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sabato 29 febbraio 2020

Theatres des Vampires - Suicide Vampire

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic, Tristania
La seria caparbietà che ha sempre contraddistinto i Theatres des Vampires, accompagnata dalla ricerca di una crescita costante, face compiere alla formazione italiana un altro passo avanti nella direzione artistica che fu intrapresa all'epoca di 'Bloody Lunatic Asylum'. Ad un primo ascolto 'Suicide Vampire' rivelò immediatamente gli intenti perseguiti dai nostri vampiri, che decisero con questo lavoro di non discostarsi di molto dal suono del precedente album cercando invece di focalizzarsi sul miglioramento degli elementi che hanno reso la loro musica così particolare ed inconfondibile agli occhi del pubblico. Il gothic metal suonato dai Theatres des Vampires rimane in questo album quindi caratterizzato da strutture poco dissimili dalle passate composizioni, ma viene arricchito e valorizzato da partiture sinfoniche maggiormente articolate e cori polifonici più complessi ed austeri, che in questa occasione sono stati arrangiati e condotti dai membri del coro dell'Accademia di Santa Cecilia (Roma). L'album non ricerca nell'innovazione la propria "carta vincente" ma sembra voler giocare tutto sulla melodia orecchiabile e la varietà dei brani, passando da momenti pomposi, come "La Danse Macabre du Vampire" o "Tenebra Dentro", ad altri dalla vena più malinconica, come la titletrack, dove spiccano le linee di violino di Elvin Dimithri (primo violinista dell’orchestra Filarmonica di Tirana). Le tastiere di Necros rivestono ancora un ruolo di primaria importanza nella musica dei Theatres des Vampires, mentre viene relegato in secondo piano il lavoro delle chitarre, delle quali ho avvertito un po' la mancanza; forse una diversa scelta dei suoni sarebbe riuscita a dare maggior risalto alle sei corde e a rendere ancor più magniloquente e d'effetto il risultato finale dell'opera. Nel complesso 'Suicide Vampire' è un album comunque piacevole e riuscito, che mi sento di consigliare a chi apprezza la sontuosità gotica di gruppi come Tristania e The Sins of thy Beloved. (Roberto Alba)

lunedì 27 gennaio 2020

Trail of Tears - Free Fall Into Fear

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic/Symph Black, Dimmu Borgir, Tristania
"Che fine ha fatto Catherine Paulsen, ma soprattutto che ci fa Kjetil Nordhus, cantante dei Green Carnation, nei Trail of Tears", questo è ciò che pensai al tempo dell'uscita di questo 'Free Fall Into Fear', quarto album per i norvegesi. Queste anche le novità sostanziali della band che, scaricata la bella e brava cantante per le solite divergenze stilistiche, pensò bene di assoldare, per le clean vocals, il vocalist della band di Tchort e soci. La musica dei nostri ha quindi subito una notevole sterzata stilistica, prendendo le distanze da quel filone death/gothic che vedeva in Tristania e Within Temptation i maggiori esecutori, e proiettando i nsotri verso lidi leggermente più black metal. Rispetto al precedente e ottimo 'A New Dimension of Might' si può infatti notare una leggera diminuzione della melodia, causata anche dall’assenza della bellissima voce di Catherine, e un incremento della cattiveria, sorretta da un feeling maligno spesso presente ma ben bilanciato da break tastieristici ed inserti melodici. Da sempre sono un fan della band, li ho seguiti dai tempi del primo 'Disclosure in Red', quindi devo essere sincero su una cosa: al primo ascolto di questo lavoro sono rimasto spiazzato e un po’ deluso. Tuttavia ai successivi passaggi, ho potuto apprezzare il nuovo taglio dei sette norvegesi, coadiuvati peraltro dalle ottime vocals di Kjetil che entrò in pianta stabile nelle file della band. 'Free Fall Into Fear' alla fine è un album che si avvicina, se mi passate il paragone, al tanto contestato 'Spiritual Black Dimension' dei Dimmu Borgir, anche se qui la voce di Ronny Thorsen è più gutturale rispetto a quella del suo collega Shagrath, la base ritmica è potente, veloce e melodica. Ascoltandolo e riascoltandolo mi è venuto in mente anche il bellissimo e sottovalutato 'The Shepherd and the Hounds of Hell' degli ottimi Obtained Enslavement, e anche qualcosina degli Arcturus. Sì insomma, a me quest’album è piaciuto perché riesce a coniugare violenza sonora e melodia. Il voto non è più alto solo per un paio di pezzi non all’altezza. (Francesco Scarci)

(Napalm Records - 2005)
Voto: 74

https://www.facebook.com/trailoftearsofficial/

mercoledì 8 gennaio 2020

Evadne - Dethroned of Our Souls

#PER CHI AMA: Death Doom, Draconian, Officium Triste
Tra le mie prime recensioni qui sul Pozzo, c'è quella degli Evadne relativa a 'The Shortest Way', secondo album per la band spagnola. Da quel lontano 2012, l'ensemble si è riaffacciato sulla scena solo con un EP ed un altro full length, datati rispettivamente 2014 e 2017, un po' pochino mi verrebbe da dire. Le idee devono poi iniziare a scarseggiare se il quintetto di Valencia se ne esce ora con una compilation dopo soli tre album. 'Dethroned of Our Souls' è appunto il titolo della raccolta che include peraltro una cover degli Officium Triste ("Like Atlas"), un paio di featuring ed una live session. Il disco apre con "Bleak Remembrance", song contenuta sia nell'EP 'Dethroned of Light' che nel loro demo d'esordio, che vede nella nuova versione la partecipazione di J.F. Fiar, leader dei Foscor. La proposta dei nostri non è affatto male se si considera che è un death doom estremamente melodico ed atmosferico che strizza l'occhiolino proprio agli Officium Triste o ad altre realtà tipo Draconian e When Nothing Remains, soprattutto quando nella seconda song, "Awaiting", fa la comparsa la delicata voce di Natalie Koskinen, cantante dei Shape of Despair che apporta quel tocco gotico sinfonico al lavoro. In "The Wanderer" (inclusa insieme ad "Awaiting" nell'EP) i toni si fanno più cupi a livello generale, ma non mancano i momenti acustici e onirici che rendono comunque l'aria soave ed eterea. È già tempo di "Like Atlas" che ripercorre quasi fedelmente l'originale degli olandesi volanti, con quell'incedere lento e drammatico. Si arriva a "Colossal" e francamente non comprendo la scelta di mettere una live session in un contesto completamente da studio, non credo volessero farci apprezzare la loro bravura dal vivo, soprattutto perchè con "Colossal" nel formato originale, avremo avuto sia l'EP che il demo completi in questa raccolta, ma a questo punto sorge un'altra domanda, ossia che necessità c'era di mettere le due versioni di "Bleak Remembrance" (lo si capirà solamente ascoltando le due versioni che sembrano totalmente differenti)? A parte queste stravaganti scelte strategico-musicali, il disco offre uno spaccato interessante su dei lavori che in realtà risultano facilmente reperibili sul web. Chissà pertanto quale mossa, per cosi dire commerciale, si celi dietro a quest'uscita, riesumare vecchi lavori, dire al mondo che la band è ancora viva e vegeta o che altro? A parte queste domande esistenziali, lasciatevi sedurre dal death doom degli Evadne, dopo tutto, sono una di quelle band che sa ancora far emozionare, anzi qui dimostrano che erano in grado di farlo già una quindicina di anni fa quando tra tastiere, violini e female vocals, potevano quasi essere ascritti tra i pionieri del genere, chissà semmai se sono ancora in grado di farlo oggi, eccolo l'ultimo dubbio ad assalirmi. (Francesco Scarci)

