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lunedì 12 aprile 2021

Kaschalot - Zenith

#PER CHI AMA: Math/Post Rock Strumentale
Quello degli estoni Kaschalot è un mini di quattro pezzi, che mi permette di saperne un po' di più del quartetto di Tallin, in giro dal 2014 e con un paio di EP (incluso il presente) ed un full length all'attivo. 'Zenith' ci dà modo di tastare il polso di questi giovani che propongono un math/post rock strumentale. Le sonorità pregne in dinamismo e melodia, si possono già apprezzare dall'apertura affidata a "Supernova" che irrompe con la sua carica esplosiva che va via via affievolendosi nel corso dell'ascolto, prima di ripartire con più slancio a metà brano e poi ritornare sui propri passi con sonorità più intimistiche che evidenziano alla fine un buon lavoro compositivo. Poi di nuovo, è tutto in discesa con ottime linee melodiche ed un finale a dir poco devastante. Di ben altra pasta invece la successiva "Mothership", ben più calibrata nel suo incedere math rock che palesa l'ottimo lavoro dietro alle pelli del batterista, gli squisiti, jazzati ed irregolari cambi di tempo che sottolineano una preparazione tecnica di una band davvero invidiabile, a cui manca però una sola cosa, una voce al microfono. Si davvero, sono convinto che avrebbe aiutato ad elevare ulteriormente le qualità di un platter multiforme, ben costruito e dotato di una certa vena creativa. Come il funk-rockeggiare iniziale del basso in "Beacons", che prima si prende la ribalta assoluta dei riflettori e poi li condivide con chitarra e batteria. Infine, largo ad una ritmica bella compatta, distorta quanto basta e dal finale alquanto serrato. "Distant Light" chiude in modo apparentemente più pacato l'EP, dico apparentemente perchè a fronte di un incipit controllato, i nostri si lanciano al solito in spirali musicali di grande intensità, interrotte da break più equilibrati, da cui ripartire con più irruenza. Alla fine quello dei Kaschalot è un buon dischetto, forse di scarsa durata (20 minuti) ma che permette comunque di godere appieno delle qualità di questi quattro fantastici musicisti. (Francesco Scarci)

(Atypeek Music/Stargazed Records - 2021)
Voto: 72

https://kaschalot.bandcamp.com/album/zenith

domenica 4 aprile 2021

Collectif Eptagon – A​.​va​.​lon

#PER CHI AMA: Suoni sperimentali
Il collettivo transalpino Eptagon, presenta la sua scuderia di collaboratori con una raccolta, in forma di doppio album, che per metà è finalizzata a raccogliere fondi destinati al Metallion store, uno dei pochi negozi di dischi rimasti fedeli alla causa della musica estrema e underground locale di Grenoble. Devo ammettere che è difficile giudicare un album così variegato, ben prodotto e dalle esposizioni sonore tanto colorate e diversificate tra loro, quindi, dovrò fare i complimenti all'associazione, alla qualità dei progetti tutti rigorosamente originari di Grenoble, ed infine un augurio che tutto questo materiale, registrato in un 2020 da dimenticare, con tutta il suo carico di energia espresso in un anno così buio, siano di buon auspicio a tutte le band per un futuro pieno di soddisfazioni. Dicevamo che l'album è variegato, essendo diviso tra stili e composizioni diverse tra loro, ma accomunato da una sorta di filo conduttore, qual è l'appartenenza underground di queste realtà sotterranee, un posto ideale dove far convivere death, black, sludge, post ed alternative, tecnico, d'atmosfera o aggressivo esso sia, con il dark jazz, la musica elettronica, il progressive e l'ambient, il tutto distinto e separato in singole pillole sonore di egregia qualità strumentale, esecutiva e di produzione. Nessuna sorta di lacuna nel suo lungo ascolto, suoni eccellenti, dinamica a mille e professionalità a go go. Da constatare e lodare che, per essere una compilation, la scaletta dei brani fila via che è un piacere, anche per chi predilige lavori più complicati. Il suo insieme si snoda proprio con la fluida progressione di un album ben ragionato e frutto di tanta passione, che si mostra con forza nella qualità d'esecuzione espressa dalle tante compagini qui presenti. Diciassette brani di carattere, che prediligono varie forme di metal nelle prime cinque canzoni, dal death dei Kisin, al doom rock dei Faith in Agony, al grind degli Epitaph, al prog death dei Demenssed fino agli sperimentalismi estremi dei Jambalaya Window. La sesta "Arashi" (Robusutà) crea una sorta di frattura nella trama dell'intero lavoro con un sound strumentale ammiccante ai giapponesi Mono. Da qui in poi, le sonorità prenderanno direzioni diverse, fatta eccezione per un ritorno di fiamma decisamente più metallico nel brano live dei Liquid Flesh. Un brano che, con la sua matrice ultra pesante e tecnica, si pone come apripista all'avanguardia jazz, dal gusto Zorn e oltre, degli Anti-Douleur ("Beyrouth"), per esporsi in territori più sperimentali ed oscuri, frastagliati e sofisticati. Elettronica, drone music, jazz sperimentale, ambient noir, noise, alternative elettro e via via, la personalità mutevole di questa raccolta di brani vive proprio dei suoi continui contrasti e cambiamenti, che si muovono in paesaggi estremi con una fluidità d'ascolto eccezionale. Volutamente non voglio proclamare quale brano e quale ensemble valga di più di altri presenti nella compilation (anche se, e vi chiedo perdono, devo dire che la voce di Madie dei Faith in Agony è davvero splendida), ma sarebbe un errore imperdonabile da parte mia e da chiunque ami la musica indipendente, underground e alternativa, voler giudicare, rinunciando ad un ascolto travolgente, libero, senza porsi troppe domande sul chi stia suonando meglio cosa. Rinnovo i complimenti a tutti i musicisti che hanno preso parte a questo progetto così ben strutturato. Esorto il collettivo Ep.ta.gon a non mollare la presa ora, e vista la qualità della carne sul fuoco, non possiamo aspettarci altro che pranzi reali con realtà musicali cosi variegate come queste. Una compilation da ascoltare tutta d'un fiato, a volume alto ma soprattutto a mente apertissima. (Bob Stoner)

martedì 30 marzo 2021

Bound - Haunts

#PER CHI AMA: Shoegaze/Alternative, This Empty Flow
Gli statunitensi Bound aprono 'Haunts', loro opera seconda, con "The Bellows", in cui i tinnuli di cristallo cullano il bipolarismo dei suoi suoni. Un’esplosione di vetri che si adorna di lentezza in uno shoegaze dalle tinte alternative. Un arcobaleno prismatico che toglie il fiato al corpo della song per trovare insistentemente il suo tesoro prima, durante e dopo la sua corsa cinematica. Qui conta la scoperta. Una sonorità accesa che ritroveremo anche nella terza ondivaga "The Divide". Il suono che spazia tra paradiso e inferno. Con "The Ward" invece spezzettiamo il tempo in coriandoli sonori. Una polvere che muove l’aria prima di essere aria stessa. Una carezza, malinconica. Con "The Field of Stones" restituisco il passato in questo presente soffuso. Laconiche le sonorità. Ispirati i passi tra le rocce ed il climax ascendente della musica che imprigiona, sposta, asseconda, rapisce con le sue ipnotiche note di synth. Un viaggio da fare e fare ancora. Se non avete mai fatto un passo nel bosco stregato, se non siete stati mai temerari nella casa maledetta, beh venite con me, il tutto potrebbe suonarvi inquietante quasi quanto il video della successiva "The Last Time We Were All Together". "The Lot" suona come il giusto preludio incantato, spezzato dalla circostanza della chitarra, ammantato dall'eterea voce del vocalist ed ancora forte dell’energia che la band manda in etere. Andiamo avanti, abbracciando l’intensità soffusa che spazza l’estetica in “The Small Things Forgotten”. Il brano apre leggero carezzevole con un arpeggio di chitarra, che presto si trasforma in una nuvola di suoni scomposti, irrequieti, carnali, alla fine quasi infernali. Una bolla in cui il pensiero lento e la rabbia veloce possono scambiarsi pensieri, dinamiche, musica, chitarre benedette e maledette. Non abbiamo ancora toccato il fondo perchè vanno on air gli sperimentalismi dream pop di “The Lines”. Il fondo è superficie perché con la musica le prospettive sono aberrazione. Tuttavia, con la musica i cori ci portano a volare. Ma è forse la traccia che vola o siamo noi a volare? Sentite il brano che spezza con un suono metallico ritmato in 2/4. Sentite le anime che urlano a vanno su ad ascendere. Ascoltare e basta. Mi spacca questa song e mi ricompone le fiaccole dell’anima. L’epilogo di 'Haunts' si racconta con la conclusiva "The Known Elsewhere" ed un sound ripetuto, voce facile per uno shoegaze dalle venature post rock. Un graffio che evoca le melodie dei finlandesi This Empty Flow. Avrei forse preferito un epilogo psichedelico quanto l’esordio, ma l’album si congeda con un volto già visto, una sagoma nell’ombra, un disco che ci dice che andare d’istinto è molto più pregiato che farsi trasportare. (Silvia Comencini)

