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lunedì 16 luglio 2012

Delirium X Tremens - CreHated from NO_thing

#PER CHI AMA: Death/Black, Obituary, Celtic Frost
Questo lavoro mi arriva solo adesso e con immenso piacere scopro che nel lasso di tempo successivo alla sua uscita, il combo bellunese ha sfornato un nuovo cd (già recensito su queste stesse pagine) con sbocchi folk/epici, tratti dalla musica folkloristica dolomitica che sembrano aver riscosso buonissime critiche. Il lavoro esce per l'etichetta Punishment 18 Record nel 2007 ed è un esempio di come anche in questo paese si possa, lavorando sodo, ottenere degli ottimi risultati dal nulla. L'ambiente sonoro è un death/black mischiato con pregio, è un sound carico mai votato al caos e intensamente cinematografico. Il mid tempo la fa da padrone e rende tutto molto appetibile: al secondo minuto del primo brano si entra in un ponte carico d'atmosfera che la dice lunga sul modo di concepire il metal dei nostri “tagliaboschi”, la ripartenza è violentissima. Si sentono echi di Obituary e Celtic Frost, qualcosina di Voivod nella seconda traccia e a seguito di un growl pesantissimo su chitarre macigne, i DXT introducono un passaggio d'ambiente molto ricercato e cantato in italiano dal retrogusto ”Meshugghiano”, a dir poco impressionante, poi di nuovo all'arrembaggio ma con stile, senza trascendere nel banale. La cosa che contraddistingue questa band è proprio il gusto visionario di rendere l'ascolto del metal come la visione di un film. Manca completamente la volontà di far divertire “spaccando”, e questo li rende decisamente intensi. L'uso dell'effettistica sulle vocals, su alcune parti della batteria e suoni digitali a rinforzo dei brani, li rende così astratti, industrial e filmici che potremmo definire la loro musica la colonna sonora di “Blade Runner” in metal. Il cd non fa una piega, non ha lacune: è un concept album sull'autodistruzione dell'uomo e quale migliore musica potrebbe identificarla? Ascoltate il brano “DXT Chamber” e ditemi se l'ennesimo spettacolare ponte centrale, con tanto di assolo alla maniera del buon Gary Moore e le voci di rinforzo alla “Cradle of Filth”, fusi al growl pesantissimo del cantante Ciardo, su chitarre stile Obituary non sia il massimo! L'architettura chitarristica è ben strutturata e spazia tra folate black metal e death senza mai esagerare in velocità e “ginnastica virtuosa”, ricercano sempre la melodia anche se super compresse e distorte, un sound organizzato e complesso, gli assoli sono brevi e incisivi e “sfondano” anche nelle parti più soft. Anche se la musica risulta complessa, non siamo di fronte ad alcuna forma di progressive e nemmeno abbiamo una devastazione sonica in puro stile grindcoreg, qui si parla di Death metal con la D maiuscola, intenso e significativo, con tanta energia e idee rubate all'industrial! Ascoltate l'evoluzione di “CyberHuman” dal minuto 2:50 e vi farete un'idea di come “Immolation” e “Godflesh” possano coesistere nello stesso brano. Il brano “15469” sembra un esperimento d'ambiente cinematografico mentre “New Clear Files” mostra tendenze brutal. La traccia n. 9 dal titolo “...Inside me” è un caterpillar impazzito, forse la più classica per lo stile della band, anche se l'assolo centrale è degno di particolare nota per il suono usato. “Convulsion” è un esperimento di un minuto e quarantuno e parte con rumori elettronici e voci digitalizzate per poi lasciare spazio ad una voce clone del più acido Marylin Manson. Il tripudio riparte con “Crionica” scritta da Giuliano e Nicolas dei veneziani “Ensoph” che chiude il cd con altre ben 14 tracce vuote, lasciandoci molto soddisfatti e ansiosi di ascoltare l’ultimo lavoro di questi ragazzi che, come scrivono nella loro maglietta, sono i fieri portabandiera del “Dolomitic Death Metal”! Azionate il “Death-onatore”! (Bob Stoner)

(Punishment 18 Records)
Voto: 80

http://www.deliriumxtremens.com

Derelict Earth - And So Fell the Last Leaves...