mercoledì 18 dicembre 2019

Chthonic - Seediq Bale

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Symph Black, Cradle of Filth, Sad Legend
Quando si legge “Made in Taiwan”, si tende spesso a pensare a tutti gli oggetti tecnologici prodotti in quella piccola isola dell’Estremo Oriente, ma non solo. Io la ricordo pure come la patria dei Chthonic, band in giro dal 1995 e per cui vale la pena parlarvi di 'Seediq Bale', album numero quattro. I nostri propongono un black sinfonico selvaggio e assai melodico, che gode di un’ottima produzione, in grado di accrescere notevolmente la qualità delle orchestrazioni inserite. Quando uscì il disco, sinceramente non li conoscevo, e ricordo di essere rimasto favorevolmente impressionato dalla dinamicità del combo asiatico. La fonte d’ispirazione dei Chthonic di quegli anni era chiaramente il black vampiresco dei Cradle of Filth, ma devo ammettere che l’act orientale si dimostrava già abile nel creare soluzioni alternative alla band di Dani Filth e soci, con l’impiego di strumenti tradizionali asiatici, ad esempio l’er-hu, una sorta di violino a due corde, capace di donare un’aura funerea al proprio sound. La produzione bombastica conferisce poi, una certa potenza alla musica dei nostri; in alcuni frangenti il richiamo alle tradizioni del proprio paese è cosi forte, che le sonorità si avvicinano ad un mix tra i coreani Sad Legend e i giapponesi Tyrant. In alcuni brani si respirano atmosfere gotiche, in altri si captano quelle tipiche melodie orientali (ascoltate attentamente “Bloody Gaia Fulfilled”) sentite spesso nei film cinesi. Il cd è una cascata di emozioni, note selvagge che non lasciano scampo all’ascoltatore nel rifiatare un attimo, una scarica adrenalinica che ci accompagna lungo le nove tracce contenute. I chitarristi elaborano intricate linee di chitarra, mentre il vocalist Freddy, segue le orme di Dani, tra screaming e growling vocals. Da segnalare l’ottima performance operistica della singer femminile, Doris. A livello lirico 'Seediq Bale' narra la tragica storia di Manarudao che ha portato il suo popolo alla guerra d’indipendenza contro Cina e Giappone, un inno alla libertà che i nostri hanno raggiunto, dopo il distacco del loro paese, dalla legge marziale cinese. Nel cd sono inoltre contenuti diversi video, sia in studio che live. Grande band, che ho supportato da quel giorno in avanti lungo tutti i loro album, anche quelli più controversi, per cui mi sento di consigliare il cd a tutti gli amanti di sonorità sinfoniche siano esse estreme oppure no. (Francesco Scarci)

(Down Port Music - 2006)
Voto: 77

https://chthonic.tw/

sabato 12 ottobre 2019

Solitude in Apathy - S/t

#PER CHI AMA: Dark/New Wave/Gothic
I Solitude in Apathy sono un trio campano formatosi nel 2016 e guidato dalla calda voce di Santina Vasaturo, la cui avvenenza vocale funge da vero driver di questo lavoro omonimo. Si tratta di un EP di quattro pezzi aperti da "Dreaming in Silence", ove a mettersi in mostra, oltre ai tratti vocali della front woman, ci sono pure le partiture post punk/new wave del combo napoletano. Il sound è fumoso e ci porta indietro nel tempo di quasi trent'anni, con quegli ammiccamenti alla scena dark di fine anni '80, affidati al basso tortuoso della stessa Santina ed in generale ad un suono che proprio limpidissimo non è. Ma dopo tutto, sembra non essere nemmeno un difetto nell'economia generale di questi 22 minuti di musica targata Solitude in Apathy. Soprattutto perchè, con la seconda "Nothing Lasts Forever", i nostri virano verso uno shoegaze più meditativo e fortemente malinconico, la classica song atta ad aprire la stagione autunnale, con l'appassire delle foglie, le umide giornate novembrine, i vetri delle finestre bagnati dalla condensa e quei cieli dipinti di un grigio privo di sfumature. È un sound delicato, non certo ricercato, ma che gode di influenze che ci portano anche della sfera del gothic e dell'alternative. "The Other" è la terza traccia, peraltro anche singolo apripista dei nostri: la voce eterea della vocalist poggia suadente in apertura sul suo basso, ricordando le cose più solenni e tranquille di Myrkur (in formato new wave), cosi come un che dei primi vagiti di Kari Rueslåtten, alla guida dei primi The 3rd and the Mortal. Niente di originale sia chiaro, tuttavia non posso negare il fatto che il brano sia comunque piacevole da ascoltare, anche se francamente avrei osato qualcosina in più. L'ultima song è "Ocean", l'ultimo onirico canto della sirena Santina, in una sorta di ninna nanna che avrei utilizzato come chiusura di un full length piuttosto che di un EP. Avrei gradito infatti più ciccia ecco, i due minuti di flebile chitarra sul finale sono un po' pochini per farmi gridare al miracolo. Pertanto, sappiate che attenderò il trio italico al varco di un album più lungo e strutturato prima di dare giudizi conclusivi. Per ora benino, ma si sa, io pretendo il molto bene. (Francesco Scarci)

(Vipchoyo Sound Factory - 2019)
Voto: 66

https://solitudeinapathy.bandcamp.com/releases

martedì 8 ottobre 2019

Uivo Bastardo - Clepsydra

#PER CHI AMA: Death Melodico/Industrial, Supuration
Uivo Bastardo è un progetto parallelo creato da ex membri dei Kronos, Helder Raposo e André Louro, rispettivamente tastiere e voce, il chitarrista João Tiago, e dal produttore, qui anche in veste di batterista stabile in formazione, David Jerónimo (Concealment). Uscito per Ethereal Sound Works nella primavera di quest'anno, 'Clepsydra' è un buon concentrato di metal pesante dalle forti influenze industriali, forzate in ottima maniera da un uso delle tastiere mirato e ricercato, così influente nel sound che arriva a caratterizzarlo positivamente, costruendo insieme al resto della band, composizioni ben strutturate e potenti. Le parti vocali sono molto spinte, quasi sempre urlate e sparate in faccia violentemente, l'impatto è duro e ricorda certe parti gotiche dei Paradise Lost della prima era anche se le ritmiche più squadrate e gli inserti melodici, futuristici, a volte sinfonici, donano ai brani quel tocco tecnologico, claustrofobico, fantascientifico e progressivo che attrae molto l'ascoltatore. Si fatica un po' ad apprezzare la lingua madre del cantato usata dalla band di Lisbona ma dopo alcuni ascolti ci si accorge che le canzoni suonano perfette anche così, ben prodotte, suonate bene, con una buona dose di originalità e mostrano un buon equilibrio tra gothic/industrial e melodic death metal, trovando il suo culmine nella pesante dichiarazione d'intenti di "Tormentòrio", in "Refùgio", brano teso e claustrofobico (il mio preferito) e in "Fuga Mundi", song dai toni bui e drammatici. Le canzoni si ascoltano bene e la durata del disco, che supera di poco la mezz'ora, sottolinea l'intensità e l'urgenza espressiva di un'opera che trae ispirazione dai padri del thrash metal anni '90 e da quelle atmosfere progressive, ricercate e cervellotiche in stile 'The Cube' dei mitici Supuration. Un disco che convince, mai banale e senza cadute, né di stile tanto meno di intensità, il tempo di abituarsi al canto in portoghese e tutto suona poi al punto giusto, belle parti veloci, mai troppo caotiche. Infatti, una delle caratteristiche della band è proprio la capacità di restare aggressivi, pesanti, melodici e tesi costantemente per tutto lo scorrere dell'album, dimostrando di avere trovato la chiave per un suono singolare ed in continua evoluzione. In sostanza un ottimo primo album, una band che ha carattere e la voglia di rinvigorire un tipo di metal abusato, anche in senso commerciale, da tante band prive di idee e talento. Ascolto consigliato! (Bob Stoner)

(Ethereal Sound Works - 2019)
Voto: 74

https://uivobastardo.bandcamp.com/

lunedì 23 settembre 2019

Wires & Lights - A Chasm Here And Now

#PER CHI AMA: Post-Punk/Darkwave, Joy Division, Bauhaus, The Cure
La teatralità e l’inganno sono strumenti potenti” è una frase ricorrente nella trilogia del Cavaliere Oscuro, con la quale il regista Nolan sottolinea come il nostro Batman, tanto privo di superpoteri quanto ricco di ingegno e furbizia, riesca ad avere la meglio su avversari più forti e numerosi grazie ad astuti trucchi.

