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domenica 28 agosto 2011

3,14 - неизбежность

#PER CHI AMA: Doom, primi Anathema
Avete presente quando Indiana Jones trova una misteriosa tavoletta in una sperduta catacomba e anche se non sa la lingua con cui è scritta ne conosce comunque il significato intrinseco? Bene… l’album di cui vi sto per parlare corrisponde proprio a questa tavoletta, misterioso nella forma e nella realizzazione. Si presenta come un doppio cd, nero e verde, sui quali capeggia un enigmatico pi greco (π). È appunto il pi greco, nella sua forma di 3,14, l’unica cosa che può arrivare a comprendere un occidentale leggendo le parole del book interno. Devo ammettere che la scelta di questa band di attenersi completamente alle tradizioni del loro paese d’origine (l'Azerbaijan) è alquanto affascinante. Se vogliamo limitarci alle liriche, le cose non cambiano nemmeno nell’ascolto. Non esiste una sola parola di inglese. Parlando delle melodie invece… Beh, siamo di fronte a qualcosa di ancestrale bellezza. Personalmente considero questa musica come un branca innovativa e molto particolare del più vasto insieme doom. Dagli archetipi di indispensabile paragone affiorano immediatamente stralci vividi degli Anathema degli esordi. Voci pulite esalano gli ultimi respiri in una terra venefica sull’orlo del disastro; musica post apocalittica, senza ombra di dubbio, che celebra in ogni sua nota una fine neanche tanto lontana. In questa nenia disperata spiccano basse frequenze di un growl pestifero e accorto, con pieno diritto di cittadinanza in uno scenario nichilistico. La copertina dell’album riporta un’abitazione abbandonata da tempo, catturata in sgranate variazioni di nero e giallo-verdognolo. L’immaginazione si è lasciata colpire dalla vacuità stereotipata di un occidentale datato e mi ha fatto pensare subito al disastro di Chernobyl. Anche se non è (totalmente) così, i 3,14, con questo loro "неизбежность" adombrano comunque nelle loro ritmiche un andamento da esodo di massa, accarezzando il tema di un umanità al di là del baratro. Materiale e spirituale. Questo è potente doom di nuova generazione. (Damiano Benato)

(Self)
Voto: 90
 

Kurouma - 3

#PER CHI AMA: Sludge, Post Metal, Neurosis, Cult of Luna, Isis
Negli ultimi anni i territori del nord Europa (Finlandia nello specifico) sono divenuti luoghi d’elezione per nuove sonorità ed evoluzioni di generi. Nella maggior parte dei casi queste innovazioni si sono applicate fortunatamente all’ambito metal, e hanno contribuito a generare band impegnate in stili musicali di matrice raffinata, ricercata, complessa nel suo divenire, restia ad assumere una forma ben definita. In questo magnifico panorama sorgono senza timore i Kurouma, gruppo di indiscutibile qualità tecnica, caratterizzato da un sound potente ma assolutamente non invasivo (a livello d’ascolto). I Kurouma reinterpretano le lezioni di band come i primi Meshuggah (?) e Neurosis con uno sguardo d’affetto ai Katatonia e agli Anathema di “The Silent Enigma”. Sentirete tutto questo dentro le 5 tracce che compongono l’album, tracce organiche, momenti di distopia che continuano anche al termine delle singole melodie. Vi accorgerete del passaggio tra una canzone e l’altra solo quando il vostro lettore lo segnerà, tanto è marcata la volontà di creare un’opera unica. Un ceppo davvero molto interessante di un’evoluzione del metal che non ha riscontri in altre simili band blasonate. Anche la voce, che ci si aspetterebbe in growl, colpisce per la sua novità: pulita e unita ad un urlato possente, non in screaming, che esalta ogni emozione con una violenza malinconica di riverente fattura, e trascina i nostri sensi lungo il percorso incerto della vita. Caratteri del post-rock s’innervano sottopelle per conferire a psicotiche visioni un’ipnosi da overdose di ascolto. Sono melodie che non cambiano: evolvono! Tastiere delicate accompagnano passaggi di batteria uniformi alla distorsione delle chitarre. Perfino il basso è perfettamente udibile. Che dire… Se siete dei tipi maledettamente malinconici ma non eccessivamente depressi, questo album sarà il sottofondo perfetto per ogni momento della vostra giornata.Ed ecco la domanda più importante: esiste un gruppo, alla portata di tutti, che incarni i sentimenti di dolore umano in una musica potente, senza tuttavia celare elementi ‘bui’? Una sola parola, miei consimili: Kurouma. (Damiano Benato)
 
