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lunedì 8 luglio 2024

Manes - Slow Motion Death Sequence Remixed

#PER CHI AMA: Avantgarde
Abbiamo appena recensito il nuovo EP 'Pathei Mathos' e la Aftermath Music ci ha sorpreso con un altro regalo: il remix del precedente album 'Slow Motion Death Sequence', realizzato da una brillante serie di ospiti di alto livello. Così, uno degli album più geniali della discografia dei norvegesi Manes, insieme a 'Vilosophe', è stato riproposto in una versione che sembra un disco completamente nuovo. Le danze si aprono con "Endetidstegn", uno dei brani più significativi dell'album. Il remix eseguito dai nostrani Aborym non mostra grandi differenze rispetto all'originale; tuttavia si nota una maggiore pulizia dei suoni, riducendo l'eccessiva ridondanza dei campionamenti elettronici presenti nella versione originale. La seconda traccia, "Building the Ship of Theseus", è stata notevolmente modificata dagli And Then You Die, che enfatizzano la voce dell'eterea cantante presente nella versione precedente e introducono un cantante dallo stile più stralunato, seppur in un contesto che sembra aver perso la magia dell'originale. La complessa "Night Vision" è stata reinterpretata dai francesi Område in modo sicuramente libero e avanguardistico, ma presenta alcune ombre a livello vocale, con una performance ovattata e penalizzante. La seconda metà della traccia è stata completamente stravolta, con un susseguirsi di suoni cacofonici al limite dello sconclusionato, ma considerando gli interpreti coinvolti, era forse ciò che ci si poteva aspettare. "Endetidstegn" è stata nuovamente proposta da Jørgen Mayer in una forma più pop, ma con un'effettistica più secca e diretta, che nella seconda metà virano addirittura verso sonorità electro-dance. Prossima è "Scion", originariamente collocata in seconda posizione nell'album originale e reinterpretata dai finlandesi Throes of Dawn, che modificano immediatamente la parte vocale introducendo una voce femminile in una versione languida e quasi ambient, ma che colpisce per le linee di chitarra reminiscenti i Pink Floyd, presenti nella seconda metà. Tuttavia, la voce di Cernunnos nell'originale è un piacere per l'udito, dotata di una timbrica unica e riconoscibile, mentre nella nuova versione, la voce tende a perdersi. "Chemical Heritage", nelle mani di Fluffybunnyfeet, viene presentata in una nuova e più accelerata veste dance degli anni '80, che sinceramente non mi ha entusiasmato particolarmente, sebbene si possa apprezzarne il tentativo ambizioso. La malinconica "Last Resort" è stata reinterpretata dal musicista norvegese Kristoffer Oustad in una dilatata e minimalista veste dronica, privata della duplice componente vocale presente nella versione originale. Infine, l'ultima traccia "Poison Enough for Everyone" è stata riproposta dagli stessi Manes in una versione completamente diversa, arricchita da una forte componente elettronica (compresa una voce robotica) che accentua il lato psichedelico del brano, ma privandola della parte angosciante che costituiva l'essenza della traccia originale. In conclusione, consiglierei questo remix a chi è alla ricerca di sonorità originali provenienti da una delle band che hanno maggiormente influenzato il panorama musicale estremo. (Francesco Scarci, Silvia Parri)