In campo musicale non ci sono ovviamente vite innocenti in gioco, tuttavia al giorno d’oggi è in atto una sorta di lotta per la sopravvivenza in scene ormai saturate da mille proposte ed è quindi naturale che molte band scelgono di utilizzare alcuni “trucchi” per emergere, come puntare stilisticamente sull’usato sicuro e ammantarsi di un’estetica ben riconoscibile, in modo da stuzzicare l’attenzione di uno specifico target di pubblico.

Gli Wires & Lights con il loro atteso album 'A Chasm Here And Now' non si stanno certo facendo beffe di noi, anzi: ci troviamo di fronte ad un solidissimo album post-punk pensato e (ben) costruito per soddisfare le preferenze degli amanti di Joy Division, Sisters Of Mercy e The Cure, rimaneggiando i capisaldi del genere attraverso un sound più moderno.

L’intenzione della nuova creatura del cantante-chitarrista Justin Stephens (già noto nell’ambiente grazie al precedente progetto Passion Play) è evidente fin dalla prima traccia “Drive”, un dirompente singolo trascinato dalle dinamiche di batteria e dai giri avvolgenti del basso, dove le atmosfere sognanti della chitarra lasciano spazio ad esplosioni di rumore che si spingono fin quasi allo shoegaze.

Il tema portante di questo disco è per lo più la lotta contro i demoni interiori della depressione, ben rappresentata dalle atmosfere decadenti e tormentate che gli Wires & Lights ricamano attraverso le varie sfumature di post-punk, gothic rock e dark wave. Tuttavia, la band sembra voler descrivere uno scontro in cui il male è infine destinato ad essere sconfitto: ecco perché nello sviluppo di brani come “Swimming” e “Cuts”, traspare sempre una chiara determinazione ad uscire da queste paludi mentali e non mancano raggi di luce pronti a squarciare le ombre.

I dieci pezzi dell’album, quasi tutti della durata compresa tra i quattro e i cinque minuti, si susseguono piacevolmente riuscendo a mantenere vivo l’interesse dell’ascoltatore, tra raffinati richiami al passato e l’inserimento discreto di elementi moderni e più catchy. Menzione speciale per la struggente “Anymore”, l’evocativa ed etera traccia dark-wave “24h” e la seducente “Sleepers”, riuscitissime canzoni che si elevano su un insieme comunque di buonissimo livello.

Cosa manca dunque? Forse un po’ di temerarietà nell’andare oltre confini ben definiti: i nostri amici berlinesi mostrano di essere a proprio agio nell’affrontare i bassifondi del post-punk, sfoderando tutto il campionario di riferimenti e cliché del genere, ma evitando abilmente di apparire troppo stereotipati. Il costume di nuovi alfieri di questa scena pertanto calza a pennello agli Wires & Lights e bisogna ammettere che di 'A Chasm Here And Now' non è difficile innamorarsi, ma va anche detto che potrebbe essere altrettanto facile dimenticarsene. (Shadowsofthesun)

sabato 31 agosto 2019

The Vision Bleak - The Deathship Has a New Captain

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic/Doom
Accantonate le attività che lo vedevano coinvolto nel progetto di musica folk Empyrium, Theodor Schwadorf fece ritorno alle proprie origini musicali riscoprendo, in compagnia di Mr. Konstanz, la vecchia passione per il metal, fondando i The Vision Bleak. Dispiace dover parlar male di un musicista che nell'ambito folk seppe difendersi egregiamente e dispiace pure constatare l'imbarazzante pochezza d'idee che investì l'artista tedesco in questo album, ma 'The Deathship has a New Captain' si presentava come un lavoro decisamente troppo deludente per poterlo accogliere in maniera più benevola. Non fatevi trarre in inganno dal poderoso lavoro di produzione perché non è uno specchio sincero di ciò che l'album ha da offrire e anche se i primi due brani "A Shadow Arose" e "The Night of the Living Dead" vi sembreranno promettere qualcosa di buono, fate molta attenzione a non farvi incantare, l'ascolto delle tracce successive potrebbe rivelarsi una brutta sorpresa. Intendiamoci, il suono delle chitarre dei The Vision Bleak è ottimo e persino la preparazione tecnica dei due strumentisti è una qualità che sarebbe ingiusto non sottolineare, ma sono le composizioni a non concedere alcuna emozione e ad apparire senz'anima, nonostante il sontuoso contorno nel quale si trovano inserite. Rocciosi riff di chitarra, un vocione alla Sisters of Mercy, grandeur sinfonica con tanto di tenore e mezzo soprano a sostenere i momenti più pomposi: tanta carne al fuoco che, tolte forse le valide "Metropolis" e "The Lone Night Rider", si risolve in una collezione di song terribilmente aride e monotone. Curiosa la partecipazione del doppiatore tedesco di Saruman (da 'Il Signore degli Anelli') per le parti recitate e intrigante anche l'immaginario horror a cui il gruppo si ispira, ma se di sonorità orrorifiche vogliamo parlare, allora preferisco in ogni caso rivolgermi altrove, ascoltando qualcosa dei Notre Dame o rispolverando qualche vecchio album dei Mercyful Fate. Per quanto mi riguarda, un album assolutamente trascurabile. (Roberto Alba)

venerdì 9 agosto 2019

Trail of Tears - Existentia

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic/Symphonic, Tristania
Era il 2007 quando a distanza di due anni dal sorprendente 'Free Fall into Fear', i Trail of Tears, con il solo membro fondatore, Ronny Thorsen, tornavano sul mercato con la registrazione di 'Existentia'. Il sound della band norvegese non sembrava discostarsi più di tanto dai precedenti lavori, mantenendo quel feeling oscuro di fondo, costituito da riffoni di chitarra di chiara estrazione black sinfonica e da maestose tastiere di ispirazione Therion. Il dualismo tra le growling vocals di Ronny e le sempre brillanti e melodiche clean vocals di Kjetil (singer dei Green Carnation), completavano il quadro, contribuendo a fare da collante tra queste caratteristiche. Una dolce voce femminile, quella di Emmanuelle Zoldan, dava poi il suo contributo aggiuntivo, per un esito finale dell’album davvero convincente. 'Existentia', cosi come il suo predecessore, andava ascoltato e riascoltato per essere apprezzato fino in fondo; non fu un album così diretto, semplice da percepire, perchè parecchie erano le sfumature che si palesavano nella musica del combo scandinavo: si ritrovano infatti certe influenze provenienti da una corrente avantgarde che approdano come essenziale novità nel sound dei nostri. Echi riconducibili ai The Provenance, o ancora, ai Green Carnation, erano udibili nei solchi di questo notevole 'Existentia', un capitolo che ha preceduto una vera e propria rivoluzione in seno alla band. Si trovano peraltro anche reminiscenze power ed una bella dose di death goticheggiante che confluivano nel sound compatto dei nostri. Dal punto di vista strumentale poi, la band si presentava come sempre ineccepibile: ottima la prova dei singoli, anche se devo sottolineare la performance del tastierista, davvero bravo, cosi come l’inimitabile ugola di Kjetil, vero e proprio strumento musicale dall’enorme talento. Una produzione bombastica chiudeva un disco e forse un’era in casa Trail of Tears, visti gli scarsi successi ottenuti con i successivi due album che hanno condotto la band allo scioglimento nel 2013. Un peccato. (Francesco Scarci)