(Self)
Voto: 90
 

domenica 21 agosto 2011

Drom - I

PER CHI AMA: Post-hardcore/Sludge, Neurosis, Isis, The Ocean
Che meraviglia l’underground, sembra quasi di fare un giro nella savana, alla ricerca degli animali più difficili da scovare e non avete idea di quale soddisfazione si possa percepire nel vedere in mezzo ai cespugli dei ghepardi o dei leoni che riposano, cosa che si potrebbe fare semplicemente stando nella propria città e andando allo zoo. Però volete mettere il fascino di essere voi stessi ad andarli a scovare, con i propri mezzi e il proprio intuito? Quando mi metto alla ricerca nel web delle band, faccio la medesima cosa, cerco delle tracce che mi possano portare a trovare qualcosa di sconosciuto o misterioso. Oggi la mia ricerca mi ha portato a scoprire questa interessante realtà, i Drom, provenienti dalla Repubblica Ceca. La band di Liberec propone quello che negli ultimi mesi si sta rivelando il mio genere preferito, il post-qualcosa e cosi, penserete voi, è più facile conquistarmi… sbagliato, anzi, se mi trovo tra le mani qualcosa di mal suonato, lo stronco con ancor più motivata cattiveria e competenza. Ma non è certo il caso di questi indecifrabili ragazzi, che nelle loro quattro tracce e più di mezz’ora di musica, mi sparano in faccia un connubio tra post-hardcore, straziato da vocals prettamente screaming black. La bellissima song posta in apertura, “Nicole”, ci indirizza immediatamente verso le sonorità dei nostri, con le ritmiche pesanti ma malinconiche che vengono spezzate dal guaito lancinante di Charlie. Seguono le cupe melodie di “I am Spartacus”, song che sottolinea l’emblematica influenza dei soliti Neurosis, nell’economia della band ceca, a livello di ritmiche, sempre molto pesanti, cadenzate, apocalittiche e talvolta ripetitive, per un risultato finale davvero convincente, peccato solo per quelle stridenti vocals che faccio ancora fatica a digerire. Peccato anche non poter parlare dei testi, completamente scritti in lingua ceca. Però la musica del quartetto, nel suo evolversi continua a piacermi sempre più, conquistandomi alla grande, ringraziando anche il fatto che il buon Charlie (a cui suggerisco di modulare meglio i suoi vagiti e cercare anche di conferire maggior spazio a qualche lamentoso passaggio o qualche incursione pulita, come accadrà nella terza song) non canta poi molto. “Private Snowball” è un pezzo dall’incedere dapprima cauto, oscuro e minaccioso, con un ottimo lavoro alle chitarre e dietro le pelli, dove un formidabile Vrablodron picchia come un dannato e la musica si attorciglia pian piano lungo le nostre gambe iniziando a salire e poi, come un boa costrictor, arriva fino alla nostra gola, premendo, con accelerazioni imprevedibili, soffocanti, impedendoci di poter gridare aiuto. Quanto mi esaltano questi suoni, quanto mi riempiono il cervello, portandolo alla saturazione e all’esplosione finale, che caratterizza l’ultimo minuto e mezzo della traccia. I conclusivi dieci minuti abbondanti di “Jack Torrance” ci danno il colpo di grazia, portandoci con le proprie paranoie e turbamenti interiori, verso il fondo dell’abisso. Che dire di una band fino a ieri a me sconosciuta? Ce ne siano di ensemble validi e preparati come i Drom, nello sperduto e infinito mare dell’underground: mi risparmierei volentieri di andare a fare qualche giro inutile allo zoo, dove tutto è già cosi stereotipato e dove so perfettamente cosa aspettarmi. Bravi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