#PER CHI AMA: Death Progressive, Shoegaze, Black, Agalloch, Alcest, Opeth
Della serie one man band crescono, ecco arrivare da Toulon (Francia), l’ennesimo esempio di quanto sia verosimilmente più facile produrre un album, senza avere troppe teste con cui spartire i propri pensieri. La cosa consueta è che molto spesso le one man band sono dedite ad un black ambient di tradizione burzumiana, mentre i Derelict Earth prendono decisamente le distanze dal genere del Conte e il nostro mastermind Quentin Stainer si cimenta in un sound che suona più come una miscela tra death melodico progressive in una vena leggermente blackish. Il risultato si fa ben apprezzare per la sua eleganza sin dalla traccia in apertura, “We, Experiment of God”, che per certi versi mi ha ricordato la parte più swedish degli Elysian Fields. Bel riffing corposo, accompagnato da dei melodici riff decoratori di scuola finlandese, con le vocals roche di Quentin ad digrignare i denti. La successiva “No More Sunset” è invece più orientata allo shoegaze, con la comparsa di vocals pulite sulla scia di Alcest e Les Discrets, e atmosfere che si dipanano tra il roccioso death e momenti più eterei e acustici. L’inizio di “The Locust Culture” sembra di derivazione mediorientale con quest’arpeggiato di chitarra davvero piacevole, prima che esploda il growling di Quentin e una ritmica bella tosta e incazzata. Tutta scena però, perché i toni si smorzano ben presto, per lasciare il campo ad un sound più meditativo, che viene ripreso anche nella successiva “At the Nadir of Men”, che si rivela con ritmiche mid-tempo, ottimi vocalizzi, un bel lavoro alle chitarre che, se meglio prodotto, potrebbe davvero fare la differenza, con altre proposte. Ancora qualche parte arpeggiata, un connubio fra basso e chitarra, fughe in parti più folkish, quasi a voler ricordare le parti più autunnali degli Agalloch, prima di un incandescente finale black, in cui ancora una volta è un basso inviperito a tessere la tela. “And So Fell the Last Leaves...” continua su queste coordinate offrendo sprazzi di ottima musica progressiva, coniugata con parti atmosferiche o ad altre più tirate, di matrice black, per quello che è il sorprendente secondo lavoro dei Derelict Earth. Intriganti. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

Kommandant - The Draconian Archetype

#PER CHI AMA: Black Industrial, Aborym, Marduk
Ecco l’album che mi sarei aspettato come seguito di “Generator” degli Aborym, ma che in realtà non ha mai visto la luce. È il lavoro dei blacksters americani che rispondono al nome di Kommandant, che approdati alla nostrana, e sempre più attenta ATMF, rilasciano questo secondo lp, intitolato “The Draconian Archetype”, che al sottoscritto è piaciuto un botto. Eh si, come non si può notare la componente industrial black tipica della band italica, traslata nel sound ferale dei nostri? “We are the Angels of Death” apre, sgorgando malvagità, da ogni suo pertugio; la ritmica è quella convulsa e serrata di Fabban e soci, un black convulso, nichilista, contrappuntato da oscure melodie. Il maligno si impossessa subito della mia anima, sbarro gli occhi privati della pupilla e dell’iride. Mi sento un androide catapultato in un futuristico mondo, quello immaginario di Ridley Scott, di “Blade Runner”. Magniloquenti le atmosfere nonostante un riffing scarno e acuminato che mi assale con ferocia, non concedendomi il benché minimo attimo di tregua, con le vocals, screaming, cibernetiche, epiche ed evocative che siano, ad affiancare il selvaggio correre della parte strumentistica. Mostruosi. Annichilenti. Magnetici. Le song spazzano via ogni cosa nel loro terrificante incedere: “Victory Through Intolerance” e la granitica quanto mai ipnotica “Downfall”, mi sconquassano con sommo piacere. “Hate is Strenght” ci avvolge con il suo sound cupo, dato dal fragore martellante di un drumming ossessivo ed enigmatico. Il ritmo si fa sempre più oltranzista con le successive tracce, a botte di blast beats e riff glaciali di scuola norvegese; forse è qui che i nostri rischiano di perdere un po’ della propria brillante verve, dimostrata sinora. Niente paura, perché con “Call of the Void”, torna l’anima più spettrale, al contempo spietata, dei Kommandant. Mi piacciono, lo ribadisco senza alcun timore. Sicuramente non condivido la decisione di affrontare tematiche che puzzano lontano un miglio di ideologie politiche estremiste, tuttavia “The Draconian Archetype” merita decisamente un vostro attento ascolto. Militareschi! (Francesco Scarci)