(Napalm Records - 2007)
Voto: 76

https://www.facebook.com/trailoftearsofficial/

sabato 27 luglio 2019

Halls of Oblivion - Endtime Poetry

#PER CHI AMA: Melo Death/Black
Formatisi addirittura nel 2007, i teutonici Halls of Oblivion si sono presi tutto il tempo necessario per arrivare al debutto sulla lunga distanza e se non è record questo poco ci manca, giusto perchè nel 2015, il quartetto di Stoccarda aveva fatto uscire un EP di sei pezzi. La proposta dei quattro tedesconi racchiude in questo 'Endtime Poetry', nove brani apparentemente devoti ad un guizzante melo death che si lascia ben ascoltare per la sua forte vena creativa. Lo si capisce nel brillante prologo di "Vanishing Woods", un pezzo che mette ben in evidenza tutte le peculiarità dell'act germanico in termini di gusto melodico, cambi di tempo, esplosività, preparazione tecnica e quant'altro, a delineare una prova già di per sè matura e che diventerà via via più convincente nel corso dell'ascolto del disco, dove molteplici altre influenze emergeranno infatti dai solchi di 'Endtime Poetry'. Parlavamo inizialmente di un death melodico, ma in realtà ascoltando "Under the Weeping Willow", potrei accostare la proposta degli Halls of Oblivion all'epicità dei Windir, in un'essenza peraltro davvero ispirata lungo i quasi nove minuti del brano, che mi farà gridare al miracolo più volte. La lunga chiusura semi-acustica del pezzo testimonia poi quanto stia scrivendo sulle capacità intrinseche della band. Nel frattempo mi avvio all'ascolto di "Last Glance Of The Sun". Questo è un brano ricco di groove, carico di melodie che si muove lungo un mid-tempo sognante e rilassato che vede qualche impennata chitarristica e poco altro ma che si lascia ben ascoltare, forte appunto di melodie orecchiabili, clean vocals, ottimi assoli e momenti atmosferici, vicini al gothic dei primi Crematory. "The Servant" prosegue lungo questo binario, premendo poco di più sull'acceleratore, ma preservando le caratteristiche melo-dinamiche della band germanica, dando grande spazio alla componente percussiva e dove a tener banco, rimane la chitarra solista e il growling aspro, visti i continui sconfinamenti nello screaming, del frontman. A me gli Halls of Oblivion francamente piacciono, avendomi catturato con le melodie delle loro chitarre, quell'alternanza frenetica tra pezzi che ammiccano al black metal con altri ben più ragionati e ruffiani, per quanto questa parola abbia qui una valenza totalmente diversa dal suo reale significato, ma con la quale voglio giustificare le melodie più soffuse di un brano come "A Poem of the End", un pezzo vario, più compassato ma davvero azzeccato. Cosi come l'intro patinato, tra acustica ed elettrica, di "Walking Dead" che sembra quasi presa in prestito dagli Amorphis, e che vede il vocalist nuovamente in versione pulita a fare da contraltare al suo più arcigno modo di cantare, in un brano che sembra risentire ancora una volta di quel gothic sound che rese grandi band come i già citati Crematory, Darkseed e in qualche modo gli Atrocity, e che richiama al "Sehnsucht" dello spirito romantico tedesco e a quello stato d'animo legato allo struggimento interiore. Ecco quello che sento (a tratti) nelle note di 'Endtime Poetry' (e penso anche a qualcosa di "A World Falling Apart"), questo perchè poi di sovente, la band cambia registro e ci lancia in pezzi più tirati (ad esempio nelle incendiarie "The Final Regret" e "The Hypocrite", che strizzano l'occhiolino maggiormente al sound svedese dei primi In Flames), uno status nel quale i nostri sembrano trovarsi molto a proprio agio, ma che a mio avviso li spersonalizza un pochino. Per il momento 'Endtime Poetry' a me sembra un ottimo biglietto da visita ove l'invito dell'ascolto deve essere un must per molti. (Francesco Scarci)

lunedì 4 marzo 2019

Quiete - Eos

#PER CHI AMA: Death/Black, Novembre
Il progetto Quiete vede nelle menti di Nicola Trentin (che abbiamo già recensito nei Crafter of Gods) e Matteo Penzo (Descent from the Damned e Famen) i principali fautori. L'esordio 'Eos' riporta immediatamente alla mitologia greca e alla dea figlia dei Titani Iperione e Tia, condannata da Afrodite, per la sua mala condotta, ad innamorarsi di continuo di comuni mortali; da uno di questi ebbe un figlio che fu ucciso da Achille, nella Guerra di Troia. Le lacrime di Eos per quella perdita, generano la rugiada ogni mattina. Fatta questa dovuta introduzione, addentriamoci nella musica del duo di Treviso per capire la potenziale connessione tra la musica dei nostri e la mitologia greca. L'EP contiene tre pezzi, che esordiscono con "Samsara" (chiaro riferimento alla dottrina orientale inerente al ciclo della morte). La song apre in modo suggestivo risvegliando in me le immagini del film omonimo. È una sorta di intro a cui fa seguito il devastante ma estremamente melodico approccio della band, che ricama successivamente melodie dal sapore orientale su cui s'insinua il sussurato in italiano del vocalist. Il tribalismo etnico della proposta viene spezzata però da una feroce ritmica e da un growling possente, che va ripetendosi nel corso del brano, su cui aleggia un mood malinconico che sembra connettersi virtualmente alla tristezza della divinità greca menzionata poc'anzi. Con "Aurora", al di là di un pesante tappeto ritmico, è interessante sottolineare la presenza di tocchi di pianoforte che insieme ad una splendida melodia di chitarra, guidano il brano che ammicca, almeno nelle parti più atmosferiche e di cantato pulito, ai Novembre, mentre nelle porzioni ritmiche più selvagge, i riferimenti nel death melodico potrebbero essere molteplici. Alla fine però il risultato finale si rivela assai gradevole e non posso che concedere un plauso alla proposta dei due musicisti veneti, non fosse altro poi per la scelta di mettere i tre pezzi di 'Eos' in un elegante digipack. Nel frattempo arriviamo alla conclusiva "Ephemeral", una song che vuole probabilmente parlare con toni filosofici, della natura effimera dell'uomo o chissà, affidando il tutto alla voce femminile di Federica Bottega che fa da contraltare al growling malefico di Nicola in un esperimento quasi riuscito, dico quasi perchè il dualismo female e growling vocals ovviamente non è affatto nuovo, e poi perchè la tonalità vocale della brava Federica, a mio avviso, poco ha a che fare con la proposta dei nostri che si confermano più efficaci nelle porzioni più devastanti dell'album. Insomma, le premesse per fare bene in futuro sono davvero buone, c'è ancora da lavorare per integrare al meglio nuove collaborazioni con voci femminili o per calibrare al meglio la proposta dell'act trevigiano. Nel frattempo godiamoci la musica contenuta in 'Eos'. (Francesco Scarci)