(Jetsam-Flotsam/Diehard Skeleton Records - 2020)
Voto: 70

https://boundlives.bandcamp.com/album/haunts

mercoledì 17 marzo 2021

Iqonde - Kibeho

#PER CHI AMA: Math Rock/Post Metal strumentale
“Ma tu perché non ridi, non ti contorci dalle risate? Fammi vedere che sei felice!” Me lo chiedo anch’io perché non ci si possa perdere nel ridere ad oltranza, non ci si possa immergere nella tinozza del morso che scompone il viso ed ubriaca di quelle risate. Rivisito questa intro parlata per dare a “Ma’nene” una sonorità in parole altrettanto traboccante di ritmo, bassi, batteria, corpo e rettilinei svirgolati dal rock senza padroni. Iniziamo in questo modo 'Kibeho', album di debutto dei bolognesi Iqonde. Una song ribelle. E la ribellione continua con “Marabù”. Uno scettro di potere fa vibrare il metallo degli sgabelli di un bar di provincia, una sonorità propria di chi ammansisce il basso e manda in etere le corde dell’elettrica su ritmiche frenetiche. Esercizi di stile, di dita sulla tastiera. Volteggi tra i sensi. Corpi sospesi d’anima in un bondage di emozioni post e math rock. Circolare come un’ossessione l’epilogo del pezzo. Va poi on air “Edith Piaf”. Sono blindata nell’ascolto in un concerto privato. Immaginate una nicchia scavata nella roccia, la band in penombra. Ed ascoltate i suoni ridondare come un eco tra le pietre. Li si mescolano il sound, l’atmosfera, la musicalità tribale di questa traccia al contesto. Epilogo sotteso quasi silenzioso lo strisciare succinto delle dita sulle corde ferrose. Cambiamo vestito e contesto. È il turno di “Lebanshò”. Lentamente la musica sale in un tripudio strumentale che trova il suo apice al terzo minuto. Ferma la musica. Resto in attesa. Il silenzio traccia la sua strada della solitudine per tornare tra noi in una danza tribale rivestita da uno sfondo ricco di groove. Assai accattivante direi, ideale per le anime in dissidio tra il silenzio strumentale e la musica che fa muovere mente e carne. Passiamo a “Gross Ventre”. Avete mai sentito sulla pelle il brivido ed il fuoco contemporaneamente? Qualsiasi sia la vostra esperienza vibrante vi invito a farvi un giro su questa violentissima song. Terminiamo l’ascolto di questo album con “22:22”. Dissacrante in apparenza col suo prologo triviale estratto da 'Salò o le 120 giornate di sodoma', film del 1975 di Pasolini. Da me molto gradito! Le parole in musica che si propagano dalla cassa, dalle chitarre, dai silenzi intercalati sono pura convulsione sonora, ribellione ancora eppure accarezzano l’anima con un post metal impulsivo, il math rock e insana tribalità. La mia anima, gli Iqonde, l’hanno toccata e dipinta sicuramente. (Silvia Comencini)

venerdì 12 marzo 2021

Fine Before You Came – Forme Complesse

#PER CHI AMA: Indie Rock
Come stavate voi con tutto quel daffare attorno. Dove eravamo quando il superfluo era all’ordine del giorno. Sarà banale, ma la musica che ho amato è la cosa che più di tutte mi dà il senso del tempo che passa, la misura dell’invecchiare. E quindi fa innegabilmente effetto rendersi conto che i Fine Before You Came (FBYC) esistono da ormai più di vent’anni (come ribadito dal loro nuovo sito fbyc1999.it – e anche il fatto che nel 2021 si parli di un sito internet come di una cosa nuova contribuisce a dare la misura del tempo che è passato e del fatto che non siamo davvero al passo coi tempi). E anche, a conti fatti, che ne sono passati ormai 12, di anni, da quello spartiacque generazionale che è stato 'Sfortuna'. In tutto questo tempo i testi di Jacopo Lietti si sono rivelati sempre “troppo perfetti”, al punto di essere fisicamente dolorosi, nel disegnare un passaggio ad una vita che si sarebbe voluta adulta (o che qualcuno lo avrebbe voluto per noi) ma che il più delle volte ha assunto soprattutto le forme scomode dell’indadeguatezza; e continuano a farlo, in modo al solito inesorabile, in quest'ultimo lavoro, nel quale rappresentano, a prima vista, l’unico elemento di continutità con il passato. Perchè 'Forme Complesse', che esce quattro anni dopo (di già? Possibile?) Il Numero Sette si discosta decisamente da quello che siamo abituati a considerare i FBYC. Innanzitutto nel modo in cui il disco viene distribuito (per la prima volta non è disponibile in download gratuito e nemmeno sulle piattaforme streaming) e poi, soprattutto, nella sua veste musicale, che abbandona i consueti territori che per semplicità definiamo posthardcore per una sorta di slowcore chiaroscurale. Eppure non ci stupisce granchè, un po’ perchè la strada intrapresa dalla band da 'Come fare a Non Tornare' in poi, passando per il live acustico al teatro 'Altrove', sembrava presagire uno sbocco di questo tipo, un po’ perchè l’utlimo anno ha cambiato le cose in un modo che forse non siamo ancora pronti a riconoscere fino in fondo. E 'Forme Complesse' è un disco cupo, a volte plumbeo, che affronta con precisione chirurgica quello che sentiamo nel profondo ma a cui non sapevamo dare un nome, una forma, un vestito. È un disco che si regge su contrasti in equilibrio, sempre sul punto di spezzarsi, tra grazia e rancore, fraglità e stoica resistenza, tra il terrore del vuoto e il tentativo di caricarsi il proprio mondo sulle spalle, senza mete precise, nonostante tutto. Musicalmente è un disco di arpeggi elettrici delicati e circolari, di lenti crescendo che non arrivano mai al punto di deflagrare, di linee di basso meditabonde, di ritmiche irregolari, intrecci vocali ed un cantato a metà tra il declamatorio dolente degli ultimi lavori e delicate, fragilissime melodie. È un disco bellissimo. Forse non l’avevo ancora detto. (Mauro Catena)