(ATMF)
Voto: 75

mercoledì 11 luglio 2012

Bilocate - Summoning the Bygones

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth, Death, Orphaned Land
VIII sec. A.C., nascono i primi insediamenti a Petra, antica capitale dei Nabatei, localizzata nella regione giordana dell’Edon. Città assai misteriosa, fu abbandonata in seguito alla decadenza dei commerci e ad una serie di catastrofi naturali, e, benché le antiche cavità abbiano ospitato famiglie beduine fino ad anni recenti, fu in un certo senso dimenticata fino all'epoca moderna. Da queste parti, nascono anche i Bilocate, formazione techno prog death di Amman, che dopo aver rilasciato un album con la Kolony Records, ha messo a segno un altro colpo vincente con la release del terzo lavoro, “Summoning the Bygones”, con la Code 666. La proposta fantasiosa di questo nuovo cd, arricchisce di gran lungo il già brillante predecessore, ammorbidendo leggermente i toni, in favore di una ricerca a dir poco notevole, di splendide melodie mediorientaleggianti, dando assai spazio ad una tecnica, mai fine a se stessa e sfruttando atmosfere etnico/tribali. Per certi versi accostabili alle sonorità degli Orphaned Land, per altri ai Death di “The Sounds of Perseverance”, per tecnica ai Dream Theather, per idee agli Opeth, per cattiveria agli Edge of Sanity, a cui prendono in prestito anche il vocalist, il mitico Dan Swano che in un paio di song, “Hypia” e “A Desire to Leave”, ci delizia con la sua suadente voce; e poi ancora, il progressive dei Porcupine Tree si mischia a sonorità gotiche o doom, come nell’oscura “Passage” o nella cover, peraltro suonata egregiamente, di “Dead Emotion” dei Paradise Lost. “Summoning the Bygones” è quello che si suol dire un signor album che ha l’assoluto divieto di passare inosservato, grazie all’eccezionale bravura dei suoi musicisti, nel proporre pezzi aggressivi, altri più decadenti, che magari rischiano di rifarsi alla tradizione svedese dei Draconian, come proprio la già citata “Hypia”, dove vi sembrerà di ascoltare una song dei Nightingale, abbandonando quindi gli umori molto più brutal della prima parte del disco. A chiudere l’album, una vera bomba, torno a sottolinearlo, ci pensa una lunga suite di venti minuti, suddivisa in tre capitoli, dove ancora una volta fa capolino il buon vecchio Dan a contrapporsi al velenoso growl di Ramzi e dove i nostri si dilettano con splendide linee di chitarra orientaleggianti, eccellenti melodie e tanta, tanta classe. Ottimo comeback, da avere a tutti i costi! (Francesco Scarci)

