Cerca nel blog

giovedì 9 settembre 2021

White Ward - Debemur Morti

#PER CHI AMA: Post Black Sperimentale
La Debemur Morti ha affidato l'arduo compito agli ucraini White Ward di celebrare con una loro uscita discografica, la duecentesima uscita dell'etichetta francese. Autori di due eccellenti album negli ultimi quattro anni, i sei ucraini rilasciano questo 'Debemur Morti', che affida alla title track in testa all'EP la missione di aprire le danze del qui presente. E la compagine conferma sin dai primi secondi le proprie qualità con quelle trame di piano e sax che avevo amato alla follia in due brani di 'Futility Report', ossia "Deviant Shapes" e "Stillborn Knowledge". Proprio da quelle sonorità nascono e crescono le melodie dell'act di Odessa che nei nove minuti dell'opener, ha modo di abbracciare black metal, sonorità progressive di scuola Ne Obliviscaris (anche a livello vocale) e suggestivi mondi sperimentali di scuola Ulver, per una song che potrebbe affiancarsi per bellezza e intensità, alle due canzoni sopra citate. E poi attenzione alla guest star dietro al microfono, ossia Lars Nedland (Borknagar, Solefald) che sfodera una prova strepitosa che innalza ulteriormente il livello qualitativo di un pezzo che ha ancora modo di lanciarsi in una portentosa ed epica cavalcata conclusiva che peraltro carica ancor di più di aspettative la successiva "Embers". Da applausi comunque. Ancora pianoforte e sax a braccetto per i primi quattro minuti della seconda traccia, con forti richiami che mi conducono a 'Blood Inside' degli Ulver, prima che sciabolate di post-black nudo e crudo vengano propagate in modo più o meno intermittente nei restanti quattro giri di orologio di una release che ha il solo difetto di durare troppo poco. (Francesco Scarci)

domenica 5 settembre 2021

Jordsjø - Pastoralia

#PER CHI AMA: Prog Rock
I Jordsjø sono un duo proveniente dalla Norvegia, con all’attivo già diverse uscite (dal 2015 se ne contano 8 tra demo, split, EP e album veri e propri). Qui ci troviamo nell’ambito del progressive più puro, e non parlo di prog metal alla Dream Theater o cose del genere, mi riferisco proprio al progressive rock che negli anni '70 irrompeva sulla scena mescolando in modo fino ad allora inaudito il rock figlio della rivoluzione 60s con il folk, il jazz e la musica classica. E se è vero che, a volte, il connubio ha generato mostri, è innegabile che abbia anche dato vita a diverse esperienze interessanti. I Jordsjø si tengono dalla parte “buona” della barricata. Quella che riesce ad ibridare linguaggi non sempre facilmente conciliabili in modo equilibrato ed elegante, senza eccedere nel virtuosismo autoindulgente o soluzioni eccessivamente cervellotiche e tenendosi bene alla larga dal gigantismo o la magniloquenza che caratterizzano le esperienze meno felici (e ahimè non sono poche) di quel movimento. In 'Pastoralia' i due scandinavi sembrano avere preso a modello i primi Gentle Giant (ascoltare i 7 minuti di "Skumring i Karesuando" per credere), filtrandoli attraverso le lenti del folk e certo jazz di stampo nordico, smussando gli angoli e smorzando il toni generali fino ad ottenere un prodotto di altissimo artigianato che riesce a risultare fuori dal tempo, nel suo coniugare prog anni '70 ad un afflato nordico quasi pop, soprattutto nell’uso della voce. Ecco allora che ci sono momenti in cui la ripresa del folk nordico risplende come un diamante, come nella notevolissima title track o l’incantevole "Fuglehviskeren", dove sembra di ascoltare i Pentangle. Altre volte ad emergere è l’amore per certe atmosfere jazzate ("Beitemark"), fino a far confluire nella conclusiva "Jord III" tutto il loro mondo fatto di arpeggi acustici alternati ad ispirati fraseggi elettrici, flauti, mellotron, piani elettrici e strutture complesse ma mai astruse. Disco molto bello, davvero di alto livello. Un must have per gli amanti del genere. (Mauro Catena)