(Legno - 2021)
Voto: 83

https://fbyc.bandcamp.com/

lunedì 8 marzo 2021

Volvopenta - Simulacrum

#PER CHI AMA: Experimental/Post Rock/Noise
Quest'album parte con un sound soft, un post rock ambientale così carezzevole da rendere la pelle vulnerabile e le sensazioni sublimi per ognuno dei sensi. Quando s'inserisce la batteria poi, sento solo i piatti metallici che toccano l’inconscio, ed il cantato si mescola ai ripetuti di corde pizzicate. È la magia, la malia di "Kargus", la traccia d'apertura di questo 'Simulacrum', opera seconda dei teutonici Volvopenta. La premessa mi porta in etere a sognare. Mando on air "Tele 81". Sorprendente. Una seducente base ritmica evoca gli anni trenta. Un respiro affannoso in musica, lento. Momenti di voce che gridano la rivalsa alternati a loop sonori ipnotici. La batteria con il suo ferro fa sempre da subliminale. Lo stile è unico, assai originale. Sospende, lasciando i sensi xerostomici con la sete a volerne ancora. Quando parte la siderale "Barfly", le luci soffuse si spengono definitivamente. Scrivo nel buio, lasciando all’udito l’assoluto dei sensi. Molto, molto intenso il corpo di questa song, talmente intenso da materializzarsi. Qui la musica, un robusto post rock, diviene carne, sangue ed il buio si fa vista altrove. Provate l’esperienza. Scorre la musica come un fiume che leviga il proprio letto. Una cura. Un vello. Una sensazione che si rinnoverà anche in "Interlude 1". Un sorso di "Ghost" ed avrete nell'etere uno sperimentale retroattivo rivisitato di punk, rock, shoegaze e dark, il tutto servito in un solo calice. Ubriachiamoci insieme. Il secondo momento panoramico lo troviamo in "Interlude 2". Altra cura, altro rimedio per l’anima. Enantiomero dell’1. Complementare all’1. Graffia invece, vibra "One to Five". Imprevista. Futurista. Al contempo retro style con i suoi suoni elettrificati, ma nostalgici come un chiacchiericcio di foglie che vorticano nel vento lentamente. Un moto in musica circolare a tratti ellittico. Ora la nostalgia è la mia, per essere giunta all’ultima traccia, la strumentale "Flint". L’ascolto, la sigillo con un'iperbole ascendente in un ossimoro di musica dalle venature sanguigne, delicate, molto ben interpretate ed estremamente malinconiche. L’ascolto è per anime senza pace. La troverete. La musica è per musicisti senza stile. Vi ispirerete. La dolcezza è per chi come me si sente cullata tra le parole e la musica pregiata dei Volvopenta. (Silvia Comencini)

(Tonzonen Records - 2021)
Voto: 84

https://volvopenta.bandcamp.com/album/simulacrum

domenica 21 febbraio 2021

Voyage in Solitude - Through the Mist with Courage and Sorrow

#PER CHI AMA: Depressive Black, Deafheaven
I Voyage in Solitude sono l'ennesima dimostrazione che il metal non ha confini e si possa suonare a tutte le latitudini e longitudini. Si perchè la one-man-band di oggi è originaria dei Nuovi Territori di Hong Kong e il polistrumentista che si cela dietro al monicker, Derrick Lin, ci propone un black che oscilla tra l'atmosferico e il depressive. Le atmosfere si gustano proprio all'inizio di questo 'Through the Mist with Courage and Sorrow', primo full length della band dopo tre EP e materiale vario, con la lunga apertura strumentale affidata alle magiche melodie di "Veil of Mist". Con la lunga "Dark Mist" la proposta del mastermind hongkonghese inizia a prendere più forma, delineandosi appunto come un depressive black, dalle tinte fosche e cupe, al pari dello screaming del vocalist. La prima parte del pezzo viaggia su coordinate stilistiche davvero atmosferiche, con una linea di chitarra evocativa in quel suo tremolo picking che potrebbe quasi fuorviarci e farci propendere ad un post rock. Il finale vede l'appesantirsi della sezione ritmica senza tuttavia mai trascendere in fatto di velocità, fatto salvo per la furia post-black affidata all'ultimo minuto e mezzo del brano. "Incoming Transmission" ha un preambolo nuovamente ambient, in cui una chitarra acustica s'intreccia con suoni di synth. Ma è solo una sorta di intro ad un pezzo più andante, nel quale l'artista esprime attraverso la malinconia della linea melodica e delle sue harsh vocals, la solitudine, l'impotenza e la frustazione della gente della città in cui vive, dopo un biennio davvero complicato per Hong Kong. E questo dissapore per la società emerge forte e sconsolato dalle note del brano, in cui il musicista ha modo di combinare al black eterei suoni post rock in lunghe fughe strumentali. I pezzi si susseguono, viaggiando peraltro su durate abbastanza consistenti: "Reign", nel suo torbido incedere, sfiora i nove minuti e lo fa combinando chitarre tremolanti con un drumming al limite del post-black, mentre la voce di Derrick, forse troppo nelle retrovie tipico delle produzioni molto underground, distoglie l'attenzione da quelle melodie che inneggiano qui più che altrove ai Deafheaven. Il risultato è davvero buono, forse una produzione più pulita avrebbe giovato ulteriormente, ma siamo agli inizi, quindi mi aspetto grandi cose in futuro da Mr. Lin. Ancora un intro acustico con la dolce (si avete letto bene) "Memories", un pezzo strumentale che potrebbe fare da ponte tra la prima parte e la seconda del cd, in cui lasciar vagare la vostra mente mentre guardate la cover dell'album. Qui è ancora la componente post-rock a dominare, sebbene il drumming nella seconda metà si faccia più convulso e alla fine dirompente. "Despair" prosegue sulla medesima linea tracciata dalle precendenti song: inizio timido, acustico e poi con l'ingresso dello screaming di Derrick, ecco che le chitarre si fanno più "burzumiane". Ma attenzione, perchè questo pezzo riserva una novità proprio a livello vocale con l'utilizzo del pulito in una sorta di coro, a mostrare le enormi potenzialità a disposizione della band asiatica. L'emozionalità che trasuda 'Through the Mist with Courage and Sorrow' va comunque sottolineata come vero punto di forza dell'album che si chiude con "In Between", un pezzo ove è lo shoegaze a dettare legge tra chiaroscuri di chitarra, magnifiche e sognanti melodie, un cupo pessimismo cosmico ed una gran dose di malinconia che mi fanno enormemente apprezzare la sublime proposta dei Voyage in Solitude. Bene cosi! (Francesco Scarci)

(Self - 2020)
Voto: 77 

mercoledì 17 febbraio 2021

Cornea - Apart

#PER CHI AMA: Post Rock, God is an Astronaut
Questa mattina è arrivato il corriere, mi ha consegnato 'Apart', album di debutto dei patavini Cornea. Non potevo fare altro che mettere il vinile sul mio giradischi e assaporare le note strumentali di questo nuovo terzetto italico, che vede tra le sue fila Sebastiano Pozzobon che apprezzai come bassista dei Dotzauer, Nicola Mel, (ex?) voce e chitarra degli Owl of Minerva (un'altra band che abbiamo ospitato qui nel Pozzo) e a completare il trio, Andrea Greggio alla batteria. La proposta dei tre musicisti viaggia su lidi alquanto differenti dalle loro precedenti band, trattandosi infatti di un post-rock dalla forte vena shoegaze. Ad aprire le danze "Daydreamer", un brano che definisce immediatamente le coordinate stilistiche su cui correranno i nostri, con un inizio alquanto oscuro ed intimista. Da qui le note si fanno più eteree, con la chitarra che s'incunea in territori dapprima morbidi, per poi esibirsi in un riffing più corposo e sognante, a cavallo tra post rock e post metal, quest'ultimo retaggio sonoro sicuramente ascrivibile a Sebastiano. I suoni sono suggestivi, per quanto manchi una voce a bilanciare la cascata sonica in cui ci siamo immersi, ma ne vale la pena, non temete. Con "Kingdom", nonostante un poderoso avvio, ci si imbatte in suoni più psichelidici che hanno la grande capacità di mutare in brevissimo tempo, prima ancora in un robusto post metal, e a seguire, in una serie di cambi di tempo e di ritmo dal potere avvolgente, peccato solo l'assenza di una presenza vocale a guidarci nell'ascolto, lo so, sono ripetitivo alla morte. Con "Will Your Heart Grow Fonder?" i suoni si fanno ancor più profondi a generare quasi un moto emotivo nella nostra anima, sebbene le sferzate ritmiche cerchino di rinvigorire la proposta della compagine veneta. Un break acustico rompe gli schemi, con basso e chitarra a sonnecchiare timidamente, dandoci il tempo di una pausa ristoratrice. Poi è la melodia della sei corse a prenderci per mano e condurci nella parte più intrigante e atmosferica del disco, con il basso in sottofondo a generare tocchi di un magnetismo impressionante. Qui la componente malinconica si fa più vibrante dando quel quid addizionale al brano forse meglio riuscito di 'Apart'. Tuttavia, siamo solo a metà strada del nostro cammino, visto che mancano ancora i tocchi delicati della suadente e crepuscolare "Saltwater", una piccola gemma che ha forse il solo difetto di risultare troppo circolare nel suo incedere. Essendo la traccia più lunga del disco, rischia quindi di essere quella che stanca prima, ma i nostri provano a cambiare registro con riverberi luminescenti, puranche con roboanti riff che vanno a rompere quella delicatezza iniziale. "Sentinels of a Northern Sky" parte ancora con fare gentile con la chitarra a prendersi la scena nel suo affrescare melodie raffinate, mentre il basso in sottofondo sembra richiamare (non chiedetemi il motivo, è solo una sensazione quella che provo) echi dei vecchi The Cure. Il brano cresce progressivamente con la chitarra a lanciarsi in fughe in tremolo picking, mentre il drumming detta il ritmo in modo preciso e bilanciato. A chiudere l'album ci pensa "Diver" che con i suoi astrali bagliori onirici ci accompagnerà fino alla conclusione del disco donandoci l'ultime note di un post rock che paga forse qualche tributo a mostri sacri del calibro di Mogway, Explosions in the Sky, i più lisergici Exxasens e i più robusti Russian Circles, ma che comunque mette in mostra le qualità di una band che deve solo non aver paura di osare un pochino di più. (Francesco Scarci)