(Code 666)
Voto: 85
 

Waves of Mercury - The Letter

#PER CHI AMA: Rock Gothic
Ecco che questi due ragazzotti di Minneapolis escono con "The Letter", secondo lavoro dopo "The Great Darkness". Devo dire che sono andato ad ascoltare qualche pezzo di quest'ultimo e il cambio di genere è forte. "The Great Darkness" è puro progressive metal/rock mentre il nuovo lavoro lascia l'utilizzo delle distorsioni e si concentra sulle sonorità pulite della chitarra. Diciamo che la struttura musicale è rimasta invariata, ma in questo modo i Waves of Mercury hanno probabilmente voluto fare un album più riflessivo e magari raggiungere anche quei timpani che disdegnano la distorsione manco fosse il diavolo impersona che satura le valvole... Personalmente considero queste tredici tracce delle piccole gemme incastonate a dovere in una corona in stile gotico, semplice ma di sostanza. Il vocalist ha una timbrica personale, non brilla in fatto di estensione, ma calza a pennello in questo contesto, dando profondità alle canzoni ed evitando inutili raffinatezze. Ottimi anche i fraseggi di chitarra che sono eseguiti ad opera d'arte, giocano sull'emotività e lasciano perdere l'effettistica. In questo modo l'ascoltatore si concentra maggiormente sulle sensazioni e lo pone davanti al musicista, senza nessun filtro tra i due. Una tale Michelle ci delizia della sua voce in "Old Man and the Sea" e " Let me Fall" e alleggerisce l'album, dando luce e spazio alla musicalità solida dei Waves of Mercury. Mi sento di premiare questi ragazzotti, che piaccia oppure no il genere, loro ci mettono l' impegno, la voglia di mettersi in gioco ed evolversi, senza comunque perdere l'identità acquisita negli anni. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 70 
 

The Ocean Doesn't Want Me - As the Dust Settles

#PER CHI AMA: Post, Sludge, Alchemist, Neurosis
Caspita, mi sto avvicinando, lentamente ma sempre più, alla possibilità di avere la copia numero 1 di un cd, chissà se mai ce la farò; nel frattempo mi “accontento” di avere la 004/100, packaging limitato di lusso con i testi stampati su cartoncini con splendide foto, che assomigliano più ad un invito a nozze che al booklet di un cd. A parte questi particolari estetici, torno ad un vecchio amore che mi aveva conquistato con il proprio sound nel loro primo cd e per una band che mi aveva incuriosito parecchio anche per la propria provenienza (Pretoria – capitale del Sud Africa). In realtà il trio sud africano, proponeva un post metal di derivazione statunitense, con Neurosis e Isis, quale maggior fonte di ispirazione. Con questo secondo capitolo, le carte in tavola sembrano un po’ cambiare. La proposta dei nostri, pur rimanendo in territori post, sembra trarre ispirazione invece da una tradizione più tribaleggiante, mi verrebbe da dire quasi aborigena, anche se con l’Australia i nostri hanno ben poco da fare, se non per una questione di latitudine. I suoni si sono fatti decisamente più ostici; pur mantenendo l’ossatura di base all’insegna di post rock, psichedelia, sludge, sembra quasi che il sound si sia imbastardito e brutalizzato, anche se l’inizio di “Roots Point the Way” suona molto etereo. Ma ecco subentrare i tribalismi, con “Van Eyck”, suoni animistici mossi dalla natura, dal fragore di un tuono, dal bagliore di un fulmine o dall’infrangersi delle onde sulle coste. Non c’è linearità nella proposta dei nostri che con 7 lunghe song, sfiorano i 70 minuti. Pesanti, claustrofobici, brutali (anche le vocals sono diventate più growl, quasi a ricordarmi il vocalist degli Alchemist), “Dune Movement”, song lunghissima e splendida, mi fa immaginare l’effetto che ha il vento nel modellare le alte dune dei deserti del sud, in quella che è una mistica e vorticosa danza della sabbia. Decisamente i suoni qui contenuti non sono convenzionali e per questo molto più difficili da digerire, pertanto vi consiglio molti ascolti per riuscire ad assimilare ed apprezzare al meglio “As the Dust Settles”. Frastornanti, non c’è che dire. L’effetto che ne esce è un che di completamente disorientante, mai un punto fisso, mai una certezza nell’ascolto delle tracce qui contenute, si viaggia in territori cosi sconfinati che ben presto si rischia di perderne il filo. Non riesco ancora a capire se questo sia un bene o un male, quel che è certo è che la proposta dei TODWM ha un che di unico, malato ed estremamente originale, e forse per questo fatico più del solito ad assimilarne i contenuti. “This Castle Stands Alone” è forse il pezzo più convenzionale, per quanto poco sia possibile, dei sette, dove fa anche la sua apparizione una voce pulita, ma dove le chitarre tracciano comunque linee totalmente stralunate, senza mai eccedere in fatto di brutalità, anzi trovando il modo di esplorare territori decisamente più acustici ed intimistici. Splendida. Una specie di nenia introduce “Property Line”, abbinandosi a suoni che sembrano arrivare da Marte. Ancora una volta mi viene da associare il suono dei TODWM a quello spaziale degli Alchemist di Camberra, che maggiormente si avvicina per originalità, stravaganza e brutalità (ascoltare “Millais” per capire) a quello del nostro terzetto. Assurdi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80 
 