(Aftermath Music - 2024)
Voto: 70

https://www.facebook.com/manes.no

martedì 2 luglio 2024

Manes - Pathei Mathos

#PER CHI AMA: Avantgarde
C'erano una volta i Manes, quelli del mitico 'Under Ein Blodraud Maane', fautori di un black metal estremo sperimentale, che forse mai si era sentito prima del 1999. Poi vennero altri album ancor più stravaganti, di cui lo splendido 'Vilosophe', rimane probabilmente la pietra miliare della band norvegese, guidata fin dagli esordi da Tor-Helge Skei (aka Cernunnus). Poi è successo un gran casino, fatto di molteplici scioglimenti, compilation, direzioni avantgarde-jazzistiche intraprese, creazioni di band parallele (i Manii) e io, francamente, non ci ho capito più nulla. Oggi i Manes ritornano con un EP nuovo di zecca, 'Pathei Mathos', che presenta quattro brani e rivela una band ulteriormente trasformata nella sua pelle. Questa volta, l'act di Trondheim si avventura nella creazione di pezzi dal tono morbido, atmosferico e quasi psichedelico, con la voce di Marita Hellem che s'inserisce in una cornice ambientale che evoca i primi The Third and the Mortal, arricchita però qui da una sofisticata componente elettronica che impreziosisce gli arrangiamenti e il pathos dei brani. Dalle note seducenti di "Submerged" (il primo singolo estratto) si passa a "Fallen", ancora più coinvolgente, creando una sensazione di fluttuare in uno spazio-tempo senza confini definiti, in un'atmosfera estremamente onirica e dilatata che lascia un senso di torpore lisergico. Gli intrecci di synth all'inizio di "A Vessel for Change" non fanno altro che disorientare, rendendo l'ascolto di "Pathei Mathos" un'esperienza magica e inaspettata, sostenuta da una performance vocale eterea sempre impeccabile, che si fonde ancor meglio con la struttura sonora impartita nella seconda metà del brano. Ultima perla affidata a "End of the River" e a un suono che si fa qui angosciante, vibrante, emozionante, potente, vario, oscuro, malinconico, e forse potrei continuare a lungo per descrivere le contrastanti sensazioni che un lavoro come questo, potrebbero indurre anche nelle vostre anime dannate. (Francesco Scarci)

(Aftermath Music - 2024)
Voto: 76

https://manes.no/

sabato 14 gennaio 2023

The Embraced - The Birth

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Melo Death
Death metal melodico a tratti aggressivo per questo secondo album della band norvegese. I The Embraced riescono nella difficile impresa di catalizzare l’attenzione dell’ascoltatore, senza stancare; questo perché donano ai pezzi varie sfumature inserendo parti potenti alla At The Gates o Eucharist con altre parti acustiche e rilassate. La voce risulta estremamente convincente con un tono greve e deciso. Otto brani per circa un’ora di musica, e come potrete capire, la durata delle canzoni è abbastanza elevata, ma c’è molta carne al fuoco e prima di essere cotta a puntino ce ne vuole, e alla fine però si rimane soddisfatti del risultato. C’è da dire inoltre che pur non avvalendosi di studi rinomati, i The Embraced sono riusciti ad avere una registrazione eccellente. Quindi, anche se il sound non è originalissimo, ha tutte le caratteristiche per essere apprezzato, sia dagli estimatori del genere, sia da chi non è ben addentro, ma non vuole velocità esasperate e opta anche per una ricerca della melodia.

