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giovedì 18 ottobre 2012

Shoulder of Orion - Winterstar

#PER CHI AMA: Black Progressive, In the Woods, Oranssi Pazuzu
La band in questione arriva da Cambridge e ci propone uno dei due lavori realizzati entrambi nel 2012 dal titolo “Winterstar” (“Lunaborn” è già stato recensito su queste stesse pagine). La band si presenta in trio con voce/chitarra/tastiere suonate da David White, al basso Justin Tophan e dietro le pelli Jonathan Hoey. Attivi dal 2007, hanno dato alla luce un demo e tre full lenght sino ad ora. “Winterstar” si presenta con una copertina spoglia, fredda, con un'immagine parziale di un albero in pieno inverno in scala di grigi e tutto questo ci fa già pensare a qualcosa di molto malinconico. In realtà la musica di questa band, per quanto cupa e introspettiva, gode di numerosi e rigogliosi spunti di eccentricità, una commistione tra Oranssi Pazuzu e la sperimentazione in ambito prog metal di band quali In the Woods, arricchita da un pathos molto raffinato e caldo, che rende il tutto squisitamente appetibile. Le composizioni sono tutte lunghe e scomposte, complicate, volutamente pilotate da una voce monotona e decisamente troppo maligna per il sound della band, ma che stranamente li rende unici e fastidiosamente interessanti; forse con una voce più consona, risulterebbero cloni di band più famose e quindi premiamo il coraggio di questa scelta. La cosa che più colpisce nelle loro composizioni contorte è il gusto per la melodia e la timbrica, resa ancora più efficace da un basso suonato molto ma molto bene e quelle tastiere, sempre in evidenza, rendono l'insieme così pulito anche se non propriamente accessibile, direi quasi ipnotico. I continui stacchi e le atmosfere a volte super coinvolgenti, insieme a veloci cavalcate e maestose aperture non lasciano spazio all'ascoltatore, proiettandolo in un continuo altalenarsi tra tristezza e decadenza, ma con stile ed orgoglio. Oserei dire che dopo tanti ascolti, reputo questo lavoro un piccolo gioiellino per la sua potenzialità espressiva, un insieme di brani che portano alla riflessione sul genere umano, e che stilisticamente, fondano lo spirito oscuro e rituale di Oranssi Pazuzu con il gusto melodico molto inglese dei Marillion e la visione avanguardistica del neo progressive dei mitici Anekdoten. La cosa che mi lascia più attonito, è che gruppi del genere non abbiano il giusto spazio nel panorama musicale mondiale; credo che se musiche di questo carattere fossero più incoraggiate, il metal, o più propriamente il prog metal, avrebbero un futuro assicurato! Per gli amanti del neo black progressive senza preconcetti e liberi a 360 gradi. (Bob Stoner)

(Self) 
Voto: 80

Synarchy - Tear Up the World

#PER CHI AMA: Modern Death, Mercenary, Soilwork
Dopo aver esplorato tutto il mondo, mi sembrava giusto che la nostra attenzione si focalizzasse anche alle piccole isole Fær Øer, arcipelago localizzato a nord della Scozia, ma in realtà regione autonoma di Danimarca. E questa piccolissima regione, la cui squadra nazionale di calcio abbiamo anche recentemente visto impegnata con gli azzurri, dà i natali a questi Synarchy, band dedita ad un modern death metal. Dieci rocciose tracce che si aprono con la melodica title track, che evidenzia subito le influenze a cui i nostri si rifanno: si tratta infatti di un certo death thrash melodico che prende spunto dalla tradizione swedish che vede in Soilwork, Darkane o Mercenary, i principali punti di riferimento. Dico subito che il sound del quintetto danese trasuda groove da tutti i pori e questo permette ai Synarchy di essere facilmente avvicinabili dagli amanti di sonorità “estreme” ma comunque melodiche, melodia che si esplica anche in brillanti assoli come nella seconda “Sært Tù Meg”, con la voce di Leon (tipico nome nordico) ad alternarsi tra un roccioso, ma assai comprensibile, e piacevole growl, e delle ruffiane clean vocals. La proposta dei Synarchy mi piace parecchio, anche se non propone nulla di nuovo, ma la carica che emana è energica, trascina, induce inevitabilmente ad un headbanging sfrenato. Il ruggito delle chitarre è assimilabile a quello dei leoni in cattività nella savana. Rabbiose, ritmate, mai veloci, spesso accompagnate da un piano in sottofondo, come accade in “Plague of Time”, piano che consente di diversificare leggermente la proposta dei nostri, che pur schiacciando l’occhiolino a destra e manca verso sonorità ruffiane, si presenta di certo come musica non indicata alle mammolette. Eccellente anche il lavoro dietro le pelli di Kim Joensen, preciso e dirompente, mentre i due axemen, si divertono non poco con la loro sei corde, disegnando ariose melodie. Il lavoro scivola via attraverso altri begli esempi di death melodico (da segnalare “Out of Breath”), ma all’altezza dell’ottava traccia, mi accorgo di essere un po’ saturo, anche perché in un genere come questo, non si possono avere tracce che superano i cinque minuti e “A Reason to Live”, che ne dura addirittura nove, pur essendo un po’ avulsa dal resto delle song, un po’ malinconia e romantica, finisce per stancare. E cosi i 62 minuti di “Tear Up the World” rischiano di fiaccare la proposta dei Synarchy che con questo lavoro, toppano solo a livello di lunghezza totale dell’album. Fosse durato infatti una ventina di minuti in meno, avrebbe meritato mezzo punto in più. Aiutati poi da una produzione cristallina, i Synarchy convincono appieno con il loro sound, ricco di chorus, groove e partiture che sfociano anche nel metalcore. Limiamo un attimo il punto nevralgico insito nell’eccessiva durata dei brani e probabilmente avremo trovato un’altra grande band… (Francesco Scarci)