Baht - Bilinçten Derine

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Kalmah, Susperia
Sono le tre di un pomeriggio insolitamente freddo per l’estate quando mi accorgo di essermi trasformato in un fottutissimo headbanger attempato. Non ci sono i Testament nelle mie cuffie, né il vecchio Mustaine inferocito o i brutali Morbid Angel. No. Stiamo parlando dei Baht, una band thrash-death (con qualche via di fuga prog) che infierisce piacevolmente sui sensi dell’apparato uditivo rievocando momenti di gioventù e schizofrenie latenti. Tradizione e innovazione per un album che si inserisce a pieno titolo in un genere che aveva bisogno, e mai come ora, di una spinta decisa verso la sperimentazione e la qualità tecnica. E allora, signore e signori, ecco presentarsi nella scena metal i Baht, con un lavoro memorabile che saprà certo farsi apprezzare sia dagli estimatori del death che dai sostenitori indefessi dei riffoni thrash. Maturità evoluta in tutte le tracce. Le novità si presentano in questo caso durante il lavoro songwriting e della creazione dei vari inserti armonici, una vera manna per le orecchie. Dimenticate l’uso esclusivo della batteria in fuga e delle chitarre compresse. I Baht strutturano ogni singola opera in modo ineccepibile, trasportando elementi alternati di scala in corde alte all’interno di ritmiche decisamente pesanti, e il risultato è magnifico. Vi troverete di fronte a entusiasmanti contrasti di alti e bassi (soprattutto negli assoli) nello stile dei Kalmah, o in quello di una band a me molto ma molto cara che considero innovatrice dal ‘thrash ragionato’ sotto tutti i punti di vista, i Susperia. Maestose anche le ballate che troverete più o meno al termine di ogni singola traccia. Innesti di sound progressive vengono qua e là accennati; mi chiedo se non sia questa la strada che la band turca vuole percorrere nel prossimo futuro. Non farebbe affatto male una ventata di aria fresca in un panorama stagnante, dove il dominio assoluto, chissà perché, proviene nel 90% dei casi da gruppi di nazionalità statunitense. Quindi questo è quanto: guardate a “Bilinçten Derine” come ad un prezioso regalo in un mercato che in questi tempi vomita prodotti noiosi e ripetitivi. Mi stupisco di come ancora il loro nome non sia associato ad altri grandi del genere. Se mi chiedessero che cos’è il metal, i Baht sarebbero una di quelle band che consiglierei subito ai neofiti. C’è tutto quello che serve qui dentro. Anche di più. (Damiano Benato)

(Self)
Voto: 85

sabato 20 agosto 2011

Consciousness Removal Project - The Last Season

#PER CHI AMA: Post/Progressive, Isis, Decoryah, Neurosis, Pelican, Mogway
Per una volta tanto non dirò ai miei lettori di prendere carta e penna e segnarsi il nome di questa band in quanto il cd è completamente sold out (semmai andatevelo a scaricare dal sito ufficiale della band), ma la mia segnalazione va alle etichette discografiche italiane, che non si facciano scappare l’ennesima new sensation che arriva dal freddo nord della terra dei mille laghi. Cosi da Tampere in Finlandia, ecco accomodarsi nel mio stereo un fantastico lavoro, che fin dalle iniziali note mi ha messo a totale agio con l’ascolto di questa perla. Antti Loponen è la persona responsabile di tutta questa meraviglia (liriche, musica e arrangiamenti), che mi avrà anche fatto penare per riuscire ad avere questo cd di 5 pezzi, per un totale di 40 minuti, ma sicuramente l’attesa ne è valsa la pena. Il lavoro si apre appunto con le suadenti note post metal di “Soil Sacrifice”, 11 minuti di musica sofferente, dilaniante l’anima (ottima la voce di Antti), sempre melodica e dinamica, capace di seguire i dettami delle band leader di oggi in fatto di post (Isis, The Ocean, Pelican, Rosetta) e secondo me fare ancora meglio grazie all’inserimento di violini (fantastica la parte conclusiva della opening track, che poi si abbandona ad un vibrante quando mai caldo ed emozionante assolo finale), violoncelli e theremin (che per chi non lo sapesse è il più antico strumento musicale elettronico inventato in Russia nel 1919). Sono ancora inebetito da cotanta bellezza dei suoni proposti da questo ennesimo eccezionale collettivo proveniente dal nord Europa, che vengo investito dal riffing pachidermico di “Moraine”, una sorta di Mastodon in acido che decidono di rallentare il proprio sound nella vena dei Mogway, piazzandoci sopra un bel cantato cavernoso, prima di ricordarsi che sia il caso di citare anche i maestri del genere, Neurosis e Isis, giusto per non fare un torto a nessuno. Quello che ne esce alla fine è un qualcosa dotato di una propria spiccata personalità che alla fine riesce nell’intento assai arduo di prendere le distanze dalle band appena citate. I miracoli della tecnologia eh già: mettere insieme in un bel pentolone tutto quello che abbiamo a portata di mano e farne uscire una succulenta e prelibata pietanza. I Consciousness Removal Project riescono in tutto questo e io mi sbrodolo ascoltando queste sonorità che riverberano nel mio cervello portandomi allo sballo più totale (e senza assumere alcun tipo di droga). Concediamoci una breve pausa ambient prima dei lunghi dieci minuti della esplosiva “Kyoto”, che ben presto si trasforma nelle più dolci delle song, con tocchi di piano vibranti, malinconiche melodie, immagini di foreste dapprima verdeggianti, solcate da bellissimi fiumi blu, poi devastate dalle fiamme avvolgenti che portano soltanto morte e distruzione. Rimango paralizzato di fronte a questo sobbalzare di emozioni altalenanti nel corso di questa meravigliosa song quasi interamente strumentale, una canzone che sembra raccontare quali siano i cataclismi naturali che potranno ben presto colpire il nostro pianeta, ma un barlume di speranza c’è ancora e lo si capta nei passaggi atmosferici e acustici del brano che nella mia mente ha fatto sobbalzare il ricordo degli ormai andati Decoryah. Straordinario l’uso degli archi, degli arrangiamenti, tutto il brano in essere che si candida ad essere uno dei miei preferiti dell’anno e già mi mordo le mani se qualcuno farà finta di non vedere questa band o la ignorerà, a costo di metterla io sotto contratto… La conclusiva title track mi conferma che una nuova mostruosa realtà musicale ha acquisito una propria identità e consapevolezza: ecco comparire una rasserenante clean vocals che forse ci annuncia che la fine del mondo (forse quella che incombe nella cover cd) non è ancora cosi vicina, anche se nubi oscure stanno per avvicinarsi minacciose. Scoperta eccezionale questi Consciousness Removal Project. Dirompenti e geniali! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 90