(Jetlow Recordings - 2020)
Voto: 74

https://cornea.bandcamp.com/album/apart

sabato 23 gennaio 2021

Break My Fucking Sky - Blind

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal
Corpi sospesi tra la cenere e la fenice. Sospese le ombre che animano questa intro. Passione ed immagini sfuocate. Un missile terra aria spezza il velluto suadente di musiche nostalgiche per affondare la sua combustione nell’anima. Alternanze post rock lasciano la scena a chitarre infuocate. Buoni propositi si ribellano al rock estremo. Mi lascia tra la riflessione e la rabbia questa prima traccia, “Unwelcome”, opening track dell'opera ottava, 'Blind', dei russi Break My Fucking Sky. A seguire “Medusas are Like a Ghost”: il fantasma del passato presente e futuro qui ed ora, si manifesta in un gemito incauto. Le sonorità abbassano le difese, ipnotizzano con i loro guizzi di tremolo picking, accarezzano, involvono. Sarà una lunga notte. “The Letters We’ll Never Send”. E ci si trova in una stanza con la luce fioca. Un mantice di speranza appena percepibile e la musica, affidata ai tocchi di pianoforte (coadiuvati poi da una ritmica tiepida), diviene sospiro ed il sospiro una parola non detta. “Agnosia”. Ci riprendiamo un sound ritmato, elettrico. Una sorta di intercalare rispetto allo stile dell’album. Piacevole. Subito dopo l’ossigeno, respiriamo anidride carbonica. “Before We Meet in the Dark”. La song è puro rock d'atmosfera, nessuna traccia di stile, eppure quest'esercizio incorpora bene le sensazioni di una serata che avremmo voluto fosse una di quell'esperienze indimenticabili. Senza pace non può esserci la guerra. Ecco perche ora ascoltando “Doomsnight” mi alieno tra sospiri e suggestioni. Un armistizio. Temo che l’album continui senza direzione per ora. “Seven”. Stallo ed esercizi di metallo elettrico, come quello del plettro che urla sulle corde della chitarra. Veniamo a “Murphy’s law”. Aspettatevi una ripetizione in loop malinconico costante come le speranze che si lasciano fuori dalla legge di Murphy. Eppure sono ottimista perchè segue “Blind”, la lunghissima title track di oltre 13 minuti. Una casa remota, una favola antica, un racconto che odora di biblioteche dimenticate, eppure con la musica tutto torna in vita. Cosi consiglio l’ascolto di questa song sotto un planetario pensando ad un buon libro. Mentre scorre il tempo, si stringono le spalle dei ricordi. Così mi passa attraverso questa “The Drowned Lake”. Come una colonna sonora stretta alle sensazioni ed ai ricordi. Quest'album continua a viaggiare nella mente di chi conosce lo stupore. Lo ascolto così con l’attesa del prossimo brano. Siamo a “Paper Yes to Take Cover”. E non vi nascondo che questa song culli, accarezzi, scuota l'animo, tornando a parlare con i sensi a cui poco prima ha sussurrato. Eccoci all’epilogo di 'Blind'. “It was Forever. Until it Ended”: chiudiamo il nostro ascolto con un pezzo suggestivo arricchito da drammi e ricompense che solo il post-metal può dispensare quando si inizia a viaggiare nell’oscurità di suoni introspettivi. Consigliato l’ascolto a chi ha voglia di spezzare le quotidianità effimere del vivere senza sentire. (Silvia Comencini)

sabato 9 gennaio 2021

Ambassador - Care Vale

#PER CHI AMA: Alternative/Post-Grunge/Dark
Ecco una band che sul finire del 2020 ha conquistato un posto nella mia personale classifica dell'anno passato. Sto parlando degli Ambassador, compagine proveniente dalla Lousiana, che ha rilasciato sul finire dell'estate scorsa questo EP di sei pezzi intitolato 'Care Vale'. Che dire, il platter è fresco quanto mai tenebroso. Il tutto è certificato dall'opening track, "Colonial", un brano guidato da uno spettrale giro di chitarra e dalla voce di Gabe Vicknair, uno che deve essere cresciuto a pane e Fields of the Nephilim, visto che il mood oscuro degli inglesi lo riversa all'interno di un sound oltremodo delicato che tocca qua e là alternative rock, post-punk o dark metal. Il sound dei nostri tuttavia non si limita certo a questa o quell'etichetta, ma volge il proprio sguardo verso sentieri differenti, spaziando anche all'interno di post-metal, sludge, shoegaze e altre sonorità che potrebbero scomodare facili paragoni con gli ultimi Katatonia. Notevoli, è stato il mio primo pensiero. E malinconici quando la seconda "Voyager" ha cominciato a fluire nel mio stereo con i suoi raffinati orpelli chitarristici, come un soffio leggero che sposta impercettivamente i capelli davanti agli occhi. La voce di Gabe rimane il punto di forza dell'ensemble, ma anche la musicalità cristallina messa in piedi dalla band di Baton Rouge si rivela davvero formidabile con ariose aperture che potrebbero evocare un che dei Russian Circle. All'inizio menzionavo le divagazioni sludge, eccomi accontentato in "Subterfuge", con quel suo pesante riffing melmoso allegerito soltanto dal raddoppiare della seconda chitarra che, oltre a conferire un tocco di malinconia ad un brano per larghi tratti strumentale, ne stempera anche l'irruenza. Ma con l'ingresso della voce e della tribalità di un drumming che chiama in causa ancora i Katatonia, ecco che il gioiellino è servito, con quelle sue chitarre riverberate di chiara matrice post-rock. Ve lo dicevo che dentro a 'Care Vale' c'era di tutto e per tutti i gusti, quindi non esitate avanzando nell'ascolto. Verrete sorpresi dal temperamento nostalgico della title track, cosi emotivamente inquieta e cosi forte nello sconquassarci l'anima con il suo incedere delicatamente dilaniante. Con "Severant", quelle nubi che si stavano addensando nell'aria poc'anzi trovano modo di scaricare la propria rabbia attraverso un riffing dapprima pesante ma che in pochi secondi perde vivacità acquisendo un tono ancora malinconico. Ma i quattro americani sono abili nell'alternare luci e ombre, cosi come eterei passaggi acustici a fragorose scariche elettriche, ammiccando qui anche ai Deftones. La chiusura è affidata alle note di "Spasma", dove emergono infine accenni post-grunge che si vanno a sommare a una ricerca spasmodica del suono emozionale, maledetto e dannato, malinconico e irrequieto, che fanno di questo 'Care Vale' un lavoro intenso e da gustare tutto d'un fiato. (Francesco Scarci)

sabato 26 dicembre 2020

Collapse Under The Empire - Everything We Will Leave Beyond Us

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal strumentale
È un viaggio tra gli astri quello che ci regala l’ascolto di 'Everything We Will Leave Beyond Us', l’ottavo lavoro dei tedeschi Collapse Under The Empire. In questi dodici anni di intensa carriera il gruppo composto da Martin Grimm e Chris Burda ha esplorato ogni anfratto di quel post-rock strumentale dalle suggestioni spaziali portato alla ribalta dai più noti God is an Astronaut e 65daysofstatic, pertanto in questo nuovo capitolo possono permettersi di procedere col pilota automatico dipingendo una spensierata tavolozza di emozioni e paesaggi astratti.