sabato 9 febbraio 2019

Lunae Ortus - White-Night-Wropt

#PER CHI AMA: Symph Black, Carach Angren, Cradle of Filth
Sembra che il black sinfonico stia tornando in auge come un tempo, interessante però vedere come la nuova ondata di band non provenga da quella che una volta era considerata la Mecca della musica estrema, ossia la Scandinavia, ma la new wave è ora principalmente di estrazione mittle-europea o di origine russo/ucraino. I Lunae Ortus arrivano appunto dalla Russia e, pur essendosi formati nel 2005, approdano solo nel 2018 con il loro album di debutto, il qui presente 'White-Night-Wropt', proponendo un black sinfonico come i grandi del passato hanno saputo fare, e penso a Dimmu Borgir e Cradle of Filth. Nove i pezzi a disposizione del terzetto di San Pietroburgo, che vede tra le proprie fila membri, ex e turnisti di Grailight, Skylord e Arcanorum Astrum. Infilandosi sulla scia dei nostrani Fleshgod Apocalypse, sebbene quest'ultimi più inclini ad una vena death sinfonica, meglio ancora degli olandesi Carach Angren, i Lunae Ortus hanno modo di offrire la loro personale visione del metallo sinfonico, affrontando in questo lavoro, l'assedio di Leningrado durante la Seconda Guerra Mondiale che durò 2 anni e 5 mesi e rappresentò una delle più cocenti sconfitte nella guerra lampo di Adolf Hitler. A corredo di questo tema arriva il sound dei nostri, ribattezzato per l'occasione "Imperial Symphonic Black Metal", termine che ci sta alla grande per delineare la struttura imponente di cui è intriso il sound della band, caratterizzato da un'importante matrice sinfonica sorretta da splendide tastiere. E cosi nascono le song di questo disco, l'opener "The Woesome Famine", ove tra ritmiche mid-tempo e tenui screaming vocals, trovano spazio le maestose orchestrazioni di Sergey Bakhvalov. Le atmosfere orrorifiche di "Poltavian Battle" ricordano per certi versi le cose più gotiche di Dani Filth e compagni, con quelle notevoli galoppate che evocano fantasmi lontani e che scomodano altri paragoni con i nostrani Theatres des Vampires per feeling evocato, anche se i più importanti punti di contatto ci dicono che i tre russi devono aver amato alla follia 'Enthrone Darkness Triumphant" dei Dimmu Borgir, chi del resto non l'ha fatto? E allora meglio lasciarsi assorbire dalle funamboliche ritmiche di "Bronze Horseman", sempre cariche di melodie e di frequenti cambi di tempo. Più ritmata invece "Toward the Dawn", con quelle orchestrazioni cosi sature da richiamare un altro disco dei Dimmu Borgir, 'Puritanical Euphoric Misanthropia'; qui semmai da sottolineare è la presenza della più classica delle cantanti liriche, per un pezzo che sembra ammiccare anche a Therion e Arcturus, soprattutto per il lavoro al piano. Non sono certo degli sprovveduti i Lunae Ortis, ma questo era chiaro vista la lunga militanza nell'underground, comunque resta apprezzabile il lavoro dal mood electro-cibernetico di "Unquiet Souls Under Water", quasi a voler offrire variazioni ad un tema che rischierebbe di divenire troppo scontato. La song scivola via tra portentose accelerazioni di scuola Children of Bodom e melodie ruffiane, non un male. La cosa prosegue sulla falsariga anche nelle successive song (da sottolineare però la presenza di clean vocals in "New World of Light"), fino all'ottava, "Charlatan's Dance", ove accanto al classico sound dei nostri, va in scena un inusuale fuori programma dalle tinte humppa-folk (di scuola Finntroll). A chiudere il disco in modo egregio, arriva anche "Forests of Rebirth", forse la mia traccia preferita, quella che sicuramente è più vicina al metal classico e sembra essersi scrollata del tutto l'approccio, talvolta fin troppo pomposo, del symph black dei Lunae Ortus. In definitiva, 'White-Night-Wropt' è un album più che discreto, che se fosse uscito vent'anni fa, avrebbe sicuramente riscosso il successo che oggi faticherà maggiormente ad ottenere. (Francesco Scarci)

(Soundage Productions - 2018)
Voto: 75

https://lunaeortus.bandcamp.com/album/white-night-wropt

venerdì 1 febbraio 2019

Rome In Monochrome - Away From Light

#PER CHI AMA: Gothic/Doom, Klimt 1918
A quasi un anno dalla sua uscita, ma per incolpevole ritardo, ecco giungerci fra le mani l'album di debutto dei nostrani Rome in Monochrome, 'Away From Light', rilasciato dalla potentissima label russa Solitude Productions nella sua sub-label BadMoonMan Music. La proposta del quartetto italico, ripercorrendo le orme di gente del calibro di Novembre e Klimt 1918, tanto per fare due nomi a caso, ma rifacendosi anche al loro stesso moniker, si muove nell'ambito di un doom malinconico in bianco e nero che chiama in causa anche un che dei Katatonia più alternativi. Certo, ho citato nomi importanti quindi le aspettative potrebbero essere elevate, vorrei però sottolineare che siamo ancora parecchio distanti dai maestri del genere, anche se i Rome in Monochrome potrebbero rappresentare una discreta alternativa agli originali. Otto le tracce a disposizione della compagine italiana per convincerci della bontà della loro proposta, che parte dalle soffuse atmosfere di "Ghosts Of Us", song dal flavour dark rock che solo nel finale rende più aspro il proprio sound per il solo fatto che un growl sostituisce un cantato pulito a dire il vero un po' titubante. "A Solitary King" ha un piglio più dinamico, sebbene le clean vocals del frontman non abbiano grossa presa sul sottoscritto, considerando poi una musicalità che si mantiene costante nel proprio lento fluire e che vede solo rare intemperanze alterare quell'incedere quasi etereo, che finalmente nella seconda parte del brano, ha modo di crescere ritmicamente e divenire più robusto e convincente. Convincente quanto "Paranoia Pitch Black", una song che poteva stare tranquillamente nell'esordio dei Klimt 1918, o in un disco come 'Arte Novecento' dei Novembre (ah peraltro in questa song, il cantato in scream è ad appannaggio del buon Carmelo Orlando, frontman dei Novembre stessi). La proposta della band laziale è interessante, ma c'è ancora qualcosa che non mi convince, sembra quasi che le manchi quel quid che le permetta di decollare. È il caso di "Uterus Atlantis", un brano semi-acustico, che potrebbe evocare un che degli Antimatter, però anche in questo caso, la band inglese la vedo ancora troppo superiore ai nostri. Il disco alla fine non ha troppi sussulti: forse la mia song favorita sarà "December Remembrances" che, se non è la traccia più aggressiva del lotto (e quell'aggressività la metterei fra virgolette), sicuramente risulterà tra le più lunghe, con i suoi abbondanti nove minuti di sonorità emotivamente rassegnate. Ancora qualche pezzo claudicante, per arrivare a concludere con "Only the Cold", dove il doom dell'act capitolino sprofonda nelle tenebre di una proposta che rivela una maturità artistica ancora non del tutto formata. Sicuramente ci sono buone idee, ma quello su cui lavorerei maggiormente io, è eliminare quella statiticità che permea ogni singolo brano, per questo poco caratterizzato ed elettrizzante. Per ora 'Away From Light' è solo un discreto esordio sulla lunga distanza, direi che c'è ancora da lavorare parecchio per ottenere ottimi risultati. (Francesco Scarci)