(Tutl Records)
Voto: 70

domenica 14 ottobre 2012

Synopsys - When Sparks Become Flashes

#PER CHI AMA: Post Rock Sperimentale
La sinossi rappresenta il riassunto di un’opera, in cui si vuole mettere in evidenza le parti più importanti in essa contenute. Probabilmente il nostro quintetto francesino ha voluto mettere, nelle due tracce di questo demo cd, quanto di meglio è rappresentato nella loro musica. Si parte con la title track, otto minuti che si aprono in modo soffuso, meditativo, che schiude decisamente ad atmosfere rilassate. Mi sono subito messo a mio agio, permettendo alla musica di fluire lentamente lungo il mio corpo, lasciandomi ipnotizzare dal suo incedere lento e magnetico. E cosi dopo quattro minuti, ecco far la comparsa anche la voce di Vincent, disperata nella sua versione pulita e possente in quella growl, che quando irrompe nel sound dei nostri, spinge ad un mutamento musicale, con la quiete che cede il passo ad una poderosa tempesta elettrica. “Mothers” apre con la classica malinconica parte arpeggiata per poi abbandonarsi ad un nervoso riffing sperimentale la cui progressione porta ad un avvincente finale, che mi lascia però con l’amaro in bocca, perché mi aveva già sedotto, ed infine abbandonato. Insomma, un antipasto che lascia intravedere buone cose per il futuro. Staremo a sentire. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

From Oceans to Autumn - Return

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale, If These Trees Could Talk
Quella del 2012 è stata per il sottoscritto l’estate dei suoni post: aggiungete dopo quello che più vi garba, rock, metal, black, punk o hardcore, la cosa che non cambia è che il risultato, nel 90% dei casi, è stato più che soddisfacente. Non sono immuni da questa cosa neppure i From Oceans to Autum, band del North Carolina, fiera esponente di un post rock strumentale, dalle forti venature malinconiche. Tre (in realtà due escludendo un intermezzo ambient) i pezzi a disposizione del terzetto statunitense, in questo Ep di una ventina di minuti di durata, che vede aprire le sue danze con “Ascending”. Si tratta di una song piuttosto lineare, semplice, piacevole, che colpisce per una buona tecnica di base, che non propone chissà che cosa, ma che viaggia in linea con le proposte di If These Trees Could Talk o di altre realtà del panorama post rock. È musica da tenere sottofondo mentre si viaggia in macchina verso mete lontane, o mentre si torna dalle vacanze in treno e si guarda fuori dal finestrino pensierosi, con una certa inquietudine nell’animo, di qualcosa che ahimè è già finito: una vacanza, una storia d’amore o un sogno infranto. Nelle oniriche note iniziali di “Descending”, seguite da una certa arroganza elettrica, sembra tuttavia esserci ancora spazio per la speranza, e la possibilità che tutto possa ricominciare daccapo. Forse solo false illusioni di un presente che ci prende a schiaffi ed un futuro che non c’è… (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 70