Spensierata, ma non per questo banale o raffazzonata: il duo tedesco fa della cura maniacale delle produzioni il proprio marchio di fabbrica e anche stavolta gli otto brani che compongono l’opera brillano per il perfetto incastro tra decisi riff di chitarra, cascate di delay, sintetizzatori avvolgenti e un basso prepotente. Come da predisposizione del genere, il sentimento dominante evocato da pezzi come il singolo “Red Rain”, classico saliscendi atmosferico tra momenti di contemplazione e muri sonori, o la più vivace “Resistance” è la nostalgia, tuttavia non mancano accelerazioni di stampo post-metal quasi a voler sottolineare che è necessaria una buona dose di coraggio per muoversi nel buio dello spazio e raggiungere le esplosioni di colori sparse per il cosmo.

Parlando di coraggio è necessario muovere un appunto: in 'Everything We Will Leave Beyond Us' tutto è cristallino e ben orchestrato, ma nulla si muove al di fuori dei confini di un genere che da ormai troppo tempo si limita ad ammirare la propria immagine riflessa. Per quanto il disco riesca ad ammaliare (e non dubito farà innamorare gli appassionati del genere), terminata la musica e svanita la sua ipnotica magia poco rimane se non un potenziale accompagnamento per opere fantascientifiche e l’eco di una schiera di gruppi pressocché identici. Insomma, un buon compito senza dubbio, ma nulla più. (Shadowsofthesun)


(Finaltune Records/Moment of Collapse - 2020)

sabato 12 dicembre 2020

Sens Dep - Lush Desolation

#PER CHI AMA: Shoegaze/Ambient, Mono, Slowdive
Nato nel 2009, il progetto australiano dei Sens Dep vede la luce inizialmente come supporto sonoro verso visual media e colonne sonore per film. La band è costituita per due quinti da ex membri della band post rock Laura, valida compagine con all'attivo tour insieme a Cult of luna, Isis e Mono, oltre che numerose pubblicazioni tra album, singoli ed Ep. Andrew Yardley, Ben Yardley (ex Laura) e Caz Gannell sperimentano a lungo con la nuova creazione e servirà un periodo di ben quattro anni di incubazione, passati tra le lande selvagge della Tasmania, per renderla concreta e definirne le caratteristiche estetiche attuali. La cosa bella che si nota al primo ascolto, è che la linea continua con il passato post rock non si è spezzata ma, semplicemente, molto molto evoluta con il passare del tempo. Certo, la concezione musicale in stile soundtrack prevale sempre ed anche l'amore per rumori e interferenze ambientali gioca un ruolo fondamentale nel fluidificare sonoro delle composizioni, fino a renderle inevitabilmente, una sorta di film da ascoltare in perfetta solitudine. La struttura di 'Lush Desolation' si potrebbe spiegare come un percorso immaginario in montagna, dove si parte dalle prime quattro tracce impregnate di umore grigio e una tensione d'ambiente di grande effetto, cariche di feedback di chitarra e tappeti di synth dal sapore cosmico complici ritmi lenti o appena abbozzati, con all'interno sempre una certa malinconia che riporta spesso alla mente distese ampie e paesaggi riflessivi. Percorrendo la salita della nostra ipotetica montagna, ci si addentra nella vetta del disco che cresce enormemente con la comparsa di una voce calda ed ipnotica (in stile Chapterhouse epoca 'Whirlpool') nel brano "Nebuvital", portando la musica ad una dimensione di canzone assai intima, rarefatta, circondata costantemente da un senso profondo di desolazione. Nei tre brani successivi questo cambiamento aprirà il suono ad un approccio mesmerico ai confini della realtà, omaggiando band del calibro degli Slowdive, The Telescopes e Loop, trasportandoli in un contesto più moderno, tecnologico e siderale, con monumentali muri di chitarre distorte, infinite e liberatorie, cadute a pioggia su tappeti ritmici pulsanti e rallentati, una visione lisergica in slow motion per parlare, con i testi delle canzoni, del rapporto complesso che esiste tra uomo e natura. Compare anche un volto acustico in "Bound" ma lo shoegaze è padrone in questa casa e lascia poco spazio a ciò che non lo è. La traccia in questione nasconde una chicca al minuto 3:27, che non vi svelerò ma che si fa apprezzare parecchio, una gemma che innalza il valore di produzione dell'intero album, mostrando che la band di Melbourne ha ottime idee da estrarre dal proprio cilindro, anche per gli audiofili più esigenti e perfino per gli amanti di certa musica elettronica d'ambiente. Altra hit potenziale è "To Build a Fire" che, avvolta nella sua malinconia, invita alla strada in discesa dalla nostra montagna sonica. E la discesa non pregiudica la qualità della proposta e negli ultimi brani, prima della chiusura, si esaltano il distorto, la ritmica e l'ambiente. È tuttavia nella magia della conclusiva "Luckless Hunter" che si tocca l'apoteosi compositiva, tra shoegaze, post rock, l'infinito mondo dei Mono e riverberi degni dei più corrosivi My Bloody Valentine, passati in acido e rallentati a più non posso. Non che avessi dubbi, poiché le premesse di questo album erano già una garanzia, ma il debutto dei Sens Dep è veramente una catarsi magica, da cui sarà difficile staccarsi e lasciarla cadere in tempi brevi nel dimenticatoio. Ascolto obbligato. (Bob Stoner)