Blood Red Water - Tales of Addiction and Despair

#PER CHI AMA: Sludge/Doom, Electric Wizard, Eyehategod, Cathedral
Ah, io li conosco codesti personaggi! Dovevo perfino andarci a suonare il basso, solo che essendo senza il vile denaro non sono riuscito a seguirli. Nonostante questo mio quasi avvicinamento alla band, i nostri non possono sfuggire alla mia crudeltà. Vengono dalla “Laguna” e con il loro sludge/doom metal emergono dalle limpide acque di Marghera per portarci in lidi oscuri e poco rassicuranti. L'Ep “Tales Of Addiction and Despair” si apre, con la traccia da me preferita, “Ungod”, la composizione più doom ed ispirata da quel bel film che è Begotten. “Considerations/Commiserations” non si sente neanche. E' un piccolo sguardo sul lavoro dei Blood Red Water, uno scorcio del disco, una parentesi che racchiude ciò che la band propone. Con “Avoid the Relapse” passiamo a territori più vicini al groove dei Cathedral. Nonostante il simpatico ritmo, la canzone è piatta come le putride acque fuori dalla loro sala prove. Ma non preoccupatevi miei cari lettori, la seconda parte dell'Ep ospita due tracce degne. “Modern Slave Blues” è veramente ben strutturata e la ritengo la traccia più riuscita della pubblicazione. In chiusura troviamo “The Perfect Mix”, altra song valida che apprezzo e che spero sia il punto di partenza per una piccola revisione in futuro del sound dei Blood Red Water. Dopo questo veloce sguardo sul disco veniamo alle conclusioni però. Allora, non si può certo dire che questo debutto dei cari “Acqua Rosso Sangue” sia un lavoro inetto e superficiale, ma neppure un qualcosa al di sopra della media. È ancora qualcosa di embrionale ed acerbo, che ha bisogno di maturare con calma e diventare finalmente marcio. Innanzi tutto la registrazione. Le chitarre e il basso meritano una dose maggiore di “pesantume”, il sound è ottimo ma l'impatto è discreto. La batteria è fin troppo minuta e riesce a farsi notare solo nelle alte frequenze. Ed è proprio la batteria a essere la pecca principale della pubblicazione, i pattern nonostante siano originali ed apprezzabili, sono danneggiati essenzialmente da due fattori: il charleston troppo aperto e la quasi completa esclusione dei tom che porta a troppi passaggi di rullante. Le chitarre anche se leggere, di effettistica riescono comunque ad immergerci nelle più malevole e sporche sensazioni, in coppia con la voce che, riesce ad esprimere eccellentemente tutto il malessere spostandosi da un canto grezzo ed infervorato a voci più esauste. Insomma, da dirvi ho solo che dovete supportarli perché con le giuste sistematine, i cinque fanciulli provenienti dalle paludi veneziane, potrebbero conquistarvi. (Kent)