Anubis - A Tower of Silence

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Porcupine Tree
La Bird's Robe Collective ci fa pervenire un altro cd e visto che la qualità dei suoi gruppi è di tutto rispetto, il nuovo lavoro degli Anubis mi intriga non poco. "A Tower of Silence" è un bel digipack che contiene otto piste (questo dice il player quando inserisci il cd) di questa band progressive (o neo prog come molti si divertono a scrivere) australiana. Iniziamo da "The Passing Bell", una vera e propria suite in sei atti da ben diciassette minuti. Lavoro epico che deve essere una goduria dei sensi se ascoltato dal vivo. Spettacolare intro con synth, repentini cambi ritmici, con un filo conduttore che imperversa per tutta la traccia. Infatti questo è sempre gestito dalle chitarre e tastiere che dominano la linea melodica, supportati da basso e batteria per una riuscita parte ritmica. Difficile non risultare noiosi, ma gli Anubis riescono a mantenere alta l'attenzione con arrangiamenti già sentiti ma che comunque riescono nell'intento. Verso gli undici minuti il pezzo sembra chiudersi in una bella outro di piano, ma la song riprende magistralmente con un crescendo che porta al classico solo di chitarra. Il finale si sposta sull'epico, giusto per non lasciare fuori niente. Bella, non eccezionalmente innovativa, probabilmente i veri amanti del prog apprezzeranno la complessità compositiva, mentre i cultori degli innominabili (Dream Theatre) resteranno a bocca asciutta per quanto riguarda la tecnica. Non che manchi agli Anubis, sicuramente non è a livelli estremi e questo è sicuramente un pregio. Solo le mie recensioni risultano più noiose degli innominabili... "A Tower of Silence" è la quarta canzone dell' omonimo album e personalmente mi ha deluso parecchio, una ballata lenta in stile 70's che richiama più le atmosfere di Woodstock e Hotel California che le sonorità sentite precedentemente. Direi oltremodo banale. Chiudiamo con "All That is...", traccia divisa in tre atti che ripresenta le sonorità chitarra e tastiere precedentemente ascoltate. Sicuramente la versione più apprezzabile degli Anubis in cui sicuramente si trovano più a loro agio. In conclusione devo dire che gli Anubis hanno talento, ma se fossi in loro oserei qualcosa in più, visto il genere. Il rischio è di passare inosservati nell'oceano di band che probabilmente a livello tecnico sono inferiori, ma che riescono a plasmare un suono che li distingue. Cercherei di concentrarmi proprio su questo punto e probabilmente il prossimo lavoro sarà assai più gustoso. (Michele Montanari)

(The Bird’s Robe Records)
Voto: 65

martedì 9 ottobre 2012

Ørkenkjøtt - Ønskediktet

#PER CHI AMA: Progressive Death Psichedelia , Opeth, Pink Floyd, Riverside 
Ma che ci sta a fare un cavallo seduto al pianoforte? Ma soprattutto, chi sono questi impronunciabili Ørkenkjøtt che si presentano alla grande, con un lavoro ben confezionato (splendido il digipack) dal contenuto musicale, che per quanto sia cantato in lingua madre, potrebbe tranquillamente fare il pari con un album degli Opeth? Incredibile ragazzi, qui abbiamo a che fare con dei perfetti sconosciuti, che fanno però parte di una generazione di fenomeni, insieme ai Leprous, con cui condividono anche il palco in questi giorni. L’album decolla immediatamente, mostrando la pasta di cui sono fatti questi cinque norvegesi, lasciando intravedere le influenze provenienti dal progressive di Porcupine Tree o dai polacchi Riverside e nei frangenti death, dei succitati Opeth, assai evidente nelle linee di chitarra. Vi basti sentire infatti “Skygger Og Støv” per carpire i riferimenti che vi sto riportando, tuttavia non voglio assolutamente parlare di questi ragazzi come clone band o quant’altro, perché qui abbiamo a che fare con gente preparata tecnicamente, che ha studiato a menadito gli insegnamenti dei maestri, tra cui anche lo stile sincopato dei Meshuggah. La seconda “Litets Frø” mi sembra proporre, nella elucubrante circonvoluzione delle chitarre, un che del death jazzato dei nostrani Ephel Duath, accompagnato inoltre da una splendida chitarra spagnoleggiante. Quello che mi appare come il lamento di un muezzin, apre invece la terza traccia (tra le mie preferite), che evidenzia, neppure ce ne fosse stata la necessità, la verve, la classe e la fantasia di questi cinque baldi giovani, che vedono, oltre che nella prova dei singoli musicisti, anche nel cantante Knut Michael, l’eccellente espressione della ecletticità degli Ørkenkjøtt, sia nella versione pulita che in quella growl. La musica è ovviamente un flusso costante di emozioni, con degli assoli sempre delicati e mai taglienti, aperture atmosferiche da paura ed un costante pathos palpabile: basti ascoltare “Havet, Døden og Kjærligheten”, dove mi sembra di udire lo stesso magico feeling dello splendido assolo di “Flying”, degli Anathema. Pelle d’oca alta una spanna. La successiva “Fem Soler” si fa notare per un break centrale di basso spaventoso che prepara ad una psichedelica parte conclusiva, che potrebbe tranquillamente risiedere in un disco dei Pink Floyd. Tanta roba, si direbbe da queste parti. “Profeten” si scatena con una proposta che esula decisamente da quanto udito sin qui, tale e tanta è la furia in esso contenuta, che viaggia a cavallo tra un pezzo death, doom e black, anche se poi nella seconda parte del brano, i nostri aprono a mille influenze derivanti da ogni ambito musicale, con un finale all’insegna del rock’n roll. Un’altra song acustica con gong e orpelli vari, irrompe nella strumentale “Røsten Fra Østen”: ormai mi rendo conto di essere non poco confuso e al contempo estasiato dalla musica di questi pazzoidi nordici. Siamo quasi alla conclusione e non so più che diavolo aspettarmi. “Skygger og Støv II” rivoluziona ancora una volta il concetto di musica, muovendosi a cavallo tra lo swedish death dei Meshuggah, le sonorità criptiche dei Tool, che fin qui avevo omesso come influenza, ed un assolo che trova la propria fonte di ispirazione nelle note degli Opeth. Spero non vi sembri negativo il fatto di aver citato tutte queste band come influenza dei nostri: non cadete nell’errore di considerare derivativo il sound dei norvegesi, sarebbe quanto di più sbagliato. Qui siamo al cospetto di una band dalle idee rivoluzionarie, che non ha certo paura della sperimentazione, e la follia delirante della conclusiva death’n roll “Redneck Randy”, ne è la testimonianza più palese. I nostri non si fanno mancare nulla e piazzano infine una sorta di messaggio fantasma nell’ultimo minuto e trenta del cd. Il rischio di “Ønskediktet” è di risultare fin troppo sperimentale per alcuni, ma vi prego, fatemi, anzi fatevi un favore, e date un ascolto attento a questo album, non ve ne pentirete assolutamente. Da avere ad ogni costo, anche solo per il dipinto visionario, stile Chagall, della cover cd. Magistrali. (Francesco Scarci)