sabato 7 novembre 2020

Oghre - Grimt

#PER CHI AMA: Progressive/Sludge
Era il 2017, quando gli Oghre esordivano con 'Gana'. La band per quell'album, fu nominata ai Music Recording Awards lettoni nella categoria Rock/Metal album. A distanza di tre anni da quel cd, il quintetto originario di Riga torna con 'Grimt' e il loro concentrato di progressive sludge che tanto li caratterizza. Questo nuovo lavoro, cantato in lingua madre, consta di sette tracce che si aprono con le soffuse melodie di "Viens" e la voce assai particolare del vocalist, capace di passare da un cantato pulito assai stralunato ad un growling possente, mentre la musica si muove su coordinate a metà strada tra post metal e sludge, con un velato tocco di psichedelia. Le ritmiche sono roboanti, mai lanciate però a grandi velocità, semmai poggiano su un rifferama assai cadenzato con giri di chitarra stranianti ma avvincenti, soprattutto per ciò che concerne la seconda parte di "Trauksme", che si muove su sonorità alquanto sperimentali, fatte di chiaroscuri imprevedibili ma affascinanti. E dire che la voce nella sua versione cosi pulita ma altrettanto anormale, non è che mi faccia proprio impazzire, tuttavia devo ammettere che s'inserisce brillantemente in un contesto alquanto bizzarro. E le sorprese non si fermano qui visto che anche con la successiva "Sarkans", i nostri continuano a sorprenderci con sonorità poco scontate: un inizio assurdo affidato alla folle ugola di Oskars e ad una ritmica assai delicata, giusto per pochi secondi prima che ad affondare il colpo sia una sezione ritmica bella potente, che si muove ancora una volta su un'alternanza di tempi che trovo alla fine comunque originale. E dire che 'Grimt' non è un album cosi semplice da avvicinare proprio per una continua ricerca di sonorità fuori dal comune che partendo da una base sludge/post-metal, poi si lancia in una sperimentazione quasi avanguardista. Questa si rivela una costante un po' in tutta la release, in quanto anche nella successiva "Māli", il quintetto non rinuncia a imperversare con riffoni tosti (direi di competenza stoner al limite del doom) e al contempo, di proporre variazioni al tema varcando ulteriori confini musicali alquanto deliranti. "Vaidava Celies!", con i suoi dieci minuti, ha un incipit di violenza disturbante (e anche una coda quasi post black), ma nel suo proseguio si dimostra più vicina ad un mix tra orrorifico post rock (complici sinistri cori) e ancora chitarre post metal, per quanto sia una song quasi interamente strumentale (fatto salvo per la ripetizione da parte del vocalist del titolo del brano). Nonostante questo, il risultato è ancora una volta affascinante, merito di questi cinque pazzi furiosi. In "Slāpes" sembra di aver a che fare con un'altra band, ma risiede proprio in quest'imprevedibilità di fondo il grande interesse che nutro per questi Oghre, che potrebbe essere accostabili ad una versione deprivata di elettronica, dei lettoni Forgotten Sunrise (andateveli a cercare mi raccomando). Forse gli Oghre sono ancora un po' acerbi rispetto ai colleghi baltici, ma il mood potrebbe essere il medesimo e a confermarcelo ecco in chiusura "Rītausmas Zirgs" e le sue atmosfere ancora una volta velate che sembrano condurci dalle parti di un sound dapprima tooliano (poi direi bell'incazzato) che completa in modo efficace una proposta assai intrigante a cui vi invito a dare più di un ascolto superficiale. (Francesco Scarci)

domenica 18 ottobre 2020

Váthos - Underwater

#PER CHI AMA: Black/Death
Direttamente dalla capitale rumena, ecco arrivare i Váthos, giovane e promettente band in giro da solo tre anni, che con questo 'Underwater' raggiunge la prima tappa della carriera, ossia il debutto. Il genere proposto dai cinque di Bucharest è un black melodico che vede saltuarie accelerazioni nel post-black ma altrettante divagazioni sul versante death e post-rock. Quindi possiamo far conoscenza col quintetto di quest'oggi partendo dall'opener "Ruins of Corrosion", una song che lascia intravere le buone potenzialità della compagine rumena, ma ancora qualche lacuna sia in fase compositiva che sotto l'aspetto di personalità/originalità. La band parte subito bene con una buona linea melodica che però tende a perdersi laddove i nostri provano ad accelerare un pochino di più, mentre sembrano rendere al meglio in territori più ragionati, dove peraltro emergono le idee migliori. La prima traccia quindi scivola via in un riffing alla lunga stancante che solo nel finale vede qualche significativa variazione al tema. "The Suicide" la trovo decisamente più ispirata, con le chitarre delle tre (dico tre) asce a disegnare malinconiche melodie sulle quali si staglia la voce in screaming di Radu. L'intensità emotiva tuttavia non lascia scampo e presto s'incunea nell'anima generando un certo feedback depressive che mi colpisce davvero tanto, complice anche la voce del frontman che abbandona il suo stile urlato per dedicarsi ad un pulito più convincente. E le clean vocals tornano immediatamente anche in "Curse of Apathy", un altro buon pezzo che palesa le buone qualità del quintetto, ma non ancora cosi eccelse. Mi spiego meglio, se da un lato il tremolo picking, cosi come le parti arpeggiate di scuola post rock, generamo sempre quel feeling emotivo in grado di chiudere la bocca dello stomaco, dall'altro la potenza emozionale sembra perdersi nei momenti in cui i nostri provano a premere sull'acceleratore per mostrare il loro lato più rude, non è necessario. Ed infatti è un peccato, perchè in questo modo rendono l'ascolto di 'Underwater' molto più altalenante anche a livello di interesse. Lo stesso accade per dire con un brano come "Corrupted Mind", una sgaloppata death/thrash che non c'entra davvero granchè con quanto ascoltato sino ad ora e che francamente mi ha fatto un po' storcere la bocca. Un po' meglio con "Shape of…": classica introduzione riverberata, un po' di bordello per un paio di minuti almeno fino a quando la band ci regala ancora pregevoli attimi di atmosfera cosi come pure successivi riferimenti a post-punk e shoegaze che rendono interessante l'ascolto. Arpeggi ancora in apertura con "Hold My Breath" con tanto di ausilio di voce pulita che presto lascerà il posto alle harsh vocals del cantante, mentre le chitarre tornano implacabili a tracciare riff affilati come lame di rasoi, fondamentalmente senza aver nulla da dire. È però ancora una volta sulla componente melodica che torno a fermarmi e a sottolineare come la band dia il meglio di sè quando rallenta e offre frangenti più emotivamente interessanti. Nell'ennesima sgroppata finale invece, meglio lasciar perdere. Con "Sanctimonious Belief" ci avviamo verso il finale del cd, dove manca ancora all'appello "Flower of Death". Il primo è un discreto pezzo di black melodico dotato del classico break acustico centrale e di tremolante coda finale. La seconda traccia sembra prendere in prestito dal post rock le tipiche atmosfere oniriche, per poi proseguire con sonorità che paiono strizzare l'occhiolino agli Agalloch più primordiali. Interessante tentativo di imitazione degli originali che rimangono inevitabilmente in vetta all'Olimpo del genere, mentre i Váthos hanno ancora un bel po' di strada da percorrere per poter emergere e trovare la propria identità. (Francesco Scarci)

(Loud Rage Music - 2020)
Voto: 68

https://loudragemusic.bandcamp.com/album/vathos-underwater

lunedì 12 ottobre 2020

Automatism - Immersion

#PER CHI AMA: Psych/Prog/Kraut Rock
Da Stoccolma ecco giungere dritto nel mio stereo gli Automatism a stemperare quella colata lavica di black che ha saturato le mie orecchie cosi tanto ultimamente. Si perchè il quartetto scandinavo in questo nuovo 'Immersion' è autore di uno psych rock strumentale, uno di quelli che ti permettono di stravaccarti in poltrona, mettere delle luci soft e assaggiare un bicchiere di whiskey con giusto un cubetto di ghiaccio, mentre in sottofondo vanno le ispiratissime linee di chitarra della band svedese in un ipnotico viaggio musicale. Si parte con le melliflue melodie di "Heatstroke #2", un pezzo che si muove tra prog e kraut rock con una vena psichedelica fortemente preponderante. È il turno poi della eterea "Falcon Machine", una song sinuosa dal piglio post rock, che parte con somma delicatezza e va salendo gradualmente in intensità, affidando il driving della traccia al fraseggio di una splendida chitarra solista che sembra muoversi all'interno di una fitta coltre di nebbia. Le melodie sono davvero fantastiche e sembrano sopperire alla solita cronica mancanza di un vocalist in questo genere. Tralasciando mestamente questa mia sterile polemica senza fine, non mi rimane che focalizzare la mia attenzione sulle ritmiche lisergiche trasmesse dai quattro ottimi musicisti nordici. In "Monochrome Torpedo" i ritmi sono assai cadenzati, quasi da lounge bar, tra luci soffuse e qualche donnina che si muove eroticamente attorno ad un palo da lap dance, in un'atmosfera fumosa ma intrigante, di scuola pink floydiana, che tuttavia sulla lunga distanza, tende un pochino a stancare. Allora meglio skippare sulla successiva "New Box", traccia che nel suo saliscendi chitarristico, sembra nascondere melodie mediorientali, comunque inserite in un contesto costantemente a cavallo tra psichedelia e rock progressivo. Citavo poc'anzi delle atmosfere fumose, sarebbe stato ancor meglio affibbiarle a questa "Smoke Room", song dal ritmo ovviamente assai lento, in cui le chitarre sembrano lanciarsi in improvvisazioni e rincorrersi tra loro mentre eleganti percussioni creano un substrato dal forte sapore blues. A chiudere 'Immersion', ecco "First Train" altri sette minuti abbondanti di suoni tenui ma al contempo palpitanti, complice l'utilizzo di una effettistica che sembra evocare l'utilizzo del mellotronin una traccia da vaghi richiami jazz che completa un disco ambizioso, non di facilissima presa ma sicuramente affascinante per mille motivi. (Francesco Scarci)