(Self)
Voto: 60
 

Zuriaake - Winter Mirage

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum
Li abbiamo scoperti un paio di mesi fa con il loro primo album “Afterimage of Autumn”; li ritroviamo oggi con un EP di 2 pezzi, che in realtà non è altro che una re-release uscita nel gennaio 2012, del bonus cd della versione limitata del primo lavoro. Eccoli i cinesi Zuriaake e il loro black di chiara matrice “burzumiana”. Apre la title track, che con i suoi sette minuti torna a riportare in auge i suoni lenti, soffocanti e al contempo gelidi di “Hvys Lyset Tar Oss” del buon vecchio Varg Vikernes. Gli stilemi del genere sono sempre gli stessi: chitarre graffianti, zanzarose e poi le classiche keyboards che rimbombano minacciose nel sound mortifero del terzetto di Ji'nan. Mistici senza dubbio, ma alla fine un po’ troppo uguali all’originale. “Valley of Loneness” ha invece una presa alquanto differente: pur mantenendo la struttura del black ambient norvegese, presenta una chitarra un po’ più robusta, suoni meno compassati, una maggiore verve in chiave sia strumentale che musicale. Parliamoci chiaro, niente di trascendentale; queste 2 tracce integrano semplicemente le altre song del precedente lavoro. Ora mi attendo decisamente qualcosa di più concreto e in grado di mostrare una certa maturazione da parte del trio cinese. (Francesco Scarci)

(Pest Productions)
Voto: 60


La band in questione arriva dalla Cina e precisamente da Ji'nan, Shandong province ed è attiva dal 1998. L'album di casa Pest Production è l'ultima delle loro fatiche che consiste in due cd e questo EP composto da due lunghi brani (il cd è datato 2012 anche se i brani sono stati registrati e mixati nell 2007 al tempo del secondo full lenght “Afterimage of Autumn") molto suggestivi ed evocativi di “black metal” caratterizzato da atmosfere cupe e molto melodiche giocate sulla falsa riga del più radicale “black svedese” ma arricchite sullo sfondo di sonorità vicine alla musica folklorica cinese. Attenzione però, non pensiate alla solita cozzaglia di brani metal e folk equamente divisi a metà con ponte floscio folk e cavalcata, niente di tutto ciò, qui troverete due brani violentissimi e dalle atmosfere profondamente “nordiche” virate da un retro gusto geniale e ben calibrato tutto dagli occhi a mandorla. Il primo brano dal titolo tradotto in inglese dal cinese in “Winter Mirage”, parte con una cadenza lenta e ferale per poi aprirsi immediatamente a sferzanti “screaming” molto ad effetto (gli screaming sono strepitosi!), l'incedere è lento e glaciale e la voce veramente bella e diabolica scivola lentamente in un baratro senza fine sorretta da accenni di tastiera che stendono un tappeto tanto “nero” e astratto quanto sulfureo. In realtà è l'effetto globale del brano che stupisce per forza d'espressione e quel clima estraneo e rarefatto, tipico delle lande cinesi è straordinario. La forza evocativa/meditativa del secondo brano intitolato “Valley of Loneness” è una pioggia di emozioni soprattutto e insisto, nelle tastiere e negli effetti d'ambiente, che portano l'ascoltatore ad entrare in un tristissimo oscuro giardino orientale. L'effetto che si prova è quello di ascoltare le bordate taglienti di Carpathian Forest e Dark Funeral unite alle atmosfere di Alcest ma con più oscura e orientale freddezza senza inutili romanticismi. Potremmo infine avanzare l'ipotesi che se i Zuriaake non fossero cinesi ma francesi, qualche band transalpina dell'ultima ora non dormirebbe sogni tranquilli. Consigliatissimi! (Bob Stoner)

(Pest Productions)
Voto:75