Dwelling - Humana

#PER CHI AMA: Folk, Neoclassic, Dead Can Dance, Miranda Sex Garden
I Dwelling nascono nel 1998 come progetto solista di Nuno Roberto e con l'intento di creare musica basata interamente su strumenti acustici, ispirata ai paesaggi costieri dell'Algarve. Col passare del tempo il progetto si arricchisce dell'apporto di altri musicisti e nel 2001 esce un mcd, "Moments", per Equilibrium Music, etichetta personale di Nuno Roberto. La line up del gruppo portoghese in tale lavoro si è estesa a cinque musicisti, grazie all'ingresso in formazione di Catarina Raposo alle voci, Silvia Freitas al violino, Nicholas Ratcliffe alla chitarra e Jaime Ferreira al basso. La natura esclusivamente acustica rimane un segno distintivo nei Dwelling, che nel 2003 pubblicarono "Humana", il primo full length. Nove canzoni vibranti di emozioni dense e struggenti, nelle quali la voce incantevole di Catarina Raposo gioca, intrecciandosi, con le chitarre acustiche e il violino e che si sviluppano in passaggi dal tocco sensibile e appassionato. Sembra essere un tratto tipicamente portoghese l'ardente malinconia che si posa con grazia nelle note di quest'album, soprattutto in "Silêncio Intemporal", "Tecelões da Nova Realidade" e "O Cinzel do Tempo", cantate in lingua madre e, non nascondo, le mie preferite, in quanto sono i momenti più sentiti. Lo spazio di silenzio tra i pezzi è quasi ridotto al minimo, forse a voler trasmettere un senso di dinamica evoluzione che fa di "Humana" un'unica opera in divenire, dove le canzoni hanno senso solo se inserite nel contesto generale, perché singolarmente perderebbero la loro intensità e apparirebbero come un tassello al quale manca il resto della struttura. Degne di menzione anche le altre canzoni che compongono l'album: "The Wheel", "Remember Virtue", "As the Storm Chants", dove la componente neo-classical si sprigiona in tutta la sua leggiadria, "Lingering Stupor", "Chasing the Rainbow's End" e "Reality that Remains", nelle quali si scorgono gradevoli episodi dal sapore folk e tradizionale. Unica pecca è forse da ricercarsi nel fatto che al primo ascolto l'album può risultare un po' troppo uniforme e non immediatamente emozionante, ma sicuramente è un'opera che va scoperta e merita di essere ascoltata con attenzione, solo così si può apprezzarla fin nel profondo della sua anima. "Humana" non è un'opera per tutti, ma solo per chi sa lasciarsi carezzare dal romanticismo degli strumenti classici. (Laura Dentico)

(Equilibrium Music)
Voto: 75
 

Influence - Where Does Your Way Lead To?