domenica 27 settembre 2020

Solkyri - Mount Pleasant

#PER CHI AMA: Post Rock/Math
Quando si parla di Bird's Robe Records è inevitabile pensare immediatamente a qualche realtà australiana dedita ad una qualsiasi forma di post strumentale. Non mi sbaglio quando infilo il cd dei Solkyri nello stereo e mi ritrovo una band originaria di Sydney (ma questo l'avevo già letto nel flyer informativo) che propone appunto un post qualcosa senza avere un vocalist. Questo è quanto lascia trasparire la song in apertura di 'Mount Pleasant': "Holding Pattern" è infatti una miscela irrequieta di post e math rock, che lascia spazio a ritmiche sghembe nella prima parte e si concentra in suoni più intimisti nella seconda. "Potemkin" inizia graffiante tra ritmiche infingarde e stop'n go, in un rutilante incedere non proprio cosi armonioso e melodico come mi aspettavo. Sono alquanto ostici questi quattro ragazzi della East Coast, sebbene abbia l'impressione che loro si rendano conto di poter tirare fino ad un certo punto la propria proposta ma poi essere costretti a dover mollare, dando più spazio ad un sound melodico e pulito che qui si mantiene però criptico e nervoso. "Pendock & Progress" sembra più shoegaze oriented (solo nella prima metà però), un tema quello della malinconia, che tornerà anche nelle successive "Meet Me in the Meadow" e "Time Away". La musica dei nostri è sicuramente piacevole e chi apprezza questo genere di sonorità non dovrà certo lasciarsi scappare questo lavoro che per lo meno mostra meno prevedibilità rispetto a tanti altri dischi analoghi. Quello che lamento ovviamente io, Don Chisciotte del 2020 che lotta contro i mulini a vento, è forse che un elemento fondamentale come la voce non dovrebbe mai mancare, in quanto caratterizzante la proposta di una band, in male o in bene sia chiaro, ma a volte bisogna prendersi certi rischi. Però, che volete che vi dica, io mi infilo le cuffie, inizio ad ascoltare, ma dopo un po' mi subentra comunque una grande noia, per cui devo interrompere e pensare di riascoltare in un altro momento. Mi è capitato anche qui lo devo ammettere, sebbene i buoni pezzi non manchino. Penso alla già citata "Meet Me in the Meadow", emblema proprio shoegasiano, o ancora alla spettacolare "Summer Sun", il mio pezzo preferito: inizio tiepido quasi si trattasse di una melodia da tramonto di fine estate. Poi la traccia evolve, acquisisce dinamicità, potenza, verve forte di quei riverberi spettacolari di chitarra e pulsioni tooliane che la rendono decisamente diversa dalle altre e anche più abbordabile ed interessante. In chiusura, un altro pezzo degno di nota, "Gueules Cassées", una cavalcata roboante di poco più di sette minuti che avrebbe certamente meritato un vocalist a piazzarci quattro urlacci in mezzo per avvalorarne ulteriormente la qualità. Insomma, della serie chi si accontenta gode. (Francesco Scarci)

(Bird’s Robe Records/Dunk!records/A Thousand Arms - 2020 )
Voto: 72

https://solkyri.bandcamp.com/album/mount-pleasant

In Cauda Venenum - G.O.H.E.

#PER CHI AMA: Symph/Post Black
Incontrati già in occasione del loro omonimo debut album e nello split in compagnia di Heir e Spectrale, fanno il loro ritorno sulle scene gli In Cauda Venenum con il secondo lavoro, 'G.O.H.E.', il cui acronimo non mi è ancora dato di sapere. La nuova release del trio transalpino evolve ulteriormente, attraverso le sue due tracce, in un flusso profondo di post black dalle forti venature post rock. Questo quanto si evince dal flyer informativo della label, un po' meno dalle note iniziali della deflagrante "Malédiction", che apre il disco con i suoi 22 minuti di musica possente, tonante poi per quelle sue inequivocabili ascendenze sinfonico-orchestrali che rappresentano verosimilmente la vera novità dei nostri in questo 2020. La traccia è davvero notevole proprio per i suoi traccianti black permeati di grande melodia e poi da quelle sublimi atmosfere che ne ammorbidiscono una ritmica impastata e comunque furiosa, spezzettata qua e là da ottimi passaggi tastieristici, rallentamenti improvvisi e giri di violoncello, come quello che si registra al minuto 13.40, che ci catapulta immediatamente in una lounge room. Tutto questo sottolinea una rinnovata vena sperimentale da parte di Ictus, N.K.L.S. e Raphaël Verguin, i tre musicisti che compongono la line-up degli In Cauda Venenum. La seconda parte della song viaggia su questi binari più sperimentali (fatto salvo lo screaming onnipresente) in una sorta di sound che potrebbe essere accostabile a quello degli ucraini White Ward. La seconda traccia si affida ai quasi 22 minuti di musica di "Délivrance", un pezzo che costitutisce la naturale prosecuzione del primo brano tra ritmiche strutturate, break acustici in cui compaiono spoken words, frangenti ambient, pomposi momenti sinfonici, solenni momenti affidati agli archi (stile Ne Obliviscaris - ascoltate anche qui il fatidico tredicesimo minuto) in un turbillon emotivo davvero entusiasmante, che non concede comunque adito a pensare ad un ammorbidimento del sound dei nostri (viste le arrembanti ritmiche post-black che popolano anche questo secondo gioiello). Penso piuttosto che al solito, la Les Acteurse de l'Ombre Productions ci abbia visto giusto nel mettere a suo tempo sotto contratto questi estrosi musicisti, per cui vi invito caldamente a dargli un'occasione, non ci sarà nulla di cui pentirsi. (Francesco Scarci)