(Karisma Records - 2021)
Voto: 80

https://jordsjo.bandcamp.com/album/pastoralia

venerdì 3 settembre 2021

Miles Oliver – Between the Woods

#PER CHI AMA: Indie Folk Rock
Cantautore e poeta parigino abituato a fare tutto da sé (armato di chitarre acustiche ed elettriche, piano e loop station) e a dividere il palco con nomi del calibro di Shannon Wright, Wovenhand e Be Forest, Miles Oliver è al suo quarto album, al solito registrato in proprio, in perfetta solitudine. Pare che 'Between the Woods' sia nato al ritorno da un tour di settimane negli US e che abbia visto la luce inizialmente come libro, una sorta di diario del tour corredato da fotografie e poesie che hanno poi originato le 12 canzoni racchiuse qui dentro. Fedele al motto che “l’importante è la canzone, e non il modo in cui si presenta”, i 12 brani si susseguono scarni e scarnificati da un lavoro di sottrazione che lascia ben poca carne attaccata ad uno scheletro fatto di chitarre acustiche, talvolta doppiate dall’elettrica raramente accompagnate da un piano elettrico, un basso o una drum machine altrettanto essenziale. Il risultato, lungi dell’essere minimamente originale, è comunque sincero nel mostrare le proprie fragilità attraverso una voce stridula che ricorda vagamente quella del compianto Vic Chesnutt, e interessante nel suo voler offrire un’affresco che, nelle parole dell’autore, rappresenta la sue personale visione della cultura americana. Dalle radici folk blues dell’iniziale "Save Me" (dove la voce non è sorretta da strumenti) alle menti alienate di "Deamontia", fino alla vendetta di una donna oppressa di The Song I hate, unica concessione ad un rock più o meno rumoroso, il lavoro si dipana attraverso bozzetti acustici ("Last Time"), fino all’immancabile dedica a Kurt Cobain di "Myberdeen" e la danza dolente di "This is a Lie", screziata di elettronica povera, che chiude con la giusta dose di malinconia un lavoro di ottimo artigianato. E se è vero che le canzoni non sempre lasciano il segno, Miles sembra sincero nel mostrarci il suo mondo, e l’impressione è che possa dare il meglio sé nella dimensione live. (Mauro Catena)

giovedì 2 settembre 2021

Kryptan - S/t

#PER CHI AMA: Black/Death
Chissà per quanto tempo ce li porteremo avanti gli effetti dettati dal Covid-19, non solo in termini clinici ma anche musicali. Non poteva rimanere immune a tale situazione un personaggio sensibile come Mattias Norman, ex bassista dei Katatonia, che da quell'evento ha maturato l'idea di fondare i Kryptan, oscuri portatori di black metal della vecchia scuola scandinava. Solo quattro i pezzi a disposizione per il mastermind svedese, sufficienti però a sviscerare in una ventina di minuti, il desiderio di Mattias di riproporre quelle sonorità maestose e taglienti che hanno reso grandi gente del calibro di Dissection, Lord Belial o Naglfar, questi almeno i primi nomi che mi sono venuti in mente. Si parte dalle vorticose ritmiche di "A Giant Leap For Whoredom" e si percepisce forte quell'assonanza musicale con i maestri svedesi, complici urticanti melodie corredate dallo screaming efferato di Alexander Högbom. Interessanti, ma francamente nessuna ragguardevole idea da aggiungere ad una scena un po' stantia. Ci si riprova con la martellante "Bedårande Bran" dove questa volta ci sento un che di Unanimated e Sarcasm nell'icnipit, mentre in quelle feroci e veloci, emerge un che dei Marduk e in quelle più atmosferiche, cenni dei primissimi Dimmu Borgir quasi a rendere omaggio a tutti i mostri sacri degli anni '90. "Blessed Be The Glue" evoca il black norvegese degli Immortal, in particolare di un brano come "Blashyrkh", tra epiche galoppate black e assalti thrash metal. Tutto molto bello ma sentito milioni di volte. In chiusura l'inequivocabile "Burn the Priest", un brano che avrebbe potuto tranquillamente stare su uno degli ultimi lavori degli Anaal Nathrakh, per un attacco finale all'arma bianca. (Francesco Scarci)