giovedì 10 gennaio 2019

Madness of Sorrow - Confessions From the Graveyard

#PER CHI AMA: Dark/Gothic/Horror, Type O Negative
Quinto disco in sette anni per i toscani, ormai trapiantati in Piemonte, Madness of Sorrow, una compagine che fino ad oggi non conoscevo minimamente. Complice un sound che sembra non confacersi ai miei gusti, mi sono avvicinato con una certa titubanza a questa band, che considera la propria proposta sonora all'insegna di un gothic/horror. Per tale motivo, ho vinto le mie paure e ho deciso di avvicinare i nostri, in quanto ho trovato affascinante quanto il terzetto volesse esprimere. E cosi, ecco concedermi il mio primo ascolto di 'Confessions from the Graveyard', un lavoro che si apre con le spettrali melodie di "The Exiled Man", una song che miscela il doom con l'heavy metal, in un lento vagabondare tra riffoni di sabbatiana memoria, sporchi vocalizzi puliti (concedetemi l'ossimoro, ve ne prego) e ottime keyboards, responsabili proprio nel creare quelle flebili e orrorifiche ambientazioni che sanno tanto di castello infestato. Il taglio di questa prima traccia è molto classico, mentre la seconda "The Art of Suffering" ha un piglio più arrembante e moderno. Ciò che fatico a digerire è però il cantato del frontman, Muriel Saracino, forse troppo litanico in alcune parti e poco espressivo in altre, ma considerato il nutrito seguito della band, credo sia semplicemente una questione di abitudine alla sua timbrica vocale. Più dritta e secca la ritmica di "Sanity", che tuttavia evidenzia qualche lacuna a livello di produzione nel suono della batteria, non troppo curata, a dire il vero, in tutto il disco. La song sembra risentire di qualche influenza dark/punk che le donano positivamente una certa verve old-school. Più rock'n'roll invece "Reality Scares", che mostra una certa ecletticità dell'act italico, ma che al tempo stesso potrebbe indurre qualcuno (il cui presente ad esempio) a storcere il naso per un'eccessiva diversità con le precedenti tracce; io francamente non l'ho amata troppo. La situazione si risolleva con la gotica "The Path": voci bisbigliate, atmosfere rarefatte, influenza di scuola Type O Negative, in quella che a parer mio, è la miglior traccia del cd. Ritmiche più tirate (ed ecco ancora la scarsa fluidità musicale) per "The Garden of Puppets", un brano che gode di un discreto break centrale, mentre apprezzabile è il chorus di "No Regrets", una traccia che ammicca al Nu Metal e che, anche in questo caso, non trova troppo il mio gradimento. E che diavolo, "No Words Until Midnight" stravolge ancora tutto, e ora sembra di aver a che fare con una band black/death per la veemenza delle ritmiche, non fosse altro che i vocalizzi del frontman ripristinano le cose, essendo il marchio di fabbrica dei Madness of Sorrow. E si continua a picchiare senza soluzione di continuità anche in "The Consciousness of Pain", almeno fino a quando Muriel Saracino non entra con la sua voce: in quei frangenti infatti, l'efferatezza delle chitarre perde di potenza per lasciar posto ad un mid-tempo più controllato. In questa song, appare anche un riffone di "panteriana" memoria, da applausi, mentre un ottimo e tagliente assolo sigilla il pezzo. A chiudere il disco, arriva "Creepy" con i Madness of Sorrow in formato 3.0, a stupirci con un pezzo dal forte sapore dark wave ottantiano, con la classica tonalità ribassata delle chitarre ed un'apprezzabile voce sussurrata (buona pure in versione urlata) che ci consegnano una band che fa dell'eterogeneità il suo punto di forza, ma a mio avviso anche di debolezza. La band, di sicuro rodata e forte di una certa personalità, credo che necessiti tuttavia di sistemare alcune cosine, dal suono della batteria ad una voce che a volte perde di espressività. Buone le chitarre, cosi come le atmosfere, resta solo da chiarire quale genere i nostri vogliano proporre. Chiarito questo, direi che siamo a cavallo. (Francesco Scarci)

mercoledì 12 dicembre 2018

Opera IX - The Gospel

#PER CHI AMA: Esoteric Black Metal
Quando penso al black metal in Italia, mi vengono in mente tre band: Mortuary Drape, Necromass e Opera IX. Oggi siamo a celebrare l'agognato come back discografico di questi ultimi, che per rilasciare un nuovo album, ci impiegano da sempre, un bel po' di tempo. Avevamo aspettato otto anni dal poco ispirato 'Anphisbena' a 'Strix - Maledictae in Aeternum'; questo giro, ci accontentiamo di soli sei anni per dare il benvenuto a 'The Gospel'. Per chi si fosse distratto nel frattempo, sappiate che dietro al microfono di questo disco non c'è più Abigail Dianaria, che bene aveva fatto nel corso della sua militanza nell'ensemble piemontese. È approdata infatti negli Opera IX, Dipsas Dianaria, all'anagrafe Serena Mastracco, cantante romana (peraltro di molteplici formazioni black), di indubbio talento. E allora diamo un ascolto a come si è evoluto il sound dei nostri in questo lungo lasso di tempo. Le danze si aprono con la title track che mi riporta in un qualche modo agli esordi della band, complici quelle atmosfere orrorifiche che popolavano i miei incubi notturni ai tempi di 'The Call of the Wood' o 'Sacro Culto'. L'impatto non è affatto male, soprattutto perchè quella primigenia aura sinistra della band, pervade l'intero brano, mentre la voce maligna di Dipsas Dianaria, accompagna quelle esoteriche orchestrazioni che caratterizzeranno tutto il lavoro. Il clima si fa più tetro nella successiva "Chapter II", con un sound che ammicca alle vecchie composizioni dei nostri ai tempi di 'The Black Opera', e un riffing qui più nervoso e meno melodico rispetto al passato, che in taluni passaggi sfiora addirittura il post black nel suo infernale avanzare, e che arriva a toccare anche le partiture gotiche tanto care ai Cradle of Filth. Non mi dispiace affato, anche se per forza di cose, suona come già sentito. Peccato poi che la feroce cantante non riesca ad offrire, almeno fino a questo momento, variazioni alla sua voce, come era invece solita fare l'ineccepibile Cadaveria. Certo non si vive solo di passato, però francamente il pulito della storica cantante, aiutava non poco a caratterizzare il sound di Ossian e compagni. Ora ci troviamo di fronte ad un sound arrembante, estremo, con meno sbavature rispetto al passato e che dà maggior risalto alla porzione sinfonico-vampiresca con "Chapter III", dove finalmente emerge la peculiarità della vocalist, con una preziosa prova in pulito che rende qui la proposta degli Opera IX decisamente più ammaliante e magica, e dando contestualmente più ampio spazio ad ambientazioni mistiche ed arcane. La sacerdotessa alterna uno screaming ferale ad un cantato quasi cerimoniale, mentre le ritmiche si confermano tesissime, quasi un black primordiale, la cui irruenza viene stemperata dalle sempre invasive keyboards. "Moon Goddess" è la riprova che certifica l'adeguatezza vocale della neo arrivata all'interno della band: la musica si muove su linee di black sinfonico che mantengono comunque inalterate le linee serrate di chitarra, che molto spesso sembrano virare verso lidi death metal. Un assolo a metà brano aumenta il mio interesse per la release che ora suona anche più varia. Più lenta e poco originale "House of the Wind", una traccia anonima di cui avrei fatto volentieri a meno. Ben più interessante invece "The Invocation" e le sue tastierone in apertura, sparate a mille all'ora nel roboante impianto ritmico dei nostri, che vanno lentamente ritraendosi per lasciar posto ad un approccio ritmico dal sapore quasi militaresco. "Queen of the Serpents" è un inno dedicatao alla dea Diana che nel suo fosco e disarmonico incedere black doom, si lascia ricordare più che altro per il il chorus in italiano, e per l'utilizzo di strumenti ad arco, a cui avrei dato francamente più spazio, un esperimento alla fine mezzo riuscito. Arriviamo agli ultimi due episodi del disco, "Cimaruta" e "Sacrilego". La prima apre con i bisbigli della vocalist che torna ad incantarmi col suo cantato pulito, e ad una ritmica che si muove sui binari di un black death melodico ed orchestrale. La seconda è l'ultima tirata black di questo 'The Gospel', un rito negromantico, un incantesimo, un inno funerario (che chiama in causa anche il buon Chopìn) che sancisce il ritorno di una grande band sulle scene, da cui però è sempre lecito aspettarsi molto di più. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2018)
Voto: 75

https://dusktone.bandcamp.com/album/the-gospel

martedì 11 dicembre 2018

Tristania - Beyond the Veil

BACK IN TIME:
#FOR FANS OF: Death/Gothic
Drastic and bombastic, Tristania provides a fine example of the breadth of heavy metal in sinister symphonic tones, gothic theatrics, and a classic example of cleanliness and propriety meeting the hazy gloom of such an inverted style, making its simultaneously catchy and esoteric visions transform from an alluring siren into the violent succubus as its sinister other side appears. Flirting with the many tropes in classical music from startling operatic highs to a symphony of strings, sometimes synthesized and other times implied through an electric and acoustic guitar combination, 'Beyond the Veil' is a descent into perdition promising the privations populating such a plane with angelic allure.