(Nordic Records)
Voto: 85-90 

lunedì 8 ottobre 2012

Ajuna - Death In The Shape Of Winter

#PER CHI AMA: Post Black, Wolves in the Throne Room
“Death in the Shape of Winter” è un 12” di cinque pezzi, presentatoci dai danesi Ajuna, band dal nome intrigante, la cui etimologia riconduce al latino “aiunare” ossia astenersi dal cibo. Non ho idea se il quintetto guidato dal buon Anders Holm Andersen, si sia rifatto a questa parola o piuttosto a qualche vocabolo di origine nordica, fatto sta che l’EP ha da offrire un post black corrosivo, in taluni frangenti anche atmosferico, ma non pretendetene troppo, di melodia qui ce n’è gran poca. L’inizio di "Death" è pauroso: chitarre dall’accordatura ribassata, ritmi lenti e cadenzati, vocals gutturali e profonde, un enigmatico ronzio che si nasconde dietro l’impetuosa ritmica, mentre lentamente il ritmo sembra andare in crescendo fino all’esplosione di suoni primordiali, che portano alla creazione del caos. Sette minuti del genere rischiano di risultare piuttosto noiosi, ma l’effetto disturbante di quel ronzio, sembra alterare i miei sensi, facendomi apprezzare la proposta. “Slower Song” suona più southern black, e come suggerisce il titolo, mostra un incedere lento e avvinghiante, sinuoso e soffocante, anche se finisce col concedersi dei riff al fulmicotone. “Winter” è invece più spinta in termini di velocità e cattiveria, con una batteria che si mostra serrata nei suoi bombardamenti a tappeto e dove le chitarre si confermano estremamente taglienti, soprattutto quando vanno a raddoppiare i loro sforzi. I suoi quattro minuti volano via veloci e in men che non si dica, mi ritrovo col basso di “Nations” a cozzare i pochi neuroni rimasti nella testa. Chiude il lavoro “We the City” altri cinque minuti di musica cancerosa, quasi punk, che ha il difetto di mancare di coinvolgimento, essendo priva di melodia. Anche i vari Deatheaven e Wolves in the Throne Room suonano post black, però va da sé che c’è classe cristallina nelle loro note, qui siamo ancora a livelli di suoni acerbi. Auspico tuttavia che il five-piece di Copenaghen si possa rifare al più presto… (Francesco Scarci)

(Ne-How Records)
Voto: 60

Area - A Place to Meet Randoms

#PER CHI AMA: Post Rock, Anathema, Archive 
Quando ho letto il nome Area ed ho visto la cover cd, ho pensato ad una delle uscite progressive italiane degli anni ’70; poi lo stereo ha iniziato a suonare la musica del quartetto di Bordeaux, e sono rimasto piacevolmente colpito dalla proposta di questi promettenti transalpini. Post rock a basse frequenze, denso di emozioni, ma pure carico di un alto potenziale energetico, che sembra costantemente sul punto di esplodere. “Proud Doctors” ne è un esempio con un giro di chitarra e tastiere cadenzato, ma che lentamente va via via accelerando, cosi come il mio cuore aumenta il suo battito durante una corsa, prima di prendere il ritmo. “Exit/Escape” ha un riffing più di matrice post metal che rock, ma quando il vocalist inizia con la sua litania, sembra di ascoltare piuttosto i Radiohead di “Ok Computer” e il sound si rilassa, si incupisce, si fa tremendamente nostalgico, andando a catturare i miei sensi. “Monday Morning, in Japan” è una traccia strumentale dal ritmo incalzante, che si muove tra stop’n go ed un’appassionata cavalcata, che introduce la più riflessiva “Dust”, song che torna a muoversi più in territori electro post rock, con gli inglesi Archive, luce ispiratrice per i nostri. La voce di Hugo è calda, sinuosa, le chitarre quasi impercettibili, accompagnano il drumming incessante di Etienne, prima di divampare impetuose, quasi in territori punk nel nucleo centrale del brano e tornare a dissiparsi nella seconda parte del brano, per concludere con un finale degno degli ultimi Anathema. A chiudere questo ottimo cd, ci pensa “North Wind”, altri sei fluidi minuti di piacere, che vedono i nostri inseguire un po’ il ritmo di “Paranoid Android” dei già menzionati Radiohead. Che altro dire, se non di avvicinarvi a questa band, dotata senza ombra di dubbio, di ottime potenzialità. (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 75