(Debemur Morti Productions - 2021)
Voto: 70 
 

mercoledì 1 settembre 2021

Dez Dare - Hairline Ego Trip

#PER CHI AMA: Punk Rock
Un po' di insana follia punk rock era tempo che non la ascoltavo. Dovevo attendere questo frescone inglese nato in Australia che, durante il famigerato lockdown, ha pensato di mettersi in proprio e buttare giù un po' di stravaganti pezzi orecchiabili. Ecco la genesi di questo 'Hairline Ego Trip' dei Dez Dare. Nove brani che partono dal punk primigenio di "Dumb Dumb Dumb", tanto selvaggio quanto scanzonato per poco meno di due minuti di musica. La cosa prosegue con il garage rock di "Conspiracy, O' Conspiracy", niente di travolgente ma mostra un tocco che palesa già una certa personalità. Quella che emerge forte invece in "King + Queen Monstrosity", laddove potrebbe sembrare stravagante, ma non lo è affatto, parlare di psych punk doom, vista la natura slow motion del brano. Esperimento riuscitissimo. Si passa ad un surf rock sporcato di venature stoner con "My My Medulla", un pezzo che ci conduce direttamente agli anni '60. Non male ma un po' lontano dai miei gusti musicali. Divertente ma troppo vintage. Si continua a percorrere la strada dello stoner/desert rock polveroso con "Sandy’s Gonna Try" ed un cantato che invece sembra uscire da uno dei brani dei Sex Pistols, ma l'energia che emana ahimè non è la medesima. "Break My Vice" sono 100 secondi di uno stralunato post punk, mentre "Crowned by Catastrophe" ha quasi un piglio blues rock nel sua cantilentante incedere ipnotico. "Goodbye Autonomy" mette in scena altri 107 secondi di un sound tanto stravagante quanto difficile da etichettare senza doverci scrivere una tesi che descriva cosa il musicista di Brighton voleva realmente proporre. Ancora punk rock con la lunghissima "Tractor Beam, Shitstorm", quasi dieci minuti di musica psicotica e ridondante in grado di destabilizzare i sensi con i suoi giri di chitarra in loop ma anche in grado di sottolineare l'imprevedibile genialità di quest'artista britannico. (Francesco Scarci)

martedì 31 agosto 2021

Akercocke - Antichrist

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Death
Continua la riscoperta di vecchi classici questa volta con i controversi Akercocke e un album veramente spaccaossa e tritabudelle, che ha avuto problemi di censura in mezzo mondo a causa del titolo e della cover abbastanza provocatori. 'Antichrist' è il quinto lavoro che porta il tipico marchio di fabbrica del quartetto albionico, che esce a distanza di un paio d’anni, da quel capolavoro dal titolo 'Words that Go Unspoken, Deeds that Go Undone'. Rispetto alle precedenti release, il sound proposto da Jason Mendonca e soci, si fa ancor più brutale, ma allo stesso tempo sperimentale, con la produzione, non certo pulitissima, a rendere 'Antichrist', ancor più selvaggio e malato. Il sound dei nostri prosegue quel cammino evolutivo, intrapreso dalla band già ai tempi di 'Choronzon', continuando quindi a miscelare in modo assai originale, elementi black, death e industriali, con un tocco progressive (parecchi gli intermezzi acustici, che rievocano gli Opeth), atmosfere emozionali e parti schizoidi (che mi hanno inevitabilmente ricordato, il sound dei nostrani Ephel Duath). Senza passare in rassegna ogni traccia, vi posso dire che questo disco è davvero notevole: riffs death/black si rincorrono per l’intera durata del cd, con le vocals di Jason che si alternano tra momenti in cui assomiglia più ad uno scarico di lavandino (tanto sono incomprensibili i growling), feroci screaming black e interludi in cui la ugola di Mr. Mendonca si avvicina a un ipotetico mix tra il vecchio cantante degli Ephel Duath (quello dalle clean vocals di 'The Painter’s Palette') e il vocalist degli Opeth. Le sonorità del combo inglese sono assai varie: si passa da brani in cui è il brutal death a farla da padrone (“Summon the Antichrist”) ad altri pezzi in cui emergono inaspettate influenze gothic/industriali, con parecchi frangenti acustici (“My Apterous Angel”), dove compaiono addirittura flauti e altri samples dal vago sapore orientale (fantastica “The Promise”). Come sempre i nostri hanno voluto sperimentare ulteriormente, mantenendo però intatto quel feeling oscuro e maligno che da sempre contraddistingue la band britannica. L’unica nota un po’ stonata, è il drumming, forse troppo caotico e martellante, però bazzecole di fronte a questo entusiasmante lavoro degli Akercocke. (Francesco Scarci)