Simultaneously, Tristania denies the classical sound its monopoly with a tinny drum recording that becomes the catalyst for more techno oriented exchanges later in the album and hazy harmonies that swell in short bursts. The schizophrenia of loosing fire at such gorgeous constructs is a common theme in metal, a juxtaposition that relishes the relationship between carefully created beauties and a destructive counterpart. In Tristania this becomes a major focus as subtle hints of the harsh reality 'Beyond the Veil' become a world of strife as the album progresses.

From this approach is a worthy wellspring of fresh and tantalizing variety, decadent and arousing while also crisp and cutting in spite of such lengthy and expansive riffs and harmonies that diabolically document the derangement of one's descent into a world of ritual and death. A long swinging churn to the title track brings unmistakable choral highs and tinkling cymbals, the wailing web of guitars delicately settles along a middling pace that easily worms into an ear and, in reaching apogee through soloing while buffeting such cries with double bass, finally finds the sonorous swing expand into a prickly deluge to satisfy even Satyricon with its torrents of grain. “Aphelion” and “A Sequel of Decay” make obvious the turn of intoxicating tones and inviting momentum into the demonic as you enter the embrace of the succubus, a creature literally fucking her way through “Opus Relinque” before tearing out swollen hearts. To say that Tristania's approach is transparent is an understatement, the obvious balance of harmony and hatred is belted across your face like domestic violence at the opera, but that doesn't diminish the theatrical enjoyment of the theme or the profane potency of “Angina” when a cavalcade of choirs clash for control.

The creativity and craft employed through this album ensure a consistently inventive approach that allows the band to experiment at times but also limit itself to only its most presentable attempts. Where “Aphelion” drags at times, its methodical sound accentuating a dormant beauty far from the heat of the Sun, its subtle movements enchant in symphony from the flowing chorus punched by double bass to a heart melting interlude where beautiful highs and a weeping verse pluck at each artery. The nearly eight minutes of this song shows the band patiently holding itself back until its dam breaks and ducts overflow. A piece that by far outruns the track lengths of the rest of the album, “Aphelion” becomes a staple show of the careworn strife breaking into rage that tantalizes Tristania and appropriately harbors its drastic breadth.

Shining in the spotlight are the sopranos from Vibeke Stene, her incredible vocal delivery brings beauty and strength with every cry and fulfills a an enticing half of a filthy combination when joined by Morten Veland's growls. Opening “A Sequel to Decay” with a choir of intense cries easily shows the rhythm employed in this nearly chanting operatic while Veland's range is more protracted, embracing the decadence and magnificent sound of a gruff and massive presence similar to Peter Steele of Type O Negative. At other times Veland employs heaving growls and, with a choir aided by drummer Kenneth Olsson and guitarist Anders H. Hidle, the ensemble completes its medieval majesty. The twinkling apogees and insidious abysses greatly compliment the instrumental deliveries showing that Stene and Veland's contributions are among the many masterstrokes in structuring as well as sounding out the album to make it such a memorable and astounding experience.

Synth plays a prominent role from tinkling classical piano keys and symphonic strings to the wild jarring horns later in its hellish progress. Employed by Einar Moen, one of the major forces behind the songwriting, the placement of synth enlarges the range of this album by giving it the unmistakable theatrical characteristics that capture the magnitude of Tristania's ambition. The snare drum, pacing the percussion at a laborious and lamenting step, has the sharpness of shattering glass and compliments these bouncing rhythms as guitar joins symphonic strings, winding around a choir to create machinery of chaos and hatred by the turn in “. . . Of Ruins and a Red Nightfall”. Like the heartless clanging denoting the fires consuming Fangorn Forest, Isengard melts and molds metals into a new mechanism of conquest.

An ever-energetic motion below the snare finds constant implementation. Double bass brings personality to the central hammer as it pumps like a bellows and brings heat to make malleable the clanging cymbals overhead. Like an endless ride down winding trails in “Lethean River”, the clip clop of double bass is where one notices how riding these percussive fills and interludes typify the bridges between verses and choruses. As majestic as mounting an eagle to escape from the imploding Mount Doom, these amorphous undulating movements create in sound the defined, sinewy, and romantically detailed image of Pegasus taking flight.

Where the band made emotions meander through its opera early in the album, things become more straightforward and streamlined through the back half. A personal favorite, “Angina” brings Stene's voice so high that it nearly becomes as comical as “Take On Me” and its high C. Still, the cascade of choir tumbling down from such a gorgeous summit is the epitome of Tristania's unusual and calamitous sine wave. Cymbals dancing in concert with piano keys while walled into a pit by a crowd of double bass conjures images of a stately show where metalheads meet aristocracy and all gather in lively celebration of the music. Distant organ and marching guitar riffing conjure images of a “Heritique” transported across space-time as flames engulf the stake, a raucous crowd receives its satisfaction, and a star bursts from a blasphemous chest.

Tristania's treble is mainly concerned with an energetic and elaborate labyrinth of strings, upheld by Morten Veland and Anders H. Hidle who tirelessly strum through lengthy lamentatious riffs that harmonize and break from one another with a smooth and studious flow, sometimes finding frenzy or chomping into a juicy rhythm, but never disabusing itself of the bountiful beauty found in resonating strings. In its most frantic moments, clarity is lost in the very treble oriented mix making such a saturated end become slightly hazy and indistinct. In a song like “Aphelion”, where its lumbering gait holds court for the majority of the song, this grandiose sound has a crispness that becomes muddled as layers are added on. Still, the majority of the production is listenable enough though in need of a bit more range on its low end to lend a tighter fist to this expansive energy and bring the necessary punch.

Tristania is a succubus in sound, one that many a man would happily embrace. Wearing a sinister grin as it consumes your soul, its once alluring form quickly contorts into a vengeful demon. Brimming with brief but compelling moments, 'Beyond the Veil' happily babbles like a brook throughout its enticing bubblegum bits, a denial of the darkness lingering behind the lovely cover of stark-naked sirens seemingly sleeping among the rocks of a hot spring refuge. Where the woman in the foreground appears to be enwrapped in a peaceful slumber, the fog settling across the background has begun to obscure bodies unceremoniously lying where they stood showing, as one figure lords herself over the fallen, that slaughter must take place in order for one's ascension. Like its magnificent music, Tristania's foreground of beauty belies the sinister reality that awaits 'Beyond the Veil'. (Five_Nails)
 

sabato 3 novembre 2018

Madder Mortem - Marrow

#PER CHI AMA: Gothic/Epic, Lacuna Coil
Si tratta di un disco semplice e diretto questo 'Marrow' dei Madder Mortem, le canzoni sono orecchiabili e non richiedono una concentrazione speciale o un background particolarmente strutturato per essere godute. Tecnicamente la band è molto solida, soprattutto la voce, davvero notevole, si sente che la coesione tra i membri è di lungo periodo e che il sodalizio deriva da un genuino gusto comune per la musica epic e gotica. I riferimenti che mi saltano alla mente sono sicuramente i Nightwish ma anche gli Evanescence, a tratti i Sonata Artica e i Lacuna Coil. L’orchestralità e la liricità dei brani è ben mediata dall'immediatezza delle linee vocali e dei testi, mai criptici o troppo contorti; i pezzi sono costruiti in modo lineare, guidati per la maggior parte dalla voce che si trova a tratti in boschi innevati, a tratti sul dorso di un drago alato, a tratti sola tra docili arpeggi, a tratti sostenuta da un oscuro coro di anime perse su di un’onda immensa di acque nere. Le immagini che la musica suggerisce sono di fiaba e di magia, sono foreste incantate a notte fonda, dove regnano i lupi e dove le arpie innalzano i loro lamenti alla luna tetra e malinconica. Da segnalare la title track “Marrow”, un’epica cavalcata su destrieri fantasma con la notevole performance vocale della cantante Agnete Kirkevaag a descrivere un’atmosfera che potrebbe essere tranquillamente una colonna sonora di un colossal fantasy o di una di quelle serie tv sui vampiri. Interessanti anche le ballate, una fra tutte “Until You Return”, dove le sonorità si dilatano e creano un ambiente crepuscolare e struggente, per poi tuffarsi in un finale sinfonico e maestoso. Consiglio 'Marrow' a tutti gli appassionati di epic e goth, sicuramente troveranno soddisfazione in questa prova dei Madder Mortem che, pur non andando a innovare o a sconvolgere le fondamenta del genere, sicuramente si battono allo stesso livello dei grandi nomi, con buona personalità e grande attitudine. (Matteo Baldi)