(Aftermath Music - 2001)
Voto: 74

giovedì 14 luglio 2011

Sole Remedy - Apopotosis

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth, Porcupine Tree, Katatonia
L'ho sempre detto, per dare una svolta alla mia vita musicale dovrei fare un anno sabbatico in Scandinavia. In questo territorio, la musica ha avuto uno sviluppo unico nel suo genere, isolato dal resto del mondo ma nello stesso momento a passo con i tempi, spesso anticipandoli di brutto, segnando la retta via per il resto dei gruppi. I Sole Remedy sono un quartetto finlandese e non smentiscono affatto le loro origini, infatti con questo secondo cd "Apoptosis", pubblicato dalla Aftermath Music, entrano di prepotenza nel mondo dei grandi. Anticipo solo una cosa: a mio parere è un album geniale, dal sound ricercatissimo e sotto certi aspetti anche innovativo. Ora vediamo in dettaglio cosa i Sole Remedy ci propongono. "Comatose" apre le dieci tracce con dei suoni puliti, un ritmo non convenzionale per il post rock e la voce del frontman che accompagna le note librandosi nell' aria. "Present Remorse" cambia subito faccia all'intro dell'album e ci catapulta in pochi secondi nelle atmosfere del combo finlandese. Chitarre distorte incalzanti, ritmica veloce e il growl di Jukka Salovaara che si alterna non appesantendo troppo il brano. La malinconia riverbera in altri pezzi senza mai essere troppo eccessiva, infatti i Sole Remedy sono molto bravi ad intervallare i riff più duri con stacchi più tecnici, quasi prog. La quarta traccia, "The Burten", è a mio avviso un capolavoro, sia a livello di arrangiamento che di composizione. Le chitarre sono fantastiche, forse perché richiamano il sound dei Katatonia e trovare un gruppo che le reinterpreta così bene, è un orgasmo musicale. Tutti gli altri strumenti fanno il loro sporco lavoro, la tecnica è a livelli molto alti (NdR, il core del gruppo suona insieme dal 1998) e la voce di Jukka è quanto di meglio ci si possa aspettare per interpretare questo stile. "Wolf in Me" è il pezzo più rappresentativo dell’ensemble: infatti in questi otto minuti, la band sfrutta al meglio tutte le proprie doti regalandoci un piccolo capolavoro che richiama le sonorità dei mitici Opeth. E poi le chitarre, scusate ma dopo tanta mediocrità ascoltata nell'ultimo periodo, ecco finalmente una luce in fondo al tunnel. Lo stacco acustico a metà della traccia regala poi un'emozione vera di riscatto e purezza, cosi come le note cristalline della chitarra acustica, che viene poi ad essere incorniciato da un assolo di quelli da lenti ma azzeccati. Il cd si chiude con "Past Decay", che riprende la struttura dei precedenti pezzi, giocando sempre sulle sonorità che si avvicendano ad hoc. Ritorna la ritmica di "Comatose", come fosse una citazione, non una mancanza di estro artistico. Devo dire che è stato fatto un grosso lavoro di composizione e ancora meglio di arrangiamento, sicuramente il supporto dell' etichetta ha permesso poi ai Sole Remedy di raggiungere il loro traguardo ma sotto c'è un gruppo di quelli granitici, che non si lascia impaurire dal mercato musicale molto affollato. Quei gruppi che lavorano duro per anni senza demordere e di cui la scena musicale ha estremamente bisogno. Grazie Sole Remedy, avete regalato a noi mortali una perla da custodire per i tempi duri che verranno. (Michele Montanari)

domenica 13 febbraio 2011

Doppelgänger - Goat the Head


Carico il CD e me lo sparo tutto d’un colpo e il primo pensiero è: “mmm, mi sa che mi sono perso qualcosa...”. Allora decido di ripararmi il cd ma la sensazione è la medesima: “mmm, mi sa che ho ri-perso qualcosa...”. Terzo tentativo. Mi arrendo. I norvegesi Doppelgänger prendono tutto quello che riguarda melodia, eleganza, pulizia del suono, ricerca nella composizione e lo ignorano bellamente. Va bene divertirsi suonando, va bene non legarsi troppo a stili, ma qui si esagera. Eccovi un disco death metal tiratissimo, armato di un rudezza disarmante e aggravato da una cacofonia violenta di suoni e voci. Nel packaging si definiscono “cavernicoli primitivi contemporanei”: come dargli torto. Infatti, io me li vedo vestiti di pelli d’orso che eseguono i pezzi usando ossa e pellami di animali estinti mentre il cantante emette urla belluine. Eccovi un lavoro in cui tutte le tracce si confondono, tanta è la loro similitudine. La voce growl è adoperata oltre il mio limite di sopportazione; tutta la parte strumentale è completamente asservita ad una potenza selvaggia priva di schemi. Nessuna cosa è definibile come assolo o virtuosismo. Potrebbe essere anche divertente, sinceramente io userei questo “Goat the Head” come colonna sonora di una gara di headbanging. Vero poi che la sensazione di già sentito compare molto, troppo rapidamente. Due cose salvano il cd dal mio dimenticatoio istantaneo: la brevità e la terza traccia. Grazie a Dio, i nostri hanno creato song brevi; tutto il platter fortunatamente finisce in 33 minuti: se ne durasse anche solo 5 in più, credo che nessuno lo ascolterebbe più di una volta nella vita. L’unica canzone che spunta dall’anonimato è appunto la terza traccia, “This Tube is the Gospel”: qui una voce femminile pulita, veramente molto bella (assieme a cori lontani), insieme al growling di Per Spjøtvold, creano un contrasto spiazzante che ho trovato davvero piacevole. Un appunto volante anche sull’immagine in copertina: credo sia un omaggio “blasfemo” alla cover di “The Miracle” dei Queen, dove i volti dei componenti si fondevano in unico viso (Come dite? Quella era meglio? Sì, concordo). Un album quindi sconclusionato, grezzo, casinista e ripetitivo, ma attenzione, non tutto è da buttare. Solo per veri amanti del death metal tout-court, senza troppe pretese. E ovviamente, indicatissimo per le gare di headbanging! (Alberto Merlotti)