#PER CHI AMA: Techno Death/Thrash, Death
Non è stato particolarmente facile trovare qualche informazione su questa band polacca, proveniente da Goleniów e dal look molto accattivante. L’EP in questione rappresenta il loro esordio assoluto, una miscela incandescente di death tecnico, a tratti melodico. L’album si apre con il basso incendiario di “Mental Disease” e la martellante batteria di Karol. La song però quando scopre la sua componente chitarristica, perde un po’ in potenza, in quanto i riffs stanno un po’ troppo in secondo piano e non esplicano al meglio la potenza del quartetto polacco. Peccato, perché se le sei corde di Arek e Sowa, seguissero il roboante incedere fornito dal drumming furioso, sicuramente ne avremo sentito delle belle. La voce dello stesso Arek lascia un po’ a desiderare, ma sono certo che ci sono ampi margini di miglioramento. “World of False” attacca in maniera ancora una volta esplosivo grazie all’egregio lavoro dietro le pelli, ma il techno death dei nostri risulta ancora penalizzato dalla pessima registrazione delle chitarre, sempre abbandonate in secondo piano, salvo in quei casi in cui la batteria lasci completamente il campo agli assoli delle due asce, che si riveleranno assai interessanti. Il fantasma di Chuck Schuldiner e soci, aleggia costantmente nelle songs di questi Influence, però là eravamo ad altri livelli, grazie alla classe cristallina dei singoli musicisti. “Lie Poetry” presenta inizialmente un suono un po’ più bilanciato, ma poi, al solito le chitarre si perdono per strada come un lontano eco nel deserto, nonostante la song si palesi con un configurazione prettamente thrash. Ancora una volta è un peccato che i nostri non abbiamo potuto godere di una registrazione all’altezza, che avrebbe certamente conferito più spessore alla proposta e avrebbe fatto godere appieno dei suoni rilasciati dalle scorribande vetrioliche dei due chitarristi. La conclusiva “Nightmare” conferma le buone potenzialità della band mittleuropea, ma il consiglio che ci sentiamo di dare è sicuramente quello di dare una maggiore dignità ai suoni delle chitarre, spesso intrappolate dall’esponenziale potenza del divertente drumming. Cosi come pure, darei più che volentieri una sgrezzata alla voce, talvolta banale. Comunque una sufficienza abbondante mi sento di darla a questi ragazzi, spronandoli fin d’ora a rivedere alcune cosine nel proprio sound alla ricerca di una propria precisa identità che non rischi cosi spesso di sconfinare nel già sentito. Forza, è tempo di rimboccarsi le maniche! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65
 

Ektomorf - What Doesn’t Kill Me…

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Sepultura
Deve essere una costante per gli ungheresi Ektomorf aprire il proprio lavoro con suoni abbastanza etnici, perché ricordo che anche quando recensii “Outcast”, l’album si apriva con un'ancestrale melodia di un didjeridoo. Anche qui, ma solo per una manciata di secondi, si respira qualcosa di tribale, che poi si scatena nel thrash/death super ritmato, in pieno Sepultura style (era “Chaos A.D.”), che caratterizza drammaticamente l’intero lavoro. Quindi capirete quanto sia facile recensire un lavoro di questo tipo, che di certo non brilla in originalità, essendo estremamente derivativo dalla band sud americana. Che volete che vi dica, un po’ di tristezza me la fa ascoltare questa release: sentire suoni che sono nati più di 15 anni fa e a distanza di tempo, vedere che c’è ancora chi si ostina a ripetere pedissequamente gli stessi riffs, mi fa parecchio incazzare. A differenza del precedente album poi, mancano quei richiami etnico popolari (a parte i 10 secondi centrali di “I Got it All”) che mi avevano fatto apprezzare la musica dei nostri in passato. Solo “Sick of it All” prova ad uscire dagli schemi con l’utilizzo di vocals quasi rappeggianti e un’energia decisamente superiore alle altre song. Nonostante la partecipazione di Lord Nelson (Stuck Mojo) e Mille Petrozza dei Kreator, la bombastica produzione dell’onnipresente Tue Madsen, "What Doesn’t Kill Me…” si rivela alla fine, troppo statico nel suo incedere, senza una impennata, una uscita dagli schemi o comunque qualcosa in grado di smuovere l’ascoltatore: solo ritmiche scontatissime, vocals alla Max Cavalera e una ripetitività estenuante che mi costringe a bocciare il lavoro. Della serie “piccoli Sepultura crescono”, ma da una band che da quasi 15 anni calca la scena, mi aspettavo ben altro. (Francesco Scarci)

(AFM Records)
Voto: 50