(Earache Records - 2007)
Voto: 76

https://akercocke.bandcamp.com/

Manes - How the World Came to and End

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Avantgarde Music/Jazz
Dopo l’ascolto di quest’album, giunsi alla conclusione che in Norvegia ci doveva essere qualcosa di strano nell’aria, perché i gruppi norvegesi si sono rivelati, giorno dopo giorno, sempre più ispirati e in grado di reinventarsi musicalmente disco dopo disco. I Manes non sono mai stati esenti da tutto ciò: iniziata la loro carriera nel 1993 come blacksters super incalliti, hanno saputo evolvere il proprio sound in modo magistrale ed estremamente eclettico dapprima con 'Vilosophe' nel 2003. È seguito poi lo sperimentale 'View', presagio di cosa ci avrebbe riservato il futuro, arrivando con 'How the World Came to and End' a stravolgere totalmente la loro musica, con questo straordinario disco, che ho fra le mani. Questo lavoro sfugge infatti totalmente alla definizione di musica metal, perciò chi non dovesse avere una mentalità notevolmente aperta, si mantenga a distanza di sicurezza. Chi invece come il sottoscritto, ha saputo apprezzare l’evoluzione stilistica del sestetto scandinavo, potrà tranquillamente avvicinarsi a questa delirante produzione. Non saprei proprio da dove iniziare, tanto si presenta spiazzante all’orecchio dell’ascoltatore questo full length. Si parte con “Deeproted” che ci mostra subito la direzione cibernetica abbracciata qui dalla band: la voce di Asgeir è sempre ben riconoscibile su delle basi techno-jungle, che contraddistinguono il sound dei nostri. Con la successiva “Come to Pass” (e l’ottavo pezzo “The Cure-All”), assistiamo all’incredibile: l’uso di vocals rappate e suoni hip hop, stile Pleymo, inserito in un contesto oscuro e ipnotico, che termina in una fuga elettronica alla Prodigy. Con la terza traccia si celebrano atmosfere degne dei migliori Archive, mentre con “A Cancer in our Midst” vi è una ripresa dei suoni tanto cari ai Depeche Mode, con la sola differenza che le vocals sono filtrate, simil industriali. L’album di questi pazzi scatenati, viaggia lungo i binari del paradossale, attraversando lande desolate dal sapore vagamente jazzato, città futuristiche dai suoni spaziali e paesaggi notturni fatti di ritmi elettro-trip hop. I Manes hanno sempre avuto una marcia in più, versatili e dall’enorme inventiva: tutti i dieci brani riescono a catapultarci all’interno di un vortice di forme e colori, dal quale ne usciamo profondamente turbati e intontiti. Seguendo le orme dei compatrioti Arcturus e Solefald, ma ancor di più dei pionieri Ulver, i Manes hanno plasmato la loro mutante fisionomia, destabilizzando, con il loro sound, l'ormai “vecchia” concezione di musica metal. (Francesco Scarci)

(Candlelight Records - 2007)
Voto: 80

https://manes.no/

venerdì 27 agosto 2021

Rakoth - Planeshift

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Black Folk
Ho al mio cospetto un gruppo russo di black con parti folk al suo esordio intitolato 'Planeshift' fuori per la Code 666, e le uniche parole che mi vengono in mente dopo l’ascolto dei Rakoth sono trasporto e tristezza. Parole chiave, che secondo me servono a spiegare la musica proposta, perché le canzoni ti trasportano attraverso sonorità epiche e sognanti in un viaggio ben orchestrato, fatto di furia black ma anche di emozioni tipiche del folk, impreziosite da un uso veramente azzeccato e tristissimo del flauto, e delle chitarre acustiche che donano quella malinconia giusta per affrontare un gruppo cosi particolare. Anche la voce si muove attraveso tonalità tristi cercando sempre soluzioni nuove all’interno dei pezzi. Molto buono anche l’uso della drum-machine e buona anche la registrazione. Per chi non avesse avuto modo di ascoltarli in passato, questo è il momento giusto per andare a ripescarli.

(Code 666 - 2000)
Voto: 75

https://www.facebook.com/rakothRu