(Aftermath music)
Voto: 50

sabato 23 ottobre 2010

Leafblade - Beyond, Beyond


Consigli per l’ascolto: toglietevi le scarpe, coricatevi su un letto (o un divano), rilassatevi, chiudete gli occhi, premete “Play”, lasciate fuori tutto il resto... Non è un album facile: se non avete voglia di lasciarvi andare ad una musica particolarmente evocativa, eterea e sognante, cercate altrove. Sì perché quest’opera degli inglesi “Leafblade” (formati da Sean Jude, Daniel Cavanagh e Daniel Cardoso) non ha nulla di metal. Ma è maledettamente brillante. Suoni, voci, melodie, arpeggi di chitarra: tutto elegante, curato. Sonorità ricercate, con qua e là richiami new age e inserti di suoni della natura, che portano un che di bucolico in lontananza. Il cantato melodico, confidenziale, in alcuni casi quasi sussurrato, si sposa con gli accordi raffinati e la parte ritmica mai sopra le linee. Ne esce un’alchimia sonora, che è quasi un incantesimo. Il senso di fascinazione, che nasce da ogni singola traccia, nell’ascolto filato dell’album purtroppo si stempera... e quasi le songs non si distinguono, si amalgamo in un continuo sospeso. Sicuramente è voluto, sicuramente è evocativo, sicuramente crea una specie di ostacolo all’ascolto. Ecco dove è il lato debole dell’album. Per mantenere l’incantesimo, il tono diventa un po’ troppo monotono, e così si presta il fianco alla noia. Non perché le canzoni abbiano tutte le stesso schema compositivo, anzi mi pare che gli autori non lo considerino per nulla (non troverete ritornelli o strofe veri e proprie), ma per lo stile mantenuto senza accelerazioni improvvise o fughe. Però, come non apprezzare il ritmo e i suoni di flauto di “A Celtic Brooding in Renaissance Man”? Come non lasciarsi trasportare dalla armonia e dalle parole (sono in inglese, ma cercate di trovarle se non le capite ad orecchio) della conclusiva “Sunset Eagle”? E come non trovare davvero equilibrata “Rune Song”? Quest’ultima rappresenta al meglio l’anima di questo platter, con i suoi pregi e difetti. Una mia nota particolare: il lavoro si apre con il suono di un ruscello e con lo stesso si chiude. Ho un debole per questi espedienti, quando son fatti bene. Trovo molto azzeccata l’immagine in copertina del disco, dal packaging davvero essenziale. Un CD apprezzabile, non immediato, che ha bisogno di qualche ascolto e della voglia di seguire il viaggio propostoci dagli artisti senza remore. Fidatevi. (Alberto Merlotti)

(Angelic Records/Aftermath Music)
Voto: 75