(LADLO Prod - 2020)
Voto: 82

https://www.facebook.com/incdvnnm/

venerdì 28 agosto 2020

Iiah - Terra

#PER CHI AMA: Post-Rock
Formatisi nel 2013 in quel di Adelaide, gli Iiah sono un quintetto dedito ad un fluttuante post-rock cinematico, fatto di catartici momenti ambient impreziositi da ottime linee di chitarra. Questo è almeno quello che ci dice "Eclipse", la song che segue a ruota la strumentale ed ipnotica opening track di questo 'Terra', secondo album per la band australiana."Eclipse" è un dolce affresco musicale guidato dai gentili tocchi di chitarra del duo formato da Ben Twartz e Nick Rivett (anche se in realtà pure il vocalist Tim Day si occupa di chitarra e tastiere). Il risultato che ne consegue è il classico post-rock senza particolari sussulti e che anche nella seconda traccia si conferma strumentale. E allora attendiamo di sentire la terza "Aphelion" per capire su quale modulazione si attestano le corde vocali del frontman e comprendere qualcosina in più dei nostri, che musicalmente potrebbero essere collocabili a fianco di formazioni tipo This Will Destroy You, We Lost the Sea o Sleepmakeswaves. La voce di Tim ha una buona timbrica (evocante il cantante degli Anathema) e in questo caso viene raddoppiata dalla voce soave collocata più in sottofondo, di Maggie Rutjens. Il risultato è suggestivo, quanto meno rilassante e ben si adatta con la melodia e le ritmiche sul finale più crescenti. "Sleep" prosegue il mood rilassato abbracciato dalla band che ricorda in un qualche modo le sonorità sognanti dei Sigur Rós, il problema semmai è che alla lunga rischi di divenire troppo ridondante e noioso e la tentazione a skippare al brano successivo si fa più forte che mai. E qui arriviamo a "20.9%", oltre nove minuti di musica che o mi danno una poderosa carica per risvegliarmi o mi spingono definitivamente verso le braccia di Morfeo. Fortunatamente, le chitarre in tremolo picking che esplodono quasi all'inizio del brano, mi fanno propendere per la prima soluzione, facendomi apprezzare le buone linee melodiche imbastite dai nostri, che rimangono tuttavia incellophanate in strutture un po' troppo limitate, senza mai tentare un vero e proprio azzardo musicale. Forse risiede qui il vero limite della band che per quanto sia piacevole, alla lunga stufa perchè privo di un vero e proprio guizzo vincente. Rimangono ancora da ascoltare le conclusive "Luminescence", morbida ma ancor priva di mordente, sebbene nella seconda parte si dia maggior risalto alle chitarre. In "Displacement" ricompaiono le voci in un background musicale fortemente malinconico che trova qualche spunto interessante nella seconda parte che ricorda nuovamente gli Anathema più emotivamente disperati, ma che comunque la elegge a mio brano preferito. L'ultima song è la lunghissima "Lambda", 13 minuti che si aprono con la tribalità del drumming e prosegue all'insegna di un post-rock sognante, emotivamente votato ad una straziante malinconia e che risolleva decisamente le sorti di un disco che nella prima metà stentava davvero a decollare. Sicuramente un passo indietro rispetto al disco d'esordio, ma sono certo che in futuro gli Iiah sapranno rifarsi. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2020)
Voto: 68

https://iiah.bandcamp.com/album/terra

sabato 27 giugno 2020

Seims - 3 + 3.1

#PER CHI AMA: Math/Post Rock/Avantgarde
Quello dei Seims è il tipico lavoro di casa Bird's Robe Records, un'etichetta che seguiamo ed apprezziamo da anni qui nel Pozzo dei Dannati. E cosi, un po' come tutte le band della label australiana, anche la compagine di Sydney propone un sound (semi)strumentale, all'insegna di un ibrido sperimentale tra post rock e math. Peraltro, come il titolo suggerisce, '3 + 3.1' include l'album '3' uscito nel 2017 e l'appendice successiva, '3.1' appunto, rilasciata lo scorso anno, qui ora raccolte in un'unica release. Sette pezzi quindi da ascoltare, cominciando dall'opener "Cyan", una song che inizia a fare chiarezza sul concept relativo ai colori e alla scelta ora più sensata dell'artwork di copertina. Una traccia che parte come avvolta in un nero velo che sembra lentamente in grado di dischiudere colori via via più brillanti, muovendosi da un post rock chiuso e riflessivo verso lidi western (splendide le trombe e gli archi a tal proposito) e poi sul finale, follemente più math rock oriented, con un risultato piacevole e originale, che non manca di robustezza e divagazioni electro jazz avanguardiste. Il secondo colore è "Magenta", e sfavillante quanto la sua tonalità, anche il brano sembra lanciarsi in sonorità dirompenti, che tuttavia non raggiungono la medesima qualità emozionale dell'opener, ma palesano piuttosto una difficoltà nella costruzione di un'architettura sonora altrettanto convincente. "Yellow", il giallo, è la terza tappa nel mondo dei colori dei Seims, e anche qui la proposta del quartetto capitanato da Simeon Bartholomew (supportato da una marea di ospiti) sembra trovare qualche difficoltà in termini di fluidità sonora, sebbene i nostri vaghino in stralunati ed asfissianti mondi noise, math, prog, psichedelicamente ondivaghi come il suono delle chitarre qui contenute. Il pezzo dura oltre 12 minuti e vi garantisco che non è cosi semplice da affrontare senza rischiare la follia mentale (soprattutto nella seconda parte), complice anche l'utilizzo di vocalizzi che sembrano provenire da un gruppo di amici completamente ubriachi ed un finale affidato ad un ambient etereo che stravolge completamente quanto ascoltato fino ad ora. L'unione dei primi tre colori genera il nero imperfetto che dà il nome alla quarta "Imperfect Black", ove ad evidenziarsi è la voce femminile di Louise Nutting su di una linea melodica completamente dissonante che ci conduce ad "Absolute Black", primo pezzo di '3.1' che mostra nuovamente quella verve splendente che avevo apprezzato nella traccia d'apertura e che anche qui risuona in un'ingovernabile struttura matematica davvero imprevedibile soprattutto quando imbeccata da viola, violoncello, tromba e trombone che rendono il tutto decisamente più godibile. Fiati ed archi non mancano nemmeno in "Translucence" (che dovrebbe essere la trasparenza), un pezzo che fatica un pochino a decollare ma che nella sua seconda metà mette in mostra comunque qualche ulteriore buona cosa dell'act australiano. A chiudere il disco ci pensa la roboante e melodica "Clarity", il brano probabilmente più immediato del cd e più semplice se si vuole avvicinarsi alla band. La melodia è davvero coinvolgente e funge da colonna sonora al video estratto dal disco, una sorta di mini documentario sull'esperienza della band in tour in Giappone che ci racconta qualcosina in più di questi meritevoli Seims. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2020)
Voto: 74

https://store.seims.net/album/3-31

venerdì 10 aprile 2020

3 South & Banana - S/t

#PER CHI AMA: Psych Pop
È un album di svolazzante psichedelia cristallina, leggera e pop quello della one-man-band berlinese 3 South & Banana, un lavoro dal carattere indie e da una curata rilettura di alcune sonorità dei '60s, grazie alla voce del mastermind Aurèlien Bernard a coordinare poi tutto il resto (una voce che ricorda peraltro quella dei Mercury Rev). I ritmi del disco sono soffusi, a volte esotici e le composizioni cariche di suggestioni e richiami solari con la psych a materializzarsi alla maniera di Fruit Bats e altri artisti simili accasatisi sulle rive dell'odierna e inimitabile Sub pop. L'album sfodera una certa dimensione alternativa, con affinità bossanova/new wave stile Nouvelle vague con la raffinata eleganza e l'attitudine da moderno menestrello cosmico. La sognante "KittyKatKatHappyBadSad", si colloca a metà strada tra un vecchio sound freak e il mondo incantato degli Eels di 'The Decostruction', (la canzone più bella del disco secondo me) mentre il trittico, "Intermission" (breve strumentale dal sapore cinematografico anni '60), "Avec le Coeur" e "Bâtons Mêlés" (altra bellissima canzone), tradiscono le origini francesi dell'autore, sfornando un suono ai confini con il pop, tanti suoni sintetici di vecchia scuola bubblegum music e la musica d'autore francese (penso a Marie Laforêt), senza scordare la new wave immortalata dalle ottime release uscite anni or sono, dalla Le Disque du Crepuscules, tipo Anna Domino nell'album 'East and West' del 1984, o il raffinato suono dei Durutti Column di primi anni '80 ('LC'). Il disco quindi si srotola in un'atmosfera surreale (guardatevi il bel video dai contorni naif di "55 Million Light Years Away" per farvi un'idea di quest'artista), sospesa e cosi dotata di una verve pacata e allucinata, come se il pop dalle tinte soft e il jazz, fossero immersi nell'LSD ("I Will Not Stop Loving You") forgiando cosi un suono coloratissimo, caldo ed esotico, come nella beatlesiana "Roof Top Trees". La chiusura è affidata ad una ballata cristallina ("Wings"), una song dalla cadenza ipnotica quasi in assenza di ritmo, per un finale poi dal moto ascensionale, pieno di magia, che ci permette quasi di fluttuare nell'aria. L'album è stato concepito nel ricordo della visione in technicolor che i Broadcast avevano della musica e il mito di 'The Soft Bulletin' dei The Flaming Lips nell'anima, ma qui con radici pop ben ancorate nel cuore. (Bob Stoner)