(Karisma Records - 2018)
Voto: 70

https://maddermortem.bandcamp.com/album/marrow

lunedì 22 ottobre 2018

Maze of Feelings - S/t

#FOR FANS OF: Death/Doom, Paradise Lost, Lacuna Coil
In spite of its off-putting Emo name that seems to dilute the vengeance inflicted by a Morbid Angel track, Maze of Feelings does display a solid mid-paced doom/death metal style that kicks around its grooving riffs with a balance of accessible and underground elements. Though the maze itself is mainly a series of dead depressive ends, the band is able to distill its melancholy in myriad ways including tears of tremolos that are gracefully laid into a breaking section in “Where Orphaned Daughters Cry”, a nasty riff harpooning “Necrorealistic” into one's brain and dragging him through a beatdown reminiscent of early Paradise Lost rhythms, and a cold remorseless run in “Adherents of Refined Severity” that chases you through this disorienting labyrinth in the hope of finally striking you down with its razor sharp axe.

With two distinct vocalists cleanly singing, screaming, whispering, speaking, and growling throughout the album, the instrumental range compliments the spread with nods to Paradise Lost and Lacuna Coil, thundering bass across the spectrum of sound in some instances and methodically dragging melodies from dungeons into the sun at other times. In doom metal fashion, an anvil cymbal steadily strikes behind bellows of double bass tightening the treble's fetters and keeping it from escaping the weight below. A very Tool sounding riff to the closing track, “Dreamcatcher”, opens a song that accentuates the more gothic lilt to the doom sound that Maze of Feelings captures. While the band may bridge on some melodic death metal aesthetic in its vocals and some of its denser guitar moments, the majority of this album sticks closely to its doom template, experimenting with some gothic theater, and reigning in its pace from the first chugging riffing in “Drained Souls Asylum” to find its footing deeper in depression than screaming for vengeance.

As long drawn out melodies fight with a freight train of growling in “Cold Sun of Borrowed Tomorrow”, grappling with the high vocals and pulled to punishment by a laborious pacing, the downtrodden trope of a riff that opens “Grey Waters of Indifference” conjures memories of when this sort of sound was new and cool rather than common and overdone in many imitations. Still, Maze of Feelings is able to take the standard style and find success, but without the energy and power of some of the bands with which it shares its space.

'Maze of Feelings' is not without its faults and nadirs. While the crying sample at the end of “When Orphaned Daughters Cry” could have simply been left out of that quality piece, the band seems to have stuck more to the doom designation and accentuated it with different aesthetics rather than explored the conventions that could achieve the full potential of the band's ideas. Songs like “Necrorealistic”, “Dreamcatcher”, and “Drained Souls Asylum” start off with distinction just to end up running into the same dead ends, something expected when caught in a maze as sunlight fades, yet the gothic and more aggressive movements show that there's more to this band than simply playing the doom metal trope of taking a good start and constantly cornering it. The mid-paced structuring that uses its sure footing to find places to gallop and smoothly exaggerate is a strong starting template and Maze of Feelings would do well to take that template farther as the band goes along in order to better appreciate the instrumental talent lending itself to the theater at the forefront.

Maze of Feelings is a band that seems to revel in its familiarity and is set to inch its way towards making its own mark. Moments throughout this album show small points of individual personality, the instrumentation naturally rides its reveries as well as accentuates the theater in the vocals, but the band still has yet to truly come into its own. Here's hoping that these talented musicians can find an energy that compliments the ability gathered in this quintet. (Five_Nails)

lunedì 15 ottobre 2018

Nadir - The Sixth Extinction

#PER CHI AMA: Thrash/Death/Goth
Nati all'inizio degli anni '90 con il monicker Dark Clouds, cambiato poi in quello attuale circa un decennio più tardi, i Nadir ci offrono questo delizioso nuovo album, ultimo arrivato in casa della band ungherese che si dimostra prolifica come pochi in fatto di release. Ormai non si contano più gli album del combo di Budapest, nella loro pagina bandcamp se ne trovano undici a partire dal 2005 fino ad oggi e solo per questo dovrebbero ricevere un premio alla carriera. 'The Sixth Extinction' si riallaccia concettualmente al precedente lavoro da cui prende in prestito il titolo di coda per concepire e battezzare il nuovo nato. Il quintetto magiaro si sbizzarrisce nel riformulare le varie anime artistiche del gruppo, spostandosi tra death, doom, goth e thrash metal con naturalezza e soprattutto con notevole sicurezza, impatto e orecchiabilità. La costruzione dei brani è compatta, solida, ben sostenuta da una performance vocale di tutto rispetto, un ottimo artwork e chitarre sofisticate e taglienti. Di certo non vi annoierete con quest'album visto che al suo interno, brano dopo brano vi troverete richiami a Obituary, primi Paradise Lost e Rapture, con un tiro non comune ed un pathos diabolico e coinvolgente. I Nadir sanno esattamente come e cosa ottenere dalle loro composizioni, si nota e si sente che la gavetta è stata fatta, sono cresciuti a dismisura ed hanno appreso tutti i segreti per creare un buon album metal sotto tutti i punti di vista, dando vita forse alla loro release più matura, equilibrata, ricercata e intensa. Vi è un'anima oscura che esce allo scoperto, un lato melodico e drammatico che in realtà è presente in tutta la loro discografia, ma che qui affina le armi e si rende maestosa, moderna e drammatica, anche grazie ad una super produzione che alza la qualità d'ascolto e rende giustizia a dei musicisti di tutto rispetto. Come riuscire a staccare le orecchie dal tenebroso incedere di "Fragmented", resistere al passo in levare di "Along Came Disruption" che sembra una cover degli Alice in Chains suonata dagli Obituary, al magnifico, gotico e malinconico trittico di "Ice Age in the Immediate Future", oppure alla conclusiva, visionaria e più sperimentale "Les Ruins" con quel buio illuminato dagli stravaganti intro dei mitici Celtic Frost. Non esitate pertanto a farvi investire da questo disco, ascoltatelo e riascoltatelo per scoprire le mille sfaccettature in esso contenute e quanta passione stia dietro a queste note. Una medaglia d'onore più che meritata, una band degna di nota. Ascolto obbligato! (Bob Stoner)

(NGC Prod/Satanath Records/Grimm Distribution - 2017)
Voto: 75

https://nadirhun.bandcamp.com/album/the-sixth-extinction

lunedì 27 agosto 2018

End of Green - The Sick's Sense

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Depressive Rock, Type O Negative
Il sesto album degli alfieri teutonici del "depressed subcore" (sic), un sottogenere languidamente mogio del gothic metal, vi sembrerà un po' un disco strimpellato dai Type O Negative a una convention emo, cantato dal tipaccio dei Seether mentre fa pulizia etnica di nutrie nella sua cantina e composto da Lydia Deetz nel giorno del suo ciclo mestruale. Cos'altro potevate aspettarvi da un mamlone di Stoccarda di uno e novanta che si fa chiamare Michelle Darkness (sic)? Con l'eccezione di un paio di chitarrismi alla Justice-for-raffiche (l'opener "Dead City Lights"), il resto dell'album si disperde freddo come una pozzanghera di sangue sul pavimento, tra melodie alla Mission, vocioni e tiritere pling-noise mid/ottanta ("Die Lover Die"). Ascoltate questo disco mentre vi recate al compeanno di vostra nonna indossando una t-shirt di rete a maglie larghe ostentando un anellino al capezzolo. (Alberto Calorosi)

(Silverdust Records - 2008)
Voto: 45

https://www.facebook.com/endofgreenofficial/?ref=ts