'Eksistentialismi', avrebbe potuto riassumere. Sei brani autoprodotti dall'indole isolazionista per una durata notevole di circa quaranta minuti divisi equamente tra funeral e black metal senza un confine certo e palpabile. Difficile paragonare questi brani con qualche altro artista ma possiamo dire che la scuola Burzum si sente, anche se non prevale ed il suono Inquisition, più corposo e diretto, ha un certo sopravvento. Anche il minimalismo stilistico dei Frozen Ocean dona la sua partecipazione. Colpisce soprattutto la sfera di coinvolgimento cerebrale che fa lievitare il lavoro e lo rende interessante, quel senso di follia malsana e solitaria che colpisce fin dalle prime note, quella brezza gelida venuta da lande desolate e deserte che sovrastano il tutto. Statico, convenzionale, decadente e perversamente geniale. Poche armi ma usate benissimo da un guerriero molto intelligente! Da ascoltare! (Bob Stoner)