domenica 7 ottobre 2012

Vorkreist - Sigil Whore Christ

#PER CHI AMA: Black, Mayhem
Eccoli qui i francesi che avevo citato qualche tempo fa in un’altra recensione, indicando l’Agonia Records come una fra le più attente etichette nell’ambito estremo internazionale. E ancora una volta la label polacca non si smentisce, mettendo sotto contratto questi selvaggi blacksters transalpini, giunti alla loro quarta release. “Sigil Whore Christ”, pur essendo partorito nella vicina Francia, si mostra piuttosto come un epigono del movimento estremo scandinavo, avvicinandosi come proposta, al black primordiale dei Mayhem, tuttavia spruzzato di quella malsana componente tipica del movimento francese. Beh, non c’è che dire, i Vorkreist hanno concepito un ottimo lavoro, finalmente maturo che, avvolto in un’aura completamente mefitica, sciorina, uno dopo l’altro, pezzi veramente ficcanti, che mi permettono di tuffarmi e sguazzare in un mare di lava. Il lavoro più eclatante è stato decisamente fatto a livello di suoni di chitarra, a dir poco mostruosi, con ritmiche assai tecniche, che passano cosi abilmente da sfuriate tipicamente black, a momenti più agonizzanti, decisamente mid-tempo (“Maledicte”) o la cui matrice è di stampo statunitense, scuola Morbid Angel per l’esattezza, come nella rutilante “Deus Vult”, feroce al principio, più atmosferica e satanica in un secondo momento, ma sempre pronta a sfociare nella furia dirompente di sonorità estreme, che si tratti di black o death metal. In “Sigil Whore Christ” dicevo, c’è anche spazio per divagazioni più legate alla scuola francese, e penso al finale di “De Imitatione Christi”, che mi ha ricordato i Deathspell Omega, oppure anche le chitarre di “Memento Mori”. Ancora una volta mi dovrò complimentare con gli amici della Agonia Records, perché dopo aver resuscitato gli Enthroned, hanno contribuito alla realizzazione di un lavoro cosi maestoso, in termini di malvagità e contemporanea pomposità (strano a dirsi per un album di black disumano). I Vorkreist dimostrano di essere tra le più talentuose e tecniche band in territorio “nero”: gli stop’n go, i bridge (magnifico quello di “Dominus Illuminatio Mea”), le rare parti atmosferiche, confezionate in questo strepitoso lavoro, ci consegnano una band che si consacra tra le sorprese del 2012. Dotati infine di un vocalist molto bravo, in grado di straziare le proprie corde vocali in versione screaming, i Vorkreist gareggeranno con gli Enthroned per sedere sul trono della fiamma nera. Blasfemi. (Francesco Scarci)

(Agonia Records)
Voto: 80

Zuriaake & Yn Gizarm - Autumn of Sad Ode & Siming of Loulan

#PER CHI AMA: Black/Ambient, Burzum
Tornano ancora una volta sulle nostre pagine i cinesi Zuriaake, dopo aver esplorato approfonditamente gli altri loro due lavori, e cosi in una sorta di percorso a ritroso, vado a scoprire quello che fu l’album di debutto, uno split album in compagnia dei connazionali Yn Gizarm, per quasi un’ora di suggestivo grim black metal. Si tratta di otto tracce suddivise equamente tra le due band, in cui i nostri paladini Zuriaake hanno riservate le prime quattro, mentre la seconda metà è dedicata all’ascolto degli impronunciabili (Yn Gizarm), il cui nome si riferisce a quello di una contea nella regione di Xinjiang Uyghur. Ed eccoli infiammare i nostri oscuri animi con “Dying in Autumn”, tipico esempio di black mid-tempo, con screaming vocals, e flebili keys burzumiane di sottofondo, nulla di che ma piacevole in una fredda notte tempestosa. La pioggia continua a battere anche nella successiva “Autumn Memories” e quei synth posti in apertura o i latrati del vocalist, non possono che ricordare “Hvis Lyset Tar Oss”, mitico terzo capitolo del Conte, cosi come pure il mantello misterioso che avvolge l’intero brano non fa che evocare le produzioni maledette del buon vecchio Burzum. “Sad Ode” è la terza traccia dell’album, dove fa la sua apparizione una voca pulita, quasi un ululato di un solitario lupo nella foresta. Il feeling che si respira è decisamente notturno, complice anche una velocità decisamente spinta a rallentatore e a delle atmosfere, il mare e il verso dei gabbiani, i tamburi, in grado di conferire al tutto anche una certa aura di sacralità. Non so come spiegarvi ma basta chiudere gli occhi durante i passaggi ambient di questa song, che velocemente si viene condotti al cospetto degli imperatori cinesi, con tanto di gong nel bel mezzo del brano, per concludere poi con un’esplosione di furia impetuosa. Peccato solo per l’uso scadente della drum machine. Ancora atmosfere eteree chiudono la performance dei nostri, che cedono il testimone ai compagni d’avventura, che esordiscono con “The Ruins of Loulan” e si presentano come altra realtà, dalla scarsa perizia tecnica, ma dalla grande capacità di intrattenere i propri ascoltatori con trovate di ovvia derivazione dalla tradizione musicale orientale. Sicuramente gli Yn Gizarm prediligono la componente più blackish; anche qui scandaloso l’uso della drum machine, tuttavia la proposta, mostrandosi un po’ più feroce dei suoi predecessori, trova comunque modo per farsi notare, grazie all’utilizzo di parti di chitarra classica sul ritmico rifferama zanzaroso o per l’utilizzo di partiture folk. Decisamente più brutale la successiva “Ghosts in Ambush” e ancor più fastidioso ed evidente l’utilizzo della batteria sintetica; fortunatamente a stemperare il ritmo disumano, ci pensa un melodico break centrale con delle epiche vocals. Finalmente una song più tranquilla la terza “Burying in the River of Peacock” che fa da preludio alla splendida conclusione affidata a”Migration” che vede chiudere uno split cd, in cui gli Zuriaake si mostrano leggermente superiori ai propri compagni, ma lasciando comunque intravedere ampi margini di miglioramento per entrambi gli ensemble. Misteriosi. (Francesco Scarci)

(Pest Production)
Voto: 70

sabato 6 ottobre 2012

Divine Irae - Bible

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, Cult of Luna
Raramente mi è capitato di imbattermi in una band e non trovare assolutamente alcuna informazione sul suo conto: i Divine Irae sono tra queste rarità. Il pugno di informazioni recuperate, mi dice che la formazione di oggi viene dalla Provenza e in questo cd di quattro pezzi, a tiratura limitata e con un digipack numerato a mano (solo 50 copie per pochi fortunati), i nostri propongono un sound epigono di Cult of Luna e Isis. Proprio su coordinate post metal/sludge, i nostri aprono le danze con la lunghissima “Disappear”, song che evidenzia immediatamente la voglia dell’act transalpino di mettersi in gioco, emulando i propri beniamini. Certo, siamo lontani anni luce dagli originali, comunque il combo sembra aver imparato la lezione, lanciandosi alla ricerca di suoni mai troppo veloci, mai troppo pesanti, ma che, alla stregua di un lentissimo mare di lava, scende minaccioso dal cono vulcanico. A vederlo, cosi scuro e lento, non sembra neppure essere cosi pericoloso, ma poi quando solo poco ti avvicini, capisci che le temperatura supera di gran lunga i 1000 gradi. Similmente anche la musica dei Divine Irae, sembra essere innocua ad un ascolto, per cosi dire, distaccato, ma appena dai modo ai nostri di avvicinarsi, capisci che le loro potenzialità sono quasi letali. E proprio come la lava, il sound di “Bible” si presenta viscoso, lento, permeato di pochi gas in grado di esplodere, di cui tuttavia non dovrete sottovalutarne la pericolosità. Lenti, magnetici, penetranti (soprattutto con la seconda “Derelixion”), la band di Aix En Provence, continua imperterrita a soffocarci con quei suoi suoni asfissianti, quelle vocals vetrioliche al limite dell’hardcore; fortunatamente il furore gallico, trova un break in un’apertura acustica, che mi concede giusto il lusso di rifiatare, un po’ come se un boa avesse mollato la presa con le sue mortali spire. Cosi è il sound dei Divine Irae, costrittore. Ecco, se poi magari il vocalist desse meno spazio alle sue urla disumane, si concedesse qualche silenzio in più o desse maggior fiato alle vocals più meditative, ecco forse si potrebbe meglio apprezzare la proposta di questo nuovo gruppo francese, che trova il modo anche di giocare con noi al pendolino magico, cercando di ipnotizzarci, con suoni ripetuti e ripetuti. La musica di questo lavoro non è di cosi facile immagazzinamento, il sound sembra ancora soffrire di una certa acerbezza, che sono certo col tempo saprà maturare. Questo lo si evince soprattutto dall’ascolto della più meditativa e forse più melodica “Icon”, che nei suoi due minuti iniziali, trova anche il modo di cullarci con il suo incedere pacato e tranquillo, prima di esplodere nel fragore elettrico delle sue chitarre fangose, su cui trovano posto anche delle clean vocals, che eleggono questa song la mia preferita dell’album. Ci siamo, ci siamo quasi. Sicuramente c’è da lavorare ancora a lungo per scrollarsi di dosso i fantasmi dei maestri, ma la strada intrapresa anche con l’ultima “Irae” conferma che i Dine Irae stanno percorrendo la giusta via. Il voto basso è di stimolo, non di bocciatura. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

Okera - A Beautiful Dystopia

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride
Mi sa che in questo 2012 sarò costretto a dare la palma di nazione più prolifica all’Australia, capace di rilasciare un quantitativo esagerato di release, di vari generi, ma soprattutto di elevato tasso qualitativo. Tra gli ultimi cd partiti dal “nuovo continente”, che hanno raggiunto casa mia, figurano gli Okera, quartetto di Melbourne dedito ad un death doom di grande intensità, che delinea le proprie doti in termini di preparazione, pathos emotivo ed esecuzione, sin dall’oscura “The Black Rain”, che mette in chiaro la corrente di pensiero dei nostri, che vedono nei My Dying Bride la loro principale fonte di ispirazione, anche se stranamente compaiono echi degli Opeth degli esordi. Forti della produzione di Mark Kelson dei The Eternal, i nostri propongono in questa release le tre tracce che costituivano il loro demo d’esordio con quattro nuove songs, decisamente ricche in fatto di contenuti e dal facile coinvolgimento emotivo. Il death doom dei nostri è veramente manna dal cielo, che sicuramente potrà impressionare i signori della Solitude Productions, costantemente in cerca di nuovi act da inserire nel proprio roaster in modo da differenziare la propria proposta che ultimamente ha rischiato di scadere nel troppo sentito. E per questo mi sento di suggerire alla label russa gli Okera, band che non si limita esclusivamente ad offrire un sound sofferente e apocalittico, ma che nella seconda traccia “I Hope”, spinge un po’ di più il piede sull’acceleratore e se non fosse per qualche parte arpeggiata, potrei decisamente affermare che siamo al cospetto di una band death/black, che mantiene comunque nelle proprie linee di chitarra una velata vena malinconica. Abbandonata la rabbia della seconda song, tra l’altro casualmente anche il pezzo più corto dell’album, ecco i nostri riprendere la via del dolore e lanciarsi in cinque lunghi brani (durata media 8 minuti), in cui la verve inziale, lascia spazio alla desolante disperazione dell’animo umano, con il notevole growling di Jayme Sexton, ad accompagnare le bellissime e nostalgiche linee di chitarra (splendida per altro la chiusura di “Futility”). Il cielo sopra Melbourne si fa sempre più grigio, le nuvole si accumulano e minacciano violenti piogge: “In Solitude” è un altro pezzo che parte violento, ma nel suo corso, riesce a dar spazio anche ad aperture progressive, tali da lasciarmi a bocca aperta perché in grado di conferire maggiore ariosità, ad un genere che talvolta rischia di soffocare a causa di un sound fin troppo opprimente. Quindi diamo atto agli Okera, un po’ come qualche mese fa ai Bela’kor di aver confezionato un prodotto che prende le distanze dagli stilemi di un genere grazie ad una maggiore dinamicità, che consente ai nostri di esplorare territori che vanno oltre le normali definizioni di death doom o funeral. “A Beautiful Dystopia” raccoglie alla fine un po’ di tutto, comprimendolo saggiamente in una proposta, che non ha la presunzione di inventare nulla di nuovo, ma che sicuramente ha il pregio di rendersi vario ed interessante fino alla fine, quando la title track mi stordisce per poco più di dieci minuti con un feeling che sa di primi Anathema, imbastito però su un sound esplosivo, dirompente, furioso, tecnico e melodico che fa gridare decisamente al miracolo. C’è ancora molto da lavorare, ma gli Okera sono sulla strada giusta e vanno premiati da un vostro ascolto. Obbligatorio! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

venerdì 5 ottobre 2012

Bauda - Euphoria… Of Flesh, Men and the Great Escape

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze, *Shels, Archive
L’avevo scritto qualche mese fa, in occasione della recensione della loro prima release, che un vocalist avrebbe giusto fatto comodo ai cileni Bauda, ed eccomi accontentato. Il terzetto di Santiago torna con un nuovo lavoro, tra l’altro fuori per l’italianissima ATMF e signori miei, tanto di cappello, per una release finalmente davvero interessante. Apertura affidata a “Ghosts of Panthalassa”, song che sembra estrapolata da un disco dei post rockers inglesi Archive (penso ad “Again” tratto da “You All Look the Same to Me”), traccia estremamente delicata, che esplode solo in un dirompente finale e che mi fa esultare per la nuova direzione artistica intrapresa dall’act sudamericano. Ci siamo sotto tutti i fronti: l’espressività della voce (che richiama appunto il vocalist degli Archive – un plauso quindi a César Màrquez), l’emozionalità della musica, che abbandonate le strumentali divagazioni folk depressive degli esordi, ora resta costantemente ancorata ad ammalianti e malinconici territori post rock/shoegaze, tessendo dei brani stracolmi di un’espressività inaudita e, splendida a tal proposito, “Humanimals”. Preparati anche tecnicamente e dotati di uno spiccato gusto estetico che si esplica attraverso gli otto momenti qui contenuti, i Bauda sanno come stupirmi e come conquistarmi: in “Silouettes” è ad esempio, il magnetico suono di un basso accompagnato da un’aggressiva chitarra acustica mi tengono concentrato sul sound travolgente, di quella che potrei definire la vera sorpresa del 2012. In questa song, il trio sud americano non nasconde neppure il proprio amore per i suoni post metal, con un finale incandescente. Con “Oceanìa”, i nostri tornano a dipingere paesaggi indefiniti, desertici, quasi i Bauda volessero fotografare, attraverso la loro musica, il desolante deserto dell’Atacama, punteggiato da quelle che sono, tra le più alte vette montane del Sud America. Brividi si, percorrono il mio corpo. Questo è l’effetto meraviglioso del sound, estremamente già maturo di quest’ensemble, che in “The Great Escape” invece, coglie gli insegnamenti di un’altra delle mie band favorite, gli *Shels, e offre dei suoni post rock assai evocativi ed ispirati. Nonostante la lunghezza dei brani, i Bauda non annoiano mai, aggrovigliano con la loro musica, i miei pensieri, conducendomi in posti assai lontani. In “Ascension” ecco emergere forte l’eco dei Pink Floyd, con una bellissima base di pianoforte, su cui la seducente voce di César Màrquez concede il meglio di se stessa. “Euphoria… Of Flesh, Men and the Great Escape” riserva una sorpresa dopo l’altra, fino alla conclusiva notturna (direi ambient) “… Mare Nostrvm? (El Llanto de Quintay)” che suggella, a mio parere, uno degli album più intensi dell’ultimo periodo e che va a candidarsi per ricoprire un posto nella mia personale top ten di questo 2012. Un’altra uscita da “top player” targata ATMF. Complimenti! (Francesco Scarci)

(ATMF / A Sad Sadness Song)
Voto: 85
 

Crionics - N.O.I.R. (Nation Of Illusive Resemblance)

#PER CHI AMA: Black/Death, Old Man's Child
Uscito inizialmente in sordina per la MSR Productions, la Icaros Records ha voluto riproporre questa interessante release di una delle band storiche del panorama metal polacco, i Crionics, qui con una nuova veste grafica. La band, dedita ad un black death, esiste ormai dal 1997 e dopo 15 anni e molteplici cambi di line-up, rilascia questo “N.O.I.R.”. Si tratta di un EP che oltre a comprendere tre nuove songs del quintetto di Cracovia che mostrano il nuovo percorso stilistico intrapreso dai nostri, include anche una cover degli Immortal, l’eterna “Blashyrkh (Mighty Ravendark”, una dei Ramstein, “Moskau”, a cui si aggiungono le tracce del demo del 1998 (tra cui “I Am the Black Wizards” degli Emperor), insomma di tutto di più, per leccarsi i baffi. E devo dire che rimango piacevolmente stupito dal trittico iniziale di nuove song, “NarcotiQue”, la seconda “Scapegoat” e “Perdition”, tre brani che viaggiando sui binari a cavallo di un potentissimo black misto ad un cyber death, talvolta pomposo nelle sue aperture orchestrali, che trae ispirazione dagli ultimi citati gods norvegesi, gli Emperor ma anche dai The Kovenant, per esaltare i propri fan e pure quelli dell’ultima ora, come il sottoscritto. Le chitarre sono graffianti, le vocals gracchianti di Quazarre (vocalist anche nei Devilish Impressions e negli Asgaard) si avvicendano con delle voci pulite stile Arcturus, che tentano addirittura di percorrere la strada tracciata dagli striduli vocalizzi di King Diamond. Il risultato è sicuramente molto positivo e non posso ancora una volta che compiacermi, che il black sinfonico continui a dare i suoi frutti, anche se qui risulta mischiato con dei magnifici suoni cibernetici. Poi c’è “Blashyrkh”, proposta in una veste più potente e non posso che approvare e lasciarmi trascinare dal feeling malvagio di cui è permeata questa unica song, con Quazarre in grande spolvero. Impressionante anche la riproposizione della song dei Ramstein, in cui il vocalist, Peter dei Vader, mostra tutta la sua bravura e il suo spiccato eclettismo (in questa song compare anche Vogg dei Decapitated all’accordion). Quando passo alle tre tracce del 1998, faccio evidentemente un bel tuffo nel passato, ed ecco trovarmi di fronte un black piuttosto primitivo, il cui sound mostra la sua evidente matrice sinfonica di scuola norvegese, con un riffing leggerino ma ricco di cambi di tempo, una batteria indemoniata, delle spettrali tastiere e le canoniche screaming vocals. Il sound dei Crionics si riconduce comunque agli autori dell’ultima traccia, gli Emperor, la cui cover è ben suonata, anche se tra le tre cover, è quella che mi ha convinto di meno. Diciamo che se il nuovo album vedrà seguire gli stilemi delle prime tre canzoni, ne sentiremo davvero delle belle. Per il resto, provate ad avvicinarvi alla band polacca, dare un ascolto alla nuova proposta e se vi piace, non far altro che attendere con trepidante attesa, l’uscita del nuovo album. Ah dimenticavo: il cd comprende anche un “The Making of N.O.I.R.” e il video di “Scapegoat”, filmato durante il “Beware of Your Neck 2010 Tour”. Insomma ce n’è per tutti i gusti, basta solo dargli una chance… (Francesco Scarci)

(Icaros Records)
Voto: 70